Terza parte
Capitolo 1
Venezia, agosto 1983
Olimpia entrò per prima. L’odore del fumo era intenso ma sopportabile. Non frequentava quel tipo di locali da anni. Diana le si avvicinò e le sussurrò qualcosa all’orecchio, ma lei non capì. Il suo sguardo si posò per un istante su Andrew, palesemente a disagio.
«Dobbiamo proprio andare da questi tuoi amici fricchettoni?», era stata la domanda di lui di fronte alla sua insistenza. Olimpia non gli aveva risposto. La voglia di rivedere Davide l’aveva messa in fibrillazione. Da quando, due giorni prima, lo aveva incontrato dal notaio per il testamento di Anselmo, non faceva che pensare al momento in cui i loro sguardi si erano incrociati ancora una volta, dopo anni; il suo corpo aveva preso a tremare e si era scoperta a desiderarlo quasi da stare male.
«Ci vieni al reading di poesie, domani? È al circolo letterario di Vinicio. Si legge e si discute», le aveva detto prima che ognuno prendesse la propria strada verso casa. Non aveva scorto malizia in quell’invito e c’era quasi rimasta male. «Non mi vedi da anni, non ci sentiamo che per lettera e ora che sono qui davanti a te, mi inviti a un reading?», avrebbe voluto dirgli. Ma aveva taciuto. Si era limitata ad annuire. Si era sfogata solo dopo, al telefono con Diana, riversando su di lei tutta la sua frustrazione. Diana l’aveva ascoltata senza fare commenti, ma promettendole di accompagnarla. Non l’avrebbe lasciata da sola.
«È qui che si tiene…?», chiese a un ragazzo che sistemava libri su uno scaffale. Le indicò le scale alla sua sinistra. Dal basso arrivò l’eco di un applauso e infine si sentì Davide che cominciava a leggere una poesia di Byron, She Walks in Beauty. L’avrebbe riconosciuta, la sua voce, anche in mezzo alla tempesta. La stessa che le aveva sussurrato “ti amo”, quando avevano fatto l’amore per l’ultima volta.
Lei cammina splendida come la notte
di limpidi clini e di cieli stellati;
tutto il meglio del notturno splendore
vedo sul suo viso e nei suoi occhi…
«Scendiamo», mormorò Olimpia. Andrew aveva un’espressione indolente dipinta sul viso. «Tu resta pure qui, se vuoi», gli disse. Lei doveva andare. Non poteva stare nello stesso posto in cui si trovava Davide senza vederlo. Cominciò a scendere i gradini che portavano a quello che prima doveva essere stato lo scantinato del locale, e che ora era riservato ai soci del circolo. Il fumo era così fitto che a stento si distinguevano i visi di chi partecipava al reading. I suoi occhi non ci misero molto ad abituarsi a quella nebbia fatta di fumo di tabacco e cannabis.
Aveva una camicia bianca di lino e portava gli occhiali da lettura. I loro sguardi si incrociarono per un istante. Lui le sorrise debolmente volgendo poi gli occhi alla sua destra. Era stato un attimo ma Olimpia lo aveva colto. Si sporse e la riconobbe immediatamente: Lisa. Non era cambiata molto dall’ultima volta che l’aveva vista. Era passata una vita, ma il tempo per lei sembrava essersi fermato. Una morsa allo stomaco la costrinse a riflettere. “Non guardarla, non fare paragoni, non commentare, sei qui per lui, non per lei”.
Lisa non l’aveva vista. Meglio così. Chissà poi se l’avrebbe riconosciuta. Era una ragazzina quando aveva lasciato Venezia per andare a Cambridge.
«Fa troppo caldo, torno su». La voce di Andrew la riportò alla realtà. Olimpia gli sorrise e annuì, cercando Diana con lo sguardo.
«Io resto con te, tranquilla», la rassicurò, mentre Andrew risaliva le scale, uscendo dalla loro visuale.
Olimpia si avvicinò all’amica e si appoggiò al corrimano. «Maledetti tacchi», tentò di scherzare. Diana la osservò e poi le disse: «Ti sta guardando».
«Non me ne importa nulla».
«Olimpia…».
«Lo so, Diana. Sta’ zitta. Credi davvero che non me ne accorga? Sento i suoi occhi puntati addosso e mi sembra di essere trafitta da mille lame. So bene che mi sta guardando, ma se mi girassi ora, farei cose di cui potrei pentirmi». Diana tacque e le strinse la mano.
Davide aveva finito di leggere la poesia di Byron e aveva commentato la sua lettura con una battuta. Stavano ridendo tutti tranne Olimpia. Si sentiva frastornata. I loro sguardi si incrociarono di nuovo. Nessun sorriso, stavolta. Il suo cuore si fermò per un attimo. Lui la voleva. La voleva. Il dolore che esprimevano i suoi occhi, le labbra contratte in quella smorfia che lei conosceva così bene. Lui la voleva.
«Riprendiamo il dibattito?», lo esortò un uomo alla destra di Davide. «Davide? Ci sei?»
«Sì, certo… dove eravamo rimasti?», chiese, schiarendosi la voce. Non smetteva di guardarla. Dove eravamo rimasti? Già, dove?
La mente di Olimpia era in tilt. Sensazioni violente la sconquassavano.
«Andiamo via. Non respiro», esclamò, infine, trascinando Diana con sé.
L’aria era frizzantina e un leggero odore salmastro pizzicò le narici di Olimpia. Aveva le guance in fiamme e le pulsavano le tempie. Andrew stava chiacchierando con il gestore del locale. Erano entrambi davanti all’ingresso e fumavano una sigaretta. L’immagine del suo ragazzo, alto bello e sorridente ma del tutto ignaro di ciò che stava accadendo proprio sotto i suoi occhi, la innervosì e la rassicurò allo stesso tempo. Non si era accorto di nulla, per fortuna. Olimpia si chiese per un attimo se fosse il caso di tornare a casa e di allontanarsi per sempre da una situazione che poteva precipitare. Lei e Davide non potevano essere amici. Che senso aveva tormentarsi? Tanto valeva fare le valigie e tornare a Parigi, al suo lavoro, all’appartamento a Montmartre, che aveva affittato e che divideva con Andrew. Lì l’aspettavano i mille progetti che aveva lasciato in sospeso dopo aver ricevuto la telefonata del notaio Lazzarini.
Era il giorno del suo compleanno. Quella sera lei e Andrew sarebbero usciti a festeggiare anche il loro arrivo a Parigi. Si erano trasferiti una settimana prima ed erano felici. Almeno così le era sembrato. Fino a quando una telefonata non le aveva annunciato la morte di Anselmo.
Da allora era stata sopraffatta dal dolore. Anni prima se n’era andata Peggie, ora Anselmo. I suoi due punti di riferimento non c’erano più, a sorreggerla e a incoraggiarla.
«Sei uno spirito libero, Olimpia», le aveva detto Peggie, qualche giorno prima di morire. «E come tutti gli spiriti liberi, hai anche tu bisogno di punti fermi. Devi rimanere libera senza tuttavia perdere il senso dell’orientamento mentre ti libri nel cielo, alla ricerca della tua stella». Peggie le mancava come l’aria. Ora anche Anselmo apparteneva a quel regno fatto di ricordi e di nostalgia.
«Tutto bene?», le domandò Diana, avvicinandosi per cingerle le spalle con un braccio. Olimpia le sorrise e appoggiò la testa sulla spalla dell’amica.
«Più passano gli anni, più mi chiedo che cosa ci fai ancora qui a Venezia», le disse. «Vieni a vivere a Parigi con me».
Diana scoppiò a ridere. Quell’inconfondibile risata cristallina, che Olimpia amava da sempre. Andrew si girò verso di loro e sorrise. L’intesa con Diana era perfetta. Si volevano bene, tutti e tre.
«Che ci vengo a fare a Parigi? Vengo a reggere il moccolo?»
«Scema! Io e Davide…». Olimpia s’interruppe e arrossì. Diana fece finta di nulla. «Sai che io e Andrew ti adoriamo! Siamo un trio ben affiatato», si affrettò a finire la frase.
«Voglio ben sperare che sia così, anche perché sarò la tua testimone di nozze».
«Nozze? Oh mamma, Diana, sei sempre la solita. Ho da poco compiuto ventitré anni e mi sono appena sistemata a Parigi. Dammi il tempo di capire che cosa voglio fare da grande».
«Non so voi», si intromise Andrew, «ma io sto morendo di fame. Che ne dite se ci fermiamo a magiare qualcosa al ristorante qui vicino?».
Diana gli diede una pacca sulla spalla: «Ottima idea, che ne dici, Olimpia?»
«Dico che va bene, andiamo», esclamò cercando di sorridere. Le pesava allontanarsi da Davide ma sapeva anche che era meglio così. Lui, ormai, aveva fatto le sue scelte.
Capitolo 2
«Dunque così ha stabilito tuo zio», esclamò Olimpia.
«Era un uomo di parola», mormorò Davide, fissando un punto imprecisato davanti a sé. Non l’aveva degnata di uno sguardo da quando era entrata nella bottega. Parlava a fatica, come se meditasse su ogni singola frase. Olimpia si domandò che fine avesse fatto il ragazzo che conosceva e che amava, quello che la prendeva in giro chiamandola per cognome e cantandole le canzoni di Battisti per farla arrabbiare. Era così diverso, sembrava aver perso una parte del suo entusiasmo. La morte di Anselmo era stata un duro colpo per entrambi ma per lui significava anche l’inizio di una nuova vita. Aveva ereditato la bottega e aveva una figlia. All’apparenza non mancava di nulla.
Quando aveva saputo della nascita della bambina, Olimpia aveva appena conosciuto Andrew, che si era laureato un mese prima in Storia dell’arte. Avevano cominciato a uscire insieme e poi era stato tutto naturale: dopo la laurea di Olimpia si erano trasferiti a Londra per qualche mese. Ed erano rimasti lì fino a quando lui non aveva ricevuto una proposta di lavoro dal Louvre. La decisione di trasferirsi in Francia era stata presa in poco meno di mezz’ora. Per Andrew quella era un’ottima opportunità e anche Olimpia aveva voglia di mettersi in gioco e provare a lavorare presso una grande casa d’aste a Parigi. Un’utopia, forse, ma sapeva di volerci provare.
Davide aveva liberato la sedia accanto a sé. Erano seduti uno accanto all’altra, come due perfetti estranei, e si studiavano per capire a chi toccasse fare la prima mossa. Com’era diverso da Andrew. Davide ora era diventato ombroso e non lasciava trasparire i suoi pensieri. Ma forse era lei che non lo capiva più. La lontananza aveva scavato un solco profondissimo tra loro. Eppure, più Davide si chiudeva a riccio, più Olimpia sentiva il bisogno di sondare quell’animo, di capire cosa si nascondesse dietro quella corteccia.
«Quindi la prima lettera me la consegni oggi?», gli domandò.
«Sì, poi te ne manderò una all’anno, come stabilito da mio zio nel testamento, accompagnata da uno dei libri proibiti per la tua collezione», le confermò, senza guardarla.
«Perfetto», esclamò Olimpia, alzandosi. «Allora fa’ quello che devi fare così tolgo il disturbo. So che devi lavorare e non voglio importunarti». Davide la trattenne per un braccio e la costrinse a risedersi. Le sue labbra si schiusero in un sorriso stanco.
«Come va la tua collezione, Cattanei?», le chiese. Per un attimo a Olimpia sembrò di essere tornata indietro nel tempo. Si rilassò, ora non si muovevano più su un campo minato.
«Bene», rispose. «Anche a Londra ho trovato alcune interessanti stampe clandestine. Niente di paragonabile a ciò che abbiamo qui a Venezia e in Italia, s’intende. Sono anche andata un paio di volte a Roma, alla biblioteca Angelica».
«Hanno delle edizioni elzeviriane rarissime, lì da loro. Hai fatto bene ad andarci».
«Lo so. Penso di ritornarci, prima di rientrare a Parigi. Ma ora dammi la lettera e il libro e lasciami andare. Mi hai fatto venire qui per questo, no?».
Davide si alzò per andare a prendere un pacchetto sigillato. Lo posò sulla scrivania e lo spinse delicatamente verso di lei.
«Di chi è la lettera?»
«Finalmente la tua proverbiale curiosità prende il sopravvento!», esclamò Davide. «Stavo aspettando che me lo chiedessi».
«Non era stabilito nel testamento che mi dessi spiegazioni riguardo al contenuto della lettera. Quindi, se non vuoi, sei libero di tacere, o sbaglio?»
«Non sbagli, ma è presto detto: la tua eredità consiste in una serie di lettere e di documenti scritti da Veronica Franco».
«La famosa cortigiana veneziana? Ancora lei…».
«Proprio lei».
Olimpia sospirò. La mente cominciò a vagare tra i ricordi. La sua collezione era cominciata proprio grazie a quella raccolta di rime e c’erano sempre le rime della Franco all’origine della passione tra lei e Davide, in quel retrobottega. Poteva ancora sentire le loro risate, tra un bacio e l’altro. Spesso avevano letto insieme quei versi spudorati. Per una qualche inspiegabile ragione era come se gli scritti di quella poetessa fossero intrecciati al suo destino. Quando lei si materializzava nella sua vita, inevitabilmente cambiava qualcosa.
«Di quale epistolario e di quali documenti si tratta? La Franco ha scritto molte lettere e ha lasciato diversi testamenti, se non sbaglio. Io stessa nella mia collezione conservo la raccolta di lettere dedicata al cardinale Luigi d’Este».
«Per quanto mi sia dato sapere, questi documenti sono inediti e sono scritti di suo pugno. Dovresti chiedere al notaio informazioni più dettagliate al riguardo. Io sono solo la persona designata a spedirti un libro messo all’Indice e una lettera o un documento all’anno».
Olimpia non rispose e posò istintivamente lo sguardo sul plico davanti a lei. Era frastornata dai suoi stessi pensieri che si mischiavano ai ricordi. Anselmo possedeva degli scritti inediti di Veronica Franco? Perché non gliene aveva mai accennato, prima della sua morte? Troppe domande sfioravano le sue labbra per poi ritornare indietro. Anselmo doveva aver avuto le sue ragioni per nasconderle un tale tesoro e ora lei non era in grado né di capirne il perché né tantomeno di formulare giudizi. Ora era solo addolorata per la sua morte. Ci avrebbe pensato a Parigi, nella tranquillità del suo appartamento.
Lo sguardo si posò su Davide. Olimpia era convinta che lui sapesse molto più di quanto non lasciasse trapelare. E poi, perché non ammetteva di averla chiamata, quel pomeriggio, solo perché voleva vederla? Dopotutto avrebbe potuto consegnarle il plico di Anselmo anche dal notaio. Invece aveva telefonato a casa sua, insistendo perché lei passasse a ritirarlo di persona. Un dubbio si insinuò tra i suoi pensieri. Forse lui non aveva un doppio fine. Era stata lei a illudersi che Davide avesse inventato una scusa per stare con lei, dopo gli sguardi che si erano scambiati la sera prima.
«Grazie di tutto», esclamò Olimpia. «Se non hai altro da dirmi, me ne vado».
«Sai bene che non ti ho fatto venire qui solo per consegnarti il primo plico dell’eredità di mio zio», le disse.
«Non so un bel niente, invece».
«Cattanei, sei sempre la solita. Fai finta di non sapere».
«Invece tu sai tutto, vero?»
«Ti sbagli. Mai come in questo momento mi ritrovo perso tra le carte per la successione, una figlia da mantenere e un desiderio da reprimere». I loro sguardi si incrociarono per un attimo, come la sera prima, durante il reading.
«L’hai voluto tu», mormorò Olimpia con la voce rotta dall’emozione. Non si era sbagliata, eppure non riusciva a godere di quell’effimero trionfo. Perché lei, in fondo, aveva preso una strada diversa, anche lei aveva deciso di lasciare Venezia quando aveva saputo della gravidanza di Lisa. Era partita per Cambridge e lui era diventato padre.
Davide le prese il viso tra le mani. «Olimpia…», sussurrò. Le punte dei loro nasi si sfiorarono. Un gesto così intimo, tenero, da innamorati.
«Lasciami andare, Davide. Mi hai fatto venire qui per tormentarmi?»
«Sei tu a tormentare i miei pensieri. Non penso che a te, da quando ti ho rivisto dal notaio Lazzarini. Se non ti vedo, muoio dalla voglia di vederti; se sto con te, ho paura delle mie stesse reazioni e faccio di tutto per andare via».
«Perché? Non ti capisco. Hai una famiglia, ora».
«Io non riesco a smettere di pensare a te, ti desidero come non ho mai desiderato nessun’altra donna e lo sai bene. So che te ne sei accorta. Ieri al reading non riuscivo a staccarti gli occhi di dosso. Sei fuggita via».
«Non potevo rimanere lì, lo sai».
«Eri così bella, elegante».
«La tua Lisa sarebbe felicissima se ti sentisse parlare così di un’altra donna, lei che di elegante non ha nulla. Potevi scegliertene una meno sciatta».
«Smettila. Lei non c’entra. Lei non è te. Avrei voluto che le cose fossero andate diversamente tra noi…».
«Se veramente lo avessi voluto a quest’ora staresti con me», lo interruppe, cercando di dominarsi.
«Sai che non è così. Sei tu quella che se n’è andata da Venezia».
«Avevo un’alternativa, forse?»
«Avevi me».
«Aspettavi un figlio da Lisa. Che cosa avrei dovuto fare?». Olimpia non voleva sentire altro, era inutile riaprire vecchie ferite. Si sarebbero fatti solo del male. Lo attirò a sé, stringendolo in un abbraccio. Le lacrime presero a sgorgare silenziose e a scorrere lungo le sue gote. Non ebbe il coraggio di baciarlo, di dirgli che voleva fare l’amore con lui, che nonostante Andrew non c’era che lui nella sua vita. Nel suo cuore si alternavano dolore, desiderio e paura.
Davide posò la testa sulle sue spalle, rifugiandosi tra le morbide onde dei suoi capelli. Le labbra erano così vicine al suo collo, sentiva il delicato aroma della sua pelle, quel profumo speziato che lo aveva fatto impazzire di desiderio fin dalla prima volta che avevano fatto l’amore. Olimpia era così vicina, sarebbe bastato avvicinare le labbra per baciarla. Non osava farlo, perché sapeva che da quel semplice bacio sarebbe dipeso il suo destino. Sapeva che sarebbe bastato sfiorarla per sprofondare nell’abisso.
«Davide», sussurrò. Lui la allontanò da sé con un gesto brusco e si alzò dalla sedia. Olimpia era confusa, non sapeva cosa dire. Rimase in silenzio. Si volevano, si cercavano, non potevano stare l’uno senza l’altra. Che senso aveva continuare a tormentarsi?
D’un tratto Davide l’afferrò per un braccio, costringendola ad alzarsi e a guardarlo dritto negli occhi. Entrambi trattennero il respiro, poi si lasciarono andare a un violento e doloroso bacio. Come se volessero succhiarsi l’anima.
Senza fiato raggiunsero il divano, dove avevano fatto l’amore per la prima volta, continuando a baciarsi con frenesia. Non c’era posto per la tenerezza. I loro corpi parlavano per loro. Le mani di Olimpia erano immerse nei capelli di Davide, mentre lui la toccava con un’urgenza che gli faceva tremare le dita. Olimpia per un attimo credette di morire di desiderio, non riusciva a pensare ad altro.
Poi lo sguardo si posò sulla foto di una bambina. Era appesa accanto alla porta del retrobottega e i suoi occhietti vispi osservavano la scena attraverso il vetro della cornice.
«Fermati, ti prego», mormorò, riemergendo a fatica dal torpore dei suoi baci. Davide si allontanò all’istante.
«Lisa». Olimpia pronunciò quel nome quasi in trance. Lui e Lisa avevano una figlia. Una foto della bambina era lì, davanti a loro. C’era qualcosa di sbagliato in quello che stava accadendo.
Davide rimase in silenzio, con lo sguardo fisso sul pavimento. Olimpia poté tuttavia scorgere sul suo viso la cupa espressione del tormento. Doveva andarsene prima che fosse troppo tardi, prima di cambiare idea e finire ciò che avevano cominciato. Senza dire niente, si alzò e si sistemò la gonna e la camicia. Prese la borsa e il plico di Anselmo e uscì velocemente dalla bottega.
Venezia, addì 15 novembre 1580
All’Illustrissimo Messer Marco Venier
Mio caro, ti scrivo perché tu possa sapere che cosa succede qui a Venezia. Non mi fido ormai più di alcuno e temo che si stia tramando alle mie spalle. Nel maggio scorso mi accorsi di essere stata derubata nella mia stessa casa. Oltre ai gioielli, roba di poco conto, sono sparite delle carte importanti. Il 22 maggio mi sono persino rivolta all’autorità ecclesiastica per ottenere dal patriarca l’ingiunzione di consegna. Mi fu detto che avrei fatto meglio a ritirare la denuncia se non volevo rischiare gravi conseguenze, ma io ho inoltrato ugualmente la mia richiesta di ingiunzione. Tu conosci bene il contenuto di quelle carte e sai quanto possano nuocere non a me quanto a chi me le consegnò, diverso tempo fa. Ancor più gravide di possibili conseguenze sono le mie annotazioni che le accompagnano. Questo furto e la relativa richiesta di ingiunzione mi hanno portato l’8 e il 13 ottobre davanti al tribunale del Sant’Uffizio. Sono stata accusata dei crimini più nefandi, di immoralità dei costumi e persino di sospetta stregoneria. Sono stata definita pubblica meretrice e sono stata denunciata dal precettore di mio figlio Achilletto. Sai a chi mi riferisco, vero? È quel vile di un Ridolfo Vannitelli ad avermi sottratto le preziose carte. Non appena si è reso conto, però, che io avevo ancora una parte di esse mi ha controdenunciata per ripicca. Sai bene quanto mi ripugni quell’essere immondo. Per ben due volte ha tentato di violarmi ma i miei servi sono stati più lesti di lui. So chi me lo ha mandato in casa. È la stessa importante persona che ora ricopre incarichi d’onore e che vuole assicurarsi che in giro non vi sia nulla di compromettente contro di lui. Ah! So bene io cosa dirgli contro. Quando si sollazzava nel mio letto me ne ha raccontate di cose che io ora posso utilizzare e render note, quant’è vero che mi chiamo Veronica Franco. Le mie lettere, quando le rendo note, vanno a ruba. Lo sai bene. Figurati carte del genere.
Il Vannitelli non riuscendo nel suo doppio intento di entrare nel mio letto e di rubarmi tutti gli incartamenti che sono la mia assicurazione per la vita, testimoniò di avermi vista esercitare sortilegi e fare invocazioni diaboliche per ritrovare la refurtiva e per procacciarmi i clienti. Io che non ho mai avuto problemi a trovare uomini disposti a giacere con me? Proprio io, dea dell’amore carnale per molti uomini, fui accusata di praticare il sortilegio dell’inghistara per attirare clienti. Come se non avesse mai visto i ritratti che mi fecero i più illustri pittori veneziani. Altro che magia, bastava che mi scoprissi il seno per averli ai miei piedi.
Mi difesi da sola con le armi della retorica e della mia intelligenza, dichiarandomi innocente. Il tribunale dell’Inquisizione alla fine decise di assolvermi, anche perché minacciai di rendere note le carte che ora ti invio in questo plico. Ti prego di conservarle e di portarle in un posto sicuro. Qui a casa mia sono a rischio. I miei bambini potrebbero avere dei problemi e voglio evitarlo a ogni costo.
Ti mando anche qualche mio verso, in ricordo dell’amore che da sempre serbo per te. I baci infuocati e le carezze che ci siamo scambiati vicendevolmente, mio caro Marco, sono impressi sul mio corpo come fuoco e si ravvivano al ricordo. Abbi cura delle carte che ti invio e usale, se lo ritieni necessario. Vi sono annotate le abitudini e le nefandezze sessuali di alcuni dei miei clienti più importanti. V’è anche una nota sul re di Francia. Se ti dovesse capitare di aver bisogno di pubblicarle, fallo senza indugio. Più di qualcuno cadrà in disgrazia a causa loro.
Le affido dunque a te, che sei stato l’uomo che ho più amato nella mia vita di puttana. Eri e sei l’unico a considerarmi non donna ma essere pensante. Perché noi donne se siamo armate e addestrate siamo in grado di convincere voi uomini che anche noi abbiamo mani, piedi e un cuore come il vostro. Possiamo anche essere delicate e tenere, proprio come voi. Vi sono, infatti, uomini delicati che diventano forti quando serve; così come vi sono uomini volgari e violenti che sono dei codardi. Noi donne non abbiamo ancora capito che dovremmo comportarci in questo modo, perché solo così riusciremmo a combattere fino alla morte. Per dimostrare che ciò è vero, sarò la prima ad agire, ergendomi a modello. Ti affido dunque le carte. Sono riuscita persino a riaverne alcune dal Tribunale. Quelle più compromettenti il vigliacco non era riuscito a sottrarmele. Marcisca nel veleno della sua stessa invidia.
Ti abbraccio, ti bacio dappertutto e ricordo le notti di passione per consolarmi della tua assenza.
Veronica
Capitolo 3
Parigi, settembre 1985
Il tailleur di Chanel le calzava alla perfezione. Olimpia si guardò allo specchio per un’ultima rapida occhiata, afferrò la borsa e uscì dal suo appartamento. Il taxi la stava già aspettando. Si affrettò ad attraversare la strada, salutò in fretta il tassista e gli diede l’indirizzo. Poi prese dalla borsa il suo curriculum e lo esaminò per l’ennesima volta. Andrew le aveva ripetuto fino alla nausea di stare tranquilla, era perfetta per quel lavoro. Tuttavia Olimpia continuava a essere nervosa. Ottenere un appuntamento con il direttore della più grande casa d’aste parigina era stata un’impresa quasi titanica, ma alla fine ci era riuscita. Ripeté a memoria il discorso che aveva preparato e chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi. Non aveva fatto colazione, non era riuscita a bere nemmeno il caffè, quella mattina. Aveva salutato Andrew che andava a lavorare al Louvre e poi era ritornata a distendersi sul letto per cercare di calmare i nervi tesi. Non era servito a niente.
«Signorina, siamo arrivati!», esclamò il tassista, fermando la macchina davanti al numero otto di Rue de Richelieu. Olimpia diede una rapida occhiata all’orologio. Era in perfetto orario, le undici e trenta del mattino. La zelante segretaria, che l’aveva ricontattata il giorno precedente per confermarle l’appuntamento, le aveva anche detto, senza mezzi termini, di essere puntuale perché il colloquio sarebbe durato poco: il signor Beaufort non aveva molto tempo da dedicarle.
Pagò il tassista e, prima di attraversare la strada, alzò gli occhi per osservare da una migliore prospettiva il palazzo che aveva di fronte. Era un imponente edificio dai tipici tetti a spiovente in ardesia e dall’inconfondibile stile Art Nouveau, dei primi del Novecento. La maestosa facciata in pietra era ricca di balconi, sculture e colonnine, il portone d’ingresso era aperto su un’ulteriore entrata con porte in vetro e ottone sulla quale si leggeva a caratteri cubitali:
Hôtel Richelieu
Auction House
Insieme a Sotheby’s e Christie’s, la casa d’aste Richelieu era annoverata tra quelle più importanti del mondo. Lì erano stati battuti all’asta centinaia di sacre reliquie e artefatti provenienti da ogni dove. Olimpia ne aveva studiato la storia durante il suo tirocinio da Sotheby’s. Le era rimasta impressa una vendita in particolare, avvenuta pochi mesi prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, quando la casa d’aste aveva venduto una bellissima Baigneuse di Auguste Renoir. Un’autentica rarità.
Attraversò di corsa la strada. Alla sua destra si scorgeva la sagoma dell’edificio della Comédie-Française e, poco più in là, l’ingresso laterale del Louvre. Le era di conforto il pensiero che Andrew lavorasse a due passi dalla casa d’aste. Si sarebbe rifugiata da lui, se il colloquio fosse andato male, poi avrebbe preso il métro dalla fermata Richelieu Drouot per ritornare a Montmartre. Aveva calcolato tutto, fin nel minimo dettaglio, perché, se l’avessero ritenuta non idonea a svolgere quel lavoro, Olimpia non avrebbe voluto pensare a nient’altro che al modo più veloce per tornare a casa sua.
Entrò nella hall dell’Hôtel Richelieu e si diresse al desk, schivando un paio di fattorini che trasportavano dipinti e oggetti imballati, pronti per essere consegnati agli acquirenti. Salutò l’unico ragazzo che non era al telefono e lasciò il suo nome e cognome.
«Il direttor Beaufort la riceverà tra dieci minuti, signorina Cattanei. Salga al settimo piano, gli ascensori sono alla sua destra», le disse il ragazzo, spiegandole poi il percorso da fare una volta arrivata all’ultimo piano dell’edificio.
L’anticamera dell’ufficio del direttore era rivestita da una carta da parati di un vivace rosso pompeiano ed era arredata con mobili antichi, poltroncine in matelassé e quadri preziosi appesi alle pareti. La segretaria, prima di sparire al di là della porta del direttore, la fece accomodare accanto a una delle grandi finestre che si affacciavano su Rue de Richelieu. Olimpia rimase in piedi ad ammirare il panorama. Davanti a lei s’intravedeva la Tour Eiffel stagliarsi sui tetti blu come una sentinella, che vigilava sui parigini. Intorno alla fontana, che si trovava al centro della piazzetta sottostante, si erano fermati a chiacchierare alcuni studenti. Si divertì a immaginare che avessero marinato la scuola per approfittare di quello splendido e assolato lunedì di fine settembre.
La segretaria si schiarì la voce per richiamare la sua attenzione e la invitò ad accomodarsi nello studio del direttore. Olimpia fece un respiro profondo e varcò la soglia dell’ufficio di Beaufort a passo sicuro. Non aveva niente da temere, pensò. Male che fosse andata, le avrebbe detto di no e non sarebbe crollato il mondo. Lei avrebbe continuato a lavorare da Sotheby’s, così come le era stato prospettato, anche se per lei l’Hôtel Richelieu rappresentava un punto d’arrivo importante. Aveva desiderato lavorare in quel tempio dell’arte e dell’antiquariato mondiale fin da quando si era trasferita nella capitale francese. Si sentiva pronta per il colloquio, adesso.
L’ufficio era molto simile all’anticamera: pareti rosse e mobili antichi. La differenza la facevano la grande scrivania al centro della stanza e l’enorme libreria alle spalle del direttore, i cui scaffali erano quasi interamente ricoperti di faldoni. Beaufort accennò un saluto con la testa e la invitò a sedersi. Olimpia si sedette e notò immediatamente che il direttore aveva davanti a sé le due pagine del suo curriculum.
«Signorina, le dirò subito che non credo che questo lavoro faccia per lei, quindi mi deve convincere del contrario», esordì Beaufort, scrutandola. Olimpia non batté ciglio, aveva immaginato di dover affrontare un colloquio aggressivo, dal quale non sarebbe uscita bene se non avesse combattuto con le unghie.
«Si è laureata a pieni voti a Cambridge con una tesi sui libri messi all’Indice dalla Chiesa, ha fatto un tirocinio da Sotheby’s e per ora lavora come stagista nella loro sede parigina», continuò il direttore, senza lasciarle il tempo di rispondere. «Un curriculum di tutto rispetto se penso che lei ha solo venticinque anni. Mi dica perché vuole lasciare una delle migliori case d’asta del mondo per venire a lavorare da noi».
«Perché sono un’esperta di manoscritti antichi e perché, come ha letto sul curriculum, ho rilasciato perizie anche per la Bibliothèque nationale de France».
«Sì, ma a nome di Sotheby’s», la corresse Beaufort con un sorriso ironico.
«Se scrivessi una stima per l’Hôtel Richelieu sarebbe la stessa cosa. Il documento sarebbe firmato da me ma avrebbe il timbro e la garanzia della sua casa d’aste». Se credeva di intimidirla continuando con quel tono, si sarebbe alzata e sarebbe andata via senza pensarci su un attimo.
«Ottima osservazione».
Olimpia aveva ora la netta sensazione che fosse lei a condurre il gioco. Non si sarebbe lasciata sopraffare. I sacrifici e le scelte difficili che aveva dovuto fare, la rendevano consapevole di dove fosse arrivata. Era una professionista e non si sarebbe mai fatta calpestare da un signor Beaufort qualsiasi. Era stanca di dover dimostrare il suo valore, ma soprattutto non sopportava più di essere sottovalutata, perché troppo giovane. Aveva cominciato a lavorare a quindici anni e aveva avuto la fortuna di apprendere le basi del mestiere da Anselmo, il migliore degli insegnanti.
«Le esposizioni e le visite si svolgono dal lunedì al venerdì, dalle undici del mattino alle sei del pomeriggio; mentre le aste si battono gli stessi giorni, ma dall’una alle sei», le disse il signor Beaufort, guardandola dritta negli occhi. «I dettagli delle aste in programma vengono pubblicati a cadenza settimanale nella nostra “Gazette de l’Hôtel Richelieu”. Si presenti alle nove, signorina Cattanei. Comincerà domani con i canonici tre mesi di prova, poi si vedrà. Ora l’affido alle cure del mio collaboratore, il signor Auriel. Lui le spiegherà tutto ciò che c’è da sapere sulla nostra casa d’aste. Arrivederci».
Olimpia strinse la mano del direttore che la stava congedando, salutandolo e ringraziandolo rapidamente. Ce l’aveva fatta? Non riusciva ancora a crederci. Un uomo odioso, Beaufort, ma che sapeva il fatto suo. Si chiese come avesse fatto a convincerlo. Era stato un colloquio surreale, brevissimo e lei non aveva parlato quasi mai.
«Signorina Cattanei», si sentì chiamare. Si girò e si trovò davanti un uomo sulla trentina, alto e distinto, con il pizzetto e i capelli cortissimi. Le tese la mano e si presentò: «Sono Louis Auriel».
«Olimpia Cattanei». Si scambiarono un sorriso e si avviarono verso gli ascensori. Louis le avrebbe fatto da guida tra le sale dell’Hôtel Richelieu e poi l’avrebbe accompagnata all’ufficio assunzioni. Olimpia ebbe la sensazione di camminare su una nuvola, si sentiva leggera e felice. Louis le sembrava un tipo simpatico e alla mano, era sicura che sarebbero diventati amici. Non sapeva da cosa provenisse quella convinzione, eppure era così. Mentre lo seguiva tra i corridoi e le sale, aveva la sensazione di essere in compagnia di una persona di famiglia. Si diede della sciocca e prestò attenzione a ciò che le stava dicendo.
«L’Hôtel Richelieu ha una superficie espositiva immensa: diecimila metri quadrati. Vendiamo più di cinquecentomila pezzi l’anno», esordì Louis, premendo il pulsante del piano terra.
«Lo so».
«Lei di che cosa si occupa?»
«Un po’ di tutto, naturalmente, ma sono specializzata in manoscritti antichi. Soprattutto le edizioni clandestine, vietate dalla Chiesa».
«Ah! I libri messi all’Indice?»
«Esatto».
«Molto interessante», commentò. Olimpia lo osservò con la coda dell’occhio ed ebbe la netta impressione che fosse sincero. E le domande che le rivolse riguardo ai libri proibiti le confermarono quell’impressione.
Le porte dell’ascensore si aprirono sulla hall d’ingresso dell’Hôtel Richelieu. Olimpia sorrise al pensiero che nemmeno un’ora prima era entrata in quell’edificio, nervosa e tesa, ma che di lì a poco ne sarebbe uscita leggera e con un contratto in tasca. Non vedeva l’ora di dirlo ai suoi genitori e a Andrew. La sua mente corse per un istante a Davide. Avrebbe voluto dirlo anche a lui ma non si sentivano da due anni, ormai, anche se continuavano ad arrivarle puntuali, ogni anno quasi sempre in agosto, i documenti di Veronica Franco e i libri proibiti.
Si girò verso Louis che le stava mostrando una piantina. Erano seduti a uno dei tavolini della hall e lui stava indicando con una penna i vari uffici e le sale dove venivano battute le aste.
«Al piano terra si trovano l’ufficio vendite e quello del servizio ai clienti: imballaggio, spedizioni e così via. Al primo piano ci sono sette delle sale di vendita. La sala numero tre è quella dei libri, quindi immagino che lei lavorerà lì».
«Immagino di sì».
«Accanto, c’è la sala in cui si battono all’asta i gioielli e gli oggetti preziosi, ma di piccole dimensioni: si fermi a dare un’occhiata, ne vale la pena. Al secondo piano ci sono le sale di consultazione dei cataloghi, la sala delle esposizioni e delle vendite di prestigio e gli uffici amministrativi».
«Bene».
«Al terzo ci sono il ristorante, altre sei sale d’asta e il magazzino dei manoscritti antichi, assieme a quello numismatico e dei francobolli. E immagino che anche qui svolgerà parte del suo lavoro, Olimpia».
«Sì». Sentiva un groppo alla gola. Non riusciva più a parlare. L’emozione aveva preso il sopravvento.
Louis sembrò non accorgersi di nulla e proseguì: «Dal quarto al sesto piano ci sono gli atelier e i magazzini in cui conserviamo gli acquisti dei nostri clienti. Al settimo piano ci sono gli uffici della direzione. Anche il mio, se ha bisogno di me».
«Grazie mille, Louis. Mi dica un po’ come funzionano le vendite», chiese Olimpia, mentre si alzavano per dirigersi verso l’ufficio assunzioni e sbrigare le pratiche per i suoi primi tre mesi di prova.
«Ci sono due tipi di vendita: quella “catalogata” e quella “varia”. Per la prima lei dovrà produrre la documentazione necessaria per la compilazione del catalogo, in modo tale che gli acquirenti abbiano il maggior numero possibile di informazioni riguardo all’oggetto che vorrebbero comprare; per la seconda solo la valutazione e la stima dell’oggetto – nel suo caso si tratterà prevalentemente di libri – che non verrà inserito in alcun catalogo perché si tratta di aste veloci: allestimento e trattative sono più snelli».
«L’esposizione degli oggetti da battere all’asta può avvenire anche nell’arco della stessa giornata? Oppure tra l’esposizione e l’asta devono passare un numero minimo di ore?»
«Dipende da ciò che dobbiamo mettere all’asta. La maggior parte delle volte si fa tutto in giornata, i tempi quindi sono velocissimi e il ritmo con cui si passa da una vendita all’altra è frenetico».
Dopo il pranzo con Andrew, Olimpia non aveva voglia di tornare a casa. L’entusiasmo per il colloquio andato bene le aveva lasciato l’adrenalina addosso. Decise così di fare una passeggiata. S’incamminò lungo Rue de Rivoli per arrivare a Place de la Concorde. Si fermò ad ammirare le vetrine delle profumerie ed entrò in diverse librerie. Si fermò in una dagli scaffali in mogano, a leggere per qualche ora, sprofondata in uno dei logori divani di pelle, accanto alla sezione dei classici.
Era già tardi quando rientrò nell’appartamento in Place du Tertre. Gli artisti stavano smontando i cavalletti e i commessi toglievano la merce dalla piazza per sistemarla all’interno dei negozi; le luci non erano ancora accese mentre il sole tramontava regalando sfumature violacee al candore della chiesa del Sacré-Cœur. I turisti affollavano ancora le vie laterali e si riversavano nella piazza per andare a cenare in qualche bistrot, sedendosi all’esterno dei locali. Faceva ancora caldo nonostante si fosse quasi arrivati a ottobre. Olimpia comprò una baguette dalla signora da cui si serviva di solito e salì a casa sua. L’appartamento che avevano preso in affitto era piccolo ma confortevole. La porta d’ingresso dava direttamente sul salotto nel quale si trovavano un angolo cottura e un delizioso balconcino che si affacciava sul cortile interno del palazzo. La loro camera era piccola, conteneva appena un letto, però la finestra che si apriva sulla basilica del Sacré-Cœur era stata decisiva quando avevano firmato il contratto di locazione. Olimpia non chiudeva mai le tende per assicurarsi di cominciare bene la giornata. Apriva gli occhi e vedeva come prima cosa l’imponente chiesa, bianca come una meringa.
«Ciao», la salutò Andrew, emergendo dalla camera da letto. Le andò incontro e le diede un bacio sulla fronte. Dentro casa si sentiva l’odore di risotto ai funghi, il preferito di Olimpia. Andrew aveva pensato a tutto. Posò sul tavolo la baguette che aveva appena comprato.
«Ho una fame da lupi!», esclamò.
«Ti ho preparato il risotto. Anch’io ho fame, vado a prendere una bottiglia di champagne da madame Breton. Dobbiamo continuare a festeggiare la tua assunzione». S’infilò la giacca e si diresse verso l’ingresso. «Ah, prima che mi dimentichi, è arrivato il solito pacco da Venezia. Te l’ho lasciato sulla scrivania. Corro prima che madame chiuda».
Olimpia si tolse le scarpe ed entrò in camera. Lo sguardo cadde subito sul pacco che sembrava abbandonato in mezzo ai profumi, alla biancheria intima e ai libri da leggere. Il mobile da toeletta era diventato una sorta di scrivania, sulla quale il caos regnava sovrano.
Prese il pacco e si sedette sul bordo del letto, per scartarlo. Quell’anno Davide era in ritardo. Lo scorso anno aveva mandato il libro e la lettera della Franco ad agosto, per il suo compleanno. Si domandò se quel ritardo fosse dovuto al caso o se gli fosse successo qualcosa. Ripensò alla giornata appena passata e alla voglia che aveva avuto di telefonare anche a lui, per dirgli che era stata assunta da una delle case d’asta più importanti del mondo e avrebbe cominciato a lavorare subito.
«Montesquieu, Difesa dello spirito delle leggi», lesse ad alta voce, mentre esaminava il libro. «È l’edizione originale stampata a Ginevra da Barillot nel 1750, un anno prima di essere messo all’Indice. Anselmo, come mi conoscevi bene!». Si trattava di un esemplare di pregio, con fregi in oro e legatura in pelle, ed era anche ben conservato nonostante presentasse qualche macchia qua e là. Olimpia conosceva bene quello scritto che il barone di Montesquieu aveva pubblicato come risposta alle critiche mosse dai gesuiti e dai giansenisti al suo Spirito delle leggi, pubblicato l’anno precedente, che stava per essere messo all’Indice.
Tirò fuori dal pacco anche un plico abbastanza voluminoso, chiuso in una busta semirigida. L’anno precedente la lettera di Veronica era di appena due pagine, ma ora doveva trattarsi almeno di una ventina di fogli. Si sentiva come una bambina che scarta il suo regalo di Natale. Aprì con cautela l’altra busta ed estrasse il plico, facendo attenzione a non rovinarlo.
«Oh mamma!», esclamò, rimanendo a bocca aperta. «Memoriale della visita di Enrico di Valois, prima ch’ei si recasse in Francia per prender la corona». Un memoriale che avrebbe dovuto trovarsi in una biblioteca: come mai lo aveva Anselmo? Era un importantissimo documento storico senza precedenti, paragonabile alle contemporanee memorie proprio della sorella di Enrico di Valois, Margot, unica testimonianza diretta della strage di San Bartolomeo.
Olimpia fu colta da un dubbio: sarebbe stato opportuno recarsi il prima possibile alla biblioteca Marciana di Venezia e consegnare il manoscritto. Gli altri due documenti erano la lettera di Veronica Franco a Marco Venier, in cui la cortigiana raccontava al suo amante del processo per stregoneria, ingiustamente subito; e il testamento della donna in cui dichiarava che il figlio che stava per dare alla luce era del più ricco mercante di Dubrovnik, città che all’epoca si chiamava Ragusa.
Si diresse verso la piccola cassaforte e l’aprì per riporvi il documento che Davide le aveva spedito. Ne sfogliò alcune pagine. Il memoriale risaliva all’estate del 1574, anno in cui la fama di Veronica aveva raggiunto l’apice della notorietà grazie alla visita di Enrico III di Valois, che si era fermato a Venezia, durante il viaggio che lo riportava dalla Polonia in Francia, dove sarebbe succeduto al fratello morto prematuramente. Come omaggio al suo soggiorno a Venezia, al re francese fu offerto buon cibo e buon sesso con la più bella cortigiana di Venezia. Questo episodio aveva dato alla Franco una notorietà incredibile, tanto che in seguito aveva potuto godere di privilegi che alle altre cortigiane erano preclusi. Il memoriale era accompagnato da una lettera in cui la donna spiegava il perché di quella relazione dettagliata dei suoi servizi resi al Valois. Solo quella lettera valeva oro e non solo perché scritta di suo pugno.
Olimpia tornò a sedersi sul letto, confusa. Anselmo le aveva nascosto un tesoro così prezioso da farle sorgere seri dubbi sulla sua provenienza. Il volume delle Terze Rime che le aveva regalato un Natale di tanti anni fa era poca cosa in confronto al valore dei documenti che Davide le stava inviando. Nei quattro anni in cui aveva lavorato nella bottega dei Calvani, aveva visionato personalmente ogni singolo documento, ogni stima, ogni scheda dei clienti. Com’era possibile che il vecchio antiquario avesse posseduto un tesoro simile e non lo avesse donato o venduto alla Marciana di Venezia? Anselmo aveva parlato di una collezione di famiglia, quando lei aveva chiesto spiegazioni riguardo alla rara edizione delle Terze Rime. Anche quei preziosi documenti facevano parte dei beni della famiglia Calvani? Che senso aveva inviarli a lei, anno dopo anno? Il notaio Lazzarini le aveva detto che il totale dei documenti che Davide avrebbe dovuto inviare era divisibile in svariate spedizioni, collegate ad altrettanti libri messi all’Indice. Ma per quanti anni ancora sarebbero andati avanti? Nessuno sembrava volerle dare alcuna spiegazione. Era intollerabile che fosse all’oscuro di ciò che avrebbe ricevuto. Doveva chiamare Davide e capire cosa diavolo stava succedendo.
Il rumore delle chiavi nella toppa le annunciò il ritorno di Andrew. Olimpia si affrettò a mettere tutto in cassaforte e gli andò incontro.
Memoriale della visita di Enrico di Valois,
prima ch’ei si recasse in Francia per prender la corona
Venezia, addì 10 agosto 1574
Premessa
Non avendo io avuto modo di esprimere questi miei pensieri ad anima viva, trasmetto quanto segue perché ne siano a conoscenza anche i posteri. Il memoriale allegato riguarda la visita della quale mi onorò il cristianissimo e invincibile re Enrico III di Valois, che si era fermato a Venezia tra il 18 e il 28 luglio. Essendo egli stato richiamato in Francia dalla madre Caterina de’ Medici per prendere il posto del fratello morto, la sua scorta gli consigliò di passare alcuni giorni in Laguna. In questo memoriale descrivo il suo arrivo e inserisco anche qualche aneddoto che egli stesso mi raccontò e che riguarda il viaggio che lo riportava in Francia dalla Polonia.
A farci incontrare fu il mio illustrissimo e affezionato cliente messer Andrea Tron, chiamato a far parte della scorta del re, formata da quaranta gentiluomini. Qui racconto come egli venne a trovarmi nel mio palazzo per darmi la notizia dell’arrivo del re e si raccomandasse con me affinché gli offrissi tutti i servigi della carne e dello spirito.
Enrico era bello ed elegante, forse il più elegante uomo che io abbia mai visto e conosciuto. I suoi gioielli erano molto singolari, soprattutto le perle con cui ornava il suo collo. Nelle pagine che seguono, descrivo in dettaglio anche alcuni suoi indumenti molto particolari. Tuttavia, ciò che forse si troverà più interessante sapere è che il re con me non volle fare all’amore, ma solo conversare d’arte, di poesia e tanto altro. Per soddisfare i suoi capricci di letto, dovetti procurargli un ragazzo. Lo volle almeno ventenne – mi disse che amava l’uomo con il pelo non il ragazzino – e lo volle ricco di fantasia. Gli cedetti la stanza degli ospiti e sentii i sospiri dei godimenti del re con il suo amante. Enrico fu così soddisfatto del servizio che stette presso di me per qualche giorno. Mai approfittò del mio corpo ma mi fece l’onore di confidarsi con me su faccende di stato e di famiglia parlandomi molto della augusta madre, Caterina, e della morte di suo fratello. Riporto integralmente quelle conversazioni, fidandomi della mia buona memoria.
In memoria del nostro incontro gli donai un mio ritratto con una lettera accompagnata da due sonetti: Come talor dal ciel sotto umil tetto e Prendi, re per virtù sommo e perfetto.
Sebbene io sappia che la Serenissima sia in ottimi rapporti con la Francia, desidero che questo memoriale venga conservato ed eventualmente pubblicato come merce di scambio, in caso di guerra.
Veronica Franco
Capitolo 4
Parigi, dicembre 1985
«Buongiorno, capo! Ho trovato l’informazione che cercavi». Isabelle l’accolse in ufficio con un sorriso radioso. Olimpia la salutò e si affrettò a togliersi il cappotto. Tirava un vento gelido in quei giorni ed era molto umido. I parigini sfilavano per le strade della città infagottati e pieni di pacchi. Il Natale era alle porte e la Ville Lumière era vestita a festa. I grandi boulevard erano uno scintillio di luci e si respirava aria di festa anche all’interno degli uffici. Andrew era appena partito per l’Inghilterra, dove avrebbe trascorso il Natale con i suoi genitori e Olimpia aveva invitato sua madre e Diana, perché entrambe erano rimaste da sole a Venezia.
«Sei stata velocissima, grazie Isabelle». Olimpia si avvicinò alla sua segretaria e cominciò a visionare i documenti che a mano a mano lei le passava. Con Isabelle era stato amore a prima vista: si erano intese a meraviglia fin da subito. Lei era una parigina doc che viveva nell’ottavo arrondissement, non molto distante dalla Gare Saint-Lazare. Arrivava sempre in anticipo e si dava tanto da fare, una vera stacanovista. Studiava storia dell’arte alla Sorbona e intanto lavorava come segretaria all’Hôtel Richelieu, un impiego ottenuto grazie alla sua caparbietà. Le aveva raccontato di essersi recata dal direttore Beaufort con la sola lettera di presentazione della sua professoressa di Biblioteconomia, ma lo aveva riempito così tanto di chiacchere che lui probabilmente le aveva dato una chance per levarsela di torno. Un giorno, quindi, Louis Auriel era entrato nel piccolo ufficio di Olimpia per presentarle Isabelle Joly. Aveva una borsa a tracolla e i capelli castani, costretti in uno chignon da cui però fuoriuscivano ciocche ribelli. Era piuttosto alta, aveva un bel viso ovale e occhi neri, parzialmente coperti dai grandi occhiali dalla montatura scura.
«Ecco qui», le stava dicendo Isabelle, puntando il dito sul foglio che Olimpia reggeva in mano. «Un plico contenente diversi documenti inediti e scritti dalla stessa Veronica Franco è stato battuto all’asta sei anni fa, nella sede milanese di Christie’s».
«Ti hanno mandato tutta la documentazione?»
«Sì, tranne il nome dell’acquirente».
Olimpia si lasciò sfuggire un’imprecazione e sospirò. La ricerca si fermava lì, non c’era modo di andare oltre, a meno che da Christie’s non avessero deciso di rivelarle il nome del compratore, ma era molto difficile. La tutela dell’identità dei propri clienti era importantissima per qualsiasi casa d’aste e a volte era difficile ottenerne una lista, persino in casi estremi.
Davide le aveva assicurato che le lettere e i documenti della Franco erano custoditi nello studio notarile di Lazzarini, il quale non aveva alcun interesse a conservare documenti illeciti, anzi. Lui si recava lì prima di ogni invio e prelevava il documento da spedirle, contrassegnato da un numero progressivo, stabilito dallo stesso Anselmo e corredato dalla firma del notaio.
«Devo insistere, capo?», le chiese Isabelle.
«No». Olimpia si andò a sedere alla sua scrivania e chiese a Isabelle di andare al magazzino del terzo piano per ritirare i manoscritti da catalogare. Si sentiva frustrata e delusa, le ricerche che aveva fatto nei due mesi passati non l’avevano portata da nessuna parte. Aveva indagato anche su Enrico di Valois. Circolavano molte voci sulla sua omosessualità, alcuni studiosi ne erano convinti ma lei ma non aveva trovato riscontri nei documenti. Tutti gli storici concordavano che Enrico fosse il figlio preferito di Caterina de’ Medici e aveva trovato di tutto sul suo periodo come re di Polonia e di Francia. Tuttavia sulle sue preferenze sessuali non c’erano che deboli accenni, soprattutto ai cosiddetti mignon, cioè i cortigiani giovani e belli di cui il re si circondava. Aveva trovato però anche molte smentite: Enrico aveva avuto svariate e bellissime amanti, e tanti studiosi erano convinti che le voci sulle sue preferenze sessuali fossero state messe in giro per diffamarlo. Una pratica molto comune. La inquietava essere in possesso forse dell’unico documento che attestasse l’effettiva omosessualità del re francese. Il senso della prima lettera di Veronica Franco a Marco Venier ora le era più chiaro.
Il tribunale dell’Inquisizione alla fine decise di assolvermi, anche perché minacciai di rendere note le carte che ora ti invio in questo plico. Ti prego di conservarle e di portarle in un posto sicuro…
Vi sono annotate le abitudini e le nefandezze sessuali di alcuni dei miei clienti più importanti. V’è anche una nota sul re di Francia. Se ti dovesse capitare di aver bisogno di pubblicarle, fallo senza indugio. Più di qualcuno cadrà in disgrazia a causa loro.
Conosceva a memoria quei due brevi passaggi, che erano per la cortigiana una sorta di assicurazione sulla vita, non tanto sua quanto dei suoi figli. Nei due anni precedenti Olimpia aveva imparato a conoscerla e ad ammirare il suo coraggio. Aveva molta più grinta lei di un intero esercito. Si era difesa con le unghie durante il processo per stregoneria e aveva dato una lezione morale a tutti. A mano a mano che leggeva i suoi scritti, Olimpia si rendeva conto di quanto fosse stata dura la sua vita: si era sposata giovanissima con un dottore molto più vecchio di lei e poi aveva deciso di seguire le orme della madre, una cortigiana piuttosto nota. Aveva vissuto nel lusso ma era morta quasi in miseria. L’epistolario dedicato al cardinale Luigi d’Este era stato uno dei primi acquisti di Olimpia per la sua collezione di libri proibiti.
«Eccoli qui!», esclamò Isabelle rientrando dal magazzino con tre piccoli manoscritti, che posò sulla scrivania di Olimpia. «Va tutto bene? Sei taciturna».
«Sono solo stanca», le rispose.
«Prima delle vacanze è sempre così, ma vedrai che poi a Natale ti annoierai a non fare nulla».
«Tu dici? Con mia madre e la mia migliore amica in arrivo? Ne dubito. Per fortuna mio padre è negli Stati Uniti, altrimenti non avrei saputo come fare per stare dietro a tutti e tre». Risero entrambe e poi si immersero nel lavoro. Era prevista un’importante asta prenatalizia di manoscritti rinascimentali e il catalogo doveva andare in stampa. Olimpia aveva sulla sua scrivania le bozze da correggere. Mise da parte i tre volumetti che Isabelle le aveva portato e cominciò a rivedere il catalogo.
L’aeroporto Charles de Gaulle traboccava di gente. Un abete immenso era stato addobbato e ricoperto di luci e troneggiava al centro di uno dei terminal degli arrivi, ostruendone il passaggio. Una fiumana di gente si spostava verso le uscite, riversandosi poi in direzione dei taxi e degli scali ferroviari. Olimpia si pentì di aver promesso alla madre e a Diana di andare a prenderle in aeroporto. Sul tabellone degli orari lesse che il volo proveniente da Mestre era atterrato da pochi minuti. Si fece strada verso l’uscita passeggeri e attese di riconoscere, tra la folla, i due volti noti.
Furono Diana e Letizia a chiamarla e a muoversi verso di lei, cercando di farsi spazio tra gli altri viaggiatori.
«Mamma, Diana!», esclamò abbracciandole, felice di vederle. Erano mesi che non tornava a Venezia e nel momento in cui le vide capì quanto le fossero mancate. Persino Letizia era insolitamente ciarliera e ben disposta a tollerare gli spintoni di coloro che passavano oltre, senza nemmeno chiedere scusa.
Durante il tragitto in taxi, fu Diana a tenere banco. Le disse che Zoe era incinta, aspettava due gemelli e Valerio le aveva chiesto di sposarla. Risero al pensiero della conversione conformista della loro amica hippie. «Poveri bambini», commentò Letizia. «Si ritroveranno con una nonna tutta matta, che alla sua età vive ancora come un’artista bohémienne e va in campeggio. Per fortuna Zoe vuol far le cose come si conviene». Diana le parlò del suo lavoro allo studio legale. Subito dopo la laurea in Giurisprudenza, suo padre avrebbe voluto che lei entrasse nell’azienda di famiglia ma lei se n’era ben guardata e aveva chiesto a un noto avvocato veneziano di poter svolgere il praticantato da lui.
Non era la prima volta che Letizia e Diana andavano a trovarla nel suo appartamento parigino ma non erano mai venute assieme e soprattutto a Natale, così Olimpia aveva deciso di addobbare un piccolo albero e aveva comprato un presepe già confezionato. Si prospettavano delle vacanze tranquille, nonostante i propositi delle sue ospiti di dedicarsi a spese folli a Rue Cambon e sugli Champs-Elysées. La mattina successiva al loro arrivo, Olimpia aveva lasciato Letizia e Diana alle Galeries Lafayette, con la promessa di raggiungerle per pranzare assieme. Aveva ancora mezza giornata di lavoro, prima delle vacanze natalizie. Si erano date appuntamento davanti alla vicina Opéra Garnier per andare a mangiare in uno dei numerosi bistrot nei pressi del teatro.
La vendita prefestiva era andata benissimo e il direttore si era congratulato con lei. La collaborazione con Louis, che era un formidabile battitore d’asta, e con Isabelle si era rivelata così fruttuosa nell’ultima vendita, che lo stesso Beaufort aveva chiesto ai tre di collaborare più spesso. Olimpia ne fu felice, si fidava ciecamente di loro. Salutò Isabelle e Louis, dando loro appuntamento a Montmartre per il pranzo di Santo Stefano. Voleva farli conoscere a sua madre e a Diana.
Uscì dal palazzo a mezzogiorno e si accorse che il cielo era plumbeo ma l’aria era ferma, il vento aveva finalmente cessato di soffiare su Parigi. Le piaceva percorrere le vie della città d’inverno. Un gruppetto di ragazzini stazionava davanti all’uscita dell’Hôtel Richelieu, del tutto incuranti dell’aria gelida. Olimpia sorrise ricordando il giorno del suo colloquio con il direttore, anche in quell’occasione aveva notato un gruppo di studenti attorno alla fontana.
«Sta nevicando!», gridò uno di loro, rivolgendo i palmi delle mani verso l’alto.
Stava nevicando davvero. Alzò gli occhi al cielo e fu investita da una miriade di fiocchi che, prima di posarsi, fluttuavano nell’aria come tanti batuffoli di cotone. Fu allora che avvertì la fitta che da anni credeva di aver soffocato e guarito. Le mancava Davide.
Capitolo 5
La notte della Vigilia, Letizia aveva insistito per andare a messa a Notre-Dame. Erano rientrate molto tardi e il giorno dopo erano rimaste a casa. Suo padre aveva telefonato più volte per sapere come stavano e Letizia gli aveva fatto un resoconto dettagliato del soggiorno parigino. Olimpia non ricordava di averla mai vista così entusiasta. Il giorno di Santo Stefano erano arrivati anche Isabelle e Louis, che avevano portato una Bûche de Noël, il tipico fagotto al cioccolato a forma di ceppo d’abete. La giornata era trascorsa oziosa tra una chiacchiera e l’altra. Diana aveva legato subito con Isabelle, invece Louis sembrava aver conquistato sua madre. Olimpia osservava quella che ormai era diventata la sua nuova famiglia, attraverso il cristallo del bicchiere di cognac di fine pasto. Si sentiva fortunata.
Ora che i conflitti con sua madre si erano assopiti ed era lontana da casa spesso si scopriva ad averne nostalgia.
«Hai dei colleghi molto gentili», le disse Letizia, quella sera, a letto. Diana si era addormentata da un bel pezzo e Olimpia e sua madre chiacchieravano a bassa voce per non svegliarla. Si erano sistemate tutte e tre nel letto, a cui avevano aggiunto una brandina minuscola, come prolungamento. Non era una soluzione comodissima ma nessuna di loro si era lamentata.
«Sì, lo so», rispose Olimpia, posando la testa sul cuscino. Dalla finestra arrivava la luce azzurrina della neve che si fondeva a quella dei lampioni giù in strada. Aveva continuato a nevicare per tutto il giorno. Le grida entusiaste dei bambini, che giocavano a palle di neve, erano state la loro sveglia la mattina di Natale.
«Ho sentito tuo padre, oggi».
«Come vanno le cose a Boston?»
«Bene, non è certo il clima natalizio ideale, come immaginerai».
«Già». Suo padre si trovava negli Stati Uniti per il funerale dello zio, che era morto novantenne e di cui era l’unico erede. Uno zio che era stato la pecora nera della famiglia Cattanei e che era andato in America a far fortuna. Ci era riuscito. Era diventato ricco, aveva avuto le donne più belle e una vita lussuosa, ma era morto solo. Suo padre, da ragazzo, era andato a trovare quello zio eccentrico, rinnegato dal resto dei parenti. Ora che era morto, designandolo come erede, non aveva potuto rimandare il viaggio e così aveva preso l’aereo qualche giorno prima della partenza di Letizia.
«Ascolta, Olimpia». Letizia abbassò impercettibilmente il tono della voce. «C’è una cosa di cui volevamo parlarti io e tuo padre. Lui ora non c’è ma mi ha autorizzato ad anticiparti la questione».
Olimpia guardò sua madre con aria interrogativa. «Che cosa succede? State bene, vero?»
«Certo, non si tratta della nostra salute».
«E allora di che cosa? Mamma, non tenermi sulle spine».
Letizia sorrise e si sistemò la coperta. «Io e tuo padre non ti abbiamo mai fatto mancare niente…».
«Oh no, non mi fare questi discorsi che mi mettono l’ansia, ti prego», la interruppe Olimpia. Letizia le fece cenno di abbassare la voce per non svegliare Diana.
«Fammi parlare».
«Hai ragione, scusa».
«Dicevo, io e tuo padre non ti abbiamo mai fatto mancare nulla e tu non avresti avuto bisogno di lavorare, lo sai».
«E tu sai che non riuscirei mai a vivere di rendita».
Letizia annuì. «Sei troppo orgogliosa e autonoma. Non è da tutti, prendere le valigie, andare a studiare all’estero e riuscire a lavorare in una delle più famose case d’asta del mondo. Non ho mai messo in dubbio che ce l’avresti fatta anche senza il nostro aiuto, perché sei mia figlia».
«Mamma!», protestò Olimpia, scuotendo il capo. «Sai quanto odio questi discorsi».
«Odiavi molte più cose prima di lasciare Venezia. Sei diventata più tollerante e finalmente hai smesso di ascoltare quella musica oscena…», la corresse Letizia.
«Non ho mai smesso di ascoltare i Led Zeppelin, mamma, e comunque potrei dire la stessa cosa di te: anche tu sei più tollerante, adesso».
«No, io sono irrimediabilmente snob, così diceva la cara Peggie. Sai, pensavo a lei, oggi pomeriggio. Sarebbe stata così orgogliosa di te».
«Lei e Anselmo mi mancano moltissimo». La voce di Olimpia si era ridotta a un sussurro. Stava quasi per confidare alla madre quanto le mancasse anche Davide ma si fermò in tempo. Letizia non avrebbe capito, era convinta che fosse acqua passata. Sapeva della bizzarra eredità che le aveva lasciato l’antiquario e non aveva mai fatto commenti al riguardo, se non quando Olimpia le aveva parlato del lascito, subito dopo la morte di Anselmo.
«Ascolta, tesoro». Letizia riprese a parlare dopo qualche istante di silenzio. «L’eredità di questo zio di tuo padre non è niente in confronto al fondo che abbiamo sottoscritto quando sei nata».
«Cosa?». Olimpia si mise a sedere sul letto e guardò sua madre.
«Era una specie di dote ma visto che non ti sei sposata…».
«Né ho intenzione di farlo», ribatté seccata.
«Ecco, appunto», proseguì Letizia, ignorando lo sguardo inquisitorio della figlia. «Io e tuo padre abbiamo deciso di lasciare che sia tu a disporre dell’intera cifra, se dovesse servirti per aprire una tua attività o per una qualsiasi altra ragione».
«Mi stai dicendo che sono ricca?»
«Lo sei sempre stata».
«No, voi lo eravate e io ho usufruito della vostra ricchezza. Qui a Parigi sono una borghese benestante, che lavora per mantenersi e che divide l’appartamento con il fidanzato».
«Sei molto ricca, non fare discorsi sciocchi. Ora, comunque, hai a disposizione una cifra notevole, a cui puoi aggiungere anche l’eredità di questo zio americano».
«A quanto ammonta l’intera cifra?»
«A tanti, tanti zeri…».
Capitolo 6
Parigi, giugno 1990
Olimpia era rientrata da qualche ora. Non si sentiva bene, quel giorno, e aveva deciso di portarsi il lavoro a casa. L’improvviso cambio di temperatura – si era passati in poche ore dai maglioni di lana alle maniche corte – aveva favorito l’epidemia di raffreddore, in ufficio. Nemmeno Isabelle stava bene e le aveva lasciato sulla scrivania il programma della Fiera Internazionale del Libro Antico, alla quale Olimpia partecipava ogni anno, come rappresentante dell’Hôtel Richelieu.
Si sistemò i cuscini dietro la schiena e cominciò a leggere il programma, appuntandosi i nomi di alcuni espositori da contattare prima che la manifestazione avesse luogo. Era interessata a un antiquario di Tolosa, in particolare, che vendeva testi molto interessanti, alcuni dei quali erano stati stampati clandestinamente, per evitare la censura della Chiesa. Avrebbe di certo trovato qualche testo per la sua collezione. Alzò lo sguardo verso la libreria sulla quale, fino a qualche anno prima, teneva i suoi testi proibiti. La sua collezione aveva ormai raggiunto un numero tale di volumi che era stato necessario affittare un deposito. Trovare uno spazio sicuro, sorvegliato, abbastanza ampio, areato e privo di umidità, si era rivelata un’impresa quasi impossibile. Il cognato di Louis, un pittore squattrinato e di poco talento, stava per lasciare l’atelier dove fino a poco prima aveva lavorato, per trasferirsi con la moglie in Provenza. Si trovava a due passi dalla fermata Alésia, nel quattordicesimo arrondissement, a ridosso di Montparnasse e per Olimpia era comodo da raggiungere in metropolitana. Aveva dedicato i suoi fine settimana a sistemare quello spazio. Da quando Andrew era ritornato in Inghilterra, era stato un modo per non pensare alla rottura con lui. Si erano lasciati da un anno, di comune accordo, ma continuavano a sentirsi come due vecchi amici che avevano condiviso un tratto di strada assieme e ne serbavano un ricordo piacevole. Andrew era tornato a vivere a Londra, dove aveva accettato un posto da curator presso la Tate Gallery. Non aveva nemmeno provato a convincerla a partire con lui, si erano solo abbracciati, poi Andrew se ne era andato.
Bussarono alla porta. Olimpia si alzò dal letto e corse scalza verso l’ingresso. «Buongiorno, mademoiselle Cattanei», la salutò la portinaia, una rubiconda signora alsaziana che lavorava in quel condominio da ormai trent’anni.
«Buongiorno, madame».
«Hanno portato questo per lei», le disse porgendole un voluminoso pacco giallo. Olimpia lo prese e la ringraziò, rientrando a casa, curiosa. Ritornò nella sua stanza e lo scartò con calma. Sorrise quando si accorse che si trattava del consueto pacco contenente un libro proibito e un documento di Veronica Franco. Era ancora giugno, Davide lo aveva inviato in anticipo, quell’anno.
Scartò prima il libro e si lasciò sfuggire un’esclamazione di gioia. Aveva cercato a lungo quel volume. Anselmo sembrava guidare la sua collezione, come un angelo custode.
«Ovunque tu sia, grazie!», esclamò, sfogliando con cura il testo che aveva posato intanto sulla scrivania. «Il merito delle donne di Moderata Fonte», lesse ad alta voce. Stavolta nel pacco si trovavano due veneziane doc, pensò Olimpia. Moderata Fonte era lo pseudonimo della letterata e musicista Modesta Pozzo de’ Zorzi, morta a trentasette anni, nel dare alla luce il suo quarto figlio. L’opera che Olimpia ora sfogliava era l’edizione originale del Seicento, che i figli della donna avevano fatto pubblicare. Modesta aveva fatto in tempo a terminare la sua opera principale, Il merito delle donne, un testo scandaloso, in cui sosteneva che la presunta inferiorità della donna rispetto all’uomo non fosse determinata da fattori biologici, ma dalla diversa educazione. Un testo femminista, in cui si rivendicavano per la donna il diritto allo studio e a un ruolo di rilievo nella società. Olimpia ricordava il luogo in cui era sepolta a Venezia, nel chiostro dei frati minori di San Rocco.
Tirò fuori anche il plico con il documento di Veronica Franco, si trattava di una delle sue lettere più famose, ma doveva essere una sorta di brutta copia, o di prima stesura, perché riportava alcune differenze con la lettera che poi la Franco effettivamente aveva pubblicato nella raccolta del 1580. Era la lettera che Veronica indirizzava a una madre, per esortarla a non avviare la figlia alla vita di cortigiana:
Mangiare con la bocca altrui, fare ciò che dicono gli altri: c’è maggior miseria? Credetemi, tra tutte le sciagure che possono capitare a una donna, questa è di gran lunga la peggiore a cui si aggiungerà anche il disprezzo della gente, soprattutto delle altre donne.
Inoltre, s’ella diventasse donna di mondo, voi diventereste sua messaggera col mondo e sareste da punire severamente, perché l’errore di lei sarebbe fondato tutto sulle vostre colpe. Vedete voi dannazione più tremenda?
Si emozionava sempre nel rileggere quel passaggio così drammatico, in cui la cortigiana sembrava inspiegabilmente pentirsi di aver intrapreso quella strada. Non parlava del suo sacrificio d’amore ma Olimpia sapeva bene che Veronica aveva dovuto rinunciare a Marco Venier. Il pensiero tornò alla notte della Vigilia di Natale di dodici anni prima. Chiuse gli occhi e rivide Davide che la baciava e faceva l’amore con lei per la prima volta, mentre nella sua testa riecheggiavano ancora i versi che i due amanti veneziani si erano scambiati.
Ora che mancava poco più di un mese ai suoi trent’anni, Olimpia si rendeva conto di aver imposto a se stessa lo stesso rigore che si era imposta Veronica Franco. Avevano entrambe scelto la libertà, pagando un prezzo altissimo. Si alzò dalla scrivania e andò ad accendere lo stereo. La voce di Lou Reed che cantava Walk on the Wild Side si diffuse in tutta la casa. Sistemò il libro di Moderata Fonte sullo scaffale e mise la lettera nella cassaforte. Stava per buttare il plico che li conteneva quando si accorse che riportava solo il suo nome e cognome, nient’altro. Impallidì.
Il cuore cominciò a batterle, furioso. «Oh no…», mormorò. «No, no…». S’infilò i sandali e corse dalla portinaia al piano terra. Aveva il fiatone quando arrivò davanti alla sua porta. Suonò il campanello più volte.
Non c’era scritto l’indirizzo. Non c’era scritto. Pensò alle parole della donna: «Hanno portato questo per lei». Qualcuno aveva portato a mano quel plico e quel qualcuno non poteva che essere lui!
«Che succede, mademoiselle?», le domandò la donna, aggrottando le sopracciglia. «È molto pallida».
«Chi… chi ha portato il pacco per me? E quando?». La voce di Olimpia era spezzata dal fiatone e dall’angoscia.
«L’ho portato su da lei appena me l’hanno dato, mademoiselle».
«Chi? Chi era? Com’era vestito?»
«Un uomo, piuttosto alto… con i capelli scuri e la barba…».
«Oddio!», urlò Olimpia. «Da che parte è andato quando ha lasciato il palazzo? Si concentri, madame, è importante, la prego».
La donna ci pensò su qualche istante e poi disse che aveva svoltato a sinistra. Olimpia le diede un bacio sulla guancia e cominciò a correre come una forsennata fino a Place du Tertre. Si guardò intorno: la piazzetta degli artisti traboccava di turisti, molti dei quali si fermavano a farsi fare il ritratto da uno dei pittori che affollavano ogni giorno la piazza. Olimpia corse con lo sguardo sui visi delle persone che aveva di fronte ma era quasi impossibile riuscire a individuare Davide in mezzo a quel marasma. Doveva andare verso il métro, verso il Sacré-Cœur o Pigalle? Decise d’istinto di andare verso la stazione della metropolitana. Era ormai arrivata a Rue Gabrielle e stava svoltando a Rue des Trois-Frères per raggiungere la fermata Abbesses, quando le parve di scorgere una sagoma familiare. Un uomo con i capelli neri, piuttosto lunghi, le dava le spalle. Indossava una maglietta scura e i jeans. Passeggiava senza fretta e si era fermato davanti alla vetrina di un negozio. Affrettò il passo per avvicinarsi, ora aveva ripreso a camminare a passo sostenuto.
Olimpia accelerò l’andatura, anche se si sentiva esausta. Aveva i brividi ed era agitata, il cuore le stava esplodendo in petto. Forse le era salita la febbre o forse era solo stanca e scossa per non essersi accorta prima del particolare sul pacco. Come aveva fatto a non notarlo subito?
L’uomo davanti a lei si era fermato davanti a un bistrot e sembrava indeciso sul da farsi. Erano a pochi metri, lui ora le mostrava il profilo. Olimpia trattenne il respiro e cominciò a correre verso di lui.
«Davide!», gridò, agitando la mano.
Lui parve non sentirla.
«Davide!», ripeté, facendo voltare qualche passante. Ancora un passo e lo avrebbe toccato, le bastava allungare il braccio. Un passante la urtò, facendola quasi cadere.
«Sta bene, mademoiselle?», le chiese. Si guardarono negli occhi e Olimpia trattenne le lacrime. Non era lui, non era il suo Davide. L’uomo la osservò e aggrottò la fronte.
«Le posso offrire un caffè? Mi sembra molto scossa», disse.
«No, no, grazie. Mi scusi, l’avevo scambiata per un’altra persona».
Capitolo 7
Quando era rientrata a casa, Olimpia aveva trovato tre messaggi sulla segreteria telefonica. Erano tutti di Louis che la pregava di richiamarlo con urgenza. Non aveva voglia di parlare con nessuno, era stanca, avvilita e sentiva le gote in fiamme. Si misurò la temperatura. Non aveva la febbre eppure stava così male. Si sdraiò sul letto e cadde in un sonno profondo e senza sogni.
Dopo aver percorso in lungo e in largo le vie di Montmartre, Olimpia aveva continuato a cercare Davide dappertutto, senza alcun risultato. Si era anche fermata a una cabina per telefonare alla bottega Calvani ma non le aveva risposto nessuno. Aveva perso la cognizione del tempo e quando era tornata a casa era crollata.
Fu svegliata da un rumore continuo e persistente. Qualcuno stava premendo il suo campanello con una certa insistenza. Scostò il lenzuolo e si accorse di essersi messa a letto con addosso il vestito di lino del giorno prima, che ora era ridotto a uno straccio. Posò i piedi a terra e sentì il calore del legno del parquet che le scaldava le dita gelide. Rabbrividì e s’infilò una felpa, prima di andare ad aprire.
Dallo spioncino intravide le sagome familiari di Isabelle e Louis che avevano smesso di suonare al campanello e stavano parlottando tra di loro.
«Olimpia, finalmente!», esclamò Louis quando vide la porta aprirsi. Sul suo viso si dipinse una strana espressione, che oscillava tra la preoccupazione e il sollievo.
«Ci stavamo chiedendo dove fossi finita», le disse Isabelle.
«È sabato», farfugliò lei, facendosi da parte per lasciarli entrare.
«Ti abbiamo portato i croissant al cioccolato e un cappuccino». Isabelle posò una busta di carta sul tavolo e prese i tre bicchieri di carta dalle mani di Louis.
«Ieri ho provato a chiamarti tante volte ma non mi hai risposto, scattava la segreteria. Sei sicura di star bene?»
«Sì, Louis, sto bene», tagliò corto Olimpia. Ogni tanto Louis esagerava con il suo atteggiamento protettivo. Era bello poter contare sempre su di lui ma a volte Olimpia si sentiva incapace di ricambiare quell’affetto così incondizionato. Era la sua roccia, un punto di riferimento a cui non poteva più rinunciare e questo la metteva a disagio perché aveva paura di perderlo, come aveva perso Peggie e Anselmo. Allontanò quei pensieri cupi. Era frustrata e stanca. Non faceva una vacanza da mesi, forse anni. Tanto per cominciare, non tornava a Venezia da quasi due anni. Erano sempre andati i suoi genitori a trovarla, lei cercava di evitare di rientrare, con una scusa o con un’altra. Le poche volte che aveva messo piede in laguna, si era barricata in casa sua o era andata a trovare Diana, pur di non vedere Davide.
«Capo, ti verrei a trovare solo per passare da madame croissant», esordì Isabelle, dando un morso al cornetto e chiudendo gli occhi, in estasi.
«Madame chi?»
«La signora qui sotto vende dei croissant così buoni che mi trasferirei anche domani». Olimpia le sorrise e cominciò a mangiare anche lei. Louis era silenzioso e beveva il cappuccino assorto nei suoi pensieri. Non era una novità che si presentassero a colazione, anche se di solito lo facevano prima di andare tutti insieme in ufficio. Ci doveva essere un’altra ragione per la loro presenza a casa sua, di sabato.
«Su avanti, ditemi che cosa ci fate qui. Non sarete venuti solo per il piacere di mangiare una delle delizie di madame croissant… A proposito, Isabelle, la signora in questione si chiama Jeanne Breton».
«Per me resterà sempre madame croissant», le rispose Isabelle, addentando l’ultimo boccone.
«Louis, me lo dici tu?»
«La casa d’aste di Yvonne de Fleury sta per fallire», esordì.
Olimpia spalancò gli occhi per la sorpresa. La casa d’aste della contessa de Fleury era una delle più antiche della città, aveva sede a Saint-Germain-des-Prés ed era il ritrovo di collezionisti di nicchia e di intellettuali, molti dei quali erano amici di vecchia data della contessa. Più di una volta Olimpia era riuscita ad aggiudicarsi l’esclusiva per alcune vendite, ma solo dopo aver lottato strenuamente contro la donna a suon di percentuali di guadagno.
«Mi dispiace che un pezzo della storia di Parigi debba finire così miseramente», commentò.
Louis le sorrise, per la prima volta da quando era entrato in casa sua. Scambiò uno sguardo complice con Isabelle e poi sganciò la bomba: «Ieri pomeriggio, la contessa mi ha telefonato chiedendomi se tu fossi interessata a rilevare la sua casa d’aste. Le ho detto di sì».
«Che cosa? Sei matto?». Olimpia si alzò e lo guardò con un’espressione incredula. «Io sto bene all’Hôtel Richelieu, non ho alcuna intenzione di andarmene».
«Anche noi stiamo bene all’Hôtel Richelieu, ma siamo qui per dirti che ti seguiremmo, nel caso tu volessi metterti in proprio. Abbiamo parlato a lungo, io e Isabelle, e siamo giunti alla conclusione che non ci sarebbe miglior posto per noi che in una casa d’aste tua».
«Siete due folli», esclamò Olimpia. «Vi rendete conto di cosa vuol dire? Rischierei il fallimento…».
«Ma figurati, capo! Sei la persona più qualificata al mondo per svolgere un’attività del genere: hai fiuto, tatto e sai aspettare. E poi finalmente potresti aprire la prima casa d’aste specializzata in libri antichi», la interruppe Isabelle.
«Siete matti, non rileverò mai la Maison de Fleury. Non lascio il certo per l’incerto. Ho faticato così tanto per essere assunta all’Hôtel Richelieu, per riuscire a entrare nelle grazie di Beaufort».
«Sai bene che qui in Francia non potresti aprire una tua casa d’aste, dovresti comunque rilevarne una che sta fallendo o rischieresti di passare anni e anni tra pratiche burocratiche infinite».
«No, non me la sento. Sarebbe un rischio troppo grande. E se dovessi fallire, farei precipitare anche voi nel baratro».
«Tu fallire?», obbiettò Louis. «Non credo proprio».
«Avete così tanta fiducia nelle mie capacità da rischiare il tutto per tutto e fare un salto nel buio?»
«Faremmo questo e anche altro per te, capo».
Olimpia posò gli occhi prima su Isabelle e poi su Louis. Sembravano convinti di quel che dicevano ma a lei sembrava una follia.
Nonostante avesse abbastanza denaro da poter rilevare non una ma due case d’asta, non se la sentiva di trascinarli in un’impresa che poteva rivelarsi un totale fiasco. Era troppo rischioso. Isabelle stava per sposarsi e aveva avuto da poco un bambino; Louis era il miglior battitore d’asta sulla piazza. Come poteva compromettere il loro futuro, oltre che il suo?
«Su, vestiti», le ordinò Louis, alzandosi e prendendola dolcemente per un braccio. «La contessa ci aspetta a pranzo a casa sua».
«È una congiura?», chiese Olimpia, scoppiando a ridere.
«Lo sapevo che avresti detto di sì!», gridò Isabelle, abbracciandola.
La vecchia contessa de Fleury li aspettava nel salone del suo lussuoso appartamento, che dava sulla maestosa chiesa della Madeleine. I contorni dell’edificio neoclassico si stagliavano su un cielo terso e le colonne della facciata apparivano più candide, in netto contrasto con la scalinata della chiesa piena di fiori colorati, che dall’alto sembravano le pennellate di un dipinto impressionista. Yvonne de Fleury non doveva essere stata bella da giovane ma ora l’età le aveva regalato quel fascino discreto che attrae persino coloro che solitamente non prestano attenzione all’apparenza. Era di quella bellezza antica, raffinata ed elegante tipica del suo elevato ceto sociale. Lei e Olimpia si conoscevano già, ma avevano avuto rare occasioni di parlare, anche perché la contessa rappresentava la concorrenza.
Alla sua destra era seduto il nipote Alain, un adolescente timidissimo, che non alzava quasi mai lo sguardo dal piatto e di cui la contessa pareva accorgersi appena, presa com’era a elencare le meraviglie della sua casa d’aste.
«I miei parenti erano inorriditi quando avevo detto loro di voler lavorare», stava dicendo, mentre un paio di camerieri si affannavano attorno al tavolo. «Papà mi aveva portato a Place Vendôme e mi aveva comprato un gioiello per farmi passare quell’idea balzana. Ce l’ho ancora, quel bracciale di diamanti e rubini».
Olimpia sorrise pensando alla sua adolescenza, quando si era dovuta rivolgere a Peggie per poter lavorare da Anselmo. La sua storia somigliava, per certi versi, a quella di Yvonne, anche se era meno variopinta. La contessa aveva avuto diversi amanti tra cui grandi artisti e noti intellettuali. Aveva inflitto un secondo dolore alla sua aristocratica famiglia quando aveva deciso di spostare la casa d’aste dello zio da Rue du Faubourg Saint-Honoré al più bohémien Boulevard Saint-Germain nel quartiere di a Saint-Germain-des-Prés.
«Io scendevo a far colazione al vicino Café de Flore e incontravo Jean-Paul Sartre, capite? Che m’importava di quei quattro parrucconi aristocratici che frequentavano la vecchia sede», concluse, fissando lo sguardo su Olimpia, come per verificarne la reazione.
«Avevamo un’amica in comune, credo», le disse, dopo qualche minuto di silenzio. Isabelle e Louis assistevano alla scena senza fiatare, così come Alain, che era assorto nei suoi pensieri e guardava al di là della finestra.
«Davvero? Immagino di sì, sta parlando di qualche suo cliente?», chiese Olimpia.
«No, sto parlando della straordinaria signora Goldenstein».
«Peggie Goldenstein?», chiese, stupita.
«Chi altri, se no? Ho detto “straordinaria” non a caso».
«Mi perdoni. È che sono molto stupita che Peggie sia stata anche una sua conoscenza», ammise Olimpia.
«Non era una mia conoscenza, signorina Cattanei», la corresse. «Peggie era una mia cara amica. Quando soggiornava a Parigi frequentavamo gli stessi salotti e anche gli stessi uomini, a volte».
Lo sguardo di Olimpia si posò istintivamente sul nipote della contessa, che però sembrava non prestare la minima attenzione a ciò che diceva sua nonna. Doveva esserci abituato così come lei era abituata alle stravaganze di Peggie. L’aveva amata tanto anche per la sua schiettezza e aveva goduto dei racconti della sua giovinezza scapestrata. Non faceva fatica a immaginare Yvonne e Peggie sedute a chiacchierare al Café de Flore, circondate da intellettuali e da studenti di filosofia e storia dell’arte. Le sfuggì un sorriso, che la contessa colse al volo.
«Eravamo proprio come ci immagina», disse, quasi leggendole nel pensiero. «Due ragazze vivaci, piene di soldi e di uomini».
«Come fa a sapere della mia amicizia con Peggie?», le domandò.
«Io so tutto, signorina, ma a prescindere da questo… io e Peggie abbiamo continuato a sentirci anche dopo il suo trasferimento a Venezia. Ci raccontavamo tutto e io ho una buona memoria. Certo, ci ho messo un po’ prima di capire che la rompiscatole che mi rubava i clienti sotto il naso era la ragazzina di cui mi parlava la mia amica americana».
«A tal proposito, contessa», s’intromise Louis, «vogliamo parlare della cessione della Maison de Fleury?».
Yvonne gli sorrise sorniona ed esclamò: «Mi chiedevo quanto ci avreste messo ad arrivare al dunque. Ebbene, ne parleremo dopo il dessert, nel mio salottino privato».
Le condizioni imposte dalla contessa de Fleury erano migliori di quelle che aveva ipotizzato lo stesso Louis, pessimista per natura. Per rilevare la sua casa d’aste, la donna aveva imposto un prezzo ragionevole, che rientrava ampiamente nelle disponibilità finanziarie di Olimpia. Aveva chiesto che fosse mantenuto il nome, almeno fino alla sua morte: «Quando sarò sottoterra, potrete chiamarla anche “Maison della vecchiaccia”, non mi interesserebbe più», aveva detto, mentre sorseggiava il suo Armagnac. La sede principale doveva rimanere a Saint-Germain-des-Prés ma avrebbe incluso nel prezzo anche la vecchia sede in Rue du Faubourg Saint-Honoré, che ora era in stato di semiabbandono ma che avrebbero potuto trasformare in un elegante ufficio. Fino a qualche anno prima, la famiglia de Fleury era proprietaria di tutto il palazzo, ora però una buona parte era stata venduta o divisa tra gli eredi e la casa d’aste poteva quindi usufruire di un solo appartamento del comprensorio. Si trattava comunque di un ambiente immenso, anche se doveva essere ristrutturato da cima a fondo.
Olimpia annuiva senza quasi rendersi conto di ciò che stava accadendo. Era frastornata all’idea della mole di lavoro che l’aspettava e dal rischio che correva, mettendosi in proprio. Avrebbe dovuto consultarsi con i suoi genitori e andare dal loro legale per capire bene a cosa stesse andando incontro. Doveva chiedere a Isabelle di prenotarle il primo volo disponibile per Mestre, non appena fosse tornata in ufficio.
«Un’ultima cosa», proseguì la contessa. «Mio nipote Alain».
Gli sguardi si posarono tutti sul ragazzo, che arrossì e sprofondò ancora di più nella poltrona su cui era seduto.
«Deve lavorare con voi. Non chiedo altro. Tra qualche mese sarà maggiorenne, quindi affidategli una mansione qualsiasi. L’importante è che lo prendiate a lavorare alla Maison».
Una volta scesi in strada, Olimpia, Louis e Isabelle s’incamminarono verso la chiesa de la Madeleine. Olimpia espresse il desiderio di entrare prima di andare in un bar a fare il punto della situazione. Avevano bisogno di riflettere sulla proposta di cessione della contessa. Entrarono in chiesa e dovettero aspettare qualche istante prima che i loro occhi si abituassero al buio delle navate. La chiesa era semideserta e i grossi lampadari erano ancora spenti. La statua in marmo bianco di santa Maria Maddalena si ergeva candida in mezzo agli angeli sull’altare maggiore ed era l’unica fonte di luce che illuminava fiocamente il resto della maestosa chiesa.
Qualche minuto dopo, quando uscirono dalla chiesa, si andarono a sedere al tavolino di un bistrot di Rue Royale e rimasero in silenzio per qualche minuto.
«Te la senti di fare questo passo?», le chiese Isabelle, in un sussurro.
«Non lo so», ammise.
Louis le prese la mano e le disse: «Noi siamo con te».
Olimpia annuì e abbassò lo sguardo sulle sue ginocchia. Era confusa, aveva bisogno di parlare con suo padre e sua madre.
L’idea di ritornare a Venezia le faceva battere il cuore e ripensò al giorno prima, quando aveva inseguito un uomo credendolo Davide. Si chiese se fosse venuto davvero a Parigi a consegnarle di persona il pacco. Le sembrava tutto surreale, forse lo aveva solo immaginato. Aveva provato a chiamarlo prima di uscire per andare dalla contessa. Non le aveva risposto nessuno nemmeno in bottega. Che cosa avrebbe dovuto fare? Prenderlo come un segno del destino ed evitare di insistere? Non cercarlo più? Se l’uomo che le aveva portato il plico fosse stato davvero lui, che senso avrebbe avuto andarsene senza neanche salutarla? Doveva aver delegato qualcun altro a portarglielo. Quell’ipotesi era però meno probabile del presunto viaggio di Davide a Parigi. Lui non avrebbe mai e poi mai affidato a terzi una parte della sua eredità. Non avrebbe mai fatto svolgere ad altri un compito così delicato. Era pur sempre lui il solo esecutore testamentario di Anselmo e, se gli fosse accaduto qualcosa, lei lo avrebbe saputo tramite il notaio Lazzarini. Ma allora perché Davide era venuto a Parigi?
Se Davide era effettivamente a Parigi e non la cercava doveva pur esserci un valido motivo. Forse era lì in vacanza con Lisa e la bambina. Doveva essere andata così, non riusciva a trovare un’altra possibile spiegazione. La fitta di gelosia le arrivò dritta alla bocca dello stomaco. Nonostante fossero passati tanti anni, non riusciva a smettere di pensare a lui, a ciò a cui aveva rinunciato lasciando Venezia. Non sarebbe mai riuscita a sopportare il fatto che lui avesse una figlia con un’altra donna. Eppure, lo aveva sognato spesso. Nei suoi sogni Davide era solo suo, faceva l’amore con lei e la stringeva forte a sé. I suoi ricordi si mescolavano alle immagini di una vita che non avevano mai vissuto assieme.
Olimpia aveva sperato troppe volte che Davide un giorno avrebbe lasciato tutto per andarla a cercare, pur sapendo benissimo quanto fosse infantile quel pensiero: lui era responsabile, dolce ed era pazzo di sua figlia. Diana le aveva detto che la ragazzina stava sempre con lui in bottega e che sembrava fosse la sua unica ragione di vita. Lei e Davide non si erano dati nemmeno un’opportunità, non si erano concessi un ipotetico domani. Decise in quel momento che non lo avrebbe cercato mai più.