Epilogo
Venezia, aprile 2004
La biblioteca Marciana era stata fondata su proposta di Francesco Petrarca, che però aveva lasciato la sua vastissima collezione di libri a Padova, perché a Venezia non avevano ancora aperto una “pubblica libreria”. Solo un centinaio di anni più tardi il cardinale Bessarione aveva donato alla Serenissima i suoi libri ad communem hominum utilitatem, per il bene e l’utilizzo di tutti. Olimpia aveva visitato più volte la biblioteca quando era ancora una liceale e si era divertita un mondo nel sentire la storia del celebre architetto Sansovino, che era stato incarcerato a seguito del crollo del soffitto nella sala di lettura. Da studentessa universitaria c’era entrata un paio di volte, anche perché i suoi rientri a Venezia, di solito, erano limitati a pochi giorni, durante i quali restava chiusa in casa e non varcava quasi mai il confine del suo sestiere. Nonostante le visite sporadiche, conosceva quasi a memoria l’intero catalogo di manoscritti antichi custoditi tra le mura della Marciana. Anselmo l’aveva frequentata con una certa regolarità e, anche se lei lo aveva di rado seguito durante le sue sortite presso la biblioteca, al suo ritorno in bottega l’antiquario le aveva sempre fornito una serie impressionante di notizie riguardanti incunaboli, cinquecentine, manoscritti e volumi a stampa custoditi alla Marciana. Poteva sentirne ancora la sua voce baritonale parlare con l’entusiasmo di un ragazzino dei preziosi codici dell’Homerus Venetus del decimo secolo.
«Lei è sicura, dottoressa Cattanei?», le stava dicendo la direttrice della biblioteca, dopo aver sgranato gli occhi per la sorpresa.
«Sicurissima, direttrice», le confermò con un cenno del capo.
«Non sono fatti miei, naturalmente», continuò la donna. «Ne sono felice per la biblioteca e per gli studiosi, non solo veneziani, che potranno consultare i documenti quando vorranno».
La direttrice l’aveva accolta in uno studio in cui il caos regnava sovrano. C’erano libri ovunque, anche per terra, e la scrivania straripava di carte, cataloghi e volumi che avevano seppellito un portatile, di cui s’intravedeva appena solo il cavo dell’alimentazione, collegato alla presa. Anziché scoraggiarla, il disordine aveva in un certo senso commosso e convinto Olimpia che stesse facendo la cosa giusta. Era evidente quanto la direttrice tenesse poco alla forma e andasse subito al sodo. Le piaceva molto e sentiva di potersi fidare. Se Peggie non le avesse lasciato quel messaggio video in cui le consigliava di fidarsi del suo istinto verso il prossimo, forse Olimpia ci avrebbe pensato un po’ su, prima di decidersi a donare i documenti di Veronica Franco alla biblioteca della sua Venezia. Appena aveva messo piede nello studio della direttrice si era sentita a suo agio e nulla avrebbe potuto farle cambiare idea. Percepiva nella donna che aveva di fronte un amore immenso verso i libri, una dedizione totale al suo lavoro e questo era per Olimpia l’unica cosa che realmente contava. L’aspetto sciatto e il disordine erano stati più convincenti di un discorso patriottico. Lasciava l’eredità ricevuta da Peggie alla Serenissima non solo per campanilismo ma perché era giusto così. Veronica era stata la figlia di un “originario”, suo padre discendeva dai primi abitanti della città, era veneziana in tutto e per tutto. Aveva amato un nobile veneziano, era stata celebrata da molti pittori della sua città e aveva contribuito alla diffusione della cultura. Peggie le assomigliava per certi versi e, come lei, aveva dato un forte contributo artistico e letterario alla città che l’aveva ospitata fino alla morte. Entrambe appartenevano alla laguna e così anche lei stessa, che era nata e cresciuta a Venezia, aveva amato un veneziano e si sentiva legata alla sua città, come a un cordone ombelicale che negli anni passati aveva tentato invano di recidere.
«Mi dica come procedere», chiese Olimpia, afferrando la borsa che aveva lasciato sulla sedia accanto a quella su cui si era seduta.
«Sì, le procedure sono laboriose ma se lei autorizza il notaio Lazzarini a svolgere parte delle pratiche burocratiche, direi che avremo bisogno della sua presenza fisica forse un altro paio di volte, se per lei va bene».
Olimpia annuì, si alzò e tese la mano alla direttrice, che si sollevò appena dalla sua sedia per stringergliela.
«Io non so che cosa dire, dottoressa», mormorò, imbarazzata. «Lei ci fa dono di documenti così preziosi… sono senza parole».
«Quando Peggie Goldenstein me li ha fatti avere “a rate”, diciamo così, non avevo la minima idea di cosa farne. Solo qualche giorno fa ho capito che l’unico modo per farli rivivere e per mantenere viva la memoria di Veronica e di Peggie, era lasciarli a voi e a tutti coloro che vorranno consultarli».
«Certo, capisco».
«Tutti loro appartengono a Venezia, proprio come me e come lei… ed è qui che quelle carte devono stare. So che ne farà un fondo speciale, me lo sento».
«Ci può contare», si affrettò a replicare la direttrice.
Olimpia uscì dalla biblioteca Marciana e s’incamminò verso piazza San Marco. Il sole scaldava la piazza e molti turisti erano già in pantaloncini e maniche corte. Inforcò gli occhiali da sole e si girò a guardare il mare. Chiuse gli occhi e aspirò l’aria salmastra che ad aprile era ancora sopportabile. Vi erano alcuni giorni ad agosto in cui l’aria diventava irrespirabile. In primavera e in autunno, però, Venezia offriva il meglio di sé, sia ai suoi abitanti sia ai numerosi turisti. Un brivido le corse lungo la schiena. Sorrise e riaprì gli occhi per posarli sull’isola di San Giorgio Maggiore, che si ergeva dinnanzi a lei in tutto il suo luminoso splendore. Da ragazzine, lei e Diana si erano spesso attardate in piazza San Marco per guardare il cielo al tramonto colorarsi delle sfumature violacee, che si riflettevano sui monumenti e sull’isola di San Giorgio.
Era ritornata a casa da un paio di giorni ma non era ancora passata a vedere la calle in cui un tempo si trovava la bottega di Anselmo; ci sarebbe andata dopo pranzo, assieme a Margherita. Si erano date appuntamento per prendere un caffè in piazza al Grancaffè Quadri. Olimpia aveva finito prima del previsto alla Marciana. Decise di sedersi a uno dei tavolini che si trovavano su piazza San Marco per aspettare Margherita e intanto ascoltare le colorite esclamazioni dei turisti quando arrivavano di fronte alla basilica. I veneziani quasi non ci facevano più caso, ma chi come lei tornava in città dopo qualche tempo poteva divertirsi a distinguere i turisti, oltre che dal loro vestiario, anche dalle reazioni di fronte alla bellezza di San Marco.
«È da tanto che aspetti?», le domandò Margherita, avvicinandosi al tavolino dove aveva preso posto. Olimpia sollevò il viso nella sua direzione e si fece schermo con la mano sugli occhi per evitare di essere accecata dal sole del primo pomeriggio.
«No, sono appena arrivata», le disse.
Margherita sorrise, spostò la sedia e si sedette di fronte a lei. Sollevò gli occhiali da sole e se li mise in testa a mo’ di cerchietto. Un cameriere si avvicinò e portò loro i menu.
«Com’è andata alla Marciana?», chiese, allontanando da sé il menu per concentrarsi su Olimpia.
«Bene. La direttrice era felice come una pasqua».
«Ci credo!», esclamò Margherita, scoppiando a ridere. «Lasci alla biblioteca un patrimonio notevole. Sai che ho un pessimo ricordo della direttrice?»
«Questa è buona, perché mai?». Anche Olimpia sollevò gli occhiali da sole.
«Quando stavo studiando per la tesi di laurea mi ha fatto un sacco di storie perché volevo consultare alcuni manoscritti. Pensa che è dovuto intervenire il mio relatore rassicurandola sul fatto che io non avrei mai e poi mai rovinato i volumi che volevo consultare. Non la biasimo, per lei i libri custoditi alla Marciana sono come figli. Si vede».
Olimpia annuì, felice che le sue impressioni sulla direttrice fossero quelle giuste. Immaginò la donna opporsi come un’erinni per non far toccare i preziosi volumi a studentelli imberbi.
«Alla fine l’ho spuntata solo perché ha visto lei stessa con quanta cura maneggiassi i volumi», continuò Margherita. «Quando poi le ho detto che ero figlia di un antiquario si è calmata».
«Tuo zio e tuo padre erano due signori antiquari», replicò Olimpia mentre il cameriere si avvicinava loro per portare le ordinazioni. Calò il silenzio. Entrambe sembravano assorte nei loro pensieri, in cui i ricordi si mischiavano alla nostalgia. Fu in quel momento che Olimpia capì che cosa avrebbe dovuto fare per chiudere il cerchio, per far sì che tutto tornasse a posto, nonostante l’incolmabile vuoto lasciato da Davide. Si domandò come avesse fatto a non pensarci prima. Forse i tempi non erano maturi e lei non aveva ben chiare le idee. Dopo aver visto il video di Peggie però ogni cosa era sembrata tornare al suo posto, i pezzi mancanti del puzzle ora erano davanti a lei e non doveva far altro che completare ciò che altri avevano cominciato, prima di lei. Ora che i documenti di Veronica Franco erano tornati nella dimora in cui avrebbero dovuto esser custoditi da sempre, non le restava che pensare al suo futuro. Davide le aveva lasciato in eredità tutto l’amore che avevano condiviso e, ora, sua figlia. La bellissima ragazza dagli occhi di giada che le stava di fronte e mangiava il suo gelato in silenzio.
«Stavo pensando a una cosa», esordì.
«A cosa?»
«Mi dicevi che avevi problemi a trovare un lavoro adatto a te?».
Margherita arrossì. «Olimpia, non preoccuparti, qualcosa da fare la troverò», si affrettò a dirle.
«Prima di protestare, ascoltami», le disse. «Ho bisogno di qualcuno che aiuti Louis nel reparto artistico della Maison de Fleury».
«Credevo che se ne occupasse Alain», osservò Margherita. A Olimpia non sfuggì il lieve incrinarsi della voce della ragazza quando aveva pronunciato il nome di Alain.
«È questo il punto», le spiegò. «Vorrei che lui si dedicasse di più alla sua arte. Lo hai detto anche tu che è un pittore di notevole talento e un lavoro d’ufficio, per quanto legato all’arte, rischierebbe di fargli perdere quella vena artistica che invece deve coltivare».
«Cos’avevi in mente, allora?»
«Non cosa, mia cara», le sorrise guardandola dritto negli occhi. «Ma chi. Vorrei che affiancassi tu Louis».
«Io?». Margherita sobbalzò e il suo volto passò dallo stupore alla gioia e alla preoccupazione in pochi istanti. «Non ne sono in grado», ammise poi, con la voce rotta dall’emozione.
«Sei la figlia di Davide Calvani… sarai all’altezza della situazione e poi avrai Louis che ti insegnerà tutto ciò che devi sapere. Non potresti sperare in una guida migliore di lui. Mi fido più di Louis che di me stessa, te lo assicuro».
«Non è per quello… è che… ecco… io non so cosa dire», ammise infine.
«Non devi rispondere subito», la tranquillizzò Olimpia. «Starò qui a Venezia ancora per qualche giorno e fino alla mia partenza avrai modo di riflettere bene sulla mia proposta e di prendere una decisione. So che non è facile. Lavorare alla Maison richiede dedizione, studio, preparazione ma soprattutto implica un cambiamento notevole. Dovrai traferirti a Parigi. I primi tempi puoi stare da me, se è questo che ti preoccupa».
Margherita sospirò, posando il mento sul palmo della mano. «Non sono i cambiamenti a spaventarmi».
«E cosa, allora?»
«Non vorrei che tu lo facessi solo perché…», s’interruppe e arrossì.
«Oh no», esclamò Olimpia. «Non lo faccio solo perché sei la figlia di Davide, anche se ammetto che non posso ignorarlo. Io l’ho amato con tutta me stessa e il pensiero di averti tra i miei collaboratori mi fa piacere, perché sei parte di lui. Ma non ho bisogno della tua presenza fisica per ricordami di tuo padre. Lui è sempre con me e con te… anche ora».
Margherita si asciugò una lacrima e annuì. «Sì, lo so. Papà è sempre con noi. Io…».
«No, non dire nulla», la interruppe. «Pensaci e poi mi dirai».
Si alzò dalla sedia, lasciando i soldi del conto sul tavolo e facendo cenno a Margherita di imitarla. «Andiamo», la esortò. «Ho saputo che l’acquirente della bottega Calvani ora la vuol rivendere».
«Che intenzioni hai?», le chiese Margherita, con un sorriso radioso.
«Aspetta e vedrai», rispose Olimpia, prendendo la ragazza sottobraccio e avviandosi lungo i portici intorno a piazza San Marco.