Rifiuti

di Ramsey Campbell

 

 

Titolo originale: Litter 

 

 

 

Avevo l’abitudine di attraversare il mercato di notte. Intendo la nuova costruzione di plastica, piastrelle e vetro che sorge nell’area del vecchio mercato all’aperto. Lavoro a Radio Brichester... curo, tra gli altri, il programma di musica popolare... e mi è comodo, a notte fonda, quando l’ultimo autobus è già passato, tagliare attraverso il mercato per andare a prendere un taxi in Central Station. Ci passavo spesso, anche dopo aver cominciato a detestare quel percorso.

Perché? C’erano parecchie ragioni, alcune anche banali. Forse dovrei descrivere il mercato. È a due piani ed è attraversato da un groviglio di viali. I viali, a essere meno pretenziosi, sarebbero dei corridoi, ma quello è il nome che la giunta comunale ha dato loro. Ogni corridoio è chiuso da due piani di facciate di negozi, in gran parte vetrine e insegne di plastica, e al centro dove i corridoi si incrociano ci sono le scale mobili che portano al piano superiore.

Se la mia descrizione suona scialba e insignificante, allora ho ottenuto quello che volevo. Anche durante il pomeriggio, nelle ore di punta, il posto è anonimo al massimo. Ci sono persone che girano per i negozi, naturalmente, ma la massa usa il mercato come luogo di passaggio: ci passano di fretta, con le menti intorpidite dalla musica, fermandosi di tanto in tanto per dare un’occhiata ai televisori muti esposti nelle vetrine.

A differenza del vecchio mercato all’aperto, una confusione sbalorditiva, assordante e abbagliante che può rendere furiosi ma mai lasciare indifferenti, questo nuovo complesso non offre prodotti d’acquisto alla mente. È più simile a un supermercato colossale, ma anche questo non basta a spiegare perché ho cominciato a trovarlo molesto.

Il mercato intorpidiva la mente: questa è stata la prima cosa che ho notato. Dal momento che se usavo la scorciatoia era perché avevo lavorato fino a tardi, non mi sembrò sorprendente attraversare il mercato senza che un solo pensiero mi passasse per la testa. Mi sembrava ovvio, perché ero stanchissimo. Ma una sera sapevo di non essere stanco: incidentalmente, mi era capitato di fare un raffronto tra la melodia di una ballata inglese e quella di un canto popolare indiano, e di colpo un intero programma aveva iniziato a prendere forma nella mia mente.

Uscii da Radio Brichester con in testa mille idee. Divertendomi un mondo, entrai nel mercato, e fu come se un vecchio straccio grigio mi fosse stato calato sulla testa: non potevo più pensare né recepire, solo lottare. Non potei riprendere le mie funzioni normali finché non ne fui uscito, e allora metà delle mie idee erano sfumate.

Diedi la colpa al mercato. Non sapevo cosa fosse che non andava, ma era sicuro che non dipendeva da me. Così, facendo uno sforzo (e fu piuttosto estenuante), cominciai a notare diverse cose. Poco dopo scoprii che si provava una sensazione strana, anzi, più che una sensazione era una dolorosa mancanza di personalità, intorno al centro del luogo, vicino alle scale mobili, circondate da numerose e grosse colonne, con funzioni sia decorative sia di sostegno. Vi erano scolpite leve, ruote dentate e altri simboli astratti, opera di un artista 1ocale. Di notte le parti in metallo e gomma delle scale mobili sfregavano tra di loro, e gli ingranaggi barrivano e scricchiolavano.

Con i suoi rumori da giungla e le sculture volutamente primitive, il centro avrebbe potuto senza dubbio ricordare un tempio abbandonato; ma tra le pareti biancastre, tra l’eco del traffico e dei passi, dava semplicemente una sensazione di vuoto spaventoso e sembrava un treno fantasma che qualcuno si fosse dimenticato di spegnere. Avevo l’impressione che i suoi ideatori avessero tentato di falsare l’atmosfera con accostamenti incompatibili. I rumori, però, mi sconcertarono. Mentre ci passavo in mezzo avevo più di una volta sentito fruscii e ronzii su al mezzanino, una specie di picchiettio faticoso come se qualcuno o qualcosa cercasse di sfuggire precipitosamente al mio sguardo negli altri corridoi. Niente di particolare, ma questo servì ad attirare la mia attenzione su qualcosa di più strano: il fatto che anche quando attraversavo il mercato più presto del solito non incontravo mai nessuno. Le coppie in giro per vetrine sembravano preferire le vie del centro, e anche i senzatetto non si riparavano mai al mercato. Eppure era una scorciatoia.

Questa considerazione mi porta, suppongo, a Jamie MacDonald. Non che lui abbia avuto qualche rapporto con quello che accadde, ma solo per le conseguenze. Il suo vero nome è James e non è mai stato in Scozia in vita sua, ma quando il personale di Radio Brichester fu invitato a una cena con il sindaco, MacDonald si presentò con il kilt. Le sue gambe grasse e pelose non stimolarono il nostro appetito. Non posso dire che mi sia mai piaciuto. Faceva il disc-jockey e il suo programma consisteva in due ore di anonima e datata musica rock, alternata a periodi di logorrea scozzese, anche se nel suo genere MacDonald era un buon professionista. Fuori trasmissione, con il suo taglio di capelli alla Beatle da bambino decenne e il doppio mento da trentatreenne, faceva meno figura. Tuttavia, più o meno nel periodo in cui io cominciai ad avvertire che c’era qualcosa che non andava nel mercato, MacDonald lanciò un monito ai suoi ascoltatori contro la stregoneria di moda, e questo mi fece pensare che avessimo delle idee in comune. Ecco come MacDonald entra in questa storia.

Una notte di metà novembre terminai un programma di canti popolari di cui ero molto orgoglioso. Mi incamminai per la città sentendomi sereno e acutamente percettivo. Il mercato appariva pallido e come accovacciato sotto gli uncini di cemento e le uova lucenti dei lampioni stradali. Infilai il vialetto imbandierato che portava al mercato, e il mio umore si fece più cupo. Il consiglio comunale aveva fatto piantare alcuni alberelli scheletrici in tubi di ferro tra i vialetti, ma si vedeva che prima di diventare alberi di cui si potesse andare fieri sarebbero stati sommersi dalla carta straccia.

Mentre si avvicinava il suo primo anniversario, il mercato sembrava sempre più deciso a disseminare le strade circostanti di rifiuti. Pensai agli spazzini che un mattino di buon’ora avevo visto spazzare via in silenzio un mucchio di piastrelle rotte. Le persone delle pulizie a Radio Brichester erano tutto tranne che silenziose. Mentre riflettevo su questo particolare, vidi un uomo affrettarsi lungo uno dei viali che portavano al mercato. Era MacDonald.

— Questo non è il tuo solito percorso — gli gridai dietro. 

Lui si fermò con aria accigliata. Portava pantaloni color malva e teneva in mano un ombrello trasparente.

— Non passo sempre di qui — rispose. 

— Facciamo la strada insieme, eh? — Entrammo nel mercato; la sirena di un allarme stava suonando da qualche parte e gli schermi dei televisori erano disturbati. — Spero che non ti dispiaccia se ti faccio questa domanda — feci io — ma se questa è la strada più corta per arrivare a casa tua, com’è che la eviti? 

Spesso ci eravamo incontrati nell’ascensore della radio, per poi dividerci una volta arrivati in strada.

— È una domanda molto curiosa, se permetti. 

— Non si tratta di semplice curiosità. 

— Mi sorprendi. — Tra le colonne, le scale mobili scricchiolavano come barche tenute ferme dalle gomene. — Spiegami perché vuoi saperlo e forse te lo dirò. 

Avrei potuto infuriarmi, ma pensai che potesse farmi qualche rivelazione; inoltre, la conversazione e il mercato cominciavano a soffocare le mie emozioni.

— C’è un’atmosfera in questo posto che sono arrivato a detestare — dissi. — No, è più che altro una mancanza di atmosfera, è questo il guaio. Sai che la maggior parte dei luoghi hanno una personalità. Be’, non ho mai visto in vita mia un luogo senza una presenza come questo, e la cosa mi mette a disagio. Voglio dire, studiando a fondo quasi tutte le culture, si trova il concetto di genius loci. Che tipo di spirito può avere questo luogo? 

MacDonald mi stava fissando. — Tutto qui?

— In realtà non è successo niente di particolare. 

— Sai una cosa? Sei un tipo a posto. Pensavo che mi volessi giocare un brutto tiro, ma vedo che non è così. Spiacente di rovinare la tua storia, ma io non passo mai di qui perché non abito da queste parti. Solo che mia moglie è fuori per il fine settimana e una delle mie ammiratrici vuole sapere che aspetto ho senza il kilt. 

Avrei dovuto immaginarlo, pensai stizzosamente: una banalità degna di lui. Eppure era in qualche modo il tipo di cosa che mi sarei aspettato di venire a sapere al mercato. Malevoli cliché mi vorticavano per la testa, quale splendida occasione per te, oppure buona fortuna, ma invece indicai un punto con una mano e dissi: — Cos’è quello?

Lungo il corridoio che si apriva davanti a noi una piccola forma bianca si muoveva rapidamente. Di tanto in tanto faceva un salto sgraziato e poi ricadeva goffamente; una volta fece una capriola, un’altra si fermò e sembrò sgonfiarsi prima di riprendere forma e farsi più vicina.

— È una borsa di plastica — disse MacDonald. 

Naturalmente aveva ragione. Mi aspettavo decisamente troppo dal mercato. La borsa avanzava rotolando verso di noi, saltellando e ricadendo allegramente come un cucciolo. Si sgonfiò e poi si arrotolò intorno alle mie caviglie.

— Ce l’ha con te — disse MacDonald. 

Così sembrava. Come riuscii a liberarmi, la borsa si gonfiò nuovamente e mi si attaccò alle gambe. Io mi girai e la lasciai scivolare via, ma poi la borsa rotolò indietro e si modellò sulla mia gamba. Di colpo provai disgusto, come se lottassi per liberarmi da un embrione senza membra e senza cervello.

— Te la cedo volentieri — dissi a MacDonald, e gliela tirai con un calcio. 

Lui cercò di liberarsene con l’ombrello e io mi allontanai in fretta lungo il corridoio. Lo sentii schiacciare sotto i piedi la borsa e farla a pezzi con l’ombrello. Voltandomi a guardare, vidi brandelli di plastica attaccarsi alle sue gambe.

Il mattino dopo mi svegliai pensando ancora all’incidente. Mi sembrò indefinibilmente squallido e sordido, e la mia mente ne era come insudiciata. A Radio Brichester incontrai MacDonald. Ammiccò schiacciando un occhio con aria da cospiratore, e nella mia mente ritornò l’immagine della sua lotta con una pallida e informe creatura notturna. Andai dal direttore della stazione che mi disse che gli sarebbe piaciuto un programma di canti popolari natalizi, molte parole, ma io sapevo meglio di lui cosa scegliere, e poi poche chiacchiere, lo stretto necessario, se non mi dispiaceva. Naturalmente mi dispiaceva, ma c’era ben poco che potessi fare, oltre a mettere su un’espressione offesa, e alla fine cominciai a pensare alla realizzazione del programma.

Ma almeno questo servì a tenermi lontano dal mercato. Per un paio di settimane dopo la scena con MacDonald evitai deliberatamente il posto, anche se per ragioni forse meno consce; e quando ormai il ricordo cominciava a perdere forma, stavo lavorando al programma di Natale e uscivo presto dall’ufficio. Anzi, se non mi fossi fermato al ricevimento di Natale alla radio, non sarebbe successo nient’altro.

Era una festa piacevole, anche se un po’ folle e caotica. Arrivò uno che aveva partecipato allo spettacolo per bambini e si mise a girare con un pappagallo imbalsamato su una spalla. Uno che leggeva i notiziari era un po’ fuori fase per la birra bevuta e leggeva con voce impastata. Un pianista di teatro tentava con sempre minore successo di suonare l’Hammerklavier. MacDonald se ne andò presto dopo che la moglie gli aveva dato una lavata di testa al telefono. Io uscii tardi, dopo aver passato mezz’ora ad augurare la buonanotte.

Il gelo della notte non arrivò fino a me, caldo com’ero. Mi incamminai barcollando leggermente, dando pacche amichevoli ai segnali di fermata degli autobus e ai cestini per i rifiuti, accarezzando sulla testa i parchimetri. Poche auto pattinavano sugli specchi neri delle strade. Lungo il Severn una sottile fila di finestre illuminate scivolava via. Pensai che fosse un’ora buona per trovare un taxi, ma non ne vidi e allora mi diressi verso il mercato.

Prima di arrivarci, decisi di non lasciarmi turbare, di conservare il buonumore del ricevimento. Che quel posto fosse pure anonimo quanto gli pareva: la mia personalità poteva attraversarlo e rimanere intatta. Girai intorno a un angolo ed eccolo là, acquattato cupamente, avvolto dal mio fiato come una tomba tra la nebbia artificiale di un film. Scoppiai a ridere. Mi tenni in equilibrio lungo la striscia che correva tra le bandiere del viale mentre i sottili alberi ingabbiati sibilavano e risuonavano dolcemente, come serpenti, nel vento.

Il soffitto del corridoio si muoveva sopra la mia testa come un’ombra bianca. I miei passi risuonavano come colpi di martello sulle mattonelle. Oltrepassai le pescherie con i banconi metallici vuoti e lucenti, e una boutique dalle cui vetrine mi fissavano senza espressione calvi e nudi androgini. In un negozio accanto alle scale mobili, una fila di teste uguali argentate danzavano, si ingrandivano e si rimpicciolivano, ma prima che potessi riconoscerne le facce, gli schermi televisivi si spensero per la notte. Da un punto imprecisato, più avanti, venne un battito, come d’ali d’uccello.

I miei passi continuavano a risuonare, regolari, cadenzati, come i colpi ritmati di una squadra di operai. L’armonia informe delle scale mobili ronzava, si rompeva, riprendeva a ronzare. Avevano bisogno di una revisione, pensai. Passai l’ultimo negozio prima delle colonne, e il bianco delle piastrelle si chiuse sui miei occhi come nebbia. O come l’inizio di una tormenta di neve. Tra le colonne qualcosa si dibatteva. La mia mente brancolò alla ricerca di una canzone. A squarciagola intonai Matty Groves. 

Intanto, il rumore si intensificò. Adesso ero in grado di localizzarlo: veniva da dietro la colonna più vicina che dovevo oltrepassare. Era come se l’uccello, che forse aveva fatto lì il nido, fosse rimasto intrappolato tra le sculture della colonna e stesse lottando per liberarsi. Tuttavia non mi sentivo di girare intorno alla colonna per liberarlo. Sicuramente tra le sculture c’erano spazi troppo ampi perché un uccello potesse rimanere intrappolato. Allora decisi di oltrepassarla di corsa.

Poi lo sguardo mi cadde sulla scala mobile. Le scale mobili si alzano dal centro del pavimento al livello del mezzanino, e sono chiuse nel vetro. Nel punto in cui le pareti laterali dei gradini toccano il vetro mentre salgono, formano degli specchi. Questi specchi sono, naturalmente, scuri e instabili, però vi vedevo riflessi frammenti delle colonne. E quella che vedevo sembrava coperta di una massa multicolore che si muoveva e strisciava.

Esitai, poi, anche se malfermo sulle gambe, cominciai a correre. Arrivai all’altezza della colonna e dei corridoi trasversali. Fui investito da una raffica di vento, e la massa che era stata compressa contro la colonna si staccò e venne scagliata nella mia direzione.

Era formata in gran parte di carta: vecchi giornali sporchi, sacchetti di carta gonfiati come polmoni, pacchi di ricevute, pezzetti di carta simili a pesanti falene. Mentre il vento la staccava dalla colonna e la lanciava contro di me, la massa mi sembrò un immenso nemico balzato fuori dal nascondiglio. Era alta quasi quanto me e per un attimo mi sembrò della mia stessa costituzione, ed ebbi l’impressione di un’aggressione anonima, impersonale. Poi si aprì, disperdendosi al suolo, appiccicandosi al muro e contro di me.

Cercai di cacciarla via furiosamente, con il cuore che mi batteva forte, e scappai via. O cominciai a farlo, perché non avevo ancora fatto tre passi che udii un frullo dietro di me. Mi voltai e vidi i rifiuti cadere a terra in un mucchio dalla parete e riformarsi.

Ero ancora ubriaco e così mi fermai a guardare. Il mucchio si era rimpicciolito adesso che il sostegno del vento si era indebolito: alto al massimo sessanta centimetri, si trascinò per un po’ come per darmi la caccia prima di crollare a un quarto della sua altezza. Alla fine me ne andai, voltandomi spesso a guardare indietro. Il mucchio tentò di sollevarsi, ricadde e cominciò a disperdersi in piccoli frammenti.

Il mattino successivo avevo un mal di testa tremendo che deformava qualsiasi pensiero cercassi di mettere insieme. All’ora di pranzo salii sul tetto sopra Radio Brichester per schiarirmi le idee. Il vento mi sferzava, mentre sei piani più sotto la città brontolava pigramente. Guardai verso il Severn il cui luccichio ondeggiava silenziosamente sull’acqua intorno a poche barche. Guardai verso il mercato, abbandonato come un cestino di plastica per la colazione tra le appuntite facciate vittoriane, e a un tratto ricordai l’incidente della notte prima e mi resi conto di quanto fosse inverosimile. Ero davvero tanto ubriaco? Mentre riflettevo, la porta che dava sul tetto si aprì e comparve MacDonald che sbocconcellava uno spesso panino imbottito di prosciutto.

— Stai cercando di prenderti un raffreddore? — chiese. 

— No, sto solo tentando di schiarirmi un po’ le idee. 

— Sei più stato inseguito al mercato, ultimamente? — chiese. 

— A dire la verità... — cominciai, ma mi interruppi. Non potevo certo aspettarmi un auditorio comprensivo. Ma non avevo nessuna intenzione di lasciarmi influenzare dalle sue opinioni. Così gli raccontai tutto. 

Il fatto stesso di parlarne sembrò liberarmi dall’obbligo di fare indagini al mercato. Lui sorrise e scosse la testa quando ebbi finito e si allontanò masticando il suo panino. Mi lasciò convinto che se davvero c’era qualcosa di strano in quel mercato, io non avevo nessuna voglia di finirci dentro un’altra volta, e se non c’era, allora non avevo intenzione di deprimermi con quel posto dopo una giornata di lavoro. Quale che fosse la verità, mi liberai del pensiero.

Fino a una notte tempestosa, due settimane più tardi.

Per tutta la sera, strati di nuvole nere si erano rincorse al di là delle finestre dello studio. Quando uscii, le nuvole avevano rallentato la loro corsa e si stavano distendendo proprio sopra di me. La grandine cominciò a cadere proprio mentre stavo passando accanto al mercato per arrivare alla stazione. Non avevo intenzione di attraversarlo, ma non vidi nessuna ragione che mi impedisse di approfittare del riparo offerto dal suo tetto.

Mi fermai a guardare. La grandine sferzava attraverso i lampioni al mercurio ed era simile ai denti di un pettine luminoso. In alto, una luce appariva e spariva attraverso brandelli di nubi. Un uomo correva inciampando tra il fango dei viali, oltre un enorme e mal ridotto Babbo Natale di plastica, abbandonato dopo la sfilata di Natale, calpestando ciuffi di erba e piantine appena spuntate. Era un vandalo involontario, ma non mi sentivo di condannarlo: quel luogo non incuteva nessun rispetto. La superficie dei vialetti ribolliva sotto la violenza della grandine, e sacchetti di carta sussultavano tra il fango come pesci in agonia. Una coppia di ragazzi arrivò ansimando al riparo, con una radiolina che trasmetteva musica pop. Guardai la luna gioendo della sua vista e pensai a quanta gente nelle città non alza mai lo sguardo. Quando abbassai gli occhi, vidi MacDonald che correva verso il mercato.

Lui non mi vide e io distolsi lo sguardo. Quasi contemporaneamente sentii la sua voce.

— ... un arrangiamento super come non ho mai sentito, un sound davvero fantastico, e in confidenza vi dirò cosa mi ha confessato il loro primo chitarrista: hanno preso il motivo da Johann Sebastian Bach. Quel chitarrista ne ha scritti di bellissimi, così dicono, ma adesso non lavora più per loro. Comunque, abbiamo qui sul piatto per voi qualche disco eccezionale, fantastico, super, ma prima ascoltatemi, ho un avviso per voi, la prossima volta che passate da Brichester Market, non buttate a terra dei rifiuti, altrimenti potrebbero essere loro a buttare a terra voi. È quello che mi ha raccontato un tizio che l’altra notte è stato assalito da una cassetta di bottiglie di birra, e chi ha detto che se l’è scolate tutte prima? 

La musica riprese, e la coppietta con la radiolina mi fissò, spaventata, perché involontariamente avevo dato un pugno contro il muro del mercato. Ma io mi girai di scatto e mi lanciai verso l’entrata oltre la quale MacDonald era sparito. Non l’avrebbe passata liscia. Avevo intenzione di prenderlo e costringerlo a rimanere nel mercato finché non capitava qualcosa. L’episodio capitato dopo la festa mi riempì la memoria e fui certo che non era stata solo la sbronza. Stanotte sentivo che sarebbe successo di nuovo. Sarei stato io a provocarlo.

Non riuscivo a vedere MacDonald, ma sentivo i suoi passi. — MacDonald! — urlai. — C’è qualcosa qui dentro che voglio farti vedere! — L’eco dei suoi passi si moltiplicò, come se avesse accelerato l’andatura.

Scivolai e quasi caddi a terra, le mattonelle erano bagnate e scivolose come il bordo di una piscina.

Giornali appallottolati e scatoloni di carta erano ammucchiati a fianco dei negozi, immobili. Mi misi a correre più forte, con una mano pronta per afferrarmi al muro. Mi sfrecciarono vicino, in una agenzia di viaggi, sagome di ragazze intagliate nel cartone rosa, ma non c’era traccia di MacDonald. I suoi passi erano prolungati dall’eco e sembravano irreali. Tra un attimo avrei superato le colonne e l’avrei intravisto.

Raggiunsi il centro del mercato e mi fermai, circondato da numerosi echi. Il rumore di passi risuonava da tutti e quattro i lati. L’acustica del mercato era particolare, lo sapevo, ma non così eccezionale. Di colpo mi resi conto che non avevo affatto seguito MacDonald, bensì il rumore incessante di scatoloni di carta.

Stavo ancora guardandomi intorno alla ricerca sia di MacDonald sia della fonte del rumore, quando la fonte stessa spuntò da dietro le colonne e cominciò ad avanzare nella mia direzione.

Suona assurdo, lo so, e lo era anche all’aspetto. Alcuni cartoni vuoti di latte mi comparvero davanti agli occhi, tra tramestii e fruscii e un liquido biancastro colava dalle loro bocche strappate. Alcuni giornali inzuppati sbattevano cupamente contro gli angoli delle colonne. Alla fine si staccarono finendo sulle mattonelle dibattendosi come uccelli moribondi. Un paio di riviste che giacevano aperte in pozzanghere nere tentavano di sollevarsi. Un foglio di plastica stracciato si increspava strisciando sul pavimento come un bruco grigio e piatto. Poi cominciarono ad apparire e ad accatastarsi una sull’altra alcune scatole di cartone, ruzzolando e rotolando sugli angoli ammaccati, e il vento prese e sferzarmi da ogni lato, uno strano vento. Tutt’a un tratto mi trovai la strada sbarrata su tre lati dai rifiuti che sembravano aspettare qualcosa, rumoreggiando e dimenandosi nervosamente.

Era assurdo, continuavo a ripetere a me stesso: grottesco e spiacevole ma assurdo. Mi voltai verso la direzione da cui ero venuto, lentamente, come se i rifiuti potessero non accorgersene. Feci un passo e, davanti, i cartoni che avevo oltrepassato poco prima si staccarono lentamente dal muro. Feci un altro passo. Uno dei cartoni si scosse, si rovesciò in avanti con un tonfo e scivolò verso di me.

Lo guardai avvicinarsi, pronto a spostarmi di lato. Ma mi mossi troppo in anticipo senza rendermi conto del suo peso. Il cartone traballò e mi urtò con uno spigolo in uno stinco.

Urlai, per la sorpresa e per il dolore. Contemporaneamente, mi ricordai della coppietta con la radio. I due avevano notato la mia reazione a quanto aveva detto MacDonald e dovevano avermi preso per matto. Tuttavia invocai aiuto. Gridai due volte prima che una bottiglia di birra mi rotolasse sotto i piedi facendomi rovinare a faccia in giù tra un mucchio di giornali fradici i cui angoli sembravano fremere per l’attesa.

Mi rimisi in piedi frenando la mia rabbia. Se avessi preso a calci la carta non me ne sarei più liberato. Mi sforzai di riflettere con calma, o almeno cominciai a farlo, quando parecchie bottiglie rotolarono contro il muro rompendosi.

Fu allora, quando i giornali e i cartoni cominciarono a convergere verso di me, con le schegge di vetro che brillavano in mezzo a loro e sulle loro superfici, che mi resi conto di essere in pericolo.

Indietreggiai, cercando una via di scampo, e vidi quello che mi poteva servire: la scala mobile. La carta seghettata si sollevò fremendo, e io mi misi a correre. Non ne ero sicuro, ma mi parve di ricordare un’uscita a livello del mezzanino.

Arrivai alla scala mobile: appena si mise in moto mi lanciai incespicando verso l’alto. Afferrai lo scorrimano in movimento, avvertendo l’impatto ondeggiante della gomma sotto la mano, come i muscoli di un braccio. Ai piedi della scala mobile i rifiuti si ammassavano e si rovesciavano in avanti per essere trasportati di sopra. Poi in alto sentii un colpo metallico.

Guardai in su e mi fermai sullo scalino che avevo raggiunto, vinto dalla disperazione. Ai due lati del punto in cui la scala mobile terminava c’erano cassette della spazzatura. Due si erano rovesciate, disseminando il contenuto per il mezzanino. Parte dei rifiuti, tra cui fiori schiacciati, erano già strisciati fino alla scala mobile che portava verso il basso e stavano scendendo a unirsi alla ressa di cartoni in attesa al piano inferiore.

Mi sentii inesorabilmente trasportato verso l’alto e cercai di non gridare. Sapevo che non c’era nessuno nelle vicinanze, e urlare non sarebbe servito a niente. Anzi, se mai il contrario.

Trasalii, non sapendo lì per lì la ragione. «Anzi»... ma perché?... Lo sapevo... sapevo di saperlo. «Sei più stato inseguito al mercato, ultimamente?»

Sotto di me, sulla scala mobile, udii il tintinnio e lo stridore del vetro. Mi ricordai la sera del ricevimento quando non mi ero lasciato inseguire. Una minaccia non portata da una mente raziocinante non ha motivazioni proprie. E alla fine capii come sarei riuscito a salvarmi.

Raggiunsi il mezzanino e mi fermai un attimo a respirare profondamente, proteggendomi il naso con le mani. Poi, mentre solo la mia faccia si contraeva, mi diressi con calma alla scala mobile che portava di sotto e vi salii. Cercai di chiudere gli occhi, ma era ancora peggio che guardare gli impazienti cartoni salire vacillando contro di me.

In fondo alla scala mobile mi fermai per qualche minuto. Alle mie spalle sentivo oggetti di piccole dimensioni rotolare giù dalla scala.

Quando mi resi conto che i cartoni non si muovevano li oltrepassai.

Ero riuscito ad allontanarmi di poco quando i cartoni, e il contenuto dei bidoni della spazzatura che li aveva raggiunti di sotto, cominciarono a trascinarsi lentamente verso di me.

Avevo sperato che si abbassassero e diminuissero prima di raggiungermi come la volta precedente, ma evidentemente questa volta avevano tratto maggiore energia dall’inseguimento.

Continuarono ad arrivare per parecchio tempo, ed erano ripugnanti, soprattutto i fiori calpestati che riuscirono a raggiungermi la faccia e che puzzavano di pesce marcio. Subii solo un paio di graffi, ma fui costretto a camminare lentamente fuori del mercato prima di poter spazzare via tutto quello che mi si era attaccato addosso.

Avevo vergogna ad avvicinare un altro essere umano, ma dopo qualche discussione riuscii a prendere un taxi. Passai diverse ore in bagno, sapendo che non avrei più potuto dormire.

Da allora non ho più parlato con MacDonald, perché mi ha reso impossibile trasmettere un avviso. Non ho neppure tentato di immaginare la reazione del consiglio comunale. Ma continuo ad avere paura, anzi, a essere sicuro che il mercato non è il solo posto del genere. Forse da qualche parte potrebbe esserci “qualcosa” più in gamba di me.