Carica di spettri

di Luc Scott

 

 

Titolo originale: Night Riders 

 

 

 

— Chi ti perseguita? Un mostro? 

Sorrise e sentì un brivido leggero, ricordando i terrori della sua infanzia.

Timmy si strinse nelle spalle, giocherellando nervosamente con le coperte, e il sorriso di Paul svanì. È un testa o croce alla pari, pensò, decidere se ha più paura dei suoi incubi notturni o di me.

— Non posso aiutarti se non mi dici cosa ti spaventa. 

Scosse dolcemente il bambino.

Timmy sospirò. — Sono in tre — disse alla fine. — A cavallo. E hanno la spada.

— E cosa vogliono? 

Mio padre sconfisse un drago quando avevo cinque anni, si ricordò Paul.

Poi la piacevole sensazione si trasformò in amarezza. Ma il padre di Timmy non sta abbastanza in casa perché ci si possa fidare di lui, non è vero?

Ascoltò in silenzio mentre Timmy con una certa riluttanza accusava gli spettrali Cavalieri. Di fargli del male, di rapirlo o di...

— Mamma dice che in realtà non esistono — terminò Timmy, con una specie di disperato fatalismo. 

— Oh, ci sono e come — lo rassicurò Paul, e sentì Timmy respirare più in fretta, poi rilassarsi, compiaciuto. Si chiese se fosse il caso di parlargli del drago, ma decise di no. 

— Io so che ci sono — ripeté — non solo, ma so anche perché vengono. 

Il bambino si raggomitolò sul cuscino.

— Perché, papà? 

— Perché io non sono abbastanza spesso a casa. Vedi, Timmy, è compito di un padre proteggere il figlio contro tutto quello che può fargli del male. Quando lui non c’è, be’, loro pensano di essere al sicuro e di poter tentare qualcosa. — Prese la manina del figlio e la sentì stringere fiduciosamente la propria. — Ma io sono qui, adesso. E non permetterò a nessuno di portarti via. Non permetterò a niente e a nessuno di farti del male. 

La sua voce era dura come se parlasse sul serio, e Timmy si tirò su a sedere. — Non è colpa tua se non puoi essere sempre a casa, papà.

Sembrava l’eco di sua madre, pensò Paul, e sorrise. — Però devo far sapere loro che io sono qui quando hai bisogno di me, non ti pare? — Allungò una mano e gli scompigliò i capelli. — Torna a dormire. Starò qui tutto il tempo.

— Okay. 

Timmy si coricò, poi il suo piccolo corpo si irrigidì.

— Cosa c’è? Vengono? — Gli occhi di Paul frugarono nel buio. 

Timmy tornò a rilassarsi. — No, se ne sono andati, ma penso che ti abbiano visto. Sono andati via.

— Così imparano. 

— Sì. Papà? — La sua voce era piena di sonno. 

— Dimmi. 

— Quanto stai a casa questa volta? 

— Un mese. Forse di più. 

— Bene. 

Paul si chinò a dargli il bacio della buonanotte. — Tutto bene, adesso?

— Sì. Non vengono mai due volte nella stessa notte. Buona notte, papà. 

— Buona notte, Timmy. — Si voltò verso la porta, agitando il pugno, non del tutto scherzosamente, contro gli invisibili Cavalieri. Non lo perderò, li minacciò, non lo cederò né a voi né ad altri. È mio. 

E chiuse la porta.

 

Il grido lo fece sussultare, e lui quasi cadde dalla sedia. Anne posò il lavoro di rammendo. — Vado io stasera — disse lei. — Tu non sei ancora riuscito a riposarti.

— Mi sembra di aver sentito chiamare “papà”, questa volta — disse lui, quasi compiaciuto, e si lanciò su per le scale facendo i gradini a due alla volta. 

— Dove sono? — Fece la domanda prima ancora di essere nella stanza. 

La figuretta contratta additò qualcosa ai piedi del letto. Pur nella semioscurità, Paul vide il terrore negli occhi del bambino. — Là!

Il sangue gli martellava nelle orecchie, e Paul pensò con disappunto che un fumatore non dovrebbe affrontare le scale a passo di carica. Si fermò accanto al letto e cominciò ad arrotolarsi le maniche. — Che provino a fare qualcosa — disse con voce ferma. — Che solo ci provino.

Il rumore martellante alle orecchie cominciò a diminuire, e il fiato gli tornò. Un’occhiata gli confermò che Timmy aveva pianto.

Paul si sedette sull’orlo del letto, e prese il bambino fra le braccia.

— Va tutto bene adesso, tesoro, se ne sono andati. 

Timmy si rilassò con un sospiro convulso e annuì contro il petto del padre. — Lo so — rispose, poi si alzò a sedere. — Non hai avuto nemmeno un po’ di paura? — chiese, ammirato.

Paul rifletté sulla risposta da dare. — Certo che avevo paura — disse alla fine — ma non avevo nessuna intenzione di lasciare che ti portassero via.

Mise un braccio intorno alle fragili spalle del figlio e lo attirò a sé. — Non c’è da vergognarsi ad avere paura, Timmy, quando c’è una ragione. L’importante è non scappare.

Timmy ci pensò su. — Anche gli adulti hanno paura? — chiese, esitante.

— Certo. Anche i Cavalieri. Non scappano forse via, quando arriva qualcuno? 

— Già — la voce di Timmy sembrò soddisfatta. — Già, è proprio così. 

— Bene. Allora sono dei vigliacchi. Perciò, se mostri di non avere paura, saranno loro ad avere paura di te. 

La domanda di Timmy arrivò rapida. — Ma tu starai qui comunque, non è vero?

— Certo. Torna a dormire, Timmy. Starò qui. 

Osservò i movimenti del ragazzo che si rannicchiava e fu invaso dal terrore della solitudine. Non sto abbastanza a casa, pensò. Per ora è ancora mio, ma crescendo si imbatterà in cavalieri più reali e io lo perderò, se non sarò qui ad aiutarlo a combatterli. Forse dovrei cercare un lavoro che mi permetta di stare di più a casa. Forse dovrei provare a ottenere quel trasferimento prima che sia troppo tardi...

Improvvisamente, un rumore gli fece alzare la testa. Cosa diavolo...?

La tendina scorrevole della finestra batteva contro il telaio.

Paul sorrise. Se chiudessi gli occhi e mi lasciassi suggestionare, potrebbe sembrare un rumore di zoccoli. Mise e posto la tendina. Liberaci, o Signore, da vampiri e fantasmi e da tutte le bestie alate e dalle cose che si aggirano di notte, pensò.

 

— Mio eroe — lo accolse Anne con un bacio enfatico. 

— Eh?

— Timmy mi ha raccontato di ieri sera. Ha detto che i Cavalieri erano più spaventati di lui. 

Paul fece una smorfia.

— Già, li abbiamo cacciati via — disse, poi ridiventò serio. — Questi suoi fantasmi sembra che non appaiano se qualcuno sta con lui finché si addormenta. Saltano fuori solo quando viene lasciato da solo al buio. Stasera lo metterò a letto io. Forse se passa qualche notte senza che si facciano vivi smetterà di vederli. 

Lei aveva un’espressione dubbiosa. — Pensi che sia una buona idea abituarlo ad avere qualcuno vicino finché si addormenta?

Paul si lasciò andare nella poltrona con un sospiro stanco. — Non credo che gli possa nuocere — disse. — E poi mi darà la possibilità di chiedergli altri particolari sui suoi incubi notturni. Può darsi che adesso sia più disposto a parlarne. E se so di cosa si tratta, avrò qualche idea su come comportarmi.

 

Ecco, pensò mentre ascoltava, non c’è dubbio da chi in famiglia possa aver ereditato la sua fantasia. Si tratta di veri e propri demoni. Non mi piacerebbe che dessero la caccia a me.

Chiuse gli occhi e cercò di immaginarli, di vederli con gli occhi di Timmy. Non credo che si tratti di veri e propri giganti, pensò: un adulto medio costituisce già una figura gigantesca per un bambino di cinque anni. La sua fantasia evocò la visione di una figura indistinta con occhi malvagi e fiammeggianti. Eccone uno: il capo.

— Poi il capo tira fuori la spada — disse la voce tremante al suo fianco. «La spada», ripeté Paul, guardando, pieno di fascino e orrore, la mano del Cavaliere, adesso più reale, muoversi verso la ciotola. Poteva sentire gli occhi scrutatori dello scellerato fissi sul suo collo, mentre alzava lentamente una mano nel segnale di carica. 

Sbatté gli occhi, e con una repentinità che li fece sussultare entrambi riportò la sua attenzione su Timmy.

— Può darsi che mi fermi a casa più di un mese — disse, a voce troppo alta, un occhio fisso sui Cavalieri. 

Timmy impiegò un attimo ad adattarsi al cambio di argomento, poi la sua reazione fu entusiastica. — Come mai?

— Ho parlato con il mio capo circa un trasferimento. Tu sai cosa è un trasferimento, vero, Timmy? — Ehi, pensò, sto balbettando. — Significa che... 

— Papà. 

I cavalli erano recalcitranti e i Cavalieri furono costretti a tirare le redini, in attesa del segnale. Uno degli animali sbuffò e quasi si impennò, e Paul udì il tintinnio della bardatura. I suoi occhi frugarono in fretta la stanza alla ricerca della causa del rumore. Non può essere davvero... Si bagnò le labbra e si impappinò: — Un trasferimento è...

— Papà. 

La voce di Timmy era insistente.

— C-cosa? 

— Li vedi? — La sua voce era un sussurro. — Li vedi? 

— Non verranno stanotte. Voglio dire, non attaccheranno. — Via di qui, pensò disperatamente, e affrontò deliberatamente il capo, fissandolo negli occhi. Vide un momentaneo lampo di sorpresa, poi di rabbia, e pensò, come intontito: non mi ha mai visto. Non sapeva neppure che ero qui. Solo adesso... be’, se sono i miei fantasmi, posso farli sparire. 

Con un sorriso ironico, il Cavaliere chinò la testa verso Paul, poi tutti e tre svanirono.

— Andati — mormorò. Non ottenne risposta dalla figura immobile nel letto. — Timmy? 

— Ti hanno visto. — La voce del bambino era piatta. 

Paul non se ne accorse. Con sorpresa, si rese conto di tremare, e quando si passò una mano sulla fronte la ritirò bagnata di sudore.

— Immagino di sì — ammise con calma forzata. — E se ne sono andati. Forse per sempre. 

— Già — disse Timmy, stranamente assente. — Forse. 

Paul si chinò a baciarlo. — Buona notte, figliolo. — Nessun dubbio da chi in famiglia avesse ereditato la sua fantasia. Paul rabbrividì.

 

I loro sguardi si incontrarono sopra la testa di Timmy, e Anne si strinse nelle spalle, senza sapere cosa dire.

— Come mai, Timmy? 

Timmy scrollò le spalle. — Voglio la mamma, tutto qui.

— Ma Timmy... — Paul si sentì ferito. — Ho fatto qualcosa che non va? 

— No. — Timmy scosse la testa, poi si girò, i piccoli pugni serrati. — Solo che non voglio te, stasera, tutto qui. Voglio la mamma. 

— Okay. — Paul si morsicò le labbra e si alzò. — Mi dispiace. 

Timmy prese la mano di Anne e si avviò verso le scale, strascicando i piedi. Poi si fermò, e si voltò. E Paul vide che l’infelicità negli occhi del figlio era pari alla sua. Colse l’occasione.

— Dimmi perché, Tim. — La sua voce era quasi implorante. — Ti prometto che non mi arrabbio. Dimmi solo perché. 

Timmy guardò Anne, e ci fu un breve silenzio.

— Ti aspetto di sopra, tesoro — disse lei, alla fine, mantenendosi neutrale tra i due. E senza aspettare una risposta, li lasciò soli. 

Il silenzio si allungò tra di loro, mentre Timmy dava calci a un disegno del tappeto. Poi disse, a voce tanto bassa che Paul lo udì appena: — Ti hanno visto, ieri sera.

Paul lo guardò, non comprendendo del tutto.

— Ti hanno visto, ieri sera — ripeté Timmy, quasi con insolenza. 

— Lo so — fece Paul, e attese. 

— Se la prenderanno con te, se sarai là. — Adesso Timmy piangeva. — Non voglio che se la prendano con te. — Si buttò tra le braccia del padre e Paul deglutì, a fatica. — Sei appena tornato — la voce suonava attutita contro la sua camicia. — Ti faranno andare di nuovo via. Non vogliono qualcuno che sa di loro. Io non voglio che tu salga. Non voglio. 

Improvvisamente, Paul capì. — Allora che senso ha che io resti qui, Timmy?

— C-cosa? 

— Se non posso aiutarti. Se devo lasciarti a combatterli da solo. Che bisogno hai di me, se tanto è meglio che me ne vada? 

Allontanò il bambino tenendolo per le braccia e lo guardò negli occhi. — Hai capito male, tesoro — disse dolcemente. — Sono io che devo proteggere te.

Timmy riuscì a fargli un sorriso incerto. — Hai paura, papà?

— Sì. 

— Sei sicuro di voler venire? 

— Sì. — Prese ancora Timmy tra le braccia. — Li combatteremo insieme, figliolo. — Un’immensa ondata di sollievo lo avvolse, e lui abbracciò forte il bambino. — E questa volta, ce ne libereremo per sempre. 

 

Anne sorrise di sollievo e diede un rapido bacio sulla guancia a Paul. — Falli fuori, tigre — sussurrò, e corse da basso.

Si voltò e si accorse che Timmy stava chiudendo la porta.

— Devo entrare prima io. Aspetta qui finché ti chiamo. 

— Va bene. — Paul incrociò le braccia sul petto e aspettò, appoggiato alla parete. Questa notte deve finire, pensò, mentre ascoltava con un orecchio i rumori nella stanza, cercando di identificarli. Ci fu un rumore di cose smosse, poi un colpo attutito: il coperchio della scatola dei giocattoli, decise. In un modo o nell’altro, questa notte devo mettere fine a questa faccenda. Non sono più neppure sicuro di avere seguito la strada giusta assecondando le sue fantasie. Ci fu uno scalpiccio di piedi per la stanza, la luce venne spenta. La faccenda è durata già troppo, se arriva a spaventarlo in questo modo. La prende troppo sul serio. Non gli fa bene. Sentì il letto scricchiolare. Cacceremo via questi... 

— Okay, papà. 

Si staccò dalla parete ed entrò. Timmy era a letto e Paul avvicinò una sedia. — Sarà meglio che noi si discuta seriamente di questa faccenda, tesoro.

— Prima che arrivino — disse Timmy. 

— Sì, sì. E adesso ascolta... Quasi che le sue parole fossero state un suggerimento, udì un leggero scalpitio di zoccoli. Gli occhi di Timmy si spalancarono. 

Paul si guardò intorno e sorrise. — È solo la tendina. Vedi? — Andò alla finestra e la sistemò. Il rumore cessò, ma Timmy non sembrava convinto.

Paul tornò ai piedi del letto e si chinò in avanti con le mani sulla spalliera. — Senti, Timmy, devi convenire con me che non possiamo più permettere che questi... Cavalieri — li allontanò con un gesto della mano — vengano ancora qui.

Timmy annuì, in silenzio, e frugò sotto le coperte alla ricerca di qualcosa. La tendina della finestra sbatté nuovamente e Paul rabbrividì all’improvvisa brezza notturna. È il vento, pensò, mentre parte della sua mente cominciava a identificare i rumori della notte precedente. Foglie che rotolano lungo la strada, pensò, mentre con l’angolo dell’occhio coglieva il movimento frusciante di un libro di fumetti aperto. Qualcosa che sembra lo sbuffare di un cavallo e il tintinnio... avvertì un’invincibile riluttanza a girarsi per localizzare la fonte del rumore. La troverei se la cercassi, si rassicurò e riportò la sua attenzione su Timmy.

— Che cosa suggerisci di fare allora? — Che cosa diavolo era quel tintinnio? Paul serrò i denti e si raddrizzò. — Tanto per cominciare, chiudo la finestra. Fa freddo qua dentro. 

— Papà. — La voce di Timmy lo fermò prima che potesse voltarsi. 

— Sì? 

— È meglio che tu prenda questa. — Tirò fuori qualcosa da sotto le coperte e lo porse a Paul. 

— Che cos’è? — chiese Paul, distratto, allungando una mano. 

— La tua spada. — La voce di Timmy suonava quasi impaziente. 

— Oh. — Paul riconobbe il giocattolo di legno che aveva costruito per Timmy l’ultima volta che era stato a casa. — Oh, sì. Grazie. — E cosa diavolo è quello?, aggiunse in silenzio, mentre la sua mente annaspava nel tentativo di identificare un nuovo rumore. Prese il giocattolo tenendolo per l’impugnatura. Ci fu un rumore alle sue spalle, come di metallo che scorre contro altro metallo, e si alzò la brezza notturna. Rabbrividì, nella camicia leggera, e si voltò. 

 

Erano là. Il capo aveva appena sguainato la spada e la teneva sollevata al di sopra della testa. Che cosa aspettano?, pensò Paul, quasi con indifferenza.

Guardò Timmy e non si sorprese nel vederlo inginocchiato su una montagnola d’erba, invece che sul letto, mentre teneva fisso su di lui uno sguardo pieno di fiducia. La spada che aveva in mano era più pesante di quanto avrebbe dovuto essere, e Paul, meravigliato, abbassò lo sguardo e vide l’acciaio splendere al chiarore della luna. Diavoli di polvere danzavano attraverso la solitaria strada di campagna e un gufo emise il suo verso una sola volta facendolo sussultare, e poi tacque. Il silenzio era pesante, in attesa di qualcosa. Di colpo capì perché. Si mise in posizione, a gambe larghe, sollevò la spada ghignando e fece cenno ai Cavalieri. — Va bene — disse a voce alta. — Fatevi sotto.

La spada del capo descrisse un lucente arco verso il basso, e i tre attaccarono, scattando in avanti come cavalli da corsa alla partenza. Per un attimo Paul rimase immobile. — Non può essere vero — disse improvvisamente. — Non è vero! — E altrettanto improvvisamente i Cavalieri cambiarono direzione puntando verso la montagnola.

Timmy gridò, scuotendo Paul dalla propria immobilità. Si lanciò verso di loro, in una corsa goffa, e cadde in ginocchio in mezzo alla strada. Il terzo Cavaliere girò il cavallo e si lanciò all’attacco di Paul. Senza riflettere, Paul scattò verso l’alto con la spada tesa, piantandola nel petto del cavallo, poi si ritrasse velocemente.

La molle arrendevolezza della carne lo stupì, e lui osservò incredulo la spada insanguinata mentre il cavallo cadeva, trascinando con sé il proprio Cavaliere. Paul si voltò a guardare l’avversario steso immobile nella polvere della strada, con la testa piegata a un angolo innaturale.

Il grido di avvertimento di Timmy lo scosse appena in tempo, e Paul si gettò di lato mentre un altro Cavaliere gli si lanciava contro. Il colpo gli stracciò solo la manica della camicia, e lui saltò in piedi, fuori portata, e si voltò ad affrontarli.

Colse una luce rabbiosa negli occhi del capo e sogghignò ancora. Bene, la cosa comincia a piacermi, pensò, incoscientemente; poi non ebbe più tempo per pensare, perché i due Cavalieri sopravvissuti lo stavano attaccando di nuovo.

Il capo si sporse dalla sella per colpirlo. Troppo lontano, amico, pensò Paul, mentre afferrava la spada con entrambe le mani, facendola roteare come una clava.

La lama si girò mentre si abbatteva sull’ostacolo, cogliendo il Cavaliere appena sotto il petto. Il Cavaliere fu disarcionato, e nella forza della caduta trascinò Paul con sé. Poi atterrò, violentemente. Paul esitò un attimo, infine si appoggiò sulla spada con tutto il suo peso inchiodando il Cavaliere contro il suolo.

Ricordandosi del terzo, alzò rapidamente lo sguardo. L’ultimo Cavaliere si era voltato pronto ad attaccare ancora. Disperatamente Paul strattonò la spada cercando di liberarla. Il Cavaliere vide il suo capo morto in mezzo alla strada e tirò con forza le redini del cavallo, facendolo impennare e scalciare l’aria. Venne disarcionato, e Paul, con la spada ormai libera, gli andò contro. Ma l’ultimo avversario non aveva nessuna intenzione di dare battaglia. Si afferrò al pomo del cavallo impennato e si issò in sella. Dando violenti strattoni alle redini, spronò il cavallo e sfrecciò via nella notte, senza neppure voltarsi indietro.

 

Accidenti, ce l’ho fatta, pensò Paul esultante. Li ho battuti tutti. Poi lo sforzo insolito si fece sentire, e Paul si piegò su se stesso, lottando per riacquistare il respiro con tanta violenza da sentirsi male. Rischiò di soffocare. La sua stretta si indebolì, e la spada di legno gli scivolò di mano e cadde a terra.

Paul la fissò, ottusamente. Ho fatto proprio la figura del fesso questa volta. Cosa penserà il bambino? Cosa diavolo ho fatto?

Si afferrò con un braccio alla testiera del letto e si costrinse ad alzare lo sguardo. Gli occhi di Timmy brillavano. — Sapevo che ce l’avresti fatta — disse allegramente. Non torneranno mai più!

— Eh, già. — È una buona cosa, pensò Paul, ma cosa diavolo ho fatto? Si inumidì le labbra e deglutì, con la paura di chiedere, con la paura di “non” chiedere. Non poteva essere successo davvero. 

Timmy si avvicinò in ginocchio ai piedi del letto. — Ti ha fatto male, papà?

— Eh, come? — Abbassò lo sguardo sul punto del braccio su cui era posata la mano di Timmy. La manica era strappata dove uno dei Cavalieri l’aveva colpito, e la pelle era rossa e irritata. Si afferrò alla testiera con entrambe le mani e barcollò. 

— Stai bene, papà? 

Paul si inumidì di nuovo le labbra. — Sì, sì — ansimò e si raddrizzò. — Senti, Timmy... — Non posso chiederglielo, si disse duramente. Ma chi altro poteva sapere?

— Cosa, papà? — Il tono di Timmy suggeriva che il bambino era disposto a fare qualsiasi cosa. 

Paul guardò lo strappo nella camicia e respirò debolmente. — V-vai in camera mia e portami una camicia pulita, per favore.

— Certo. — Timmy scivolò fuori del letto. Paul fece un passo verso di lui, poi si fermò. Il ginocchio gli doleva. Si chinò a massaggiarlo. Ritirando la mano. vide che era sporca di terra. Quando sono caduto... 

— Timmy. 

Il bambino si fermò accanto alla porta, poi mosse alcuni passi verso il padre.

— È meglio che tu prenda l’accappatoio. 

Indicò con un gesto i pantaloni, e Timmy gli sorrise come fra cospiratori.

— Okay. 

— Timmy... — Non lasciarmi solo, pensò Paul, non ancora. Si inginocchiò e raccolse la spada di legno, rigirandola al chiaro di luna che entrava attraverso la finestra aperta. 

— Sì, papà? 

— Hai... abbiamo...? — Non può essere sangue, pensò, mentre fissava le macchie che scolorivano lentamente sulla punta della spada. Poi il battito del braccio ferito si fece sentire, e lui rabbrividì. Sì, invece. Poteva essere. 

— Noi... Noi non diremo niente di tutto questo alla mamma, d’accordo? — Incontrò lo sguardo di Timmy. — Non diremo niente alla mamma — ripeté, e Timmy annuì, confuso. — Voglio dire. questa è una faccenda da uomini. Si metterebbe solo in agitazione, e dal momento che i Cavalieri se ne sono andati... — La sua voce si affievolì e Paul si strinse nelle spalle. 

Timmy annuì, con espressione seria, e Paul si mise un dito sulle labbra. — Nemmeno una parola — sussurrò, e lasciò cadere la spada mentre Timmy gli si buttava tra le braccia. Forse l’ho fatto davvero, pensò. Diavolo, perché no?

Spinse dolcemente Timmy verso la porta. — Vai, figliolo — disse, poi si lasciò andare a sedere, stringendosi il braccio, e aspettò che Timmy gli portasse l’accappatoio.