Prima parte

       

Capitolo 1

Venezia, 1 agosto 1975

La bottega dell’antiquario Calvani si trovava a pochi passi dalla chiesa di Santa Maria Formosa. Non era lontana dal suo palazzo, eppure Olimpia la notò solo quel giorno. Faceva insolitamente freddo per essere agosto; la pioggia aveva rinfrescato la città, affollata dai turisti e dalle coppie in luna di miele. L’aria era umida e le nuvole nere che si addensavano all’orizzonte non promettevano nulla di buono. Nonostante la madre le avesse ripetuto più volte di portare l’ombrello con sé, Olimpia era uscita senza nemmeno risponderle. Aveva voglia di fare una passeggiata e di stare da sola, almeno per qualche ora.

L’indomani avrebbe compiuto quindici anni e sua madre stava organizzando una festa degna di una regina. L’avrebbero esibita come la bambolina che i suoi si ostinavano a non voler far crescere. Per fortuna ci sarebbe stata Peggie. Almeno lei l’avrebbe trattata come un essere umano. Per un attimo, Olimpia accarezzò l’idea di andare a casa della sua amica, ma fu costretta a fermarsi per un improvviso scroscio di pioggia che l’aveva colta mentre si stava dirigendo verso piazza San Marco, dove di solito si recava quando aveva voglia di stare un po’ per i fatti suoi. Si era riparata, d’istinto, nel primo negozio che aveva trovato.

L’odore familiare e inconfondibile dei libri l’aveva investita ancora prima di alzare lo sguardo per dare un’occhiata all’interno. Aveva sorriso e chiuso gli occhi, per assaporare l’unico profumo che le dava un senso di sicurezza. Non c’era rifugio migliore, per Olimpia. Leggere era come vivere mille vite e fuggire dalla sua.

«C’è nessuno?», chiese addentrandosi nella bottega. Non si trattava di una vera e propria libreria. Alcune pareti erano ricoperte di scaffali pieni di libri antichi, altre di specchi, dipinti, orologi a muro e stampe di vario genere. Il locale si sviluppava in lunghezza e sembrava un labirinto. Olimpia mosse qualche passo incerto verso la parte più buia del negozio. Al profumo dei libri ora si era sostituito quello di qualche prodotto chimico, uno di quelli usati per restaurare il legno. Conosceva bene quell’odore, casa sua era piena di mobili antichi. Era arrivata quasi in fondo al locale. Intravedeva una luce fioca, come se ci fosse un altro accesso sul retro o, forse, un cortile interno al palazzo.

«Che cosa le serve?». La voce profonda di un uomo la fece sobbalzare. Olimpia si girò di scatto e si ritrovò di fronte a un uomo anziano, che la osservava con un’espressione severa. Aveva una lunga barba bianca e degli occhialini posati appena sul naso adunco. Gli occhi azzurri erano chiusi in due fessure. Olimpia valutò per un attimo se andar via con una scusa o se rimanere per dare un’occhiata ai libri. La curiosità ebbe la meglio e, senza perdersi d’animo, nonostante l’espressione evidentemente infastidita del vecchio, sorrise e disse: «Vorrei comprare un libro antico».

L’uomo la squadrò da capo a piedi prima di lasciarsi andare a una fragorosa risata. Olimpia trattenne il respiro e cercò di calmare la sua indignazione. Che cosa aveva detto per suscitare tanta ilarità? Si accigliò e aspettò che lui smettesse di ridere prima di chiedere, nel tono più glaciale possibile: «Crede che io non sia in grado di pagarglielo?»

«Oh no, non mi permetterei mai», si affrettò a rispondere il vecchio, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Mi chiedo, piuttosto, se lei sia in grado di leggerlo».

Il viso di Olimpia divenne paonazzo. Non se ne andava solo per non dare la soddisfazione a quell’uomo odioso di vederla ritirarsi dalla battaglia. Era chiaro che la stava sfidando. Se intendeva capire quanto vero fosse il suo amore per i libri, quell’antiquario aveva trovato pane per i suoi denti.

«Signore, leggo fin da prima delle elementari. Non sapevo ancora scrivere ma riuscivo già a leggere».

«Senza dubbio un ottimo biglietto da visita, ma i libri antichi sono un’altra cosa», ribatté lui.

«So distinguere un romanzetto da un buon romanzo e non lo dico tanto per dire». La voce di Olimpia ora era più ferma. Quando parlava di libri rifioriva, si illuminava e sembrava una bambina golosa davanti a una torta. «Sono giovane, lo so, ma colleziono libri di ogni tipo: romanzi, saggi, libri illustrati. La mia passione sono i volumi antichi».

«Ah sì? E perché?»

«Perché mi piace immaginare che custodiscano le vite di chi un tempo li ha posseduti».

L’uomo la osservò meglio. Il sorrisetto di sufficienza che aveva fino a qualche minuto prima era sparito. Ora sembrava interessato a lei. Olimpia pensò di aver detto qualcosa che lo avesse convinto a darle una chance. «Bene, molto bene, tutto questo le fa onore, signorina…?»

«Cattanei. Mi chiamo Olimpia Cattanei».

«Anselmo Calvani, piacere», si presentò, tendendole la mano callosa. Era la mano tipica di chi lavora con gli agenti chimici e le colle speciali. Era rovinata e rugosa ma la stretta era forte, lasciava trasparire determinazione. «Scommetto che non ha idea di quale libro scegliere», continuò l’antiquario, facendo un gesto con il braccio per indicare gli scaffali attorno a loro.

«In effetti ho l’imbarazzo della scelta», ammise Olimpia.

Anselmo si avvicinò a uno degli scaffali prendendo qualche libro, per poi riporlo dopo pochi istanti al suo posto. Le sue mani accarezzavano le copertine con fare paterno. Maneggiava i volumi con disinvoltura, era evidente che li conosceva tutti, uno per uno. Olimpia lo osservò riporre l’ennesimo libro prima di girarsi verso di lei per dirle: «Lasci che sia lui a sceglierla».

«Come, scusi?».

L’antiquario le sorrise. Si fece da parte e dopo qualche istante le indicò uno degli scaffali. «Mi dica, Olimpia, quando non ha nessuna idea di quello che vuole leggere ed entra in una libreria, oppure quando va in biblioteca senza uno scopo ben preciso, cosa la spinge verso un volume piuttosto che un altro?»

«Non saprei», ammise Olimpia, aggrottando le sopracciglia. Non riusciva a capire dove volesse arrivare.

«Esatto», esclamò lui con gli occhi che gli brillavano. «Comincia a gironzolare per gli scaffali, a prendere questo o quel libro senza nemmeno leggerne la quarta di copertina. Poi però, all’improvviso, è attratta forse da un’immagine o dal nome dell’autore, e si ritrova a leggere un libro che non avrebbe mai notato fino a due minuti prima».

Olimpia rise. «Ha ragione! Mi succede sempre».

«Prenda il libro su cui si sta appoggiando», le disse Anselmo, facendole segno di spostare la mano dal libro posato su un’antica madia. «Legga il titolo, per favore».

«È il Decameron di Giovanni Boccaccio», rispose Olimpia sentendo crescere dentro di sé una strana euforia. L’idea del vecchio antiquario era affascinante.

Quando non era Peggie a consigliarle cosa leggere, di solito Olimpia si lasciava guidare dall’istinto. Raramente si sbagliava. Aveva fatto piacevolissime scoperte grazie a quello che lei pomposamente chiamava il suo “fiuto” per un buon libro. In realtà non aveva mai compreso fino in fondo cosa la spingesse a comprare un libro piuttosto che un altro. Anche il suo amore per i libri antichi, che sua madre considerava bizzarro, era frutto di una combinazione di elementi. L’idea che tante altre persone avessero posseduto, letto e goduto di un libro, la ipnotizzava. Peggie aveva una biblioteca immensa piena di libri antichi e a volte Olimpia ci aveva passato ore e ore senza nemmeno rendersi conto dello scorrere del tempo. E quel profumo di antico? Come poteva ignorarlo?

Senza pensarci su nemmeno un istante, aprì il Decameron e ne inspirò l’odore. Chiuse gli occhi e sorrise. Quando li riaprì si accorse che Anselmo la stava osservando.

«Lo prenda, è suo», le disse con un sorriso incoraggiante.

Olimpia richiuse velocemente il libro e lo posò sulla madia. Era rossa in viso e si rese conto che stava farfugliando parole senza senso.

«Perché lo mette a posto? È suo, se lo vuole».

«Intendo pagarglielo», ribatté lei, tutto d’un fiato. Una strana inquietudine la agitava.

«Signorina Cattanei, le sto dicendo…», cominciò a spiegare Anselmo, quasi divertito dalla reazione di Olimpia.

«Ho capito», lo interruppe lei. «Non posso accettare. Questo libro varrà una fortuna. Se me lo mette da parte, passerò tra qualche giorno a ritirarlo».

«Perché aspettare, se può essere suo, ora? Le voglio fare un regalo. Non mi capita spesso di incontrare una giovane signorina così appassionata di libri, mi creda. È mio costume regalare libri, quando capisco che chi li riceve li tratterà con tutti i riguardi».

«Su questo non deve avere alcun dubbio», si lasciò sfuggire lei.

«Lo vede? Il Decameron l’ha scelta, lo prenda e lo legga. Avrà modo di acquistare altri volumi antichi in questa bottega, se vorrà. Ora le faccio io un regalo. Lo consideri come un omaggio di benvenuto alla più giovane delle mie clienti».

Il viso di Olimpia si illuminò. Sorrise e riprese il libro tra le mani, stringendolo a sé. «Grazie mille», mormorò.

«Ringrazi Boccaccio che l’ha scritto», rise Anselmo.

Olimpia sistemò con cura il Decameron nella sua borsa. Sbirciò al di là della vetrina della bottega e si accorse che aveva smesso di piovere. Doveva rientrare subito se non voleva rischiare di rovinare il libro. Come se le avesse letto nel pensiero, Anselmo esclamò: «Vada pure, non piove più. Mi raccomando, si diverta. Buona lettura».

«Grazie, signore. Non ho parole per descrivere la mia gioia!».

«Benedetta ragazza, vada ora, prima che il tempo peggiori. Le nuvole non promettono nulla di buono».

«Ha ragione… vado!». Olimpia si diresse velocemente verso l’uscita. Arrivata all’entrata del negozio, si girò verso l’interno cercando con gli occhi il vecchio antiquario, che era rimasto immobile, con le spalle alla libreria di volumi antichi. «Sa una cosa?», esclamò.

Anselmo si sistemò gli occhiali sul naso e la guardò incuriosito, non le rispose ma aspettò che fosse lei a parlare.

«Domani è il mio compleanno e non potevo ricevere regalo migliore», disse Olimpia. Scoppiò a ridere e poi corse via, percorrendo le calli veneziane con un entusiasmo che non provava da troppo tempo.

Olimpia si svegliò di soprassalto. Aveva dolori ovunque e si sentiva intorpidita. Si era addormentata come un sasso. Dal balcone proveniva una tenue luce grigiastra, segno evidente che il tempo non era migliorato. Pioveva ancora. Poteva sentire le gocce di pioggia picchiettare contro il vetro. Sospirò e si girò verso il comodino per controllare l’ora: le 5:30 del mattino. Si sentiva stanca, aveva letto il Decameron fino a qualche ora prima. Si alzò dal letto e si accorse di avere ancora addosso i vestiti del giorno prima. Presa dalla foga di leggere non aveva cenato e si era chiusa a chiave nella sua stanza.

Andò in bagno e fissò il pallido riflesso del suo viso nello specchio. Aveva un aspetto tremendo ma per fortuna aveva il tempo per riprendersi prima di incontrare sua madre. L’immagine che vedeva attraverso il vetro era quella di una ragazza giovane e ancora acerba. I capelli ramati scendevano sulle spalle in vaporose onde. La maglietta nera accentuava il suo incarnato avorio. I grandi occhi scuri dalle lunghe ciglia e il naso dritto e appuntito, che aveva ereditato da suo padre, davano al volto un’espressione fiera. Fece scorrere le dita tra i capelli e li lasciò ricadere come una nuvola attorno al viso squadrato, come quello di sua madre. Olimpia era la fusione perfetta fra i loro caratteri somatici.

Rientrò nella sua stanza e accese il giradischi. Infilò il jack delle cuffie e fece partire il suo disco preferito. Era il giorno del suo quindicesimo compleanno, di lì a qualche ora avrebbe dovuto sfoggiare il solito sorriso migliore con quegli ottusi amici dei suoi genitori. Tanto valeva godersi le prime ore del mattino. Aveva passato la notte immersa nel Decameron e ora avrebbe passato un paio d’ore immersa nella sua musica.

There’s a lady who’s sure all that glitters is gold

and she’s buying a stairway to heaven.

When she gets there she knows, if the stores are all closed

with a word she can get what she came for.

Ooh, ooh, and she’s buying a stairway to heaven…

La voce di Robert Plant la fece sorridere. Chiuse gli occhi e si lasciò andare al ritmo della canzone. Peggie le aveva insegnato a muoversi ascoltando il crescendo della musica e assecondando solo il volere del suo corpo.

There’s a feeling I get when I look to the west,

and my spirit is crying for leaving.

In my thoughts I have seen rings of smoke through the trees,

and the voices of those who stand looking…

«Liberati di tutto ciò che ti opprime, my child», le diceva sempre. A volte avevano ballato insieme nel grande salone che Peggie riservava alle sue tante cene di gala. Lei sì che sapeva come farla sorridere e farle apprezzare la vita. Erano due donne privilegiate, nate e cresciute nel lusso. Eppure le accomunava anche un infinito desiderio di liberare le ali e di vivere contando solo su se stesse.

«Yes, there are two paths you can go by, but in the long run, there’s still time to change the road you’re on…». La voce di Olimpia si spezzò mentre cercava di salire di tonalità. Cominciò a ridere da sola sentendo che l’euforia la stava contagiando. Adesso sì che poteva affrontare sua madre e persino tollerarne le piccole ma fastidiose manie.

Si avvicinò al comodino e prese il Decameron. Quell’edizione era ben strana. Leggendolo aveva notato che mancavano alcune novelle. Per esempio, dov’era finita quella del giardiniere che si fingeva muto e faceva l’amore con tutte le monache del convento? E quella della popolana Peronella? Era passato solo un anno da quando aveva studiato – e letto di nascosto dai suoi – il Decameron al liceo. Eppure lei quelle novelle le ricordava, eccome. Perché lì non le aveva trovate? Si sfilò le cuffie e si sdraiò sul letto per sfogliare nuovamente l’antico volume.

Dovevano essere state eliminate. Ma perché? Dopotutto si trattava di un libro antico. Ritornò alle prime pagine e notò per la prima volta un nome e una data, scritti quasi in miniatura: Lionardo Salviati 1573. L’edizione era però del 1815. Olimpia si accarezzò il mento e decise che sarebbe ritornata dall’antiquario per chiedergli spiegazioni. Lui di certo sapeva cosa era accaduto alle novelle mancanti.

Lo scalpiccio dei domestici che si muovevano lungo i corridoi le fece capire che la casa si stava lentamente svegliando. Un trambusto tipico dei giorni di festa, durante i quali il palazzo dei Cattanei si trasformava in un salotto aperto a tutti gli amici dei suoi genitori. Quel giorno i domestici si affannavano a pulire, riordinare e sistemare per la festa del suo compleanno. Olimpia si ritrovò suo malgrado a sorridere.

Scese a far colazione e, come al solito, non trovò i suoi genitori. La tavola era apparecchiata, qualcuno aveva già mangiato. Probabilmente sua madre, perché suo padre prendeva di solito solo un caffè. Decisa a godersi quella giornata, si concentrò sul croissant alla marmellata che era ancora caldo ed emanava un profumo delizioso. Si versò il caffè nel latte e cominciò a bere.

«Oh signorina, è qui per fortuna!». La voce di una delle domestiche le fece alzare gli occhi.

«Buongiorno, Teresa».

«Buongiorno, signorina. Il parrucchiere è appena arrivato. L’aspetta nel salottino rosa».

Olimpia annuì. Il parrucchiere: se n’era del tutto dimenticata. Posò il croissant e si portò una mano ai capelli. Erano belli così com’erano: lunghi, ondulati e ribelli. Sua madre le avrebbe però fatto una ramanzina delle sue se si fosse rifiutata di farsi pettinare. Finì di mangiare e si diresse lentamente verso il salotto. Doveva sforzarsi di rimanere calma. Avrebbe voluto passare un compleanno diverso, magari dall’antiquario appena conosciuto, a parlare di libri, ma sapeva che non poteva mancare a quella festa. Pensò a Peggie e sorrise. Sarebbe stata con lei tutto il tempo, lo sapeva già.

       

Capitolo 2

«Lionardo Salviati apparteneva a un’illustre famiglia fiorentina, è stato console dell’Accademia fiorentina e Cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano. Ci è noto soprattutto per aver partecipato alla fondazione dell’Accademia della Crusca. Il Decameron curato da lui è una sorta di vademecum dell’epuratore che interviene pesantemente su un testo. Il testo originario passa in secondo piano e spesso viene stravolto, con buona pace dell’autore».

«Ma è assurdo!», esclamò Olimpia, in tono indignato. «Come si fa a stravolgere così un simile capolavoro?».

Anselmo si sfilò gli occhiali e la guardò dritto negli occhi: «A volte lo fanno gli stessi autori, mia cara. Pensa proprio a Boccaccio. A un certo punto della sua vita fu preso da una crisi mistica e rinnegò persino il suo Decameron».

«E scrisse il Corbaccio», aggiunse Olimpia, sedendosi a terra, in mezzo alle pile di libri antichi da catalogare.

«Sei una ragazza sveglia e intelligente», esclamò Anselmo, scuotendo il capo. «Non finisci mai di stupirmi». Ormai le loro chiacchierate erano un appuntamento fisso. Olimpia si fermava tutti i giorni alla bottega dell’antiquario. Talvolta lo aveva persino aiutato con i nuovi arrivi, tanto che Anselmo le aveva chiesto se volesse imparare il mestiere. Ne avevano parlato solo una volta, ma ora forse era il caso di insistere, quella ragazza era molto dotata e pareva avere un fiuto incredibile nel riconoscere un buon libro. Era solo una questione di naso, come amava dire lei stessa ma, unita allo studio, era la base necessaria per diventare un’ottima antiquaria.

«La mia offerta è sempre valida, signorina Cattanei», le disse, facendola trasalire. Come al solito si era persa tra un volume e l’altro.

Quando lo andava a trovare, chiacchieravano per metà del tempo e per l’altra metà Olimpia s’immergeva nella lettura, congedandosi dal mondo reale. In quei momenti, Anselmo aveva preso a chiederle dove andasse, e lei rispondeva, con un sorriso, indicandogli il luogo dove era ambientato il libro che stava leggendo.

«Di che cosa parli? Oggi sono a Gerusalemme con Tasso».

«Non cambiare discorso… Ti ribadisco la mia disponibilità a insegnarti il mestiere».

«Uhm… lo sai che mia madre non approverebbe», mormorò Olimpia. Per un attimo il suo sguardo fu attraversato da una nube cupa. Le sarebbe piaciuto moltissimo carpire ad Anselmo i segreti del mestiere, avrebbe pagato oro, ma sapeva che sua madre si sarebbe opposta strenuamente.

«Potresti chiedere alla tua amica Goldenstein di intercedere per te, no?».

Olimpia fece per protestare, ma le parole le morirono in gola. In effetti, non aveva considerato il forte ascendente che Peggie esercitava su sua madre. Lei avrebbe convinto anche lo zar di Russia a darle retta, perché non doveva riuscire a far dire di sì a sua madre? Era un’idea magnifica! Le brillarono gli occhi. «Sei un genio! Come ho fatto a non pensarci prima? Vado subito da Peggie. Di sicuro lei mi darà una mano. Perché, in teoria, io potrei anche fare le cose di nascosto… ma mia madre ha spie ovunque. Le sue amiche sono delle pettegole di prima categoria. I servizi segreti hanno mezzi meno potenti delle riccastre che conosce mamma».

«Non ne varrebbe la pena, mia cara. Meglio dire sempre la verità. Immagina la memoria che ti toccherebbe esercitare per tenere a mente tutte le bugie che propineresti a tua madre. La testa ti servirà per ricordare ben altro: edizioni particolari, stampatori, illustratori e così via».

La risata di Olimpia riempì la bottega. Si alzò e osservò quella che ormai considerava anche la sua bottega. Si sentiva a casa più lì che nel suo stesso palazzo. L’idea di imparare a catalogare, valutare e comprare antichi manoscritti la affascinava e non vedeva l’ora di cominciare.

«Potrebbe essere una buona idea se dicessi a tua madre che qui lavora anche un altro apprendista?»

«Come, scusa?». Gli occhi di Olimpia si posarono sul viso di Anselmo. Sbatté le palpebre, sicura di aver capito male, anche perché lei lì non aveva mai visto nessun altro.

«Domani torna dall’Inghilterra mio nipote Davide. È il figlio di mio fratello e sarà lui a ereditare la bottega quando io non ci sarò più».

«E quando avevi intenzione di dirmi che hai un nipote, di grazia?», chiese Olimpia, in tono stizzito.

«Madamigella, non essere gelosa di Davide. È un bravissimo ragazzo e non ha che me al mondo. Mio fratello e sua madre sono morti molti anni fa. Ha una grande passione per i libri e secondo me ti piacerà lavorare con lui».

«Com’è che invece di stare qui ad aiutarti è a divertirsi in Inghilterra?». Olimpia sentiva crescere in sé il tarlo della gelosia. Aveva creduto, fino a un minuto prima, di essere l’unica possibile apprendista per Anselmo e ora invece scopriva che lui non solo riponeva tutte le sue aspettative in un nipote che spuntava dal nulla, ma che quello era pure il suo unico e legittimo erede. Le stava già antipatico. Fu tentata di dirgli che non le interessava più lavorare nella sua bottega ma lo spirito di competizione e l’orgoglio ebbero la meglio. Bene, che venisse pure quel nipote, lei lo avrebbe di certo superato in bravura. Si odiava quando ragionava come sua madre, tuttavia non poteva reprimere la sua natura. Peggie glielo diceva sempre: «Asseconda le tue paure, asseconda la tua indole, lasciale sfogare per poi prendere il controllo su di loro». Olimpia era ancora troppo acerba per capire fino in fondo cosa Peggie volesse dirle, però una cosa era riuscita ad assimilarla: la passione va incanalata, non domata.

«Non vedo l’ora di conoscerlo», esclamò con un sorriso. Anselmo la guardò dapprima perplesso e poi proruppe in una risata che contagiò anche Olimpia.

«Bene, ora vado da Peggie», disse infine. «Ho una missione da compiere».

Dalla fine degli anni Quaranta, più che in un palazzo la ricca ereditiera americana Peggie Goldenstein viveva in una sorta di reggia principesca che si affacciava su Canal Grande. Progettato da Lorenzo Boschetti a metà del Settecento, il palazzo era ricoperto in pietra d’Istria e ricordava le architetture del Longhena e del Sansovino. Vi si accedeva da un portico a triplice arcata al centro del quale c’era una grande riva d’approdo. Quando, da bambina, Olimpia era entrata lì dentro per la prima volta, i suoi piedi erano scivolati su pavimenti di marmo pregiato e variopinti tappeti orientali. Quando andava a trovare Peggie, nonostante fossero passati anni, trovava spontaneo trattenere il respiro appena varcava la soglia di quella sontuosa dimora. L’interno del palazzo era ancora più opulento della facciata: così pieno di arazzi, di stoffe policrome e di oggetti di lusso provenienti da tutte le parti del mondo. Ma erano i dipinti a regnare sovrani. Erano ovunque. Picasso, Matisse, Renoir, Klimt e tanti altri. Peggie custodiva le tele di tutti i maggiori artisti contemporanei.

I divani davanti al camino erano rivestiti di pelle, un piano a coda faceva bella mostra di sé accanto alla portafinestra che dava su un ampio terrazzo, che a sua volta si affacciava sul Canal Grande e regalava un panorama spettacolare a tutte le ore del giorno e della notte. Ciò che più piaceva a Olimpia era l’immensa libreria, che occupava due intere pareti del salone. Peggie le aveva mostrato libri di tutte le fogge e in tutte le lingue. Manoscritti medievali, miniature arabe, c’era persino un incunabolo di Aldo Manuzio.

Carlo, il maggiordomo di Peggie, la salutò con un ampio sorriso. «Ecco la mia ragazza preferita», esclamò dopo essersi accertato che Olimpia non fosse lì con sua madre. La signora Cattanei non avrebbe apprezzato la confidenza che c’era tra loro. Olimpia spesso ci scherzava su, anche se la cosa in sé la irritava molto. Voleva essere libera di farsi dare del tu da chi le pareva. Era stata Peggie a suggerirle di non far arrabbiare sua madre, altrimenti non le avrebbe permesso di andarla a trovare così spesso.

Una volta Olimpia aveva udito – non volendo – una frase che l’aveva molto colpita. L’ereditiera americana stava parlando con il suo maggiordomo, e non si era accorta che lei era dietro di loro. «Mi domando quando si ribellerà e spiccherà il volo… quella ragazzina non è fatta per restare chiusa in gabbia». Olimpia sapeva che si stava riferendo a lei e aveva trattenuto il respiro. Fino a quel momento non si era quasi resa conto di quanto fosse opprimente la sua vita. Peggie aveva sempre fatto ciò che aveva voluto: aveva vissuto a New York, a Parigi e a Londra. Aveva avuto celebri amanti e non ne faceva affatto mistero. «Mi piaceva troppo fare l’amore», le aveva detto un giorno, scrollando le spalle. «Quando ti toglierai quella seccatura che si chiama verginità – una virtù sopravvalutata, tesoro mio, te lo assicuro – capirai perché val la pena rischiare. Fare l’amore è una delle cose più belle che si possano fare nella vita».

Carlo accompagnò Olimpia sul terrazzo. Peggie era lì, sdraiata su una chaise-longue, attorniata dai suoi tre yorkshire. Sorseggiava una bibita di colore verde e dall’aspetto poco invitante. Era una donna interessante, più che bella: alta, magra, un viso tondo e folti capelli bianchi – odiava le tinture, lei. Gli occhi erano vispi e sprizzavano gioia di vivere. Vestiva in maniera stravagante ma sapeva essere elegantissima se l’occasione lo richiedeva. Olimpia rimaneva sempre affascinata dai suoi monili. Indossava orecchini e collane dalle fogge più strampalate. Addosso a lei tutto però sembrava chic, perché sapeva portare con disinvoltura quegli improbabili oggetti. Una volta si era presentata a un cocktail con un cappello così ingombrante da sembrare un ombrello.

I tre cagnolini corsero a salutare Olimpia, che si chinò ad accarezzarli. Peggie sorrise, sollevò gli occhiali da sole ed esclamò: «Olimpia! Finitela di abbaiare, voi tre! Piccole canaglie. Che bello vederti, cara. Vieni qui, sdraiati vicino a me. Vuoi qualcosa da bere? Ti consiglio di non prendere quest’orrido centrifugato di cetriolo che mi ha propinato la mia cuoca. Dice che fa bene al fegato, sarà… Nina ha le sue teorie ma cucina divinamente. Che mi dici di bello, sweetheart? Non ci vediamo da un po’… Ti sei ripresa dal party per il tuo compleanno? L’anno prossimo, per i tuoi sedici anni, organizzo io la festa, una noia tremenda quella di tua madre, ma glielo dirò, sai? Carina quella tua compagna di classe, come si chiama? Stai continuando ad andare a trovare quel tuo amico antiquario? Enough! La smettete di abbaiare?».

Olimpia sorrise. Era sempre così quando l’andava a trovare. Per i primi dieci minuti Peggie parlava, rimproverava i tre indisciplinati yorkshire e faceva domande senza aspettare alcuna risposta. Poi taceva e ascoltava. Era un’ottima consigliera, nonostante le ripetute raccomandazioni di non seguire mai il suo esempio. Diceva di sé che era la pecora nera della famiglia. Olimpia però non ci aveva mai creduto. Peggie era la donna più straordinaria che avesse mai incontrato.

«Sono qui per chiederti un grosso favore», esordì. «Ma prima rispondo anche alle altre domande: mi sono ripresa dalla noiosissima festa organizzata da mamma e sì, ti prego, organizzane una tu per il mio prossimo compleanno. La mia amica si chiama Diana e l’avrai sentita nominare almeno un milione di volte, ma la porterò con me la prossima volta che vengo a trovarti. E vado a trovare l’antiquario Calvani ormai quasi ogni giorno…».

Peggie rise e le fece cenno di avvicinare il viso alla sua mano ingioiellata. Le sfiorò la guancia con un dito e le chiese: «Dimmi pure. Che cosa ti serve, my child?».

       

Capitolo 3

Olimpia aveva una buona notizia da dare ad Anselmo ma sapeva già che quel giorno tutte le attenzioni dell’antiquario sarebbero state per il nipote, rientrato la sera prima da Londra. Decise così di attendere che gli passasse l’euforia prima di dirgli di aver avuto il permesso per lavorare in bottega, almeno fino a quando la scuola non fosse ricominciata. Mancavano poco più di un paio di settimane alla riapertura. Olimpia immaginava tuttavia di voler seguitare a recarsi da Anselmo anche nei mesi invernali, a meno che quel fantomatico nipote non si fosse rivelato antipatico. In quel caso avrebbe riflettuto con calma sul da farsi.

Per la prima volta sentiva di avere un interesse verso qualcosa di concreto. Di solito affidava ai romanzi le sue ore e i suoi pensieri e, quando le bruciavano gli occhi, ascoltava la musica. Il suo amore per il rock in realtà era nato per ripicca, perché a sua madre faceva orrore. Poi però lei e Diana avevano cominciato a seguire i gruppi inglesi e americani e si erano entrambe appassionate. Olimpia si domandò se fosse il caso di passare dalla sua amica prima di andare da Anselmo. Si sentiva quasi una vigliacca: stava cercando di rimandare il più possibile l’incontro con il nipote. Non aveva paura che il suo rapporto con Anselmo potesse cambiare, provava però un’ostinata avversione per chi non conosceva. Se il nipote di Anselmo aveva deciso di seguire le impronte dello zio, doveva essere spinto da una grande passione per i libri, soprattutto quelli antichi. Ecco, Olimpia faceva fatica a credere che anche gli altri potessero nutrire i suoi stessi interessi. Era gelosa delle sue passioni, per quanto si sforzasse di accettare che i libri potessero amarli, leggerli e collezionarli tutti. Sapeva che era sciocco pensarlo, eppure non riusciva a opporsi a quel sentimento. Ricordava la prima volta che aveva letto Il giro del mondo in ottanta giorni e si era innamorata del gelido ma fascinoso Phileas Fogg; lo aveva confessato a Diana e la sua amica, per tutta risposta, aveva esclamato: «Lo amo anch’io!». Olimpia si era sentita tradita e aveva messo il libro sullo scaffale più alto della sua libreria, per non avere la tentazione di rileggerlo. Erano passati tre anni, e lei non aveva più aperto il capolavoro di Jules Verne.

Senza volerlo si ritrovò davanti alla bottega di Anselmo. Era dunque giunto il momento di conoscere il suo potenziale rivale. Sospirò, posando la mano sulla maniglia. Non appena ebbe aperto la porta fu investita dal familiare odore di libri, polvere e prodotti per il legno. Sorrise suo malgrado e avanzò verso il retrobottega, dove era sicura di trovare Anselmo, al lavoro su qualche manoscritto.

«Sei tu, Olimpia?», sentì chiedere.

«Sì».

«Vieni pure, guarda che meraviglia ho appena acquistato da un mercante turco», le disse Anselmo facendole cenno di avvicinarsi. Era da solo. Olimpia si rilassò immediatamente. Bene, confronto rimandato. La sua attenzione fu catturata dal manoscritto che Anselmo teneva tra le mani guantate. Metteva sempre un paio di sottili guanti di cotone quando doveva sfogliare un antico testo. Non solo per preservarlo ma anche per evitare che la sua pelle venisse a contatto con le eventuali muffe presenti sulla carta.

«Di che si tratta?».

Anselmo richiuse il manoscritto e le indicò il titolo: Lo specchio delle anime semplici di Margherita Porete. Sorrise. «È una copia ottocentesca, in italiano, di un manoscritto del Trecento; l’originale si chiama Le miroir des simples âmes. Non conosci l’autrice? Male. Ti dico io chi è questa signora. Marguerite La Porète, da noi conosciuta come Margherita Porete, fu arsa viva a Parigi, perché considerata eretica».

«Come Giovanna d’Arco?»

«Non proprio. Giovanna era una ragazza del popolo, Margherita era una vera signora dalla cultura sconfinata. Questo libro ebbe un successo tale che fu tradotto in quattro lingue. E naturalmente fu messo all’Indice».

«L’Indice dei libri che la Chiesa vietava, intendi? Quell’assurdo elenco di testi da non leggere se si era buoni cristiani?».

Anselmo si girò verso di lei e annuì. Non parlò, ma Olimpia si accorse che qualcosa che gli aveva detto doveva averlo colpito.

«Perché fu accusata di eresia?», gli chiese, infine.

«Il Tribunale dell’Inquisizione la incriminò per alcune frasi male sonantes. Margherita fu inizialmente costretta a rinnegare le sue idee, ma quando poi le fu proposta una seconda ritrattazione lei si rifiutò di firmarla, così venne condannata al rogo. Fu processata a Parigi da Philip de Marigny, vescovo di Cambrai, fu giudicata colpevole e arsa viva in Place de Grève».

«Poverina».

Anselmo sospirò. «Il libro di Margherita è il più antico testo mistico scritto in volgare francese. Descrive il crescente desiderio dello spirito di unirsi a Dio».

Olimpia aggottò le sopracciglia. «Qualcosa non mi torna. Che cosa c’è di così pericoloso nella volontà dello spirito di unirsi a Dio? Non vedo dove sia l’eresia. Erano tutti matti?».

La risata di Anselmo regalò un sorriso persino a Olimpia, intristita da quella storia di antica ingiustizia. «Madamigella, il pericolo stava nelle idee della nostra scrittrice, nella sua concezione di un nuovo tipo di religiosità, più personale e intima, in cui ci si rivolgeva direttamente a Dio. Pensa che rivoluzionaria! Era una donna libera, capisci? Una di quelle che non rinuncia alle proprie idee, piuttosto si fa ammazzare».

«Mi piace».

«Chi stai cercando di catechizzare, zio?». Quella voce, dietro le sue spalle, la portò a girarsi di scatto. Si trovò faccia a faccia con un ragazzo che le sorrideva. Portava un paio di jeans e una camicia a quadri rossi e blu e reggeva in mano uno zaino logoro, che poggiò a terra quando le tese la mano.

«Ciao», esclamò. «Io sono Davide e tu devi essere…».

«Olimpia», lo interruppe bruscamente. Era imbarazzata. Non si aspettava davvero che fosse così bello. Era alto e magro. I capelli scuri, ondulati, arrivavano appena alle spalle. Qualche ciuffo ribelle gli cadeva sugli occhi, di una singolare sfumatura tra il verde e il dorato, sovrastati da sopracciglia folte. Le labbra tumide si aprivano in un sorriso franco, che ispirava simpatia.

Olimpia pensò subito che dovesse essere un tipo riservato, uno di poche parole. Le dava l’idea di una persona efficiente e affidabile, che sapeva il fatto suo.

«Sei in ritardo», lo rimproverò lo zio. C’era, nello sguardo di Anselmo, una tenerezza che Olimpia non gli aveva mai visto prima. Da un lato provò una gelosia immediata, dall’altro però immaginò quanto il vecchio antiquario dovesse aver sofferto per la mancanza di Davide, durante i mesi in cui lui era stato lontano da Venezia.

«Lo so, scusa. Sono passato in facoltà».

«Va bene, ora vieni qua e dammi una mano, c’è molto lavoro da fare». Il tono di Anselmo non era affatto brusco. Si capiva che era orgoglioso del nipote. Olimpia scoprì, di lì a pochi minuti, che Davide si stava laureando in Lettere classiche, aveva ventiquattro anni, e viveva da solo, nella casa appartenuta alla madre. I suoi genitori erano morti da un bel po’ e per pagarsi gli studi lavorava nella biblioteca dell’università e dava ripetizioni di latino e greco. Era andato a Londra per accompagnare un gruppo di liceali scalmanati, che avevano deciso di frequentare un corso estivo in un college inglese. Un’associazione di Treviso aveva organizzato il viaggio. Davide aveva letto qualche mese prima un’inserzione su un quotidiano e si era presentato al colloquio. Lo avevano preso all’ultimo momento, quando un altro ragazzo aveva rinunciato a partire. Davide non si era mai sentito così stanco. Quel viaggio, anche se pagato discretamente, si era rivelato un vero incubo.

«Scommetto che quegli sciagurati sono tornati senza avere imparato nemmeno una parola d’inglese», fu il commento di Anselmo al racconto delle “vacanze” di Davide.

«Non ne parliamo», confermò lui, ridendo. «La fatica maggiore è stata trattenerli dal fare cavolate. Se non avessi vigilato sulle ragazze, a quest’ora ne avrei riportate almeno tre in stato interessante; i ragazzi si sono comportati anche peggio, non ti dico quante volte li ho trovati ubriachi».

«Galline e stupidi!», intervenne Olimpia, stizzita. «La mia generazione è piena di gente così».

Anselmo e Davide avevano riso, anche se per Olimpia quella non era affatto una battuta. Aveva assistito al dialogo tra zio e nipote senza dire una parola ma poi non era riuscita a trattenersi. Fatta eccezione per Diana, che la pensava come lei, Olimpia non andava d’accordo con i suoi coetanei. Erano, a suo dire, troppo superficiali e si comportavano come se non avessero un cervello. Fino a quando si trattava di fare i cretini, erano tutti amici, così come quando volevano farsi passare le versioni di greco. Quando si trattava di uscire o di organizzare feste, lei e Diana venivano invitate solo perché erano entrambe ricche ma poi venivano puntualmente messe in un angolo. Olimpia non contava più le volte che li aveva sorpresi a spettegolare su di lei. La chiamavano “la contessina”.

Le aveva persino dato fastidio che Davide si fosse affrettato a difenderli. In fondo erano solo ragazzi, le aveva detto, che per la prima volta assaporavano il gusto della libertà. Si rese conto che ogni cosa che Davide diceva la irritava. In fondo sapeva che dipendeva dalla sua gelosia, le era stato chiaro fin da subito quanto fosse bravo. Lo aveva sentito fare alcuni commenti su diversi manoscritti acquistati dallo zio mentre lui era in Inghilterra. Era competente e preparato. Sapeva come catalogare i libri e conosceva ogni anfratto della bottega di suo zio.

«Madamigella, che cosa hai deciso di fare?», le chiese Anselmo, mentre la salutava. Erano passate le sette della sera e Olimpia doveva rientrare a casa. Non gli rispose subito, raccolse la borsa che aveva abbandonato su uno scaffale.

«Peggie è riuscita a convincere la mamma della bontà del mio “tirocinio” estivo qui da te. Quest’anno papà è stato molto impegnato e non siamo partiti per il nostro consueto viaggio in Costa Azzurra, così Peggie ha fatto leva su una mia presunta noia, dicendole che mi avrebbe giovato uscire di casa», rispose Olimpia, scegliendo con cura le parole. Il cuore le batteva forte. Non capiva perché fosse così agitata. Si sentiva sotto pressione, come se dalla reazione di Anselmo dipendesse il suo futuro.

Le labbra dell’antiquario si schiusero in un sorriso radioso, che le restituì un po’ della fiducia perduta. «Molto bene, ci vediamo domattina alle nove, allora», esclamò.

«Lavorerai qui da noi? Fantastico!». Davide non sembrava per niente sorpreso. Dalla sua espressione si sarebbe detto che fosse addirittura contento.

“Impossibile, non mi conosce nemmeno”, pensò Olimpia, mentre li salutava con la mano e correva verso casa.

Diana fissò l’amica sgranando gli occhi. Erano sedute entrambe sul letto di Olimpia e stavano ascoltando i Doors. I loro genitori giocavano a bridge nel salottino rosso, quello che la signora Letizia Cattanei riservava solo agli amici più intimi. Era il suo sancta sanctorum e l’accesso era consentito a pochi eletti. Per fortuna i genitori di Diana facevano parte di quella cerchia ristretta. L’amicizia con la figlia unica dei Donati era una delle poche cose che sua madre approvava. Del resto erano cresciute insieme, Diana era nata pochi mesi dopo Olimpia. Dopo la nascita delle loro figlie, le due famiglie avevano preso a vedersi sempre più spesso e a fare anche qualche viaggio. Quando si era poi trattato di iscriverle a scuola, le avevano mandate negli stessi istituti privati e avevano insistito perché le bambine fossero nella stessa classe. Almeno fino al liceo. Perché a quel punto erano sorti i primi problemi: i genitori di Diana avevano scelto un liceo classico statale. L’intervento del padre di Olimpia era stato provvidenziale: era opportuno che Olimpia si affacciasse al mondo reale e frequentasse anche lei una scuola pubblica. Così, dopo settimane di consultazione, avevano scelto il migliore dei licei, tra quelli statali. Una vittoria per Olimpia, che già si vedeva in mezzo alle suore, in un ipotetico liceo femminile super esclusivo. Letizia non l’aveva presa bene ma si era adattata all’inevitabile, sperando che la figlia le chiedesse di cambiare scuola. Ma lei sarebbe morta pur di non darle quella soddisfazione.

«Cioè, mi stai dicendo che ci dovrai andare tutti i giorni? Tutti, tutti?», le chiese Diana, scuotendo il capo, incredula.

«Non tutti, solo dal lunedì al venerdì», ribatté Olimpia.

«Sei sicura che tua madre abbia capito che cosa vai a fare, lì?»

«No, ma Peggie è stata molto convincente».

«Già, Peggie… mi chiedo come mai una bacchettona come tua madre ti permetta di frequentare una donna come lei».

Olimpia scrollò le spalle. «Perché è miliardaria», esclamò, alzandosi dal letto per girare il disco. «E anche perché Peggie è una donna colta, di classe, da cui si impara sempre. Mamma è snob ma non è scema. La critica quando non c’è, ovvio, dice che è scandalosa, ma non si azzarderebbe mai a dirglielo in faccia. Il prestigio della famiglia di Peggie e il suo immenso patrimonio le rendono tutto tollerabile».

«Eh dai! Come sei cinica, Letizia non è poi così ottusa».

«No, hai ragione», ammise Olimpia, seria. «È anche peggio, quando vuole. Ti dico che mia madre non è intelligente, è solo furba e si muove bene nel suo ambiente».

«Che ritrattino!», rise Diana, sdraiandosi sul letto. «A me è simpatica. È l’unica che riesce a sopportare mia madre e a levarmela di torno quando non ne posso più».

Olimpia si sdraiò accanto all’amica e cominciò a canticchiare Light My Fire. Non aveva voglia di pensare a sua madre. Voleva solo rilassarsi e godersi la serata. Avevano cenato tutti in terrazzo e, ora che i loro genitori erano impegnati nella partita a bridge, era tranquilla. Le piaceva stare con Diana, perché quando era in sua compagnia si sentiva libera di dire tutto quello che le passava per la testa, senza il timore di essere giudicata. Aveva un bel carattere, la sua amica. Era difficile litigare con lei, pur con tutto l’impegno. Capiva quando Olimpia era nervosa e non si offendeva mai se le rispondeva bruscamente, sapeva come prenderla. Del resto, Olimpia le era stata accanto in momenti molto difficili, come la morte di sua nonna. Diana le era molto affezionata e aveva sofferto moltissimo nel momento in cui era venuta a mancare. Olimpia era stata la spalla su cui aveva pianto. Così come le era stata accanto, gioendo con lei, quando Diana aveva dato il suo primo bacio. «Non tutte le amiche riescono a essere felici per te», le aveva detto Diana. «Si fa presto a consolare chi sta male, perché ci si sente subito bene, si è compiuta una buona azione. Godere della felicità altrui è più difficile, è da veri amici».

Olimpia aveva alzato gli occhi al cielo, esasperata e le aveva risposto: «Sì, sì, ma ora dimmi com’è successo. Era un bacio alla francese?».

Per qualche minuto le due ragazze rimasero in silenzio, mentre le note della canzone dei Doors sfumavano verso il finale.

«Credi che non abbia fatto bene?», chiese Olimpia, puntellandosi sul gomito.

«A fare cosa?»

«Il lavoro in bottega, dico».

«E che ne so io. L’unica cosa che so è che ami i libri vecchi…».

«Antichi», la corresse Olimpia con un sorriso.

«Sì, insomma, hai capito. Quindi non vedo perché tu possa aver fatto male ad accettare la proposta di Anselmo… Un momento… c’è qualcosa che non mi hai detto, forse?». Diana si mise a sedere e le lanciò uno sguardo inquisitore. Le gote di Olimpia s’imporporarono all’istante. Non riusciva a nasconderle niente.

«Lo sapevo!», esclamò Diana. «Il nipote, vero?»

«Non saltare subito alle tue solite conclusioni! Niente romanticismi, è antipatico come pochi».

«Ah sì? Allora perché sei rossa come un peperone?»

«Non sono rossa come un peperone. Ho detto la verità: è antipatico e poi è troppo grande per me. Ha ventiquattro anni».

Diana fece per parlare ma richiuse la bocca. Sapeva che era inutile punzecchiare Olimpia quando si trattava di ragazzi. Si chiudeva a riccio ed era capace di non fiatare per ore. Decise di cambiare argomento, tanto, prima o poi, Olimpia avrebbe vuotato il sacco. Ora, forse, era troppo presto.

       

Capitolo 4

Il cattivo tempo aveva anticipato l’autunno di almeno un mese. Continuava a piovere e le temperature erano basse. Quel clima così uggioso aveva agevolato il lavoro di Olimpia nella bottega. Uscire o andare in spiaggia al Lido, nonostante fosse agosto inoltrato, non era possibile. Inoltre non le interessavano molto le attività tipicamente estive. Per lei le vacanze avevano un solo scopo: leggere. Dopo i primi giorni durante i quali aveva osservato in silenzio il lavoro di Anselmo e Davide, aveva finalmente comprato i suoi guanti di cotone per sfogliare antichi volumi. Il loro odore, unito al profumo della pioggia che penetrava dalle finestre del negozio, cominciava a esserle familiare. Sembrava che ce ne fosse uno per ogni secolo. Alcuni libri erano impregnati dell’odore acre dei vecchi scantinati dai quali provenivano, altri profumavano di legno, altri ancora di cuoio. Olimpia imparò ben presto a distinguere i vari tipi di materiale: pergamene, papiri, la carta ricavata dagli stracci di lino e quella ricavata dalla canapa. Anselmo le spiegò anche come catalogare i volumi in base alla città da cui provenivano, alla sede, al fondo, alla segnatura, al numero d’inventario e così via. Olimpia aveva comprato un quadernetto su cui appuntare tutto. Voleva essere sicura di non perdere nemmeno una virgola degli insegnamenti dell’antiquario. Il lavoro in bottega le piaceva sempre di più. La affascinava il pensiero che ogni libro nascondesse una storia.

Davide si rivelò essere – contrariamente alle attese – un prezioso alleato. Con calma aveva insegnato a Olimpia ciò che suo zio dava per scontato. Quando l’antiquario si recava da un potenziale venditore o aveva da fare con un cliente, era Davide a spiegarle cosa doveva fare. In poco meno di un mese, Olimpia era perfettamente in grado di giudicare da una prima occhiata se un manoscritto fosse un falso. Sembrava incredibile anche a lei, eppure era così. La prima volta che aveva capito di avere tra le mani una copia degli anni Venti di un codice settecentesco, le era quasi venuto da piangere per la gioia.

«I codici greci e latini a volte sono illustrati con alcune miniature», le spiegò Davide, mostrandole un piccolo manoscritto. Era il più antico della bottega: si trattava di una copia tardo-trecentesca del De Rerum Natura di Lucrezio. «Dopo il settimo secolo, i libri diventano più voluminosi. Quindi fa’ sempre attenzione alle dimensioni del libro e anche alle caratteristiche “fisiche”. Gli antichi romani copiavano i volumi in officine scrittorie; durante il Medioevo, invece, in centri scrittori gestiti dai frati amanuensi. La differenza si vede. Guarda qui…». Davide le passò un manoscritto. «Vedi le legature ornamentali in avorio? Bene, sono tipiche dell’Alto Medioevo. Quindi, quando ti capita tra le mani un codice con le pietre preziose o con le legature in avorio o in metallo, devi immediatamente pensare che sia un testo sacro e chiederti a chi appartenga».

«Va bene, ma i classici latini e greci che fine hanno fatto. Qui mi sembra di vedere in gran parte testi biblici o teologici. Sbaglio?»

«Sei in gamba, signorina Cattanei», le sorrise Davide, dandole un buffetto sulla guancia. «I testi non conformi ai dettami della Chiesa venivano raschiati o lavati e la carta, che era preziosa e cara, veniva riutilizzata per scriverci su. Tutto ciò fu la causa della comparsa dei codici chiamati palinsesti, cioè quelli che si utilizzavano per riscriverci sopra, ma spesso in senso trasversale».

«Tutto questo mi fa orrore, come se avessero distrutto mille biblioteche», esclamò Olimpia, rabbrividendo.

«Lo so, ma cerco di non pensarci quando mi capita di lavorare su un palinsesto. Ora, proseguiamo. Guarda questo codice, qui il testo è a due colonne e in gotico», le disse indicando l’interno di un manoscritto. «Che cosa vuol dire?»

«È verosimile che sia antecedente al quindicesimo secolo, quando a Firenze nacque il manoscritto cosiddetto “umanista”, si diffuse il testo a piena pagina e la minuscola carolina sostituì la grafia gotica».

«Sei un fenomeno! Bravissima», esclamò Davide. «Tra un po’ sarai in grado di aprire una bottega tu stessa e sbaraglierai la concorrenza. Noi Calvani siamo spacciati».

«Non potrei mai far concorrenza a chi mi ha insegnato tutto ciò che c’è da sapere sui libri. Lo sai, vero?»

«Lo so, scherzavo. Però per noi potrebbe essere una buona scusa per ritornare nella nostra amata Toscana».

«Perché proprio in Toscana?»

«Non lo sapevi? Lo zio è nato a Poggio a Caiano. Mio padre, invece, era nato a Pisa… la nostra famiglia aveva il vizio di spostarsi da una città all’altra ogni tre anni. Fino a quando non si è stabilita qui a Venezia».

Per qualche tempo rimasero in silenzio a ripulire uno scaffale della bottega. Anselmo ci teneva che fossero puliti una volta al mese, perché solo così si potevano evitare spiacevoli muffe e insetti sgraditi. L’umidità della laguna non favoriva la conservazione ottimale dei libri, così ci si doveva premunire. «I libri respirano», soleva dire il vecchio antiquario. «Vanno quindi sistemati come si deve e in scaffali puliti. Sono regole basilari per chi li ama e li colleziona».

Olimpia aveva imbevuto uno straccio di cotone con l’olio di eucalipto, utile contro le muffe, e aveva cominciato a spolverare lo scaffale più in basso. Davide aveva già pulito quelli in alto e ora si stava dedicando alla cura di un volume rilegato in pelle, passandoci sopra della vaselina per impedirne la screpolatura.

«Che libro è?», gli domandò Olimpia, avvicinandosi per dare un’occhiata. Il volume appariva particolarmente liso sul dorso e non si riusciva a leggere cosa vi fosse scritto.

«Machiavelli», rispose Davide, sovrappensiero.

«Il Principe?»

«Sì, si tratta di un’edizione secentesca, chiaramente clandestina», spiegò, fermandosi un attimo a contemplare il lavoro di restauro appena fatto sulla copertina usurata. Non sembrava soddisfatto del risultato, così Olimpia si sentì quasi in dovere di rassicurarlo.

«Ma no, figurati», rise lui. «Non è la pulitura che mi preoccupa. Mi chiedo come mai mio zio non lo abbia riposto nello scaffale del retrobottega».

«Perché dovrebbe?»

«Di solito i libri come questo li teniamo da parte. Per i clienti più raffinati».

«Non capisco».

«Vedi questa affrancatura nascosta?», e le indicò una minuscola decorazione dorata che si intravedeva sulla legatura. Era come un piccolo timbro a forma di fiore stilizzato.

«Sì, la vedo».

«Bene, si tratta della firma dello stampatore clandestino. Il Principe era un libro di cui era proibita la lettura».

«Lo so, tuo zio mi ha regalato un’edizione epurata del Decameron di Boccaccio. E mi ha mostrato più di un libro segnalato sul famigerato Indice dei libri proibiti. Dico io, ma come si poteva dar credito a un simile elenco? Si dovrebbe essere liberi di leggere ciò che si vuole, no?»

«Parli così perché sei nata in un periodo storico relativamente libero, ma nei secoli passati non sempre è stato così».

Olimpia si sedette sullo sgabello di fronte al tavolo di lavoro, dove Davide stava lavorando. Anselmo era sempre stato molto evasivo quando in bottega capitava uno di quei misteriosi libri clandestini. Ora voleva capirne il motivo. «Dimmi un po’, che cosa avevano di così abominevole opere come queste? Ma poi, scusa, non erano quasi tutti analfabeti?».

Lo sguardo di Davide si alzò dal libro e si posò sul suo viso. Aveva la stessa espressione di suo zio quando le aveva parlato di Margherita Porete.

«Il problema», le spiegò, «si poneva per quelli che erano tutt’altro che analfabeti. Una piccola élite fatta di raffinati intellettuali che non si bevevano tutto quello che veniva loro raccontato dal clero o da chi li governava, perché leggevano, si informavano, viaggiavano».

«E loro potevano influenzare il popolo?»

«In parte. Ma di sicuro potevano influenzare i potenti, cosa molto più pericolosa. Pensa ai grandi filosofi, come Aristotele. Lui è stato il precettore di Alessandro Magno, poteva influenzarne le mosse politiche, avere un ascendente su di lui. Spesso i re, gli imperatori e i grandi generali hanno avuto al loro fianco intellettuali a cui chiedere consigli e con cui confrontarsi per le questioni più spinose. Non so se mi spiego».

Olimpia annuì. «E si sono accorti solo nel Cinquecento che i libri potevano essere pericolosi?»

«No. Il primo atto ufficiale della Chiesa contro la libera circolazione dei libri risale al quinto secolo, quando venne stilata una lista di libri da leggere e fu affiancata a quella di libri da non leggere».

Davide posò il libro di Machiavelli sul tavolo e si sedette sullo sgabello di fronte a quello di Olimpia. «Sai, prima dell’invenzione della stampa quasi tutti i fedeli erano analfabeti e i libri circolavano poco, oltre a essere molto costosi. Poi Leone X, nel 1515, emanò la bolla Inter sollicitudines, con cui stabiliva che serviva un’autorizzazione prima della pubblicazione di un’opera. Se i libri già stampati diventavano proibiti, era previsto il sequestro, il rogo pubblico dei volumi fuorilegge, e tante altre cose carine come la scomunica».

«Carine?»

«Scherzo, Olimpia, rilassati! Comunque dopo la bolla di Leone X è nato l’Imprimatur religioso, cioè l’obbligo di apporre sulle opere il luogo, la data di stampa e il nome del tipografo, oltre a quello dell’autore».

«Ma non era ancora l’Indice…».

«Esatto. Il primo Indice è del 1559 e fu Paolo IV Carafa, un ex inquisitore, a volerlo. Per fortuna, come vedi da questa edizione del Principe», le indicò il volume su cui stava lavorando, «…c’era la stampa clandestina».

«Che storia assurda».

«Pensa che il primo Indice è stato stampato proprio qui a Venezia a metà del Cinquecento e fu scritto niente meno che da Giovanni Della Casa».

«L’autore del Galateo? Non ci credo…».

«È storia, non me lo sto inventando».

«E adesso? C’è ancora questo famigerato Indice?»

«No, è stato ufficialmente soppresso nel 1966».

Olimpia scese dallo sgabello e tornò a occuparsi dello scaffale. C’era da mettere a posto i libri, che andavano sistemati in doppio ordine: per autore e per anno di edizione. I criteri di Anselmo avrebbero fatto perdere la pazienza anche a un santo, ma lei non si lamentava mai. Per gli amanti dei libri come lei erano dolci strazi. Ricominciarono a lavorare e dopo qualche minuto di silenzio, Davide cominciò a canticchiare: «Che ne sai tu di un campo di grano, poesia di un amore profano, la paura d’esser preso per mano che ne sai?».

«Oh no!», esclamò Olimpia.

«Lo so, sono stonato come una campana, non dovrei fare questo torto al grande Lucio…», rise lui.

«Non è per quello, è la musica italiana, il problema… non puoi cantarmi Battisti dopo la lezione sui libri proibiti!».

«Scherzi, vero? Lucio Battisti non è solo musica, è poesia», la corresse.

«Jim Morrison è poesia». Olimpia si mise davanti a lui, con le mani sui fianchi. Sembrava pronta ad andare in guerra, con gli occhi che lanciavano fiamme e l’espressione corrucciata.

Davide scoppiò a ridere. «Dovresti guardarti allo specchio, sei buffissima. Se tua madre entrasse ora e ti vedesse con quello straccio in mano, non ti lascerebbe più venire qui da noi».

«Non cambiare discorso», lo ammonì lei, sforzandosi di trattenere una risata. «La musica è una cosa seria». Mannaggia a Davide. Era come Diana, anche con lui era quasi impossibile litigare. Trovava sempre il modo di evitare discussioni. Spesso le aveva dato ragione anche quando aveva torto marcio, Olimpia lo sapeva benissimo. Così come sapeva che era riservato e silenzioso con gli altri, mentre con lei era fin troppo espansivo e si divertiva un mondo a prenderla in giro. Ma non le dava fastidio, perché era buono, di una bontà tale da irritarla, a volte.

«Sono d’accordo. La musica è una cosa serissima, hai ragione, ma su Battisti non accetto critiche».

«Mi stai dicendo che non ascolti i Doors, i Led Zeppelin, Joan Baez, i Velvet Underground e…».

«Ti sto dicendo che ho gusti musicali diversi dai tuoi, tutto qui», la interruppe lui.

Olimpia alzò gli occhi al cielo. Era davvero troppo ragionevole. «Va bene, mi arrendo davanti ai tuoi pessimi gusti», esclamò infine. «Ma almeno risparmiami quella cantilena».

«Va bene, da oggi in poi canterò solo The Sound of Silence, la mia canzone preferita, per vossignoria, madamigella Cattanei».

«Mmm, va già meglio…». Le loro risate furono interrotte dal cigolio della porta d’ingresso della bottega.

       

Capitolo 5

«Mi prosciugheranno, aspettano che io muoia per impossessarsi di tutto». Peggie aveva parlato a bassa voce ma Olimpia l’aveva sentita. Non le raccontava quasi mai dei figli, che vivevano a New York e che non andavano mai a trovarla. Era persino diventata nonna di due gemelli, eppure era come se i membri della sua famiglia abitassero su un altro pianeta.

In casa sua non c’erano le foto incorniciate dei nipoti e dei figli ma solo quelle in cui lei posava con gli amici artisti. Erano loro ormai la sua vera famiglia.

Peggie sembrò accorgersi in quel momento della presenza di Olimpia e sorrise. «Allora, my child, che cosa mi racconti?», le chiese. Era seduta accanto al camino e stava sfogliando un grosso volume che teneva sulle gambe. Gli yorkshire erano insolitamente silenziosi quel pomeriggio di inizio settembre, forse perché pioveva e faceva freddo. Sembravano stanchi e sonnecchiavano sui loro cuscini. Carlo aveva acceso il fuoco e le fiamme scoppiettavano allegre diffondendo un piacevole tepore in tutta la grande sala. Olimpia, che era rimasta in piedi fino a quel momento, si accoccolò accanto ai cani e cominciò ad accarezzarli.

«Passavo di qui e ho pensato di venirti a trovare».

Peggie sollevò lo sguardo dal libro e sospirò. Aveva i tratti del viso tirati e un’espressione indecifrabile. Non l’aveva mai vista così e per un attimo prese in considerazione l’idea di andarsene e lasciarla in pace.

«Hai fatto bene a venire. Mi sei mancata. Sono giorni che non ti vedo», esclamò, dopo una lunga pausa.

Olimpia si sedette sul tappeto di fronte al divano e incrociò le gambe, in attesa di essere investita dalla solita raffica di domande, che però non arrivò. Era una giornata ben strana, quella. Peggie si comportava in modo singolare. Quando era giunta a casa sua, Olimpia aveva notato che persino Carlo sembrava giù di tono. Doveva essere successo qualcosa, era evidente.

«Non ho grandi novità da raccontarti», disse, infine. «Ieri è ricominciata la scuola e mamma mi ha stranamente dato il permesso di continuare il mio apprendistato da Anselmo».

«Ah, davvero?». Le labbra di Peggie si dischiusero in un sorriso. «Lo vedi che alla fine Letizia ti capisce?»

«Uhm, diciamo che ho dovuto prometterle che studierò fino all’alba, se necessario. Perché se il pomeriggio vado da Anselmo non ho che la notte per finire i compiti».

«Sei forte e tenace. Prenderai voti ancora migliori quest’anno, lo so già. Io ero come te, da ragazza. Una testa dura. Facevo mille cose ma studiavo come una matta anche nelle ore in cui gli altri dormivano o erano impegnati in attività ben più piacevoli. Non ero la prima della classe, però non me ne curavo. I miei interessi venivano erano al di sopra di ogni altra cosa». Era la prima volta che Peggie si lasciava sfuggire dei particolari riguardo al suo passato di adolescente. Di solito parlava molto della sua infanzia, dei suoi amori e delle sue passioni artistiche, ma non si soffermava mai sul periodo in cui aveva frequentato un prestigioso collegio inglese. Olimpia sapeva soltanto che aveva passato alcuni anni a Londra. Era persino arrivata a ipotizzare che fosse stato un momento difficile. Il padre di Peggie era morto da poco e lei aveva avuto un rapporto speciale con lui. Della sua infanzia felice Peggie ricordava soprattutto ciò che faceva con il padre: le corse a cavallo e le visite agli amici artisti. Mr Goldenstein esibiva la figlia maggiore come un trofeo, ne era orgoglioso, diceva che aveva preso da lui l’intelligenza e la lungimiranza. Andava in visibilio quando Peggie si dimostrava all’altezza delle sue aspettative e quando intuì la sua propensione verso l’arte, le promise di farla diventare la sua assistente personale. Mr Goldenstein era un magnate dell’acciaio e un raffinato collezionista d’arte. Purtroppo non aveva fatto in tempo a realizzare tutti i suoi propositi, perché era morto tragicamente in un incidente in mare. Peggie doveva aver sofferto molto anche perché sua madre non aveva occhi che per la sorella minore e si era sentita esclusa da quel rapporto simbiotico. Aveva scelto lei di andare a studiare in Inghilterra, per cominciare a vivere a modo suo, come tempo prima aveva fatto anche suo padre. Sapeva che lui avrebbe approvato la sua scelta.

«Guarda», le disse porgendole il libro che aveva sfogliato fino a qualche minuto prima. «Ti piace?». Olimpia si protese verso di lei e afferrò il volume. Ne accarezzò la copertina in pelle e sorrise non appena si rese conto che stava cominciando a comportarsi da vera antiquaria. Si trattava una sorta di libro mastro, anche se dalla preziosa rilegatura in pelle non si sarebbe detto. Peggie doveva averlo fatto realizzare apposta per trascrivere la sua contabilità con stile. All’interno le pagine erano riempite da fitte righe scritte a mano con una grafia chiara ma minuta e non di facile lettura. Sembrava il lavoro certosino di un monaco amanuense. Olimpia aveva visto una calligrafia simile in uno dei libri di Anselmo, un’edizione a stampa della Bibbia con le note a margine di un frate domenicano. Glielo aveva venduto la pronipote dell’uomo, ansiosa di sbarazzarsi di tutto ciò che era appartenuto al suo prozio. Quella era stata la prima volta in cui Olimpia aveva accompagnato l’antiquario e Davide a fare una valutazione. Era stata un’esperienza emozionante ed era tornata a scuola felice e con la consapevolezza di sapere esattamente cosa fare dopo il liceo.

Mentre sfogliava quelle pagine, gli occhi si posavano su nomi come Picasso, Magritte e Kandinskij.

«Lì dentro è annotato tutto ciò che possiedo», le spiegò Peggie, «e che alla mia morte passerà ai miei figli e ai nipoti».

Olimpia continuò a sfogliare il libro mastro senza fare commenti. Non sapeva che cosa dire. Non aveva mai incontrato i figli di Peggie e non voleva rischiare di farla intristire ancora di più.

«In teoria…», sussurrò Peggie.

«Che vuoi dire?»

«Voglio dire che alla mia morte dovrebbe in teoria passare tutto ai miei figli ma in pratica non succederà».

Olimpia alzò la testa dal libro e posò lo sguardo sul viso di Peggie, che sembrava aver ripreso colore. Non ebbe il coraggio di chiederle che cosa intendesse e attese che fosse lei stessa a spiegarglielo.

«Tra poco nascerà la fondazione Goldenstein, my child, e i miei cari figli potranno ereditare i miei soldi ma non avranno mai la mia collezione d’arte. Questa casa diventerà la sede della fondazione e sarà visitabile come un museo».

«Davvero?»

«Sono forse una che scherza, io?». Olimpia si guardò intorno cercando di immaginare quella casa meravigliosa senza la presenza della sua amica. Un brivido le percorse la schiena. Peggie era una donna così piena di vita da sembrarle immortale, come una dea.

«Senti, cambiamo argomento», propose infine. «Non voglio nemmeno pensare a queste cose. Sembri mia nonna quando mi chiede di aiutarla a scegliere una foto per la sua lapide. Mi fate venire l’ansia, tu e lei».

Peggie rise di cuore e la strana atmosfera che avevano respirato fino a qualche istante prima si dissolse. Era tornata la donna ironica di sempre, la sua amica speciale.

«E pensare che anch’io stavo per proporti di aiutarmi a scegliere la foto per la mia lapide», esclamò, senza smettere di ridere.

«Eh no! Ti prego, Peggie, risparmiami lo strazio. Sono tornata da poco a scuola, basta la professoressa Maser ad angosciarmi. Non abbiamo fatto in tempo a rientrare dalle vacanze che già rompe con le interrogazioni di greco. “Vediamo cos’avete dimenticato, quest’estate”, ha detto. La odiamo tutti, nessuno escluso».

Carlo entrò nel salone annunciando l’arrivo di Diana, che si presentò con le guance in fiamme e il fiatone. Si scusò per l’intromissione ma era passata a casa di Olimpia e la madre le aveva detto che l’avrebbe trovata da Mrs Goldenstein.

«Che fai ancora lì, in piedi?», le chiese Peggie, facendole cenno di sedersi sul divano, davanti al camino acceso. Una cameriera portò loro una tisana profumata alla cannella e ai chiodi di garofano.

«Qual buon vento ti porta qui, Diana?», domandò Peggie, dopo aver posato le labbra sulla tazza e averla allontanata senza aver bevuto nemmeno un sorso.

«Ero passata da Olimpia e Letizia mi ha detto che era qui da te, così eccomi qui. Ho una notizia da darvi: mi sono innamorata», esclamò Diana, sorridendo. Olimpia per poco non si strozzò con la tisana e le lanciò un’occhiata stupefatta.

«Per questa ragione eri passata da casa?». Le lanciò un’occhiata stupefatta.

«Eh, sì. È successo stamattina».

«Mentre io ero a scuola, tu ti innamoravi, fammi capire?»

«Ecco, fa’ capire anche a me, Diana», chiese Peggie, trattenendo una risata.

«È bellissimo, intelligente e si veste bene».

«Particolare, questo, non di poco conto. Va’ avanti, cara», la spronò. «Chi è l’oggetto del tuo desiderio?».

Diana annunciò, tronfia: «Edmond Dantès».

«Che scema!», esclamò Olimpia, scuotendo il capo. «Oggi non sei venuta a scuola per leggere Il conte di Montecristo? Povero Edmond, sta lì sullo scaffale della tua libreria per anni senza essere disturbato e una mattina di settembre chi si ritrova a destarlo dal meritato riposo? Una studentessa veneziana che per stare con lui non va a scuola. Per un attimo ho creduto che ti fossi davvero innamorata di qualcuno».

«Ma io sono innamorata di lui», protestò Diana.

«Tesoro», intervenne Peggie. «Nessuno lo mette in dubbio. E tu, Olimpia? Di chi ti sei innamorata in questi giorni, che cosa hai letto?»

«Non solo non ho letto un bel niente per studiare greco ma Anselmo mi ha messo a lavorare alla pulitura di diversi manoscritti e sono sfinita. In più continuo a litigare con mamma, però questa è normale routine», rispose Olimpia. Quando parlava con Peggie i suoi problemi improvvisamente si ridimensionavano e apparivano per quello che erano: sciocchezze. La tensione accumulata si allentava in un attimo.

Peggie osservò le due ragazze e sorrise. «Ah, quanto vorrei avere la vostra età e affrontare i vostri meravigliosi problemi. Certo, non che non me la sia goduta, anzi…».

Peggie prendeva sempre sul serio tutto ciò che loro dicevano e non le rimproverava mai di essere fuori dal mondo e di vivere in una dimensione tutta loro. Era una delle poche persone che capivano cosa volesse dire innamorarsi di un uomo che nella realtà non esisteva, prendersi una cotta per un personaggio creato dalla penna di uno scrittore. Generazioni di donne si erano innamorate, per esempio, del Mr Darcy descritto da Jane Austen in Orgoglio e pregiudizio. Era successo alla stessa Peggie.

«In realtà chi legge ne sa molto di più di chi si limita a vivere la vita reale. Sa come comportarsi in ogni occasione perché l’ha già visto fare e poco importa che la gente creda altrimenti. Poveri loro, non sanno cosa si perdono», aveva detto una volta, quando Olimpia si era lamentata per l’ennesima discussione con la madre, che le rimproverava di vivere in un mondo tutto suo.

La conversazione languì per qualche minuto. Peggie sembrava stanca, così le due ragazze presero commiato non appena ebbero finito la loro tisana.

«Mi dispiace che Diana sia piombata qui senza averti prima avvisato», sussurrò Olimpia mentre salutava Peggie stringendola in un caloroso abbraccio.

«Tesoro mio, sai che puoi venire a casa mia quando e con chi vuoi», le rispose accarezzandole la guancia. Aveva gli occhi lucidi e una strana espressione sul viso.

 

Cinzia Giorgio - La collezionista di libri proibiti
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