La ballata dell’ultima
città
di Adalberto Cersosimo
Apparso in appendice a Altair, anno II n. 5 (febbraio 1977)
Spedito all’estremo margine della galassia c’è un pianeta così lontano dal sole che la terra ne ha ormai dimenticato l’esistenza, se mai l’ha un tempo conosciuta. Dicono le sue ballate e le leggende degli amici venuti dalle stelle, ma il tempo macina impietoso le memorie e svapora nella nebbia dei ricordi la ballata. [Antonio Bellomi]
Giunse alle mura della città dopo giorni e giorni di marcia, quando già disperava di riuscire a trovarla. Le cicatrici sul suo corpo attestavano le lotte sostenute durante il cammino, e i trofei strappati ai nemici, appesi alla sella del gromar, le sue vittorie.
Il sole era un disco di rame che affondava, al di là delle mura in un bacile di sangue.
Le mura, avvinte dai rampicanti in un abbraccio possente, dormivano nel verde cupo delle foglie. L’edera ammantava le pietre, insinuava le radici nelle fessure e sgretolava, giorno dopo giorno, le torri di guardia dalle quali più nessuno vegliava.
Il gromar fiutava l’aria incerto. Si percepiva, oltre agli odori consueti della foresta, profumo leggero di legno e resina, fragranza umida del sottobosco, sentore acuto di licheni e muschi, un aroma antico, indefinibile, che era l’odore medesimo del tempo.
Anche il cavaliere percepiva l’ambiente intorno e quelle sensazioni avevano il potere di evocare nel suo intimo una vena di infinita tristezza.
Scosse la testa, come per cacciare i cattivi pensieri. Ricordò la sua donna e la vedeva ancora laggiù, nella città degli Uxels, presso il mare orientale. Aveva un nome dolce la sua donna, le cui sillabe suonavano simili al canto degli uccelli del mattino. Non voleva ricordare quel nome, non voleva neppure ricordare colei che era morta senza dare un figlio, a lui, l’ultimo superstite del Clan.
Gli Uxels avevano tentato di consolare il suo dolore offrendogli le loro femmine dalle piume delicate. Aveva trascorso lunghe notti con le Lylee dagli occhi viola ed i capelli verdi, accarezzato dalle loro quattro affusolate dita, ma mai avrebbe voluto avere un figlio da loro.
Scosse la testa e le sue chiome brune, striate di venature di acciaio grigio, ondeggiarono come il pennacchio di un elmo. Anche se i capelli e la barba non possedevano più il colore della giovinezza, giovane era ancora il corpo e il sangue che gli scorreva nelle vene. Giovane, almeno, quanto gli bastava per affrontare e combattere il Guardiano.
Lo stridere sgradevole di quattro Ghijrs, alzatisi in volo dalle mura, lo allontanò dalle sue meditazioni. Con gli esili colli tesi in avanti, sbattendo le ali membranose, li vide, contro il cielo rosso e le nubi orlate d’oro fuso, mentre disegnavano la figura di una croce.
Il cavaliere tremò, poiché quello era presagio di sventura. Solo allora sembrò accorgersi delle ossa d’animali, e di quelle che di animali non erano assolutamente. Giacevano sparse nella radura, alcune lontane, quasi al limitare dei bosco, alcune presso alle mura della città, e testimoniavano tutte della presenza del Guardiano.
I Ghijrs erano ormai punti neri sopra alle cime dei monti, si confondevano nelle brune azzurre della valle. Il sole dormiva nel suo sangue, non rimaneva molto tempo per affrontare il Guardiano, prima del calare della notte.
L’uomo spronò la sua cavalcatura verso le porte della città. Avanzando verso il suo destino, controllava le armi che portava con sé: l’ascia bipenne e la mazza puntuta, adatte a spezzare le piastre ossee del corpo dei Krotals; la lancia con la punta ad arpione tale da non uscire più dalle ferite; la lunga spada affilata che solo la mano di uno della sua razza sapeva usare.
* * *
Quando lo straniero, venuto da lontano per seguire il suo destino, vide il Guardiano fu vinto da un sussulto di terrore. Ma già la paura si trasformava nell’odio antico di mille e mille lotte e le mani stringevano le armi.
Le leggende non si erano sbagliate. Colui che stava a guardia della porta appariva come il risultato di una lunga, laboriosa selezione. Se era vero che i Maestri di Magia dei Krotals conoscevano i segreti atti a mutare le forze della vita, questa volta avevano fatto davvero un buon lavoro. Cantavano le antiche ballate la storia dei Krotals. I figli maledetti della tenebre giunsero attraverso l’oceano oscuro della notte, nel tempo in cui gli umani vivevano felici, accanto ai buoni Uxels, nel fiorente pianeta. Avevano distrutto le città, cacciato le genti per il mondo. Avevano risparmiato solo una città, quella più antica, per sfidare e irridere gli umani, ma con una guardia davanti alle sue porte.
Sentiva sotto di sé il gromar irrigidirsi ed esitare. Sapeva di non avere il diritto di coinvolgere in una lotta che apparteneva a lui soltanto il fedele compagno delle precedenti battaglie. Con un balzo fu giù di sella, rimase solo, con le armi in pugno, ad attendere il nemico.
Il Guardiano temporeggiò indeciso, vedendo l’uomo fermo in mezzo alla radura. Saettò la lingua bifida tra le labbra cornee. Eresse i tre ordini di creste ossee, lugubre ornamento alla sua schiena. Avanzava circospetto, vibrando la tozza coda simile a una mazza irta di aculei, e ne traeva un suono sordo dal terreno.
Il cavaliere, nelle sue movenze, intuì la gelida, inumana intelligenza che animava i Krotals negli scontri.
Ci fu un istante di silenzio. Non si udiva lo stridio di un animale, neppure il frusciare sommesso delle foglie.
La lancia guizzò nell’aria diretta verso l’occhio del nemico. Calò una palpebra dura come l’osso e l’arma scivolò senza ferire. Urlò. Una massa coperta di lucide scaglie, forte di zanne candide e di unghioni acuminati, si scatenò ruggendo.
Ansante, dopo il primo scontro, il guerriero sentiva le forze venir meno. C’era sul suo petto un lungo graffio sanguinante, dove le unghie della belva avevano lacerato l’armatura di metallo.
Il mostro attaccò nuovamente. L’ascia colpì ad una spalla, facendo guizzare intorno mille schegge iridescenti. L’ascia colpì ancora e ancora, mentre le unghie e le zanne cercavano la carne dell’umano.
La scure bipenne giaceva al suolo con il manico spezzato. Un velo rosso gli offuscava la vista. Il sangue continuava a colare da una ferita sulla fronte. L’uomo lesse negli occhi della creatura aliena la determinazione ad uccidere con calma, gioendo per ogni urlo della vittima.
Si accorse di gridare, di rabbia, di dolore. Stringeva la spada con ambo le mani, urlava, barcollando, il suo odio in faccia all’avversario. Ora lo prendeva una grande stanchezza e desiderava soltanto riposare. Non più odio. Non più sangue. C’era nelle brezza della sera una promessa di pace infinita.
Il Guardiano si avvicinava. La spada gli sfuggì di mano e cadde in ginocchio. Così moriva l’ultimo della stirpe degli umani. Non provava nessuna pietà per se stesso.
Era stato tutto inutile. Cosa importava avere trovato la città; non ci sarebbe mai entrato. L’aveva fatto per la sua gente massacrata, per lei che non aveva saputo dare un figlio. La lancia giaceva a terra a un palmo dalle sue mani. L’assassino si chinava sul suo corpo con negli occhi la gioia selvaggia di chi uccide.
Strinse la lancia. La infilò tra le fauci spalancate nella gola tenera. La punta scavava nella carne sempre più in giù, fino alle vertebre del collo.
Rotolò sul terreno per evitare i colpi della coda. L’idea della vittoria nasceva nella mente torturata del dolore.
La lingua penzolava mezza strappata tra le zanne. Il sangue colava schiumoso sul corpo della creatura invincibile, sulle scaglie un tempo di smeraldo e di diamante e vivido turchese. L’eco dell’agonia rimbalzava contro le mura antiche come il tempo.
* * *
La brezza della sera aveva portato lontano i gemiti ed i clamori dello scontro. Il vento accarezzava appena i rami; quella pace improvvisa ingigantiva la solitudine del luogo.
Il tocco caldo di una lingua rugosa riportò l’uomo alla coscienza. Il gromar gli stava in piedi accanto.
Cercò di alzarsi, facendo forza con le mani sul terreno umido. Il movimento provocò atroci fitte di dolore dalle ferite che segnavano il corpo martoriato. Vedeva, illuminata dalla luce perlacea della Piccola Sorella, la massa scura del nemico scossa da brevi sussulti, misere reliquie della vita che l’aveva posseduta.
Doveva mantenere la promessa. Doveva assolutamente entrare nella città.
Il gromar camminava lentamente, badando di evitare brusche scosse, per non fare soffrire il suo padrone. Si lasciarono alle spalle l’ampia porta e i bastioni diroccati. Avanzavano nelle strade senza impronte, dove la polvere brillava sotto i raggi del piccolo satellite.
Sfilavano al loro fianco le facciate degli edifici, in cui l’unica cosa viva erano le ombre. Le pallide compagne li seguivano; guardavo, danzando nei vani delle porte.
La città parlava. Ad ogni alito di vento, tornava a farsi udire in un sussurro lungo, lamentoso, quasi un mormorio spezzato di parole; e raccontava la storia millenaria degli umani.
Seppe di essere l’ultimo a udire quelle voci; non erano rimasti altri umani sul pianeta ed i Krotals parevano avere ormai partita vinta. Incitò la cavalcatura; sentiva la vita già sfuggirgli dall’ampia ferita sul suo petto. Aveva ucciso il Guardiano, ma la sua vittoria non poteva essere completa, se non scopriva l’antica verità. Non poteva tradire la fede della sua gente proprio adesso.
La vide che si ergeva contro il cielo, dove a migliaia ardevano i piccoli freddi fuochi di policromo cristallo. Era al centro della piazza e la sua mole dominava i profili acuti delle montagne intorno.
La Grande Sorella stava sorgendo di dietro le alte cime. La sua luce inondava ormai tutta la valle e i raggi splendevano riflessi dalla superficie della torre di metallo.
L’uomo piangeva inginocchiato nell’impalpabile, bianca polvere della piazza, ora rossa del suo sangue. Conosceva la verità. L’unica speranza che aveva sostenuto la sua razza, nella guerra spietata contro i Krotals, non era stata vana.
Guardò, contro il manto oscuro della notte, i mille e mille fuochi bruciare limpidi come vivide gemme. Tanto lontano che la mente inorridiva alla distanza, da qualche parte oltre il mare profondo dello spazio, c’erano le terre felici degli uomini. Ne era certo, un giorno sarebbero tornati; i Krotals non potevano vincere l’ultima battaglia.
Moriva con negli occhi la visione della nave delle stelle e nel cuore la certezza di non essere più solo. Non c’era più dolore nella carne. La fredda polvere sembrava un soffice giaciglio.
Chinò la testa, lentamente, quasi con dolcezza.
Il gromar scosse l’ampia criniera, alzando il capo al cielo notturno.
Spezzava il silenzio della valle il gemito dell’animale che salutava il suo padrone.
* * *
Così cantano, presso i fuochi di bivacco, nelle notti illuminate dalle lune, i cantori, sul pianeta degli Uxels. Piangono la sorte dell’ultimo umano che scomparve, laggiù, tra le montagne, dove va a morire il sole.
Raccontano le ballate la sua storia: avrà davvero trovato la città che forse non esiste?
Questo le ballate non lo sanno...
Ma non cade la speranza che un giorno gli umani torneranno a liberare dalla servitù dei Krotals il loro popolo gentile.