Seconda parte
Capitolo 1
Venezia, dicembre 1979
Diana l’aspettava fuori dalle Gallerie dell’Accademia. Olimpia doveva raggiungerla per poi andare a ballare. Ai loro genitori avevano detto che sarebbero rimaste a dormire da Zoe, una loro compagna di classe, anche se il programma era ben diverso. Alla Giudecca avevano da poco aperto un locale, dove si entrava per pochi spiccioli. Dicevano che fosse un posto in cui si riunivano soprattutto gli universitari per bere, fumare e ballare a ritmo del rock. Olimpia non era mai stata in discoteca, sua madre glielo aveva impedito in ogni modo, controllandola fino allo sfinimento. Il lavoro alla bottega di Anselmo aveva fatto il resto. Quella sera aveva deciso di prendersi una pausa da tutto e da tutti. A casa sua il clima peggiorava di giorno in giorno. Più passavano gli anni e più si sentiva in gabbia. Se non fosse stato per Peggie e per Anselmo, sarebbe già fuggita da Venezia. Ora che aveva compiuto diciotto anni era libera di andarsene e lo avrebbe fatto volentieri se non avesse avuto il suo lavoro alla bottega. Ormai Anselmo le affidava anche i compiti più delicati e la portava con sé soprattutto se si trattava di acquistare intere collezioni di libri antichi. La lasciava da sola in negozio e talvolta l’aveva persino consultata quando aveva dei dubbi su alcuni volumi. In poco più di tre anni Olimpia era diventata brava, aveva imparato a riconoscere un falso a occhio nudo e riusciva a valutare un libro anche dopo un esame sommario. Qualche giorno prima, lei e Anselmo avevano scoperto un piccolo tesoro a casa di una signora che li aveva chiamati per una valutazione. Si trattava per lo più di cianfrusaglie, ma in mezzo a mobili e oggetti di poco valore Olimpia aveva trovato un’autentica rarità. L’edizione del 1885 del Manuale dei Confessori di Monsignor Bouvier.
«Venere e Imene al tribunale della penitenza». Anselmo aveva letto il sottotitolo, sorridendo. «Conosco bene questo manuale e non mi meraviglia per niente trovarlo qui. La signora Landi ha la fama di essere molto devota. Jean-Baptiste Bouvier scrisse diversi libri e insegnò filosofia e teologia morale. Questo è un libro scritto a uso dei confessori che contiene una serie di precetti sui peccati sessuali».
Olimpia aveva aperto una pagina a caso del manuale. «Senti cosa dice: “L’atto coniugale compiuto per sola voluttà è peccato, ma soltanto veniale”. Non ci posso credere…».
«Lo so, quel libro è un’autentica condanna del sesso e di tutto ciò che ci gira intorno. Monsignor Bouvier scriveva dei peccati sessuali, della danza e si poneva anche il problema di come comportarsi in caso di stupro, pratica assai diffusa all’epoca in cui viveva Monsignor Bouvier».
«Non riesco a leggerlo, mi viene da ridere. Però l’edizione è autentica, non è una ristampa anastatica. Che cosa ne pensi?»
«Penso che ormai non mi stupisci più, madamigella. Hai un occhio migliore del mio per i libri».
«L’allieva che supera il maestro? Ne dubito ma ti ringrazio».
Avevano portato il volume in bottega e tre giorni dopo lo aveva acquistato un professore americano di passaggio a Venezia per un convegno. Era così orgogliosa di quella piccola scoperta che ne aveva parlato a Peggie per giorni.
«Finalmente!», esclamò Diana quando la vide arrivare. «Stavo cominciando a credere che avessi cambiato idea».
«Perché avrei dovuto? Ho perso tempo perché non sapevo cosa mettere», mentì Olimpia. In realtà era rimasta in camera sua a leggere. Quando si era accorta di essere in ritardo aveva infilato le prime cose che aveva trovato nell’armadio ed era uscita in fretta e furia da casa.
«Alla fine che hai messo? Fammi vedere, apri il cappotto». Diana la osservò per qualche istante e scosse la testa. «Olimpia, dobbiamo andare a ballare, non in biblioteca. Andiamo da Zoe, ha detto che ci trucca lei. E tu ti farai prestare anche un vestito».
«Non ne ho bisogno», protestò. Da quando aveva compiuto la maggiore età Diana era cambiata: ora le interessavano solo i vestiti e i ragazzi, il periodo in cui si innamorava perdutamente dei protagonisti dei romanzi ottocenteschi sembrava lontano. Era una fase del tutto naturale per la vita di una donna, aveva detto Peggie a Olimpia, ma lei evitava di non pensarci. Si domandò per l’ennesima volta perché avesse deciso di andare a ballare anziché rimanere a casa a leggere. La risposta era una sola: aveva anche lei voglia di cambiare, di commettere errori. E di amare.
Diana non le diede il tempo di replicare. Le afferrò la mano e la trascinò tra le calli veneziane. Faceva freddo e una sottile nebbiolina avvolgeva le case e i ponti. Le strade erano bagnate benché non piovesse. Si doveva fare attenzione a non scivolare. Scansarono un gruppo di turisti che sembravano vagare senza meta e si diressero verso casa di Zoe. L’avevano conosciuta da pochi mesi, da quando era cominciato il loro ultimo anno al liceo. L’estate precedente Zoe non era stata ammessa agli esami di maturità e così aveva dovuto ripetere l’anno. Era più grande di loro e non era nemmeno più vergine. Diana e Olimpia pendevano dalle sue labbra quando raccontava le sue avventure, anche perché non si faceva troppi problemi a scendere nei dettagli. Si prodigava in consigli su come affrontare la prima volta e su che cosa fare per non rischiare malattie e gravidanze indesiderate. Era stata lei a invitarle quella sera al locale dove suonava il suo nuovo ragazzo.
Oltre a essere più grande di loro, Zoe aveva anche una situazione familiare bizzarra. Sua madre era un’artista hippie, era stata a Woodstock, aveva avuto molti amanti e Zoe non sapeva chi fosse suo padre. Una condotta che suscitava non pochi pettegolezzi tra le famiglie dei ragazzi che frequentavano la loro stessa classe. Zoe sembrava immune a qualsiasi critica. I quadri della madre erano stati acquistati da molti collezionisti, tra i quali anche Peggie, e ora lei e figlia avevano di che vivere. Erano abbastanza ricche da infischiarsene di ciò che diceva la gente. Tuttavia Olimpia non era del tutto convinta che Zoe fosse indifferente alle malelingue. Una volta l’aveva vista asciugarsi gli occhi perché un ragazzo l’aveva chiamata “puttana”. Ne ammirava però la tenacia e il coraggio.
«Ha ragione Diana. Non puoi mettere il gonnellone a fiori in discoteca », le disse Zoe. Si alzò dalla poltrona di vimini e aprì l’armadio. Restò per qualche minuto in silenzio a osservare i capi appesi. Prese un paio di vestiti e li buttò sul letto. Ripeté quell’operazione un altro paio di volte e poi chiuse le ante. «Prova questi, mentre io trucco Diana». Poi fece cenno a Diana di sedersi davanti allo specchio.
«No, per favore!», gridò Olimpia qualche minuto dopo. «Questo corsetto preme sui polmoni, non mi fa respirare e mi fa sentire goffa».
«Olimpia! Hai un bel fisico, mettilo in mostra», la rimproverò Zoe, avvicinandosi per sistemarle meglio il bustino di pelle nera.
«È una tortura, non voglio indossarlo».
«Ma sì che lo metterai, ti devi solo abituare».
«Senti, Zoe, stasera vorrei divertirmi e ballare. Con questo coso qui mi muoverò come una mummia».
Zoe sospirò. «Mmm… hai un bellissimo décolleté ma non hai un fidanzato e sei vergine».
«Non voglio certo cominciare ad avere tutto ora».
«Dici così perché passi troppo tempo sui libri e in quella bottega», s’intromise Diana. «Diglielo anche tu, Zoe. Tanto lo abbiamo capito che ti piace Davide».
Olimpia arrossì ma non rispose. Era inutile negare, avrebbero continuato a prenderla in giro. Davide non la degnava di uno sguardo e se ogni tanto le faceva qualche complimento era solo per gentilezza. Lei ne soffriva e non sapeva nemmeno perché.
Il nipote di Anselmo si era laureato e ora lavorava stabilmente nella bottega dello zio. Continuava a trattarla come se fosse una ragazzina, anche perché in fondo lo era davvero. Zoe le diceva che se si fosse ostinata a indossare i pantaloni a zampa e i gonnelloni con i fiorellini, Davide non l’avrebbe mai notata. In realtà non l’avrebbe notata comunque. Era invisibile per lui. Ne aveva parlato anche a Peggie. «I primi amori», le aveva detto la sua amica, «sono spesso esperienze dolorose se non corrisposte». Ma non erano più ritornate sull’argomento.
«Ok, lo prendo in prestito», si decise alla fine.
«Te lo regalo. Sta meglio a te che sei così magra. Io ho una quarta di seno e non mi entra. Adesso metti le scarpe con il tacco e poi siediti. Appena finisco con Diana, trucco anche te. Ah, se non ci fossi io…».
Il locale era affollato e il caos regnava sovrano. Non c’erano solo gli universitari ma gente di ogni età. Per un attimo Olimpia si chiese se fossero le più giovani, lì in mezzo. L’incertezza durò fino a quando non notò un gruppo di liceali. La zona del bar era poco affollata in quel momento perché erano tutti in pista a ballare I Will Survive. Zoe si guardò intorno e poi le guidò in fondo alla sala verso il piccolo palcoscenico, dove alcuni ragazzi stavano sistemando gli strumenti musicali. Uno di loro sorrise e scese dal palco per andare incontro a Zoe. Diana e Olimpia rimasero per un attimo in disparte mentre i due si baciavano appassionatamente.
«Ragazze, lui è Valerio». La musica era così alta che la loro amica dovette ripetere un paio di volte il nome, mentre lui ritornava sul palco dopo aver stretto loro la mano. «Tra un’ora suoneranno», spiegò poi, quando propose di andare a ballare per ingannare l’attesa. «Fino a quel momento ci tocca sentire questa musica del cavolo. Buttiamoci nella mischia. Non ce la faccio più, mi devo sfogare. Non che io sappia ballare, ma almeno mi scateno e mando a quel paese tutto lo stress accumulato».
Nel locale si diffusero le note di Don’t Leave Me This Way di Harold Melvin & the Blue Notes. Olimpia sbuffò e seguì le sue amiche verso il centro della pista. Sembravano tutti ubriachi e si muovevano in maniera convulsa. Fu presa dallo sconforto e per un attimo accarezzò l’idea di tonarsene a casa. Ma ormai era lì e tanto valeva cercare di distrarsi.
Con la coda dell’occhio seguiva i movimenti di Zoe e Diana che saltellavano e ridevano come matte. Cominciò a muovere anche lei qualche passo, sentendosi più goffa che mai. La musica era molto alta e la stordiva. A un certo punto un ragazzo le sfiorò il braccio. Olimpia stava per dargli un ceffone, quando lo riconobbe: era un suo compagno di classe, Giacomo. Le disse qualcosa che Olimpia non capì, distratta com’era dal suo abbigliamento bizzarro. Come diavolo si era vestito? Aveva un completo bianco e la camicia nera lucida, un po’ aperta sul petto. Si trattenne dal ridere per non offenderlo.
«Che stai dicendo? Non ti sento».
«Stai benissimo, ho detto che stai benissimo, stasera».
Take me now baby here as I am
pull me close, try and understand
desire is hunger is the fire I breathe
love is a banquet on which we feed.
«Oh, finalmente una canzone decente!», esclamò Olimpia, evitando di rispondere a Giacomo. Puzzava d’alcol ed era ubriaco. Cercò di allontanarsi da lui mischiandosi tra la folla scatenata che intonava Because the Night di Patti Smith.
Love is an angel disguised as lust
here in our bed until the morning comes…
«Ehi, ma dove vai? Aspettami, balla con me», gridava Giacomo. Si maledisse mille volte per aver ceduto alle richieste di Diana e Zoe di andare a ballare in quel locale. Attraversò la folla danzante e si diresse verso il bar. Aveva sete e voleva starsene un po’ per i fatti suoi.
Si sedette su uno sgabello accanto al bancone, senza staccare gli occhi dalle sue amiche che ballavano ancora come due forsennate. Olimpia aveva lo stomaco sottosopra per la rabbia. Il barista le sorrise e le porse una specie di succo di frutta. Era leggermente alcolico, ma non se ne curò: proprio quello che le serviva per reggere la situazione.
«Ma dov’eri finita? Ti ho cercato dappertutto». Ancora Giacomo. Olimpia lo guardò e pensò di mettere subito le cose in chiaro con quello scocciatore, altrimenti non avrebbe risposto delle sue azioni.
«Senti, Giacomo, lasciami in pace, ok?»
«Sei arrabbiata, lo vedo, cos’è successo?».
“Non è successo ancora niente ma se continui a rompere potrebbe succedere qualcosa di molto spiacevole”, avrebbe voluto dirgli. Non gli rispose, sperando che se ne andasse. Le veniva da piangere e si sentiva sciocca. Soprattutto non doveva farlo davanti a Giacomo, altrimenti il giorno dopo tutta la classe l’avrebbe presa in giro. La contessina che non reggeva né l’alcol né le serate nei locali. La realtà era che si sentiva fuori luogo, non era fatta per quel tipo di divertimento.
«Dài, vieni a ballare», le disse. Olimpia posò lo sguardo sulla mano di Giacomo che stringeva il suo braccio, nel vano tentativo di trascinarla via. Sentì la rabbia montarle dentro ma cercò di controllarsi. Con un movimento brusco si liberò della stretta e rimase in silenzio.
«Chi ti ha fatto arrabbiare?», insisté Giacomo.
«Nessuno. Ora lasciami in pace».
«Ah, ho capito. Il ragazzo che ti piace ti ha dato buca», ridacchiò Giacomo. «Niente paura ci sono qui io. Come si fa a resisterti stasera? Sai che quasi non ti avevo riconosciuto? A scuola vieni sempre vestita con quei gonnelloni. Non dovresti, hai un bel fisico».
«Quando vorrò il tuo parere, te lo chiederò». Il tono di Olimpia era deciso. Un’altra parola inopportuna e lo avrebbe preso a schiaffi.
Guardò oltre le spalle di Giacomo e scorse Zoe e Diana, che avevano smesso di ballare e si guardavano intorno. Finalmente si erano ricordate di lei! Olimpia scese dallo sgabello, appena in tempo per accorgersi che Giacomo si stava avvicinando per baciarla.
«Va’ all’inferno!», gridò, rovesciandogli il contenuto del bicchiere addosso per poi correre via a raggiungere le sue amiche. Nella sala intanto riecheggiavano le voci dei Mamas & Papas che cantavano California Dreamin’.
Tra non molto il ragazzo di Zoe avrebbe suonato. Olimpia non ce la faceva più ma era contenta. Non appena Valerio avesse terminato la sua esibizione, sarebbero rientrate a casa di Zoe.
La musica nel locale non era più assordante come prima. La gente chiacchierava, seduta sulle poltrone e sugli sgabelli. Solo qualche irriducibile ballava ancora sulla pista da ballo, nonostante il volume ridotto. Olimpia si alzò dalla poltroncina su cui era seduta insieme a Diana. Il cocktail le aveva seccato la gola e fatto venire fame.
Si diresse verso il bancone del bar e per poco non si scontrò con qualcuno. Alzò gli occhi per chiedere scusa e trattenne il respiro: Davide! Era proprio lui, e la stava osservando in un modo strano; sembrava stupito, come se l’avesse riconosciuta a fatica. Olimpia si portò automaticamente le mani alla scollatura del corpetto e arrossì. Lui non l’aveva mai vista vestita “da donna”, forse per questo non le staccava gli occhi di dosso. Restarono a guardarsi per un tempo imprecisato, come se non si conoscessero. Davide aveva tagliato la barba e sciolto i capelli che di solito portava legati in un codino. Indossava pantaloni neri e una camicia dello stesso colore, sbottonata quel tanto da lasciar intravedere una collanina di caucciù proprio sotto il pomo d’Adamo. Era bellissimo. Aveva ancora quella strana espressione stupita negli occhi.
«Olimpia!», esclamò infine. «Che cosa ci fai qui?»
«Sono venuta con Diana e Zoe», riuscì a dirgli dopo qualche istante.
«Bene, divertiti…». Le sorrise e si allontanò con una ragazza bionda, che intanto lo aveva raggiunto. Olimpia li osservò, immobile davanti al bancone del bar. Il cuore le batteva fortissimo, come se fosse impazzito. All’improvviso non aveva più fame né sete ma si sentiva triste e sola. Girò i tacchi e, mentre lentamente ritornava dalle sue amiche, vide che la gente cominciava ad alzarsi per dirigersi verso il palcoscenico.
Valerio salutò la piccola folla davanti a sé, strizzò l’occhio a Zoe e poi cominciò a suonare Whole Lotta Love dei Led Zeppelin. Olimpia si guardò intorno. I suoi occhi cercavano Davide, che però sembrava sparito nel nulla. Dove si era cacciato? E chi era quella ragazza che stava con lui? Non era riuscita a vederla bene. Mentre il gruppo si esibiva, Olimpia pensò di allontanarsi dal palco per andare a cercarlo, quando si sentì afferrare per un polso.
«Che vuoi ancora, Giacomo?»
«Ti devo parlare», le disse, senza mollare la presa.
«Non ti voglio ascoltare, lasciami, mi fai male!».
«Anche se mi hai buttato il cocktail in faccia, ti perdono, sei troppo bella stasera», biascicò. Olimpia cercò di allontanarsi da lui, disgustata.
«Se non la smetti di stringere il polso mi ritroverò con un livido enorme, domani. Scordati le versioni di greco, non te le passerò mai più». Si liberò da quella presa. Aveva la gola tremendamente secca.
«Dove sono Zoe e Diana?», gli domandò. Non riusciva più a scorgerle tra la folla.
Un gruppetto di ragazzi li spintonò verso un angolo della sala e Giacomo approfittò della confusione per baciarla. Olimpia era così sorpresa che lo lasciò fare per qualche secondo. Poi all’improvviso si rese conto di ciò che stava accadendo.
«Lasciami stare, stronzo!», urlò, trattenendo un singhiozzo. E, presa dal panico, scappò verso l’uscita del locale. Ma proprio vicino alla porta, si sentì afferrare per un braccio. Alzò gli occhi e il suo sguardo incrociò quello di Davide.
«Olimpia, dove scappi? Che cosa ti è successo?», le domandò, aggrottando la fronte.
«Davide!», riuscì a dire prima di scoppiare a piangere. Era rossa in viso per la vergogna. Lui l’abbracciò, cercando di consolarla.
«Sta’ tranquilla, ci sono qui io…».
Olimpia alzò lo sguardo e si asciugò le lacrime con il dorso della mano, senza pensare al trucco. I loro occhi s’incrociarono per qualche istante. Davide sembrò seriamente preoccupato per lei.
«Tutto ok?», le chiese, accarezzandole la guancia per togliere un residuo di mascara che le rigava il viso.
«Tutto ok un corno! È solo colpa tua!», urlò. Davide rimase a bocca aperta ma non ebbe il tempo di ribattere, perché Olimpia si era già confusa tra la folla del locale.
Capitolo 2
Immersa nella vasca da bagno, Olimpia sentiva che la tensione e il mal di testa se ne stavano andando via. Aveva passato un fine settimana da incubo, a casa di Zoe. Dopo la serata al locale erano rientrate all’alba e il giorno dopo si erano trascinate come tre zombi per l’intera giornata. Quando, la domenica sera, era finalmente tornata a casa sua, aveva anche dovuto sorbirsi la ramanzina della madre. La mattina era stata a scuola, dove per fortuna Giacomo aveva avuto il buon gusto di non presentarsi. Non aveva nemmeno pranzato. La nausea l’attanagliava da due giorni. Pensando a ciò che l’aspettava una volta uscita dal bagno, desiderò rimanere a mollo tutta la vita.
Il problema era Davide. Avrebbe dovuto dargli delle spiegazioni per il suo comportamento di sabato sera. Sospirò. Poteva mai confessargli che soffriva per lui? Che le dava fastidio che la considerasse come parte del mobilio della bottega? L’immagine di Davide che si allontanava con la ragazza bionda la tormentava da due giorni. Era la sua ragazza o era solo un’amica? Se si trattava della sua ragazza perché lei non l’aveva mai vista in bottega?
Sbuffò e poggiò la testa sul bordo della vasca. Meglio godersi quel momento finché poteva. In quel periodo c’era ben poco di cui essere felice. Forse era lei che non sapeva godersi ciò che aveva o forse, più semplicemente, tutto le sembrava buio e scuro perché era innamorata senza essere ricambiata. Si era accorta di amare Davide quasi per caso. Era in bottega e stava lavorando con lui quando le loro dita si erano sfiorate per qualche istante. Olimpia aveva sentito come una scossa elettrica percorrerle la schiena e il cuore battere come impazzito. Per qualche tempo aveva cercato di ridimensionare quel sentimento, ma più lo negava e più lo sentiva crescere dentro di sé. Non gli aveva mai detto nulla e lui sembrava ignaro di ciò che Olimpia provava. Lei, d’altronde, non faceva nulla per farglielo capire.
Si mise seduta e cominciò a strofinare le braccia con la spugna. Il pensiero tornava fin troppo di frequente alla serata in quel locale. Aveva accumulato più figuracce in quel fine settimana che in tutta la sua vita. Sensazioni contrastanti le riempivano la testa, confondendola sempre più.
Il telefono, che da poco sua madre le aveva fatto istallare in camera, squillò, interrompendo la quiete. Olimpia si affrettò a uscire dalla vasca e a infilarsi l’accappatoio prima di rispondere.
«Pronto?»
«Che fine hai fatto, my child?». Peggie. Olimpia sorrise, chiedendosi come facesse la sua amica a essere quasi sempre allegra ed entusiasta, era un segreto che prima o poi le avrebbe dovuto svelare.
«Ho passato giorni da incubo».
«Mi dispiace… oggi pomeriggio vai da Anselmo?»
«Sì, come sempre, perché?»
«Peccato. Avrei voluto vederti».
«Ascolta, va bene se passo a casa tua verso le sette?»
«Davvero lo faresti per me?». Olimpia si sentì in colpa. In realtà lo faceva per se stessa. Meno si tratteneva in bottega e più diminuivano le possibilità di rimanere da sola con Davide. Aveva il terrore che lui le chiedesse spiegazioni. All’idea di doverlo affrontare, per di più davanti ad Anselmo, si sentiva mancare la terra sotto i piedi.
Olimpia guardò per l’ennesima volta l’orologio. Era in ritardo. Il pensiero di rivedere Davide le impediva di pensare anche a cosa mettersi. Non riusciva a trovare nulla di comodo che non fosse sciatto. Indossò il vestito di lana che le aveva regalato Zoe e spazzolò frettolosamente i capelli, per poi legarli in una stretta coda di cavallo. Uscì di casa salutando appena sua madre, anche lei in procinto di uscire.
Faceva freddissimo. Olimpia s’infilò il cappello e cominciò a correre per non avvertire il formicolio alle gambe. In pochi minuti raggiunse la bottega di Anselmo. Sembrava che non ci fosse ancora nessuno. Aprì la borsa e tirò fuori le chiavi per aprire.
«Lascia, faccio io». Sentì la voce di Davide dietro di sé. Olimpia si fece da parte, senza guardarlo in viso. Non era molto fortunata, quel pomeriggio. Anselmo era fuori per una perizia, le disse Davide, mentre accendeva le luci della bottega per poi sfilarsi il giubbotto e appenderlo all’attaccapanni nel retrobottega.
«Mi metto subito al lavoro, oggi devo andarmene un po’ prima», annunciò Olimpia, cominciando a prendere alcuni volumi dal retrobottega.
«Se ti togliessi il cappotto, lavoreresti meglio», le fece notare Davide, sorridendo.
Olimpia avvampò e si diede della stupida. Posò i libri e si sfilò il Montgomery prima di immergersi nel lavoro. Solo in quel modo avrebbe potuto evitare di parlare con Davide. Di solito lui non la disturbava mai quando era impegnata. Per un’ora lavorarono in silenzio e senza interruzioni. Il lunedì pomeriggio non c’era mai molta gente in negozio.
Erano già le cinque e si era fatto buio, quando entrò un uomo piuttosto anziano e malandato. Trascinava una gamba e tossiva di frequente.
Quando Olimpia gli si avvicinò, lui la guardò in cagnesco. «Cerco il proprietario», ringhiò.
«Mio zio sarà qui tra un’ora, come possiamo aiutarla?», chiese Davide, accorrendo in suo aiuto.
«Ho un’edizione autentica di un libro di metà Ottocento», spiegò, rivolgendosi solo a Davide. Gli porse un plico che il ragazzo scartò con cura, per poi posarlo sul tavolo della cassa.
«Lo Inferno della Commedia di Dante Alighieri col comento di Guiniforto delli Bargigi da due manoscritti inediti del secolo decimo quarto. Con introduzione e note dell’avvocato Giuseppe Zacheroni, 1838», lesse ad alta voce, passando il volume a Olimpia, che intanto si era infilata i guanti di cotone. Il vecchio notò quel gesto e borbottò.
Olimpia cominciò a sfogliarlo delicatamente. «Settecentosessantasei pagine. Sul frontespizio sono raffigurati Dante e Virgilio davanti alla porta dell’inferno…», osservò. «All’interno ci sono tre tavole litografiche fuori testo che rappresentano nell’ordine: Dante, Virgilio e le tre fiere; Dante e Virgilio tra le tombe degli eresiarchi e infine Dante e Virgilio davanti alle porte dell’inferno. I capilettera litografici sono notevoli… così come le testatine e i finalini, che si trovano all’inizio e alla fine di ogni canto. L’ex-libris indica Edward Craven Hawtrey. La legatura inglese è meravigliosa e in pergamena. Il dorso a cinque nervi ha i titoli su doppio tassello ed è ricco di fregi sugli scomparti. È senza dubbio un esemplare ben conservato».
Davide trattenne una risata nel vedere che il vecchio era rimasto a bocca aperta. Olimpia, ignara di tutto, continuava a girare e rigirare le pagine del volume.
«E che cosa mi dice del commento di Guiniforte Barzizza?», chiese l’uomo.
«Come si legge sul frontespizio, l’edizione è stata curata dall’avvocato Giuseppe Zacheroni, un mazziniano in esilio in Francia. Nel settembre del 1840 la Congregazione del Sant’Uffizio emanò un decreto di condanna per questa edizione perché, nella sua introduzione, l’avvocato Zacheroni aveva espresso tesi anticlericali. Nonostante ciò il libro fu stampato in un numero ridotto di copie».
Olimpia restituì il volume al proprietario e si stupì di leggergli in viso una strana espressione.
«Signorina, io mi devo scusare con lei», esclamò.
«Nonostante la sua giovanissima età, Olimpia è un’esperta di libri messi all’Indice, signore», spiegò Davide provando un certo orgoglio mentre pronunciava quelle parole di elogio. «Mio zio l’ha avviata al mestiere ed è bravissima».
«Vedo, vedo. Quanti anni ha, signorina?»
«Diciotto».
L’uomo scosse la testa, sempre più incredulo. Il suo sguardo si posò prima su Olimpia e poi su Davide.
«Ero venuto per una valutazione. Vorrei vendere questa edizione dell’Inferno».
«La lasci pure qui, le faremo avere la perizia in pochi giorni», disse Davide. «Venga, le faccio una ricevuta». L’uomo lanciò un’ultima occhiata a Olimpia e seguì Davide nel retrobottega.
«Lo hai steso, quel poveretto!», esclamò Davide, quando il cliente ebbe chiuso la porta d’ingresso, dopo averli salutati.
Olimpia fece spallucce e continuò a sistemare un volume il cui dorso si era scollato, sperando che il tempo passasse in fretta e che Anselmo rientrasse presto. Sentiva ancora la morsa allo stomaco e aveva paura che Davide accennasse in qualche modo alla serata in quel locale. Lo vide dirigersi nel retrobottega per poi tornare, dopo qualche minuto, con in mano alcune buste da lettera.
«Se non sbrigo io la corrispondenza, non ci pensa mai nessuno», disse, e si andò a sedere su una sedia accanto alla libreria in stile impero che stava risistemando. Olimpia non fece commenti, fingendo di essere molto presa dal lavoro.
Non era raro per loro lavorare in silenzio, erano capaci di andare avanti per ore senza scambiare una parola. Quel pomeriggio, però, Olimpia faceva fatica a concentrarsi e a evitare di rispondere ai vani tentativi di Davide di fare conversazione. Di tanto in tanto alzava il capo per accertarsi che lui stesse lavorando. Un paio di volte i loro occhi si erano incontrati ma lei aveva subito distolto lo sguardo. Ma quando se lo ritrovò davanti, con una strana espressione in viso, non poté più far finta di niente.
«Che c’è?», gli chiese.
«Dimmelo tu».
«Non ho niente da dirti, sono molto occupata». E indicò il libro che stava sistemando.
«Potresti dirmi, per esempio, perché mi eviti», le suggerì con un sorriso incoraggiante.
«Io? Evitarti? Ti sbagli».
«Uhm, allora potresti dirmi che cosa ti è successo, sabato sera sembravi sconvolta».
Olimpia avvertì una fitta allo stomaco. Le mani le tremavano. E ora, che cosa avrebbe dovuto rispondergli? Avrebbe riso se gli avesse detto che moriva dalla voglia di sapere chi fosse la ragazza che era con lui, che un suo compagno di classe aveva goffamente cercato di baciarla e che lei era fuggita via come una ragazzina. Non era pronta a sopportarlo. In realtà Davide era sempre molto dolce. Se l’avesse consolata, si sarebbe sentita non solo stupida ma anche del tutto incapace di gestire le sue emozioni.
«Ero un po’ brilla, scusa», mormorò, dopo un attimo di esitazione.
«Perché te la sei presa con me?»
«Ti dico che non ce l’avevo con te, non reggo l’alcol, tutto qui».
Davide sospirò. Le sollevò il mento con un dito, costringendola a guardarlo. «Olimpia, credi che io sia così stupido?», le disse.
L’arrivo di Anselmo salvò Olimpia dall’impaccio. Il vecchio antiquario appariva insolitamente stanco e provato. Borbottò qualcosa e poi chiamò il nipote nel retrobottega, chiedendo a Olimpia di occuparsi dei clienti per una mezz’ora. Olimpia tirò un sospiro di sollievo e si affrettò a terminare il lavoro che aveva cominciato. Non vedeva l’ora di potersene andare da Peggie. Anselmo aveva chiuso la porta e a lei arrivavano solo stralci di una conversazione concitata.
«Ha il diritto di sapere…». La voce di Davide si era alzata all’improvviso. Sentì Anselmo rimproverarlo e intimargli di abbassare il tono.
Olimpia cercò di prestare attenzione a ciò che si dicevano ma ora parlavano piano e lei non udiva che un lieve brusio. Era chiaro che non volevano farle ascoltare la conversazione. Quell’atteggiamento però non era da Anselmo. Dopotutto, si era sempre dimostrata discreta e affidabile. Si domandò se la ragione di quel mistero si nascondesse nell’appuntamento dal quale Anselmo era appena tornato. Incuriosita, si avvicinò al banco della cassa, volgendo di tanto in tanto lo sguardo verso la porta del retrobottega. Aprì il cassetto dove si trovava il registro su cui annotavano gli appuntamenti e scorse velocemente tra le pagine fino ad arrivare alla data che le interessava. Sfogliò le pagine precedenti e anche quelle successive ma non vi trovò niente di nuovo. Solo un paio di brevi annotazioni riguardanti le consegne. Non erano previste né visite di clienti né appuntamenti per le perizie, quel giorno. Eppure Anselmo era sempre molto scrupoloso e scriveva tutto. Era stato Davide a dirle che lui era fuori per incontrare un possibile cliente, ma sul registro non ve ne era traccia. “Che strano!”, pensò Olimpia, riponendo in fretta il registro nel cassetto.
In quel momento Davide uscì dal retrobottega, sbattendo la porta dietro di sé. «Io vado», esclamò afferrando il giubbotto. Era scuro in viso ed era evidente che stese tenendo a freno la collera.
«Che succede?», gli domandò con un filo di voce.
«Niente, tranquilla. Ci vediamo domani», le rispose mentre si dirigeva verso la porta d’ingresso della bottega. Aveva cominciato a piovere. Lo vide calarsi il cappuccio del giubbotto sulla testa mentre si allontanava a passo spedito.
«Olimpia!». Anselmo la chiamò con un tono di voce che non lasciava presagire nulla di buono. Quando si affacciò alla porta che dava sul retrobottega, l’antiquario era seduto alla scrivania. Appariva ancora più stanco di quando era rientrato, ma non osò fare domande.
«Mi porteresti il libro di Ser Filippo Ceffi, per favore?», le chiese.
Olimpia annuì e si diresse verso lo scaffale a vetrina nel quale si trovava il libro. Era chiaro che Anselmo non le avrebbe detto niente riguardo all’animata discussione con il nipote perché, quando lavorava, l’antiquario concentrava tutte le sue attenzioni su ciò che faceva. Se avesse voluto sapere che cosa si erano detti, avrebbe dovuto chiedere a Davide.
Quella sera Olimpia attraversò le calli veneziane, diretta verso il sestiere di Peggie, con una strana sensazione addosso Le sembrava che tutti le stessero nascondendo qualcosa. Anselmo, dopo la discussione con Davide, si era immerso nel lavoro e anche Peggie era strana. L’aveva accolta con il suo solito sorriso, ma si vedeva che c’era qualcosa che la preoccupava. Si distraeva con facilità, come se fosse presa da altri pensieri. Quando Olimpia le aveva chiesto se si sentisse bene, l’ereditiera americana l’aveva guardata per qualche istante senza proferire parola e poi aveva solo annuito. Si era alzata dalla poltrona e si era recata nel suo studiolo, dal quale era uscita con un pacchetto.
«Ecco qui. È il mio regalo di Natale per te», le disse, porgendoglielo.
«Mi hai fatto venire qui per darmelo in anticipo? Mancano ancora diversi giorni a Natale», disse Olimpia, prendendo l’involto dalle mani di Peggie. Un leggero tremore le scuoteva e per un momento Olimpia pensò che stesse per svenire, era molto pallida.
«Esatto, sai che non mi piace aspettare. È una cosa che proprio detesto. Ieri sono andata dal mio gioielliere, ho comprato questo piccolo pensiero per te e volevo dartelo subito… ma ti ho fatto venire qui anche per vederti, era da un po’ che non stavamo da sole, io e te».
Olimpia annuì. «Sì, hai ragione, scusa. Giuro che passerò più spesso. Tra un paio di settimane è Natale e avrò più tempo».
«Dài, non fare promesse che non manterrai, e non voglio che tu ti senta obbligata a venire qui. Hai diciotto anni, vai a scuola e lavori, non posso pretendere che tu stia sempre con me. Guarda cosa c’è nel pacchetto, ora».
Olimpia aprì la bocca per replicare ma cambiò idea. Era inutile discutere con Peggie, soprattutto quando non voleva parlare. Scartò l’involto e sorrise.
«Che meraviglia!», esclamò, rigirando tra le mani un bellissimo segnalibro d’argento. Alzò gli occhi e incrociò quelli di Peggie, che però subito li distolse. Sembrava commossa. Olimpia corrugò la fronte e fu investita di nuovo dalla sensazione che ci fosse qualcosa che non andava.
Capitolo 3
Davide non si presentò in negozio per due giorni di fila. Olimpia ne sentiva la mancanza ma aveva molto da fare con un libro appena acquistato da un antiquario fiorentino, amico di vecchia data di Anselmo. Il volume era in buone condizioni ma aveva bisogno di piccoli interventi: alcune pagine erano scollate e la rilegatura stava per cedere.
«Non ci posso ancora credere!», esclamò Olimpia, sfilandosi i guanti. «Un’autentica rarità. Come lo catalogo?».
Anselmo le sorrise. «Direi di inserirlo tra le pubblicazioni di diritto, Inquisizione e tortura».
«Sì, concordo». Posò il volume accanto alla cassa e si alzò in punta di piedi per arrivare a prendere il registro. Lo sfogliò e poi cominciò a leggere ad alta voce mentre scriveva: «Eliseo Masini e Tommaso Meneghini. Sacro arsenale, overo Pratica dell’officio della Santa Inquisizione. Coll’inserzione di alcune regole fatte dal p. inquisitore Tommaso Menghini domenicano; e di diverse Annotazioni del dottore Gio. Pasqualone fiscale della Suprema generale inquisizione di Roma… Accidenti, è più lungo il titolo del libro», commentò.
«Tipico dei manuali di questo tipo. Ricordati di scrivere dove è stato stampato e da chi», le disse Anselmo, portandosi dietro di lei per controllare.
«Sì, ecco qui… a Roma, nella stamperia di San Michele a Ripa, nel 1730. Non posso ancora credere che sia nostro. Secondo te, troveremo un acquirente? Il prezzo lieviterà ulteriormente quando avremo finito di sistemarlo».
«Me l’hanno già chiesto, madamigella».
Olimpia si girò verso l’antiquario, sorpresa. «Come hai fatto? Sei un mago!».
«Nessuna magia. Tra i clienti abbiamo un estimatore dell’inquisitore bolognese Eliseo Masini».
«Leggo qui che è nato a Bologna e che fu commissario del Sant’Uffizio e inquisitore ad Ancona, a Mantova e infine a Genova, dove morì nella prima metà del Seicento».
«Sì, questa edizione del manuale è tra le più complete e dà precise indicazioni all’inquisitore su come esaminare ed eventualmente torturare gli eretici, i maghi, le streghe, i bestemmiatori, gli ebrei e gli infedeli».
«Prima di venderlo devo leggerlo. A proposito di streghe, riusciremo mai a trovare il manualetto del frate domenicano Girolamo Visconti, il Lamiarum sive striarum opusculum? Vorrei tanto leggere anche quello!».
Anselmo rise e scosse il capo: «Vedrò di recuperarlo, l’impresa è difficile ma non impossibile. Ora diamoci da fare, sta cominciando a piovere ed è già buio. Non vorrei farti tornare a casa tardi, stasera».
Olimpia annuì, s’infilò i guanti e prese il volume per portarlo sul suo tavolo di lavoro. Mancavano due settimane a Natale ma non aveva ancora pensato ai regali. Quell’anno sua madre aveva invitato Peggie per la cena della Vigilia, perché era da tanto che non si vedevano. Ripensò a qualche giorno prima, quando era andata a trovarla. L’aveva trovata insolitamente pallida e le sembrava che fosse dimagrita. Ma forse era solo una sua impressione, la sua verve ironica era quella di sempre.
Dopo averle consegnato il regalo, Peggie sembrava essersi ripresa dallo strano languore con cui l’aveva accolta e lei e Olimpia avevano parlato di tutto. Le aveva anche dato dei consigli su come comportarsi con Davide, suggerendole di non evitarlo e di affrontare la situazione da donna matura. Benché non fosse del tutto convinta, Olimpia aveva trovato ragionevole quel consiglio.
Anselmo se ne andò prima di lei per fare una consegna. Prima di chiudere il negozio, Olimpia verificò che tutto fosse in ordine. Cominciò a riportare sul registro i conti di quella giornata. Avevano lavorato moltissimo, come sempre sotto le feste.
Gli affari andavano bene e da qualche tempo Anselmo le aveva persino aumentato la paga. Dopo i primi mesi di tirocinio, le aveva imposto di prendere un piccolo rimborso spese per il lavoro che svolgeva. Anche se non si trattava di grandi cifre e lei non aveva certo bisogno di denaro, quei soldi erano importanti perché erano i primi che guadagnava.
«Ciao, mio zio dov’è?». La voce di Davide la fece sobbalzare.
«Mi hai quasi fatto prendere un colpo! Anselmo è andato a fare una consegna», gli rispose, accorgendosi in quel momento che Davide non era da solo. La ragazza bionda del locale era con lui. Lo stava aspettando sulla porta, tenendosi in disparte. Era graziosa anche se piuttosto anonima, nonostante i bei capelli ricci e dorati. Aveva un cappotto nero che le arrivava fino alle caviglie e indossava mocassini scuri, non proprio l’ideale per camminare sotto la pioggia battente.
«Lei è Lisa», disse Davide. Olimpia non si mosse e si limitò a farle un cenno con il capo. Anche Lisa rimase dov’era, abbozzando un sorriso di circostanza. All’improvviso sembrava che la temperatura della stanza fosse calata, aveva freddo e sentiva lo stomaco sottosopra. Davide si avvicinò a Lisa, le disse qualcosa e lei annuì per poi andarsene.
Olimpia non si era persa nemmeno un frammento di quella scena ma, quando lui ritornò indietro per dirigersi verso il retrobottega, fece finta di essere presa dai conti. Lui e Lisa non si erano dati un bacio di commiato però era evidente che fossero intimi. Era la sua ragazza? In fondo che male c’era? Lo sentì trafficare con i cassetti della scrivania dello zio e lo vide riemergere dopo qualche minuto.
«Mi servivano queste», le disse sventolando alcune bollette. «Domani vado a pagarle, prima che ci tolgano la luce, e poi vengo a lavorare».
«Non mi devi alcuna spiegazione, sei tu il padrone qui dentro».
Davide posò le bollette sul registro dove Olimpia stava annotando le entrate di quel giorno, impedendole di scrivere. Lei sospirò e gli rivolse uno sguardo interrogativo.
«Chiudo io il negozio, tu va’ pure a casa», le disse.
«Non se ne parla, Anselmo ha dato a me questo compito». Sentì crescere dentro di sé una rabbia feroce. Era gelosa, inutile negarlo. Era nella sua natura e ormai aveva imparato a conviverci.
«Va bene, facciamo così: tu finisci di fare i conti e io comincio a chiudere il negozio», le propose, riprendendosi le bollette per infilarle nella tasca del giaccone. Si allontanò dal banco della cassa e cominciò a spegnere le luci esterne. Si sbrigò a contare i soldi e a metterli in cassaforte. Digitò la combinazione, inserì la busta e poi richiuse la cassaforte. Sospirò. La giornata era finita e ora non le restava che tornare a casa, rilassarsi e cercare di dimenticare Davide e Lisa.
«Mi dici che hai?», lo sentì chiederle. Era alle sue spalle e stava aspettando che lei si girasse. L’aveva incastrata tra sé e la cassaforte, non aveva scampo. Olimpia si voltò lentamente e lo guardò con aria di sfida.
«E a te che importa?»
«Sciocchina…».
«Non parlarmi come se avessi dodici anni!», esclamò a denti stretti, spingendolo da una parte per riuscire a passare. Davide fu più veloce e la immobilizzò, afferrandole i polsi e costringendola a guardarlo.
«Lo so benissimo che non hai dodici anni… lo so benissimo, accidenti!». Era arrabbiato, adesso. Avevano entrambi il fiato corto e facevano fatica a controllare le proprie emozioni. Continuavano a guardarsi negli occhi senza riuscire a muoversi né a parlare. Il cuore di Olimpia batteva all’impazzata e le gambe tremavano così tanto che per un attimo ebbe l’impressione che, se lui non avesse continuato a stringerle i polsi, sarebbe scivolata. Era inchiodata alla cassaforte, con il corpo di Davide premuto contro il suo. Sembrava furioso. Gli occhi si posarono sulle sue labbra mentre si chinava quasi impercettibilmente verso di lei. Olimpia trattenne il respiro. La stava per baciare? Erano così vicini che i loro nasi potevano sfiorarsi. Si accorse di desiderare quel bacio con tutta se stessa, di averlo aspettato per anni. Per un attimo dimenticò tutto il resto, chiuse gli occhi e socchiuse le labbra. Sentì le dita di Davide accarezzarle la guancia e poi sfiorarle la nuca per attirarla a sé mentre sussurrava il suo nome.
«C’è nessuno?». Qualcuno era entrato nel negozio.
Davide sobbalzò e si diresse verso l’ingresso del negozio. Olimpia sbatté le palpebre ma rimase lì dov’era, appoggiandosi alla cassaforte per non cadere. Era stordita, come se le avessero rovesciato addosso un secchio di acqua ghiacciata. Non ebbe il tempo di capire che cosa stava per accadere qualche minuto prima. Ci avrebbe pensato a casa, con calma.
Sentì Davide chiamarla: «Olimpia, c’è Diana che ti cerca!».
«Scusate se piombo qui all’improvviso», disse Diana con le lacrime agli occhi. «Ma è successa una cosa terribile». Sembrava sotto choc e faceva fatica a parlare.
Olimpia in un attimo le fu accanto e la abbracciò. Davide si allontanò da loro con discrezione per rientrare nel retrobottega, spegnere le luci e chiudere finalmente il negozio.
«Che hai, Diana?», mormorò. Aveva un brutto presentimento. La sua amica non la smetteva di singhiozzare e di farfugliare frasi senza senso. La fece sedere e corse in bagno a prenderle un po’ d’acqua.
«Bevi», le ordinò. Diana bevve un sorso d’acqua ma poi le restituì il bicchiere. Continuava a singhiozzare e faceva fatica a parlare.
Davide si avvicinò, fece cenno a Olimpia di farsi da parte e chinandosi verso Diana le disse: «Ehi, ascolta, ce la fai a tornare a casa? Vuoi che ti accompagniamo noi?»
«No, no», protestò lei, scossa dai singhiozzi.
Olimpia non l’aveva mai vista in quelle condizioni. Diana non era tipo da lasciarsi travolgere dalle emozioni, affrontava sempre con calma anche le situazioni più complicate. Era rimasta lì seduta a tremare come una foglia, senza riuscire ad articolare una frase di senso compiuto. Non era da lei.
«Olimpia», mormorò infine, alzando gli occhi sul suo viso. «Mi dispiace, mi dispiace tantissimo…».
«Di che cosa stai parlando?»
«Peggie…», riuscì a dire, facendo uno sforzo su se stessa.
Olimpia fu attraversata da un pensiero assurdo, orribile. Deglutì a fatica e cominciò a tremare. Davide era rimasto in silenzio, accanto a loro. Sentì la sua mano accarezzarle i capelli. Un gesto tenero che sciolse ogni dubbio. In quel momento Olimpia capì che cosa fosse successo e quella consapevolezza la fece vacillare. Arretrò di qualche passo, continuando a scuotere il capo e a guardare incredula Diana che aveva ripreso a piangere. Si coprì il viso con le mani e urlò: «No, non può essere!».
Trovò le braccia di Davide ad accoglierla mentre scoppiava a piangere disperata.
Ora era lei a non avere più parole. Peggie. Non poteva essere vero.
«Quando?», chiese Davide a Diana, continuando a stringere Olimpia tra le sue braccia e ad accarezzarle la testa.
«Qualche ora fa. L’hanno trovata accasciata sulla sua poltrona».
Capitolo 4
Le ore immediatamente successive alla morte di Peggie furono un vero incubo per Olimpia. Non riusciva ad accettare che la sua amica non ci fosse più. Chiese di poter rimanere da sola. Davide provò a protestare, poi decise di accompagnare Diana a casa e ritornare in negozio da lei. Quando rientrò, una mezz’oretta più tardi, Olimpia era seduta sul vecchio divano che Anselmo teneva nel retrobottega e dove era solito schiacciare un pisolino subito dopo pranzo. Non piangeva più, ora, ma fissava il pavimento e sembrava immersa nei ricordi. Di tanto in tanto chiudeva gli occhi e sospirava.
«Sono passato dai tuoi. Ho detto a Letizia che sapevi di Peggie e le ho promesso che ti riporterò io a casa quando te la sentirai», mormorò, andandosi a sedere accanto a lei.
Olimpia si girò verso di lui ma non disse nulla. Fu scossa da un brivido e Davide le posò sulle spalle la coperta di lana di suo zio. Rimasero in silenzio per qualche minuto.
«Sfogati, ti prego. Piangi, urla, sbatti i piedi, reagisci…», le disse afferrandola per le spalle e scuotendola con dolcezza.
Olimpia aprì la bocca ma la richiuse dopo qualche vano tentativo di rispondergli. Il dolore le comprimeva i polmoni impedendole di parlare. Davide le diede un bacio sulla fronte e l’attirò a sé, cullandola e mormorandole parole di conforto.
«Chi era quella scrittrice che credeva che il paradiso fosse leggere continuamente, senza stancarsi mai?», le chiese, dopo qualche minuto. «Jane Austen?»
«Virginia Woolf», mormorò Olimpia.
«Sicura?»
«Sì, ignorante!».
«Ecco la mia Cattanei preferita», le disse, scompigliandole i capelli.
«Scemo».
«È un buon segno se hai ripreso a insultarmi».
«Credi che Peggie sia lì, a leggere in paradiso, come Virginia Woolf?», gli chiese dopo un attimo di esitazione.
«Penso proprio di sì».
Olimpia si staccò da lui e lo guardò. «Resta con me, per favore», disse infine, con un filo di voce. Una lacrima le scivolò lungo la gota.
Davide le sorrise, le asciugò il viso con il pollice e annuì. «Dove vuoi che vada? Vieni qui», esclamò, aprendo le braccia per accoglierla. Olimpia si strinse a lui e affondò la testa nel suo maglione, cominciando a piangere sommessamente.
Si sdraiarono sul divano e Davide sistemò la coperta in modo tale che bastasse a coprire entrambi. Rimasero abbracciati fino a quando Olimpia, finalmente, si addormentò sul suo petto.
Il profumo del caffè le arrivò alle narici prima che fosse in grado di aprire gli occhi. Quanto aveva dormito? Si stiracchiò e osservò il soffitto. Sbatté le palpebre. Si sentiva ancora scombussolata e aveva la nausea. Scostò la coperta e solo in quel momento si accorse di essere sul divano di Anselmo. Una luce azzurrina penetrava attraverso la finestra e illuminava appena la stanza. Si mise a sedere, confusa.
«Buongiorno!», esclamò Davide, entrando nel retrobottega e porgendole una tazza di caffellatte bollente.
«Che ore sono?», chiese, prendendo la tazza e cominciando a bere.
«Le sette».
Olimpia balzò in piedi rischiando di rovesciare il latte a terra. «Mia madre mi ucciderà!».
Davide le mise una mano sulla spalla per farla sedere di nuovo sul divano. «L’ho avvisata. L’ho chiamata mentre tu dormivi e le ho detto che ti eri addormentata e non avevo voluto svegliarti».
Olimpia posò la tazza a terra e si prese la testa fra le mani. «A te avrà detto che è tutto a posto ma so io che cosa mi aspetta quando torno a casa».
Davide si sedette accanto a lei, prese la tazza da terra e ne bevve un sorso prima di passargliela. «Olimpia, credimi, dopo tutto quello che è successo, tua madre non avrà niente da dire. Era solo preoccupata per te. Mi ha chiesto di accompagnarti a casa non appena ti fossi svegliata».
«Non ho voglia di tornare a casa… immagino che dovremmo prepararci per andare a porgere le condoglianze ai figli di Peggie in arrivo dagli Stati Uniti e che poi ci toccherà assistere al suo funerale. Non ce la faccio».
«Finisci di bere il caffellatte e ti accompagno, dài», le disse in un tono che non ammetteva repliche. Si alzò per prendere un sacchetto dalla scrivania, lo aprì e le porse un croissant. «L’ho preso al bar qui accanto. Mangia, ne hai bisogno».
«Non ho molta fame».
«Lo so, ma fa’ un piccolo sforzo».
Olimpia sospirò e diede un morso al croissant. «Ti ho costretto a dormire qui, scusami», disse dopo qualche minuto.
Davide aveva finito la sua brioche e stava piegando la coperta che li aveva tenuti al caldo durante la notte. Le lanciò uno sguardo malizioso e ribatté: «Non ho mai passato la notte con una donna senza combinarci niente».
«Cretino!», esclamò lei, arrossendo fino alla radice dei capelli. In altre circostanze avrebbe gioito nel sentirsi definire “donna” e non “ragazzina”, però in quel momento erano altri i pensieri che affollavano la sua mente. Mangiò l’ultimo boccone del croissant, si alzò e tolse via le molliche dai jeans. Era pronta a tornare a casa. Davide le passò il Montgomery, prima di infilarsi il giaccone e accompagnarla verso casa.
Capitolo 5
Venezia, 24 dicembre 1979
Una nebbia fitta era scesa sulla laguna fin dalle prime ore del mattino. Le strade erano piene di gente, che sfidava il freddo pungente per fare gli ultimi acquisti prima delle feste. I negozi erano illuminati da luci a intermittenza e decorati con i tipici addobbi natalizi. Dalle pasticcerie arrivava in strada l’invitante profumo della cioccolata calda. Le risate dei turisti facevano da contrasto ai borbottii dei veneziani che, in quel periodo, svolgevano le loro attività quotidiane con maggiore difficoltà. Lungo le calli e nelle piazze si faceva fatica a passare tra le bancarelle che vendevano di tutto. I battelli erano colmi fino all’inverosimile, soprattutto quelli che andavano e venivano dalla stazione ferroviaria di Santa Lucia. Il mercato di Rialto era quasi irraggiungibile. La folla che cercava di arrivarci si fermava sul ponte, in attesa di passare prima di inoltrarsi tra le bancarelle per comprare il pesce fresco da cucinare per la cena della Vigilia.
Olimpia arrivò a San Marco passando sotto le procuratie che circondavano la piazza. Avvolto nella nebbia il profilo della basilica appariva ancora più spettacolare. Era ancora presto e aveva deciso di fare una passeggiata per prendere una cioccolata calda al bar. Le lezioni a scuola erano terminate un paio di giorni prima. Quel lunedì di Vigilia aveva deciso di passarlo alla bottega; aveva bisogno di distrarsi. Sua madre non si era opposta. L’atmosfera a casa Cattanei era serena ma serpeggiava un sottofondo stonato, triste e in netto contrasto con il clima di festa che si respirava in tutta la città.
Erano da poco passate le nove quando Olimpia entrò nella bottega di Anselmo, chiudendo a chiave la porta dietro di sé. Non c’era ancora nessuno ma avrebbe aspettato ancora un po’, prima di aprire ai clienti. Quel giorno Davide e Anselmo avrebbero fatto tardi, avevano delle consegne urgenti. «Si ricordano tutti all’ultimo minuto», aveva protestato l’antiquario, il sabato precedente.
Entrando nel retrobottega notò subito un pacchetto sulla scrivania di Anselmo. Era in cima a una pila di libri da sistemare e sopra c’era stato attaccato un biglietto con un pezzetto di nastro adesivo. Olimpia si avvicinò, lo aprì con cautela e sorrise nel leggere il suo nome.
Quello sarebbe stato il suo primo Natale senza Peggie, ma si era imposta di fare tutto ciò che avrebbe fatto se lei fosse stata ancora viva. Lei avrebbe voluto così. I primi giorni dopo la sua scomparsa erano stati così terribili che non li avrebbe mai più dimenticati. I figli di Peggie erano accorsi a Venezia per i funerali. Tutti avevano notato la loro fredda compostezza durante i riti funebri e la rabbia che li aveva assaliti nell’apprendere che la casa della madre sarebbe diventata una fondazione museale. Persino Letizia aveva trovato deplorevole il loro comportamento e se n’era lamentata con la madre di Diana.
Aveva appena cominciato a sistemare la vetrina quando fu interrotta dall’arrivo del postino che bussò battendo le nocche sul vetro della porta d’ingresso. Olimpia scese dalla scala e si affrettò ad aprirgli.
«Buongiorno, signorina Cattanei. Come va?», le domandò, alzando leggermente la visiera del berretto.
«Buongiorno, signor Benini. Tutto bene, lei?»
«Bene, bene… c’è una raccomandata da firmare», disse porgendole una busta e una penna. Olimpia firmò e gli sorrise augurandogli buon Natale.
«Auguri anche a lei! Faccia attenzione, signorina, c’è una busta a terra, devono avergliela lasciata stamattina», l’avvisò il postino indicandole la soglia del negozio mentre si allontanava.
Olimpia la raccolse e se la rigirò tra le dita. Era una busta gialla che recava la sigla di uno studio notarile. «Notaio Aldo Lazzarini». Quel nome non le diceva niente.
Sul retro c’era scritto: Bottega Calvani. Incuriosita, decise di aprirla, pensando contenesse una convocazione urgente o il sollecito di un cliente che aspettava una consegna. All’interno vi era un elegante cartoncino con impressi in calce il nome dello studio notarile, l’indirizzo e il numero di telefono. Era vergato da una grafia femminile piena di svolazzi.
Gentile signor Calvani, come da accordi intercorsi, il notaio Lazzarini La aspetta alle ore 18 di giovedì 28 dicembre prossimo venturo presso questo studio per redigere il Suo testamento. Le ricordiamo di portare con Sé due testimoni e La preghiamo di confermare l’appuntamento il prima possibile. Cordialità. Silvia Tosi
Olimpia richiuse in fretta la busta e la posò accanto alla cassa. Era turbata da ciò che aveva letto. Sapeva che era normale, a un certo punto della propria vita, andare da un notaio e dettargli le proprie volontà ma non riusciva a stare tranquilla. Anselmo non aveva figli, Davide era il suo unico parente stretto e probabilmente l’antiquario voleva tutelare il suo patrimonio, mettendo nero su bianco che suo nipote avrebbe ereditato tutto. Per una strana coincidenza l’appuntamento dal notaio sarebbe avvenuto dopo la morte della sua amica e lei ora vi leggeva chissà quale presagio. Si diede della sciocca.
Un’ora dopo, Anselmo e Davide ammiravano stupefatti la vetrina e la bottega pulita e risistemata come forse non lo era mai stata. Per la prima volta dopo giorni, Olimpia si sentì soddisfatta.
«Sei stata bravissima!», esclamò Anselmo, dandole un buffetto sulla guancia. «Ti meriti un bel regalo».
L’antiquario andò a prendere un pacchetto e glielo porse chiedendole di aprirlo dopo cena, solo allo scoccare della mezzanotte. Olimpia lo riconobbe subito. Sorrise e tirò fuori da una busta i suoi regali per loro. Aveva comprato una sciarpa nuova ad Anselmo, nella speranza che buttasse via quella che portava di solito, piena di buchi e di un rosso sbiadito dai numerosi lavaggi, e Paranoid dei Black Sabbath per Davide, così almeno avrebbe ascoltato della buona musica.
«Che cosa farai, stasera?», le chiese Anselmo, mentre poggiava il regalo di Olimpia su uno degli scaffali.
«Starò con Diana. I miei genitori hanno invitato a cena la sua famiglia. Peggie avrebbe dovuto essere l’ospite d’onore…». La voce le si incrinò per un attimo. «Voi? Perché non venite a casa mia? Faccio ancora in tempo ad avvisare la mamma».
«Io non posso», mormorò Davide, abbassando gli occhi. «Vado a cena dai genitori di Lisa».
Olimpia non commentò. Non voleva pensare a loro due insieme. Doveva essere una cosa seria se veniva invitato per la cena della Vigilia. Cercò di ignorare la morsa allo stomaco che le impediva di respirare. Dopo la notte passata assieme, Davide si era comportato da perfetto amico, le era stato accanto e l’aveva sempre aiutata quando ne aveva avuto bisogno. Non avevano mai parlato del bacio che erano stati sul punto di darsi prima di essere interrotti da Diana, e avevano entrambi evitato di rimanere da soli, forse per paura di ciò che sarebbe potuto accadere. Olimpia aveva rivissuto infinite volte quel momento ma aveva cercato al tempo stesso di ridimensionarlo. In fondo non era successo niente.
«Tu non vuoi venire, Anselmo?», chiese, voltando le spalle a Davide.
«Ti ringrazio, preferisco restare a casa. I giorni passati mi hanno sfiancato».
«Ah, quasi dimenticavo», esclamò, avvicinandosi al banco per prendere la busta dello studio notarile. «Credo che un fattorino abbia lasciato questa per te, stamattina».
Lo vide trasalire mentre afferrava la lettera. Olimpia fece finta di niente e tutti e tre s’immersero nel lavoro.
«Ecco il mio regalo per te, Olimpia», le disse Diana, porgendole un pacchetto. «Volevo dartelo prima di scendere giù a cena».
Olimpia baciò l’amica sulla guancia e le consegnò anche lei il suo regalo. «E questo è il mio, aprilo ora».
Erano le sei del pomeriggio quando Diana e i suoi genitori arrivarono a casa Cattenei. Dal piano terra giungevano le voci e il trambusto degli ospiti e dei domestici che si affannavano a sistemare il salone per la cena. Letizia aveva dato disposizioni perché tutto si svolgesse nel migliore dei modi possibili. La bottega aveva chiuso poco prima dell’ora di pranzo e Olimpia aveva avuto tutto il tempo per dare una mano in casa con le decorazioni. «Peggie avrebbe molto apprezzato il nostro albero», si era lasciata sfuggire sua madre, mentre ammirava le allegre luci che lo illuminavano. Olimpia le aveva stretto la mano e poi era salita in camera sua a vestirsi. Per la cena della Vigilia, avrebbe indossato un abito nero di lana.
«Tu sei matta!», esclamò, dopo aver scartato il regalo di Diana: un completo intimo di pizzo nero. Scuotendo il capo, prese il reggiseno e lo sollevò per osservarlo meglio.
«Me l’ha consigliato Zoe».
«Non avevo dubbi».
«Be’, anche il tuo non è da meno. Un rossetto rosso di Chanel?»
«Sempre Zoe», ammise Olimpia. Scoppiarono a ridere. «Vado in bagno a provare questo completino super sensuale… Se avessi un fidanzato, approverebbe di certo».
«Te l’ho comprato perché Zoe dice che una donna deve essere sempre a posto con l’intimo, perché non si sa mai…».
«Capirai! La cena della Vigilia di Natale è il momento ideale per indossarlo, allora. E poi ha tutta l’aria di non essere molto comodo».
«Zoe dice che non deve essere comodo».
«Se lo dice lei…».
Dopo qualche minuto, Olimpia riemerse dal bagno, annunciando soddisfatta che le calzava a pennello e promettendo di indossarlo, prima o poi. Accesero lo stereo per ascoltare un po’ di musica. Mancava parecchio alla cena, e nessuna delle due aveva voglia di scendere.
«Cos’è questo?», le chiese Diana, indicando il regalo di Anselmo. Olimpia lo prese e se lo rigirò tra le dita. Quello le sembrava il momento adatto anche se aveva promesso all’antiquario di aprirlo dopo la mezzanotte. Si sedette sul letto e cominciò a scartare l’involto.
«Un libro? Che fantasia!», sbuffò Diana, sedendosi accanto a lei.
«Oh mio Dio…», mormorò Olimpia, alzandosi dal letto per andare alla scrivania. Accese la luce da tavolo per osservare meglio il volumetto.
«Qualcosa non va?».
Olimpia non rispose. Si lasciò cadere sulla sedia mentre continuava a fissare il libro. Lo posò sulla scrivania e guardò Diana.
«Devo assentarmi per un paio d’ore», disse infine.
«Cosa? Ma sei matta? È la Vigilia e abbiamo una cena con i nostri genitori! Vuoi che tua madre ti ammazzi proprio la notte di Natale?».
Olimpia non l’ascoltava più, si era già infilata il Montgomery. «Sono appena le sei, ho tutto il tempo del mondo. Torno al massimo fra un paio d’ore. Farò in tempo per la cena, promesso. Mamma ha detto che prima delle nove non ci si siede a tavola, quindi sta’ tranquilla», le disse dandole un bacio sulla guancia.
«Non fare stupidaggini… almeno avvisa tua madre», protestò Diana, sempre più confusa.
«Sì, sì, le dico che devo andare un attimo in bottega perché ho dimenticato… boh, che posso aver dimenticato?»
«La testa, che altro puoi aver dimenticato? Sei matta da legare».
Capitolo 6
Olimpia strinse al petto il libro che le aveva regalato Anselmo e cominciò a correre per non sentire il freddo che le penetrava fin dentro le ossa. Non aveva avuto il tempo di cambiarsi. Tirava un vento gelido e le calli erano quasi deserte. Di tanto in tanto si vedeva qualche passante camminare in fretta, carico di pacchi. La città si stava preparando alla cena della Vigilia, i negozi erano serrati e il brusio era cessato. Le finestre delle case erano illuminate e il riflesso delle decorazioni natalizie creava uno strano gioco di luci e ombre sui muri.
Come previsto, non c’era nessuno nella bottega. Olimpia entrò, chiuse a chiave la porta. Da fuori arrivava la fievole illuminazione della strada ma le era sufficiente per andare direttamente alla cassa e prendere il registro. Si diresse nel retrobottega e accese la sola luce della scrivania. Rabbrividì. Faceva freddissimo. Azionò la stufetta elettrica accanto al divano e il calore arrivò quasi immediatamente. Poi si sedette e cominciò a sfogliare il registro. Anselmo annotava tutti gli acquisti e le vendite lì sopra e anche lei lo aveva spesso aiutato a farlo. Tra quelle pagine doveva esserci una traccia anche minima di ciò che cercava. Non era possibile, infatti, che l’antiquario avesse comprato un volume tanto prezioso senza annotarlo. Olimpia scorse velocemente le ultime pagine ma non trovò niente. Ricominciò dall’inizio. Il 3 gennaio 1979 era la prima data riportata sul registro. Cominciò a leggere con attenzione ogni singola riga, ma invano.
«Ragiona, Olimpia», si disse, mentre si guardava intorno. La bottega era avvolta nella penombra e il silenzio era interrotto solo dal ticchettio degli orologi antichi appesi alle pareti all’ingresso del negozio, lì dove Anselmo esponeva gli oggetti e i mobili antichi. Da poco aveva terminato il lavoro di restauro di un orologio a pendolo, un esemplare meraviglioso in stile Liberty che però emetteva un suono tremendo. Come se l’avesse risvegliato dal letargo, la pendola batté la mezz’ora. Era lì da così tanto e non aveva concluso niente? Decise di dare un’occhiata anche al registro del 1978. Aprì l’armadio in cui si trovavano i faldoni della contabilità e delle pratiche burocratiche e sfilò il registro dell’anno precedente. Passarono altri venti minuti senza che riuscisse a cavare un ragno dal buco.
Prese il libro che le aveva regalato Anselmo, s’infilò i guanti da lavoro e cominciò a sfogliarlo. Non capiva come mai l’antiquario le avesse fatto un regalo così prezioso, senza che vi fosse alcuna traccia nei registri della bottega. E se si fosse trattato di una copia anastatica? Impossibile, era chiaramente autentico. Il guaio era che se il libro era autentico doveva valere una fortuna. Possibile che Anselmo glielo avesse regalato senza rendersi conto del suo valore? No, non un antiquario esperto e avveduto come lui.
«Terze Rime di Veronica Franco al Serenissimo Signor Duca di Mantova et di Monferrato, non ci sono né il luogo, né il nome dello stampatore ma solo l’anno di edizione», mormorò leggendo il frontespizio. Veronica Franco era una famosa cortigiana veneziana, vissuta nel Cinquecento. Anselmo nutriva una vera passione per lei e più volte le aveva parlato delle sue rime, degne di essere annoverate tra le migliori mai scritte, le diceva. I suoi versi erano stati messi all’Indice, soprattutto quelli in cui non faceva mistero di quanto le piacesse andare a letto con alcuni dei suoi illustri clienti. Olimpia girò qualche pagina e vi trovò la dedica a Guglielmo Gonzaga duca di Mantova, sotto forma di lettera, datata Venezia, 15 novembre 1575.
Si sforzò di ricordare ciò che Anselmo le aveva detto riguardo alle edizioni a stampa di quelle rime. Ricordava che la raccolta delle Terze Rime conteneva sette capitoli di un anonimo poeta veneziano, amante di Veronica, di cui non si saprebbe nulla se non si fossero trovate delle stampe rarissime, nelle quali era riportato il nome di Marco Venier, gentiluomo veneziano. Uno si trovava nella libreria di casa del quartultimo doge di Venezia, l’erudito e scrittore Marco Foscarini. Ora, come faceva Anselmo ad avere uno di questi rarissimi esemplari con il nome di Marco Venier, per di più datato 1752? Dove lo aveva trovato? E soprattutto, come mai un simile e preziosissimo libro era nelle sue mani? Anzi, peggio, le era stato regalato. Era suo, non di una biblioteca, non di una bottega antiquaria o di una casa d’aste, ma suo.
Per un attimo valutò se fosse il caso di andare da Anselmo per chiedergli spiegazioni quando il pendolo dell’orologio batté le sette. Era inutile star lì a cercare risposte che evidentemente non erano annotate nei registri della bottega. L’indomani mattina sarebbe andata a casa di Anselmo per chiedergli spiegazioni.
Andò a sedersi alla scrivania, indecisa sul da farsi. Senza rendersene conto si perse nella lettura della schermaglia amorosa tra Marco e Veronica. Si meravigliò nel leggere versi tanto potenti e sinceri. Si amavano davvero, quei due. Lei non solo non gli nascondeva mai la sua professione di prostituta, ma gli parlava con sincerità della voglia di farlo godere e lui le rispondeva con altrettanta passione. Più andava avanti e meno riusciva a staccare gli occhi da quei versi pieni di ardore.
E sarà di piacervi il mio diletto…
Voglio veder il vostro amor in fatto…
«Che spudorata!», esclamò mentre voltava pagina per leggere un altro sonetto. Le piaceva quella donna coraggiosa che sfidava tutto e tutti pur di rivendicare il suo diritto di amare, di ricevere e dare piacere tra le lenzuola. Anselmo le aveva detto che Veronica era persino stata accusata di stregoneria ma che si era egregiamente difesa e con le sole armi della retorica davanti ai severi giudici del Tribunale dell’Inquisizione. La immaginò mentre faceva la sua arringa. Lo spirito indomito non le mancava di certo, a giudicare da ciò che scriveva. Era stata l’amante di grandi intellettuali, artisti e persino di un re. Sul frontespizio del libro che aveva ricevuto in dono, c’era la copia di un dipinto eseguito dal Tintoretto che la ritraeva di profilo e a seno scoperto. Era di una bellezza imbarazzante: bionda, dai lineamenti perfetti e con un corpo da dea, come scriveva Marco Venier.
E pur chiamando di mia donna il nome,
Vera, unica al mondo eccelsa Dea
E lei gli rispondeva, con tanta passione, che gli avrebbe fatto dimenticare tutti gli affanni tra le lenzuola, che lo avrebbe adorato come un dio, a letto. Gli diceva che era bello e intelligente come Apollo.
Subito giunta a la bramata stanza,
m’inchinerò con le ginocchia in terra
al mio Apollo in scientia, et in sembianza
e da lui vinta in amorosa guerra…
Ben vi ristorerò de le passate
noie, Signor, per quanto è poter mio,
giungendo a voi piacer, a me bontate…
Che donna! Quanto avrebbe voluto essere così temeraria in amore. Le sfuggì un sorriso quando pensò a come avrebbe reagito Davide se gli avesse detto parole anche solo lontanamente simili. Sospirò, era ora di andar via. Avrebbe finito di leggere il canzoniere a casa sua. Erano già le sette passate.
Olimpia trasalì sentendo un rumore alle sue spalle. Qualcuno stava armeggiando con la porta d’ingresso della bottega. Le sembrava impossibile, eppure avrebbe giurato di aver sentito uno scricchiolio provenire proprio da lì. Istintivamente spense la luce della scrivania e attese per qualche istante in silenzio e al buio.
Un altro rumore secco, seguito da altri più sommessi ma costanti. Rabbrividì. Qualcuno stava per entrare nella bottega. Davide era a casa di Lisa, Anselmo a casa sua; chi altri poteva avere le chiavi del negozio? Nessuno. “Oddio… se fossero dei ladri?”. Si nascose nell’ombra, cercando di non fiatare. Vide distintamente in controluce qualcuno armeggiare con la serratura. Non appena vide la sagoma, Olimpia si nascose dietro la porta. Chiuse gli occhi e trattenne il respiro, portandosi una mano sulla bocca per non urlare. Dopo qualche secondo lo sconosciuto entrò nel fascio di raggi lunari che illuminavano fiocamente la stanza. Davide? Possibile che fosse proprio lui? Che ci faceva lì a quell’ora e perché non aveva acceso le luci?
Olimpia aderì alla parete accanto a uno degli scaffali, che le avrebbe fornito un nascondiglio sicuro, se lui non avesse deciso di accendere la luce. Deglutì e cominciò a sudare. Se l’avesse trovata lì le sarebbe servita una buona scusa per giustificare la sua presenza, non poteva dirgli la verità. Davide aveva acceso una torcia elettrica e stava esaminando il retrobottega, spostando il fascio di luce per tutta la stanza. Le si avvicinò di qualche passo e a Olimpia mancò per un attimo il respiro. La torcia elettrica si era posata sul suo Montgomery, abbandonato sul divano, e sulla stufa elettrica, ancora accesa.
«Ma che diavolo…?», lo sentì imprecare.
Uscì dal suo nascondiglio nel momento in cui le stava puntando il fascio di luce in viso.
«Ok, ok, sono io, puoi abbassare la torcia? Non vedo niente», esclamò Olimpia, coprendosi il viso con un braccio.
Capitolo 7
«Vuoi farmi prendere un colpo? Che ci fai qui?», le chiese Davide, senza aspettare una risposta. Aveva premuto l’interruttore, anche se continuava a reggere la torcia elettrica, brandendola con fare minaccioso. «La signora di fronte ha telefonato a casa di mio zio dicendo di aver visto una luce accesa in bottega e sapeva che noi tre non c’eravamo. Così zio mi ha telefonato e io sono corso qui. Sei fortunata che non abbia chiamato i carabinieri, ma solo perché ho pensato di aver lasciato io le luci accese. Ti rendi conto, vero, che se non ti avessi riconosciuto avrei potuto anche farti male? Perché sei qui?».
«Avevo dimenticato una cosa», si difese Olimpia. Quell’impicciona della dirimpettaia, mai una volta che badasse ai fatti suoi. Non aveva un cenone da preparare, come tutte le persone normali?
«Che cosa avevi dimenticato? Sentiamo, sono curioso».
Olimpia non aveva intenzione di farsi intimidire, né gli avrebbe dato la soddisfazione di averla colta in flagrante. Dopotutto non aveva fatto niente di male. Davide non era tenuto a saperlo né doveva assumere con lei quel tono inquisitorio.
«Non sono affari che ti riguardano», rispose. Si diresse verso la scrivania per prendere il suo libro e andare via al più presto. Davide la trattenne per un braccio.
«Dove credi di andare? Non esci di qui se non mi dici che sei venuta a fare».
«Non sono tenuta a dirti un bel niente». Olimpia si divincolò e afferrò il libro. Lo sguardo di Davide cadde sulle sue mani.
«Lo avevi con te quando sei andata via. Non sei venuta a prenderlo», mormorò sovrappensiero. Sorrise scuotendo il capo. «Ho capito».
«Non hai capito un bel niente, invece».
«Ah no? Uhm, vediamo… provo a indovinare? Volevi verificare la provenienza del libro. Ti sei incuriosita e sei corsa qui perché sai che mio zio annota tutti i suoi acquisti. Sbaglio?». Il tono era canzonatorio. Olimpia si sentiva come il bambino sorpreso con le mani nella marmellata. Arrossì ma non rispose.
«Bastava aspettare qualche ora e chiedere direttamente a lui, invece di piombare qui a fare l’investigatrice, rischiando di rovinare la mia cena…».
«Per tua informazione, ho anch’io una cena, a casa, e mi stai facendo arrivare in ritardo», ribatté, seccata. Erano uno di fronte all’altro e si guardavano entrambi con aria di sfida, come due avversari.
«Rispondi alla mia domanda», le disse con tono perentorio.
«A quale delle mille domande che mi hai fatto? Sono per caso in tribunale? Mi sembri l’inquisitore Torquemada, stasera».
«Fa’ poco la spiritosa».
«Non penso proprio».
«Invece sì. Ero a casa di Lisa e i suoi genitori aspettano me per iniziare a mangiare. Li ho lasciati in tutta fretta per venire qui».
«Oh, quanto mi dispiace!», esclamò, con un sorrisetto di scherno.
«Hai rovinato il mio cenone della Vigilia».
Olimpia stava per lasciarsi sfuggire un “ben ti sta!”, ma si fermò un secondo prima. Non le importava niente della cena rovinata, lei aveva tutto il diritto di sapere da dove provenisse quel volume antico. Anselmo era l’onestà in persona e dopo gli anni di lavoro al suo fianco, Olimpia sapeva quanto amore e quanta dedizione l’antiquario ci mettesse nel suo lavoro. Tuttavia, gli avrebbe chiesto spiegazioni quanto prima. Non poteva esimersi dal domandargli dove avesse trovato quella preziosa raccolta di rime della Franco.
«Olimpia, ci sei?», la voce di Davide la distrasse dai suoi pensieri.
«Che c’è?», borbottò, decisa a non lasciarsi sopraffare. Davide si era rabbuiato e i suoi occhi, ridotti a due fessure, erano puntati sul suo viso. L’atmosfera del retrobottega sembrò cambiare, l’aria farsi carica di elettricità. In quel momento Olimpia si rese conto che lei e Davide non erano più rimasti soli da giorni, dalla notte passata insieme, quando era morta Peggie. Da quando si erano trovati uno di fronte all’altro. Si era chiesta milioni di volte cosa sarebbe successo se Diana non li avesse interrotti. Ogni volta che ci pensava, però, si affollavano nella sua mente scenari inverosimili.
Davide posò la torcia sul tavolino sulla scrivania e il fascio di luce si proiettò sulla stufa elettrica, ancora accesa. Mosse un passo verso di lei che, istintivamente, indietreggiò. La sua espressione la fece rabbrividire.
«Che c’è?». Olimpia ripeté la domanda con un filo di voce. Aveva la gola secca e faceva fatica a respirare. Davide non le rispose ma continuò ad avanzare verso di lei, fino a cingerle la vita con un braccio, per attirarla a sé. Olimpia sentì i battiti del suo cuore accelerare. I loro visi erano così vicini che avvertiva il calore del suo respiro. Non sapeva che cosa dire e forse non voleva dire nulla. Non ne ebbe nemmeno il tempo, perché Davide posò anche l’altra mano sui suoi fianchi e la sollevò leggermente da terra per poi affondare il viso nei suoi capelli. Olimpia era paralizzata e confusa. Aveva la pelle d’oca e non riusciva a reagire anche perché non sapeva come comportarsi. Avrebbe dovuto respingerlo o lasciarlo fare? Davide rialzò il capo e la guardò per un istante prima di posare le sue labbra su quelle di Olimpia. La baciò con passione, come se volesse strapparle l’anima, mentre esplorava famelico ogni centimetro della sua bocca. Un bacio a cui lei non seppe resistere. Affondò le mani nei suoi capelli, ricambiando il bacio e lasciandosi andare, senza più riserve.
Capitolo 8
Davide riprese fiato e le accarezzò il viso, posando piccoli baci intorno alla sua bocca, prima di chiudere gli occhi e appoggiare la fronte su quella di Olimpia.
«Vattene, per favore…», mormorò, senza tuttavia allontanarsi.
Olimpia rimase immobile. Sentiva crescere dentro di sé una sensazione mai provata prima: un forte, prepotente desiderio di appartenere a qualcuno anima e corpo. Non si trattava di semplice attrazione fisica, era molto di più. Era un bisogno atavico, quasi doloroso, che la faceva tremare come una foglia. Davide l’abbracciò e la strinse forte, affondando di nuovo la testa tra i suoi capelli.
«Va’ via, Olimpia», ripeté con meno convinzione. Alzò lo sguardo verso di lei che lo stava osservando con gli occhi lucidi. «Scusami», sussurrò appena; il viso era contratto in una smorfia di dolore.
«Davide…». Olimpia capì che la desiderava e che stava lottando contro se stesso mentre lei non faceva niente per aiutarlo, perché aveva la stessa identica fame.
«Devi andare a casa tua».
«Smettila di dirmi quello che devo fare».
«Olimpia, stai rendendo tutto più faticoso», ammise, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi e allontanandosi da lei di qualche passo.
«Che cosa c’è in me che non va?», gli chiese, guardandolo negli occhi.
«Sei perfetta, Olimpia, non hai niente che non va… proprio per questo io non posso…».
«Non puoi fare cosa? Guardami! Non sono più una bambina, quante volte te lo devo ripetere? Forse non ti piaccio abbastanza o forse…».
«Non posso… sei una creatura così bella, tenace e volitiva e io mi sento un mostro a desiderarti così intensamente. Quando ci siamo incontrati in quel maledetto locale alla Giudecca mi sono dovuto controllare, capisci? Non ti rendi conto di quanto sei sensuale quando ti muovi, quando parli e mi guardi: ma questa è la cosa che mi fa impazzire di te».
Olimpia sbatté più volte le palpebre prima di sentire delle lacrime liberatorie scendere lungo le sue gote. Che senso avevano le parole di Davide, se poi rinnegava il sentimento che provava? Come se le avesse letto nel pensiero, la strinse in un abbraccio e le sussurrò: «Sei ancora troppo piccola».
«Ho diciotto anni», protestò, nascondendo il viso sul suo petto, lasciando che lui le accarezzasse i capelli. Olimpia alzò il capo e gli diede un timido bacio sulle labbra. Si baciarono con dolcezza, assaporandosi con calma, come se avessero a disposizione tutto il tempo del mondo, fino a quando le loro labbra non si cercarono con più urgenza.
«Quanto sei bella…», le sussurrò con voce roca, baciandole il collo e arrivando fino alla spalla.
Olimpia posò le mani sul suo petto per poi scendere lungo il maglione e toglierglielo. Gli prese la mano e lo trascinò verso il divano. Voleva di più, non riusciva a smettere di baciarlo. Non la sfiorò mai il pensiero che non fosse la cosa giusta da fare. Lo amava e niente le avrebbe fatto cambiare idea.
«No…». Davide chiuse per un istante gli occhi mentre lei gli sbottonava la camicia. Le fermò la mano e l’attirò a sé. Fece scivolare lentamente le mani sui suoi fianchi, afferrò l’orlo del vestito per sfilarglielo. Lei si sdraiò sul divano e lasciò che le dita di Davide esplorassero ogni centimetro del suo corpo. Quando Davide le sfilò via le mutandine e lei rimase completamente nuda, trattenne il respiro e la tenne stretta per qualche istante.
«Dio, quanto sei bella…», mormorò. Olimpia lo aiutò a togliersi i jeans e quando i loro corpi nudi si sfiorarono, affondò le dita nei suoi fianchi.
Davide si alzò appena e cominciò ad accarezzarle con delicatezza l’interno delle cosce, mentre le baciava i seni. Olimpia si sentì attraversare da lunghi brividi. Erano sensazioni sconosciute che la stordivano e la eccitavano al tempo stesso. Davide le sollevò i fianchi per accarezzarla con più intensità, arrivando fino alla sua parte più intima. Olimpia si inarcò, scossa da spasmi di piacere intenso. Capì che la stava preparando ad accoglierlo dentro di sé.
Chiuse gli occhi, sentendosi vulnerabile. Non esisteva nient’altro che lui. Il mondo reale era un ricordo vago, che si affrettò a spazzare via. Davide le divaricò leggermente le gambe e Olimpia riaprì gli occhi guardandolo, terrorizzata. Era la sua prima volta e lui lo sapeva. Le labbra di Davide si schiusero in un sorriso rassicurante, come se le stesse dicendo che doveva stare tranquilla. Non le avrebbe mai fatto del male. I loro baci furono dolci e intensi mentre lui la penetrava lentamente.
Olimpia trattenne il respiro, avvertendo una fitta di dolore. Le sfuggì un sospiro e i muscoli dell’addome si contrassero.
«Fa male», riuscì a dire. Aveva il fiato corto e avvertiva un forte bruciore tra le cosce.
Davide si fermò all’istante, aspettando con pazienza che lei si abituasse e che il dolore si attenuasse fino a scomparire.
«Vuoi che mi fermi?», le chiese, guardandola in viso.
«No», mormorò lei, abbracciandolo. Rimasero in quella posizione per qualche istante, prima che Olimpia ricominciasse a baciarlo sul collo e ad allentare i muscoli delle gambe, lasciando che lui la penetrasse completamente.
Davide cominciò a muoversi piano dentro di lei, per darle il tempo di rilassarsi e di provare piacere. Le accarezzò il viso e la guardò per accertarsi che il dolore fosse passato. Olimpia gli sorrise e lo attirò a sé. L’indolenzimento cedeva lentamente il passo al piacere e alla sensazione che di essere un tutt’uno con lui.
Chiuse gli occhi, i tratti del suo viso ora erano distesi e il suo corpo rispondeva sempre più agli stimoli a mano a mano che Davide accelerava il ritmo. Le strinse la mano e le baciò il viso mormorando più volte il suo nome. Sembrava rapito dal modo naturale in cui il corpo di Olimpia si fondeva al suo con naturalezza, come se fossero nati per amarsi.
Rimasero in silenzio per qualche minuto, tenendosi stretti. Avevano usato la coperta di lana per riscaldarsi. Davide le accarezzava il braccio che lei aveva mollemente posato sul suo petto. I loro respiri erano tornati regolari ma erano ancora sudati e i loro corpi profumavano di peccato. Un pensiero che fece sorridere Olimpia. Sulla coscia aveva intravisto una traccia di sangue. Zoe le aveva detto che poteva succedere di sanguinare, ma l’aveva rassicurata. Non si soffriva poi così tanto.
«A che pensi?», le chiese Davide, dandole un bacio sulla fronte.
«A niente, sono felice… e prima che tu me lo chieda: no, non mi sono pentita». Risero entrambi.
«Prima che me lo chieda anche tu: non sono pentito nemmeno io», mormorò accarezzandole i capelli. Olimpia gli appariva bella come una dea, con i lunghi capelli che le ricadevano sulle spalle. Era come una visione, lì su di lui, nuda e fiera come non l’aveva mai vista. Il suo pensiero andò al giorno in cui l’aveva conosciuta, proprio nella bottega di suo zio. Gli era piaciuta da subito. Era diversa dalle altre ragazzine della sua età e non solo perché leggeva tanto. Era speciale perché riusciva sempre a stupire chiunque parlasse con lei, era imprevedibile.
«Ti accompagno a casa», le disse, cercando di distogliere lo sguardo dal suo seno. Era ipnotizzato da quel corpo al tempo stesso candido e peccaminoso. Non gli era mai capitato di desiderare così tanto una donna da dimenticare tutto il resto. Davide avrebbe voluto fare ancora una volta l’amore con lei, ma erano le otto passate. Doveva riportarla a casa.
Capitolo 9
Venezia, febbraio 1980
Il Caffè Florian era gremito di gente che chiacchierava e chiedeva ad alta voce la sua porzione di dolci per accompagnare la cioccolata calda, come da tradizione. Erano le sei del pomeriggio ma erano già calate le tenebre su una Venezia vestita a festa per il martedì grasso, la notte più importante e caotica dei dieci giorni di festeggiamenti. Le maschere più stravaganti affollavano piazza San Marco, restituendola magicamente ai fasti del Settecento. Una pioggerellina sottile, quasi impalpabile, accompagnava la folla variopinta che si radunava nelle piazze al suono della musica, che giungeva da ogni dove, quasi per incanto.
Olimpia era abituata a quel caos ma ogni volta le sembrava di vivere in un sogno. Lei, Davide, Zoe, Valerio e Diana si muovevano a fatica tra la gente che li strattonava. Avevano già fatto la tradizionale sosta al Florian e, sazi di cioccolata, si stavano incamminando verso i vaporetti. Ne stava salpando uno, proprio in quel momento.
Corsero come forsennati per salirci. Li avrebbe portati a Palazzo Pisani Moretta per il gran ballo in maschera. Avevano avuto i biglietti grazie alla solerzia del padre di Diana, che aveva fatto di tutto per accontentarli. Il gran ballo al Pisani Moretta era un evento esclusivo, ma almeno per una volta ne avrebbero goduto anche loro. Diana aveva dovuto promettere di tutto a suo padre per riuscire a convincerlo e alla fine l’aveva spuntata. Davide e Olimpia erano mascherati da Florindo e Rosaura: gli unici costumi che erano riusciti a trovare all’ultimo momento. Olimpia aveva riso come non mai quando aveva visto Davide con il vestito settecentesco color carta da zucchero e la parrucca bianca con i boccoli laterali e il codino sulla nuca, retto da un nastro di velluto nero.
«Smettila!», aveva esclamato lui. «Non è giusto… tu sei bella pure con uno straccio addosso».
«Non è uno straccio, è un vestito da nobildonna veneziana, questo», aveva ribattuto, sistemandosi anche lei la parrucca.
Fino all’ultimo momento erano stati indecisi sul da farsi. Avrebbero voluto passare la notte insieme ma le insistenze di Diana avevano avuto la meglio.
Il vaporetto arrivò in pochi minuti nei pressi di Palazzo Pisani Moretta. Solo gli invitati avevano il privilegio di approdare con il loro scafo privato davanti al palazzo. I “comuni mortali” – aveva detto loro una donna vestita da farfalla – dovevano scendere prima del palazzo e accedere al suo cortile interno dalla strada.
«Una volta mia sorella è stata invitata ai piani alti», aveva poi aggiunto la donna. «Uno sfavillio senza fine! Affreschi del Tiepolo, lampadari di Murano, manicaretti di ogni genere, orchestra di minuetti… un sogno!». Davide e Olimpia si limitarono ad annuire. Nessuno dei due ebbe il coraggio di dirle che loro avevano in tasca l’invito riservato. La signora si disperse nella folla dopo averli salutati e Davide, Olimpia, Diana, Zoe e Valerio seguirono il flusso di gente che si stava dirigendo verso l’edificio, da cui giungeva l’eco di un concerto per archi. Il palazzo rinascimentale, a poca distanza dal Ponte di Rialto e da Ca’ Foscari, era illuminato da luci variopinte. Dalle caratteristiche finestre gotiche si affacciavano uomini e donne con costumi stravaganti. Si raccontava che lo zar Paolo di Russia e Giuseppina Bonaparte fossero stati tra i più illustri visitatori ad aver varcato la soglia del Pisani Moretta.
L’androne era un turbinio di colori e danze frenetiche. Le maschere urlavano, bevevano e danzavano in ogni angolo. La comitiva si diresse verso lo scalone per salire al secondo piano. Persone avvolte in domini neri e con i visi coperti da maschere di tutte le fogge e di tutti i colori scendevano e salivano ridendo. Sembrava di essere sul set di un film di fantascienza. Nel vederli passare Olimpia avvertì la sgradevole sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, perché dietro le maschere poteva esserci chiunque: uomini o donne, vecchi o giovani, malintenzionati o semplici gaudenti. Scacciò i cattivi pensieri, era lì con Davide e voleva divertirsi.
Si udì un boato tra la folla festante, cui seguirono una serie di allegri e rumorosi scoppi: erano cominciati i fuochi d’artificio che annunciavano a tutta la popolazione di Venezia e ai turisti la fine del carnevale. Davanti a Palazzo Pisani Moretta e lungo tutto il Canal Grande era un trionfo di luci e colori. A tratti i fuochi illuminavano la sala in cui si trovavano i ragazzi. I bagliori si rifrangevano sul vetro dei lampadari di Murano per creare allegri giochi di luce sulle pareti affrescate e sulle tende di broccato. Affacciandosi, videro una fiumana di gente mascherata che si affrettava a raggiungere Riva degli Schiavoni, dove i fuochi erano più imponenti e spettacolari.
«Andiamo a casa mia?», le sussurrò Davide, circondandole la vita e attirandola a sé. Olimpia non ebbe il tempo di rispondere, perché lui le aveva già afferrato la mano per trascinarla fuori dal palazzo, senza nemmeno aver salutato i suoi amici. Davide avanzava a fatica tra la folla festante e si fermava di tanto in tanto per dare un bacio a Olimpia. Lei rideva e schivava i passanti che le ostruivano il passaggio. Era felice e il resto non aveva importanza.
Lei e Davide stavano insieme da quasi due mesi, anche se sua madre disapprovava quella relazione. Le aveva detto più volte che lui l’avrebbe resa infelice, ma quando Olimpia le chiedeva spiegazioni, Letizia si chiudeva in un ostinato mutismo. Se fosse stata solo una questione di classe sociale, sua madre non avrebbe avuto alcun timore a dirglielo. Era evidente che qualcos’altro la preoccupava. Quando Davide passava a prenderla a casa, Letizia faceva in modo di non trovarsi mai da sola con lui. Olimpia non solo lo aveva notato ma aveva capito che la madre evitava un confronto diretto con il suo ragazzo per non litigare con lei. Il motivo della sua disapprovazione non poteva essere nemmeno la differenza d’età, giacché lei stessa aveva sposato un uomo più grande di nove anni. Se Peggie fosse stata ancora viva, avrebbe forse saputo consigliare entrambe, dar loro una mano a capirsi.
«E poi non era fidanzato?», le aveva chiesto un giorno, mentre facevano colazione.
Olimpia non aveva nemmeno alzato lo sguardo, aveva continuato a fissare la sua tazza e aveva mormorato: «Fino a poco tempo fa usciva con una ragazza, ma se poi l’ha lasciata, evidentemente voleva stare con me, mamma». E con quella risposta secca aveva chiuso l’argomento. Si era alzata, aveva preso la borsa ed era andata a scuola.
Arrivarono a casa di Davide con il fiatone. Salirono di corsa le scale che portavano al secondo piano, dove si trovava il suo appartamento, facendo attenzione a non inciampare nei loro costumi. Da fuori arrivava l’assordante baccano dei fuochi d’artificio misto alle grida della gente che festeggiava il carnevale in ogni angolo di Venezia. Davanti alla porta d’ingresso Davide cominciò a baciarla: «Non resisto, ti voglio… anche qui, subito», le sussurrò, mordendole l’orecchio.
«Scemo, così i vicini ci denunceranno per atti osceni in luogo pubblico», ridacchiò Olimpia, scostandosi per fargli aprire la porta. Davide non accese le luci, erano sufficienti i fuochi a illuminare il piccolo bilocale in cui viveva e di cui andava fiero. Prese Olimpia per mano, la trascinò dentro casa e richiuse la porta a chiave. Le sfilò la parrucca e si tolse anche la sua.
«Non vedevo l’ora di togliere questo topo morto dalla testa!», esclamò. La spinse leggermente contro il muro e le cinse la vita: «E se ti trasferissi qui da me, dopo la maturità?», mormorò cominciando a baciarla sul collo.
Olimpia spalancò gli occhi per la sorpresa. Non riuscì a rispondere, era del tutto frastornata da quella richiesta. Il cuore le batteva furioso. Gli buttò le braccia al collo e lo baciò con trasporto, per fargli capire con il corpo ciò che a parole non avrebbe saputo esprimere.
Davide le spostò una ciocca di capelli.
«È un sì?», le domandò.
Olimpia si allontanò di qualche passo, e lo guardò. Allora diceva sul serio? Non aveva parlato solo sull’impulso del momento. Lei però aveva bisogno di tempo per capire se quella era la cosa giusta da fare. Nei due mesi precedenti avevano fatto l’amore ovunque, si erano cercati come un assetato cerca qualcosa da bere. Sembrava che i loro corpi non riuscissero a fare a meno l’uno dell’altro. Olimpia aveva imparato a provare e a dare piacere. Una sensazione che la faceva sentire una vera donna. Avevano letto assieme i sonetti di Veronica Franco e Marco Venier e talvolta avevano anche provato a fare l’amore come tanto tempo prima lo avevano fatto i due amanti. Tutto era cominciato grazie a loro, in un certo senso. Davide la chiamava spesso Dea – come Marco si rivolgeva a Veronica – e Olimpia, scherzando, lo aveva apostrofato Apollo. Si divertivano a giocare mentre facevano l’amore, il letto era diventato il luogo in cui si amavano e si confidavano.
Davide le accarezzò il viso, in attesa di una risposta che Olimpia però non aveva ancora. Nel suo sguardo lesse l’ansia per ciò che gli avrebbe detto. Le fu chiaro in un attimo che nulla aveva più importanza.
«Sì». Sentì la propria voce, come in un sogno.
Davide sorrise, la strinse a sé e le diede un bacio che le fece tremare le ginocchia. Lo desiderava con urgenza, voleva fare subito l’amore con lui.
Si tolsero i costumi aiutandosi a vicenda e quando finalmente rimasero nudi, uno di fronte all’altra, Davide le circondò la vita e l’attrasse a sé. E la passione li travolse. Fecero l’amore con un’intensità tale da lasciarli senza fiato, come se quella fosse l’ultima volta.
Quando i loro respiri si fecero regolari, Davide la tenne a lungo stretta a sé prima di mormorarle: «Ti amo».
Olimpia lo abbracciò. Quanto aveva desiderato sentirgli pronunciare quelle due semplici parole! «Anch’io», sussurrò. Ora la sua felicità era completa.
Il suo sonno era stato disturbato da incubi e sogni bizzarri. Si era svegliata più volte durante la notte e si era rannicchiata vicino a Davide, che invece dormiva sereno. All’alba finalmente si era sentita sicura, intravedendo la prima luce del giorno filtrare dagli scuri e si era riaddormentata. Poi un suono improvviso e fastidioso l’aveva ridestata. Un campanello o forse un citofono. Si girò svogliata sul fianco e, con la vista ancora annebbiata dal sonno, vide Davide alzarsi. Rimase dov’era, facendo fatica a capire da dove provenisse quel suono insistente. Guardò l’orologio sul comodino e si accorse che erano le dieci passate. Non aveva voglia di alzarsi e tantomeno di tornare a casa.
«Ciao, Lisa». Olimpia riaprì gli occhi, era la voce di Davide, quella. Si mise a sedere sul letto. Si accorse di essere nuda e allungò il braccio fino a raggiungere una felpa di Davide, sulla sedia accanto al letto. Se la infilò per poi rimanere immobile, in attesa di capire che cosa stesse succedendo in soggiorno.
Non riusciva a sentire quasi niente. Davide aveva lasciato la porta della camera da letto socchiusa e le voci arrivavano attenuate, come se stessero parlando piano per non svegliarla. Aveva capito bene? Si trattava di Lisa? Spinta dalla curiosità, Olimpia scostò la coperta e si avvicinò a piedi nudi verso la porta. L’aprì quel tanto che bastava per vedere chi ci fosse in soggiorno. Era proprio Lisa. Era ferma in piedi davanti alla porta d’ingresso, con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fisso su Davide. Sembrava non stesse bene, era molto pallida. Era vestita di nero, come al solito, ma quella mattina appariva più sciatta, pensò Olimpia provando un sentimento strano nei suoi confronti, a cui non sapeva dare un nome.
«Sei sicura?», le stava chiedendo Davide. La voce gli si incrinò leggermente e Olimpia avvertì una fitta allo stomaco. Cominciò a tremare senza sapere perché. Forse per il modo in cui Davide aveva parlato, per lo strano tono di voce che aveva usato, come se si fosse trovato sull’orlo di un precipizio, senza essersene accorto.
Lisa non rispose, limitandosi ad annuire. Continuava a tenere gli occhi fissi su di lui. Olimpia non poteva vedere il volto di Davide, ma avvertì la sua angoscia.
«Com’è possibile? Voglio dire… siamo stati attenti…». Lasciò la frase in sospeso e sospirò portandosi una mano tra i capelli.
«Attenti o meno, ora siamo qui e tu devi prenderti le tue responsabilità. Non l’ho fatto mica da sola, sai?», esclamò Lisa in tono rabbioso. Aveva le lacrime agli occhi.
«Quando… cioè… di quanto sei?»
«Sono entrata nel terzo mese da pochi giorni. Davide, se mi stai chiedendo di abortire, scordatelo».
«Non te lo chiederei mai».
Si girarono entrambi verso Olimpia, che aveva spalancato la porta e li stava guardando, incredula. Incinta? Lisa era incinta? No, non poteva essere vero, non doveva esserlo. Se fosse stato così, tutto sarebbe finito. Conosceva bene Davide. I suoi occhi si posarono prima su di lui, che li abbassò, e poi su Lisa. Lesse la risposta ai suoi interrogativi sul viso di lei. Lisa aspettava un bambino e Davide era il padre.
Capitolo 10
Anselmo si stupì di vederla sulla soglia di casa sua, a quell’ora. Olimpia aveva pianto ed era molto pallida. L’antiquario si mise da parte per farla entrare e le offrì una tazza del tè che aveva appena preparato. Non le disse niente ma aspettò pazientemente che fosse lei a parlare. Aveva capito subito che doveva essere successo qualcosa con Davide. Si era accorto da tempo che quei due si amavano, però aveva fatto finta di niente, non aveva alcuna intenzione di intromettersi. In fondo non credeva che fossero fatti l’uno per l’altra. Provenivano da due mondi troppo distanti per essere felici insieme.
«Sono venuta a dirti che non posso più lavorare da te», esordì Olimpia, asciugandosi le lacrime.
Anselmo sospirò e si andò a sedere di fronte a lei. Non fece commenti e continuò a sorseggiare il suo tè, mantenendo lo sguardo fisso sul suo viso.
Da fuori arrivava il tramestio della città che pian piano si risvegliava dopo i bagordi della notte precedente. Nonostante fossero già le undici del mattino, la Serenissima sembrava ancora avvolta nel sonno e le sue calli erano semideserte, solo qualche netturbino e pochi anziani passavano sotto la finestra dell’appartamento di Anselmo e qualcuno si fermava a chiacchierare. Un timido sole faceva capolino tra le nuvole e illuminava a intermittenza la cucina, posandosi sulle dita di Olimpia che reggevano la tazza di tè fumante. Il suo pensiero andò alla mattina di Natale: quante cose erano cambiate da allora. Era arrivata a casa dell’antiquario con il cuore colmo di gioia e quando lui le aveva detto che la copia delle Terze Rime di Veronica Franco faceva parte della collezione appartenuta a suo padre, Olimpia gli era saltata al collo e gli aveva dato un bacio sulla guancia. «Siamo antiquari da generazioni, ho molti libri simili, madamigella! Diciamo che mi fa piacere se lo tieni tu… potrebbe essere l’inizio di una collezione». E così era stato.
«Devo… ecco, io devo pensare agli esami di maturità». Olimpia ruppe il silenzio, non riuscendo ad alzare lo sguardo.
«Certo, mia cara», le disse lui, dopo qualche istante. Posò la tazza e incrociò le braccia al petto. Un gesto che gli aveva visto compiere milioni di volte quando era nervoso. Le dispiaceva essere la causa del suo malumore ma non aveva altra scelta. Non poteva continuare a lavorare nella sua bottega, fianco a fianco con Davide. Nei suoi pensieri si era già insinuata l’immagine di Lisa che arrivava al negozio, sfoggiando il suo pancione. Davide era suo.
«Posso venirti a trovare, ogni tanto?», chiese, schiarendosi la voce.
«Magari quando non c’è mio nipote?». La domanda di Anselmo le arrivò come uno schiaffo in pieno viso. Trattenne il respiro e deglutì a fatica. Aveva capito tutto. Come poteva pensare che una persona intelligente e sensibile come lui non intuisse cosa fosse successo? Decise di non mortificarlo raccontandogli bugie, perché prima o poi sarebbe venuto a conoscenza della verità: meglio che fosse lei a dirgliela.
«Lisa è incinta».
Anselmo sospirò. Sbatté i palmi sul tavolo e si alzò dalla sedia. Non era più nervoso, adesso, era furibondo e stava facendo un evidente sforzo per contenere la sua rabbia.
«Ascolta, Olimpia», disse, andandosi a sedere accanto a lei. «Sai che non ho mai voluto intromettermi nei vostri affari e che non ho mai espresso giudizi riguardo alla vostra storia. Ora, però, mi sento in dovere di darti un consiglio, prendilo come il suggerimento di un vecchio che ha vissuto tante esperienze anche dolorose, che ti vuol bene e ti parla come a una figlia. Hai una mente brillante, un intuito che ho visto in pochi, rarissimi casi durante gli anni in cui ho esercitato il mio mestiere».
Olimpia gli sorrise. Avrebbe voluto abbracciarlo e piangere sulla sua spalla, sfogando tutta la sua rabbia e il suo dolore, ma rimase ferma, in silenzio. Sentiva che la tensione si stava allontanando per lasciare il posto a una malinconia strisciante che l’avrebbe accompagnata per chissà quanto tempo.
«Tu hai delle risorse che nemmeno immagini di avere», continuò l’antiquario, prendendole la mano. «In questo momento ti sembrerà assurdo che io ti dica di pensare alla tua collezione…».
«Ho solo tre miseri libri», lo corresse Olimpia, sforzandosi di non piangere.
«Dettagli. Diventeranno tantissimi perché sei una delle poche persone che sanno dove e come scovare le rarità. Concentrati su ciò che ti rende felice, studia, approfondisci, diventa l’esperta di libri messi all’Indice. Colleziona le edizioni clandestine di pregio, come il volume delle Terze Rime che ti ho regalato. Ne hai già un altro paio, dedicati alla loro cura e a trovane altri per riempire i tuoi scaffali di autentiche rarità. Io so già che verrà il momento in cui ti chiederanno un parere su questa o quella edizione clandestina, perché sarai diventata la maggiore esperta e la più grande collezionista di libri proibiti dalla Chiesa. Ne sono certo perché hai un vero talento e devi assolutamente coltivarlo. Va’ via da Venezia, torna qui solo per le vacanze. Te lo dice un uomo innamorato della sua città ma che ne conosce i limiti. Devi studiare nelle capitali europee e negli Stati Uniti se vuoi formarti come si deve».
«Credi davvero che io…».
«Non lo credo, lo so», la interruppe Anselmo. «Con mio nipote forse saresti stata bene ma non saresti mai stata felice, lasciatelo dire. Davide è un bravo ragazzo, nonostante tutto, però con lui saresti rimasta a Venezia, nella piccola bottega Calvani. Ora questi discorsi ti fanno senz’altro orrore. Alla tua età è l’amore che muove tutto, però sappi che il discorso dei “due cuori e una capanna” è una grande stupidaggine. Le basi per una relazione duratura sono ben altre, credimi. Se non ti fidi di me, chiedi pure a tua madre, a cui non vuoi mai dar retta. Conoscendola, immagino che più volte ti avrà fatto capire di non essere contenta della tua storia con Davide».
«Io sono innamorata di lui».
«Lo so, ma se sei venuta a casa mia per dirmi che non lavorerai più da me, vuol dire che hai deciso di non lottare».
«Come, scusa?». Olimpia aggrottò le sopracciglia, confusa.
«Hai deciso di lasciarlo. Sai che può benissimo occuparsi di suo figlio, pur continuando a stare con te. Oggi non è più come un tempo. Voi giovani avete fatto un tale baccano perché le cose cambiassero eppure siete più tradizionalisti di noi vecchi. Perché non resti con lui?»
«Non ci riesco. Lei sarà sempre tra di noi, perché è la madre di suo figlio, e io non riesco tollerare una cosa del genere. Non riesco a dividere Davide con un’altra donna, proprio non ci riesco. Forse è un discorso da ragazzina egoista, il mio, ma non ce la faccio, è più forte di me».
«Mentre i libri sono sempre lì, a tua disposizione e sono solo tuoi», commentò Anselmo. «La collezione crescerà e tu sarai la sola e unica padrona del suo destino Hai scelto di rinunciare a tante cose perché nella tua vita, lo sai bene, hanno vinto loro, i tuoi libri. Pensaci e vedrai che ho ragione».
La luce che penetrava nella stanza era appena sufficiente a distinguere le sagome dei mobili e del grande letto a baldacchino. Sua madre era distesa lì, con due grandi cuscini dietro alla nuca. Quando aveva mal di testa, Letizia dava disposizioni al personale di servizio di non disturbarla. Era lì da almeno un paio d’ore quando udì un leggero ticchettio alla porta.
«Entra pure, Olimpia», disse, accendendo l’abat-jour.
«Mi hanno detto che hai la tua solita emicrania, mamma», esordì Olimpia, richiudendo delicatamente la porta dietro di sé. «Sono venuta a vedere come stai».
Letizia sistemò i cuscini dietro la schiena e diede dei colpetti sul letto, invitando la figlia a sedersi accanto a lei.
«Sei pallida e hai pianto». Sua madre le accarezzò la guancia ma non fece altri commenti.
Olimpia cominciò a tremare, le costava una fatica enorme parlare con la madre, ora più che mai, ma si fece forza e disse: «Ho lasciato Davide».
Letizia non si scompose e rimase in silenzio. Nel suo sguardo non c’era alcun rimprovero ma solo la comprensione di una madre che percepisce il dolore di una figlia con il cuore spezzato. Le strinse la mano e aspettò che fosse Olimpia a parlare e a sfogarsi.
«La sua ex ragazza è incinta e…». La voce si incrinò. Non riusciva ad andare avanti. Si appoggiò al petto di sua madre e cominciò a singhiozzare mentre lei le cingeva le spalle in un abbraccio. Non erano quasi mai espansive e affettuose, ma in quel momento Olimpia sapeva che solo lei avrebbe saputo comprendere la sua insopportabile sofferenza.
«Come farai con il lavoro alla bottega Calvani?», le domandò.
«Sono appena passata da Anselmo per dirgli che non posso più andare da lui».
«Hai fatto bene. Sarebbe un’inutile tortura continuare a vederlo», ammise Letizia.
«Mamma, Anselmo mi ha detto che devo studiare per diventare una brava antiquaria».
«Ha ragione, lo penso anch’io».
Olimpia sollevò il capo. Era la prima volta che Letizia le diceva chiaramente che approvava la sua scelta. Non aveva avuto modo di farle vedere di cosa fosse capace, di mostrarle i suoi progressi nell’apprendere le tecniche di valutazione dei manoscritti antichi. Eppure sua madre ne sembrava convinta e forse lo era davvero.
«Io e tuo padre siamo sicuri del tuo talento e vogliamo il meglio per te. Non sei il tipo di persona che non fa nulla, godendosi l’eredità. Potresti campare di rendita, lo sai bene, ma non lo faresti mai perché sei indipendente e vuoi vivere come dici tu. Tempo fa ho chiesto un parere a John, ti ricordi di lui?».
Il professor John Knightly. Olimpia sorrise. Certo che si ricordava di lui, il tipico professore inglese che andava in giro con la bombetta. Era uno storico del Rinascimento veneto e spesso si fermava a pranzo dai suoi genitori, deliziandoli con i racconti delle conferenze che teneva in tutto il mondo. Era un tipo bizzarro ma molto educato, tanto da sembrare, talvolta, un po’ troppo ingessato. Era il tipico gentleman inglese sulla cinquantina: alto, magro, con i capelli fulvi e gli occhi azzurri. Parlava benissimo l’italiano anche se con un fortissimo accento inglese, quando era piccola la faceva tanto ridere, perché le ricordava l’attore Stan Laurel.
«Come potrei dimenticarlo?». Le sfuggì un sorriso.
«Ecco, ci ha telefonato qualche giorno fa, per annunciarci che sarebbe passato in settimana qui a Venezia. Lo abbiamo invitato a pranzo, come al solito».
«Pranzo che poi diventerà cena e dopo cena, conoscendolo».
«Be’, sai com’è John. Non ha una famiglia e gli piace trattenersi qui da noi. Il punto è un altro. Quando viene, potresti chiedergli delle attività che si svolgono al Magdalene College di Cambridge, dove insegna».
Olimpia si divincolò dall’abbraccio e si mise a sedere, fissando la madre dritta negli occhi: «Sembra che tu e Anselmo vi siate messi d’accordo».
«Oh cielo, perché mai?»
«Anche lui mi ha detto di andare via da Venezia e di studiare all’estero».
Letizia sorrise e annuì: «Siamo solo due persone di buon senso, io e l’antiquario Calvani, non mi meraviglia per niente che la pensiamo alla stessa maniera».
«Già…», mormorò Olimpia. «Anche sul mio rapporto con Davide la pensavate quasi allo stesso modo».
«Olimpia, non mi fa piacere che tu soffra, sia chiaro», si affrettò a precisare Letizia. «Voglio solo che tu abbia tutto il meglio che la vita può offrirti».
«Mamma, ho già il meglio».
«No, tu non sei tipo da accontentarsi della ricchezza. Tu vuoi meritartela e a mio avviso fai anche bene».
«Che ti prende, oggi? Dici cose che non mi avresti mai detto fino a un mese fa», le domandò Olimpia, scuotendo il capo, incredula.
«Ti vedo soffrire e non mi fa piacere, però so anche che hai tante risorse e che ci sono i tuoi libri…».
Olimpia si alzò dal letto e cominciò a vagare per la stanza dei suoi genitori. Per un attimo fu sfiorata dal sospetto che Anselmo e sua madre si fossero messi d’accordo. Naturalmente non era così, si conoscevano appena e sua madre era troppo snob e orgogliosa per azzardarsi a parlare di sua figlia con un antiquario.
«Mamma, credi che Peggie sarebbe stata d’accordo con voi?», le domandò, tornando a sedersi sul letto.
Letizia sorrise e annuì. «Sento molto la sua mancanza, sai? Lei riusciva a comprendere fino in fondo chi aveva di fronte e tante volte ha mediato tra me e te, quando litigavamo. Ora che sei una donna, Olimpia, non hai più bisogno di prendertela con me, puoi capire da sola che cosa è meglio fare».
«Lo capivo anche prima», ribatté, riuscendo a ridere dopo ore di angoscia e disperazione.
«Oh certo, perché era scritto nei tuoi libri. Tu sapevi cosa fare, cosa dire e come comportarti e se ti chiedevo spiegazioni tu mi dicevi sempre: “L’ho letto, quindi deve essere così”. Hai sempre avuto un caratterino niente male».
«Già».
«Ora però, lasciami riposare, mi sta tornando l’emicrania».
Olimpia si alzò dal letto e per un attimo fu tentata di dare un bacio alla guancia, ma cambiò idea quando la vide spegnere l’abat-jour. Quello era il loro modo di amarsi. Uscì dalla stanza per dirigersi verso la sua camera da letto, il santuario in cui erano custoditi tutti i suoi volumi. Decise di prendere i suoi tre libri proibiti, l’embrione della sua futura collezione, e di passare con loro il resto della giornata. Si sarebbe rifugiata in soffitta, dove andava a leggere di nascosto fin da quando era piccola. Aveva bisogno di trasformare il profondo dolore che provava in energia, per andare avanti senza voltarsi indietro. L’indomani avrebbe condiviso la sua sofferenza con Diana e forse anche con Zoe, ma quel giorno no. Quel giorno lo avrebbe passato con i suoi libri.