Il
naufrago
di Charles Edward Fritch
Titolo originale: Castaway
Traduzione di Arianna Rossi Livenzev
© 1963 Gamma nn. 1 & 2
Apparso in appendice a Il meglio della Fantascienza n. 22 (1967)
Non sapeva da quanto tempo si trovasse lì. Potevano essere già trascorsi alcuni anni o forse anche centinaia di anni. Su questo mondo ove regna il giorno eterno, non c’è alcuna possibilità di stabilire il trascorrere del tempo. Il cronometro dell’astronave era rotto, pure l’astronave s’era sfasciata e un giorno o l’altro, anche lui sarebbe morto. Il missile si era schiantato su questo pianeta dall’atmosfera a base di ossigeno.
Jordan, questo era il suo nome e questo era tutto quello che sapeva. Aveva dimenticato molte cose durante quei lunghi anni, ma ormai tutte quelle cose non avevano più alcuna importanza. Jordan era il suo nome e lui si aggrappava a questa definizione di identità con la forza di un moribondo.
«Un moribondo» pensò.
In mezzo ai soli gemelli, il pianeta ruotava lentamente, riscaldato ed illuminato prima dall’uno e poi dall’altro. Non era necessario coprirsi di vestiti, perché l’aria era calda, ed eccetto lui, non c’era nessun altro sul pianeta. Inoltre, tutti i suoi vestiti erano diventati polvere già da molto tempo. Da quanto? Mesi, anni, decenni? Sembravano secoli.
Si sentiva diverso. Senza età, eppure continuando ad invecchiare. Si accorgeva di invecchiare senza però subire i guai della vecchiaia. Dopo qualche tempo, non gli importò nemmeno più di essere solo. All’inizio era stato terribile sentirsi così solo. Se soltanto la radio avesse continuato a funzionare, anche soltanto il ricevitore, avrebbe potuto sentire voci umane: ma i soli gemelli bloccavano qualsiasi genere di ricezione. E dopo qualche tempo, dopo molto tempo, se ne dimenticò.
Si ricordava l’impatto e l’oscurità di dopo. Si era sfregato gli occhi e poi li aveva aperti e aveva fissato quel cielo giallo che avrebbe poi imparato a odiare. Sentiva il vento carezzarlo con mano leggera. Sentiva sotto di sé la soffice terra, coperta di verde. «Sono vivo», pensò. Era un pensiero piacevole e inaspettato.
Si ricordava l’avvicinamento al pianeta con l’astronave che sussultava, i razzi propulsori che, dai tubi ormai consumati, emettevano spasmodiche vampate di fuoco, mentre lui manovrava freneticamente i controlli che non rispondevano più come avrebbero dovuto. Quale era stata la ragione, non lo sapeva e mai l’avrebbe saputo; forse qualche filo difettoso o qualche isolamento consumato o un’altra tra le centinaia di ragioni possibili. Non aveva importanza. I razzi scoppiarono forzandolo a dirigersi verso quei soli gemelli, verso quell’unico pianeta in mezzo ai soli gemelli. Ormai non aveva più speranze, era sicuro di dover morire.
Ma era vivo. Si ricordava come era stato là, seduto, a controllarsi le ossa; inspirando profondamente e chiedendosi la ragione di quel miracolo. A cinquanta metri di distanza c’era l’astronave, ormai soltanto un ammasso di metallo contorto che avrebbe potuto essere la sua bara. Lo scafo era coperto di tremende ferite e dalle ferite uscivano a fiotti vene meccaniche senza più vita. Era stato un miracolo che fosse riuscito a sopravvivere. Un secondo miracolo era che su quel pianeta vi fosse un’atmosfera che egli poteva respirare tranquillamente. Ma i miracoli più grossi dovevano ancora avvenire.
Prese l’astronave una piccola pistola ed esplorò il pianeta. Era molto simile alla sua lontana Terra, era molto più piccolo, circa un quarto, calcolò, per quanto la gravità fosse più o meno identica. C’era erba verde e c’erano alberi sempre verdi: c’erano piccoli stagni e fiumi nel quale si riflettevano il cielo e i grandi soli gemelli, e c’era un piccolo oceano. Si era fermato sulla riva dell’oceano domandandosi che cosa vi fosse sull’altra sponda. Anni (o decenni), dopo lo scoprì. Aveva girato tutto il pianeta, costruendo di tanto in tanto imbarcazioni rozze ma solide per attraversare corsi d’acqua. E aveva scoperto che quel pianeta era dappertutto simile allo spiazzo dove era caduta l’astronave.
Non vi era alcuna forma di vita intelligente. Eccetto gli animali, era completamente solo. C’erano degli animali che rassomigliavano agli scoiattoli, altri sembravano cervi, e nelle acque vi erano pesci colorati non molto dissimili da quelli terrestri. Questo lo consolò un poco. Era riuscito anche a farsi amico uno scoiattolo e l’aveva chiamato Venerdì, per quanto non sapesse in quale giorno fosse precipitato e quando avesse trovato quella creatura.
L’astronave gli serviva da base per le operazioni, per quanto passasse tutto il tempo all’aperto. Se qualche astronave fosse passata vicino al pianeta, probabilmente, vedendo l’astronave danneggiata, sarebbe atterrata per investigare: questa era la sua solo speranza. Spesso, facendosi ombra sul viso, guardava il cielo brillante, cercando un luccichio metallico, ma non riuscì mai a vedere niente. Lentamente la sua astronave cominciò ad arrugginire, assumendo un colore ramato triste.
Vi era cibo dappertutto, frutti e bacche che avrebbe potuto facilmente raccogliere e piccoli animali che avrebbe potuto cacciare. Ma non aveva fame. Al principio se n’era meravigliato. Dopo l’incidente, aveva fatto l’inventario delle razioni ancora a bordo, calcolando mentalmente per un giorno, si sforzò di inghiottire delle razioni di cibo, pensando che sarebbe morto di fame se non l’avesse fatto. Ma il cibo gli riusciva disgustoso e dopo avere mangiato si sentì peggio. Volle radersi, ma si accorse che la barba non cresceva. Fissò in uno specchio rotto trovato a bordo, il proprio giovane viso. «Ora ho ventiquattro anni» pensò «quanti anni avrò quando mi salveranno…o passerò il resto dei miei giorni qui?» A questo pensiero prese uno sgabello e mandò in frantumi quel unico specchio. Dopo se ne pentì perché, più avanti, quando si guardava riflesso nelle pozze di acqua limpida, cercava di vedere se gli fossero venute delle rughe per calcolare approssimativamente da quanto tempo si trovasse lì. Dopo qualche tempo se ne dimenticò.
Dopo qualche tempo si era dimenticato di quasi tutto. Di quasi tutto, ma non di tutto. In principio era nervoso, incattivito e bestemmiava come un turco fissando continuamente il cielo deserto. Ma dopo qualche tempo gli ritornò la calma, la sua mente divenne calma ed egli si sentì abbastanza felice. Ma una cosa continuava a tormentarlo. Una cosa: lo spazio, la sua estensione fredda, là fuori, proprio dietro quel sole, fuori da quel giallore fino al nero più nero di qualsiasi velluto, e le stelle brillavano come diamanti. Aveva ventiquattro anni e tutto lo spazio che c’era davanti a lui era come una sfida, un invito ad andare.
«Nessuno ha mai potuto capire quel che significava per me», disse a Venerdì. «Nessuno. Era quasi una ossessione. Mi ricordo di come, quando non avevo ancora venti anni guardavo fisso le stelle. Passavo intere notti a fissare stelle e pianeti, le galassie che si rotolavano nel cielo; guardavo l’universo come se fosse un grande celestiale circo. E dicevo a me stesso “Un giorno o l’altro andrò là. Un giorno o l’altro andrò là a prendere una di quelle punte di spillo splendenti per vedere di che cosa sono fatte. Andrò più lontano di chiunque altro, e poi più lontano ancora. Scoprirò mondi e soli dei quali nessuno sospetta l’esistenza e scoprirò se l’universo è veramente rotondo e se lo è, andrò a vedere che cosa c’è oltre l’universo”».
Jordan rise. Quella risata non era amara, ma senza più illusioni. Venerdì, era seduto su di una roccia vicina e contemplava il terrestre con grandi occhi rotondi che sembravano quasi capire.
«Era un bel sogno, Venerdì, ma soltanto un sogno. Probabilmente non capirai mai come io mi senta. Questo è il tuo mondo, il tuo pianeta. Puoi salire sull’albero più alto e guardare giù così puoi fare quel che avevi desiderato fare. Eppure qualche volta mi domando se anche tu non ti metta in cima al più alto albero guardando il sole e domandandoti che cosa ci sia oltre». Sospirò. «È uno strano desiderio e molto difficile da dimenticare. Non vedo come potrò mai dimenticarmene».
Guardò verso l’altro e scrollò le spalle. «E non ho più visto una stella in un cielo oscurato dalla notte da….quanto tempo? Qui è sempre giorno e c’è sempre un sole nel cielo. L’universo può essere stato anche distrutto, e tutte le stelle e i pianeti e le galassie possono essere già spenti come candele. Non potrò mai saperlo».
Venerdì lo guardò con simpatia. Jordan rise e si alzò per accarezzare il piccolo animale, ma questo scappò via velocemente per andarsi a mettere a pochi passi di distanza. «Sei un buon amico» disse Jordan. Devo ormai averti raccontato la storia della mia vita più di una dozzina di volte, ma ogni volta mi ascolti come se ti interessasse, non molti amici farebbero la stessa cosa».
Era una bella cosa avere qualcuno con cui parlare. Jordan gliene era grato. E poi, improvvisamente (era stato poi improvvisamente?) venne il momento in cui l’animaletto non ci fu più. Jordan lo trovò morto a poca distanza dall’albero su cui aveva il nido; sembrava che Venerdì fosse sceso dall’albero per andare a salutare il terrestre ancora una volta, ma che non ce l’avesse fatta. Jordan pianse senza vergogna sul corpo dell’amico, ricordandosi i momenti piacevoli che avevano passato insieme, quando lui gli offriva qualche bacca o quando si limitava a raccontargli le cose che lo facevano soffrire, o le cose che facevano gioire; e Venerdì andava quieto, facendo finta di interessarsi e dando qualche volta in leggeri squittii che rendevano felice Jordan. Ma la morte è cosa reale ed spiacevole, e arriva senza alcun riguardo per le amicizie. «Un giorno o l’altro morirò anch’io» pensò, «e allora i miei sogni e i miei desideri non saranno più nemmeno memorie».
Sotterrò Venerdì vicino all’albero dove c’era il suo nido, e poi si fermò in piedi per un momento, con gli occhi offuscati dalle lacrime, a fissare la tomba. Un improvviso squittio gli fece alzare gli occhi e Jordan vide un animaletto che si agitava e lo guardava con franca curiosità. «Venerdì» sussurrò Jordan. No, non era possibile. C’erano delle diversità, anche fra gli animali, e mentre guardava le notò. Una leggera differenza nei colori della pelliccia, una leggera differenza di forma nelle orecchie e nella coda e perfino una differenza nell’arricciare il naso. Jordan si allontanò tristemente e tornò all’astronave. Ora non era più che uno scheletro, arrugginito e quasi sprofondato per il proprio peso. Non lo guardò. Si sedette su una roccia al sole. L’animaletto saltò su un sasso vicino, come faceva Venerdì, e guardò il terrestre. Jordan sentì un nodo alla gola.
«Mi domando se tu abbia conosciuto Venerdì», disse all’animaletto. «Forse eravate persino parenti, forse cugini o fratelli. Ecco sembra proprio che tu sia suo fratello. Venerdì aveva l’abitudine di sedersi lì, come fai tu ora, e io gli raccontavo di tutti gli altri mondi che ci sono in questo grande universo. Strano, non si è mai lamentato di essere confinato su questo pianeta. Vorrei tanto poter fare come lui».
Nei giorni seguenti (erano proprio giorni o settimane, o mesi?) Jordan cominciò ad affezionarsi al piccolo peloso. Lo chiamò Venerdì, sapeva che Venerdì non si sarebbe offeso, e talvolta gli pareva che Venerdì rivivesse nel corpo di questo animale. «Questo è il vantaggio della famiglia», disse Jordan. «Attraverso la famiglia si ottiene l’immortalità, passando parte di se stesso da una generazione all’altra. Quindi in un certo senso continui a vivere anche dopo la morte. Ma, e la mia morte?»
Non gli piaceva pensarci. Non perché avesse paura, perché non ne aveva. Ma c’erano tante e tante cose gli sarebbe piaciuto fare, tanti e tanti e tanti posti dove avrebbe voluto andare, talmente tanti che avrebbe dovuto vivere milioni e milioni di vite per vederli tutti. Lontano da lui il mondo avrebbe continuato a girare, naturalmente e le stelle avrebbero continuato a brillare non essendo mai coscienti della sua vita. Ma non riusciva ad evitare di pensare alla crudeltà di tutto ciò; almeno avrebbero potuto esserci le notti. Ma non c’erano, non c’era assolutamente la benché minima possibilità che vi fossero notti. Il pianeta ruotava ad uguale distanza dall’uno e dall’altro sole. Quando un sole non era più in vista, lo era l’altro; quando uno tramontava, sorgeva l’altro. E non vi era un momento che potesse far pensare al tramonto, non un istante durante il quale si potesse sbirciare il luccicare delle stelle. Eppure Jordan non se ne dimenticò mai.
Durante tutti quegli anni (quanti? Si domandò) non arrivò nessuna astronave. Questa era la sua unica speranza, perché soltanto in quel caso avrebbe potuto rivedere brillare le stelle. La sua astronave non era più che polvere rugginosa. «Deve passare molto tempo prima che il metallo diventi polvere», si ricordò. «Quanto tempo? Quanto? Anni, decenni». Fissò la quieta pozza d’acqua che rifletteva la sua immagine. Era una faccia antica, rugosa e incredibilmente vecchia. Si guardò le mani ed il corpo nudo, e vide che aveva assunto il colore e la consistenza del cuoio con tutte le ossa che sporgevano.
Dozzine di Venerdì, si erano seduti sulla roccia ad ascoltare pazientemente le sue storie. Aveva dimenticato molte cose, ma non dimenticava il nero dello spazio e le stelle con le quali avrebbe potuto dividere il proprio destino. Sotterrò ogni animaletto con tenerezza come se fosse stato il primo, piangendo per l’amico perduto. E ogni volta Venerdì si reincarnava per ascoltarlo, per tenergli compagnia durante le sue lunghe, tristi veglie.
«Sono vecchio» disse. «Un vecchio, vecchio uomo. Fra poco me ne andrò».
Camminò in mezzo al campo e agli alberi fino all’oceano, sapendo che presto non sarebbe più stato in grado di andarci. Sentiva che gradatamente le forze lo abbandonavano, una sempre maggiore debolezza lo prendeva a poco a poco. Dopo qualche tempo, rimase nelle vicinanze di dove era caduta l’astronave, vicino agli ultimi, pochi frammenti, che non erano diventati polvere. E poi, quando perse ogni forza rimase seduto sotto un albero vicino allo spiazzo. «E qui morirò» pensò. Anche se era così prossimo il momento, non gli dispiaceva morire. L’unico rimpianto che sentiva era il non potere rivedere ancora una volta le stelle.
Sedeva quietamente nell’ombra pensando a tutti quegli anni che erano passati. Se avesse avuto bisogno di cibo, sarebbe morto di fame, perché dopo poco fu troppo debole per potersi muovere. Spesso un animaletto gli si sedeva vicino, guardandolo con aria come di meraviglia, come se si domandasse perché dalle labbra di quello straniero uno uscissero più suoni. Jordan restava seduto silenziosamente e pensava. Jordan, questo era tutto quel che gli era rimasto. L’identità, il nome; e anche quello sarebbe sparito tra non molto. «Quanto durerà?» si domandò prima che anche la coscienza se ne fosse andata. «Quanto era durato?»
Avrebbero potuto essere secoli, perché le astronavi non diventano polvere facilmente ma lui l’aveva vista diventare polvere. Forse aveva visto la lunghezza di molte vite, su quel pianeta sempre uguale; non aveva mai mangiato, e il suo corpo era invecchiato senza ammalarsi. Come l’astronave che era diventata polvere, pensò, come ogni atomo del suo corpo che diventava sempre più vecchio e debole. E un giorno, un giorno, sarebbe successo. Un giorno il suo corpo non sarebbe stato capace di aggrapparsi a quell’ultima scintilla di vita che gli rimaneva ancora, e allora sarebbe morto.
Aspettava.
Aspettava pazientemente, mentre il pianeta ruotava sul suo asse e i soli gemelli si davano il turno nel cielo. Aspettava, morendo, mentre la foresta cresceva intorno a lui, e gli animali venivano a guardarlo meravigliandosi. Aspettava, e il suo corpo invecchiava e diventava fragile, fino al momento in cui sembrò che la pelle dovesse rompersi come una foglia al sole, fino al momento in cui sembrò che le ossa non fossero più che grigia polvere all’interno del suo corpo, come se il sangue avesse smetto di scorrere. Guardava dritto davanti a sé, perché non aveva neppure più la forza di voltare la testa. Non poteva più vedere il proprio corpo, ma sapeva che doveva essersi ridotto quasi a niente, perché quando s’alzava una leggera brezza si sentiva tremare come una foglia durante la tempesta, come se non fosse più che una forma di sabbia, che si sarebbe sgretolata e sarebbe caduta in una piccola nuvola. Guardava dritto davanti a sé; con gli occhi che diventavano sempre più deboli, fissava lo spazio deserto e la foresta che vi era oltre, ricordandosi che cosa vi fosse dall’altra parte. Sedeva immobile perché non poteva muoversi e pensava alle stelle che non avrebbe più potuto vedere.
Aspettava, mentre gli anni trascorrevano.
E un giorno arrivò l’astronave.
Venne giù dal cielo giallastro, tutta argento e fiamma, e atterrò sullo spiazzo davanti a lui. Era un’astronave nuova, come una moneta coniata di fresco, forte, potente e le sue svelte linee promettevano velocità fantastiche. Due uomini scesero la scala che toccava terra, due alti terrestri con tuta spaziale.
La mente di Jordan gridò il benvenuto. Cercò di aprire la bocca per parlare ma non sentì muscolo muoversi. Quegli uomini venivano dalle stelle, lo sapeva. Quanto tempo era passato? L’astronave era di centinaia d’anni più avanzata della sua. Con una macchina del genere, gli anni-luce dello spazio interstellare dovevano essere niente. Si poteva rispondere allo spazio che chiamava. Quegli uomini avrebbero potuto portarlo nello spazio, oltre lo scintillio dei soli gemelli, e avrebbe potuto vedere per l’ultima volta le stelle.
I terrestri si fermarono davanti ai rottami arrugginiti che una volta erano stati un’astronave e li fissarono, meravigliati. Camminarono cautamente tutt’intorno allo spiazzo, guardando qua e là. «Non mi vedono» pensò selvaggiamente Jordan, «non mi hanno veduto seduto vicino all’albero. Qui! Da questa parte! Vi ho aspettato per tanti anni!» Ma non venne alcun suono. Le sue labbra non fecero il più piccolo movimento.
I due terrestri tornarono verso la loro astronave e salirono la scaletta. Con un senso di freddo doloroso, Jordan li guardò entrare nell’astronave, vide il portello chiudersi. La sua ultima possibilità di partire su ali di fiamma era svanita. Si ribellò. Cercò di alzare un braccio, una gamba, cercò di muovere le labbra, la testa. Poteva sentire il proprio corpo antico tremare leggermente: sentì la particolare sensazione di un instabile bilanciamento, come se fosse uno dei mattoni sbrecciati di un antico edificio che stava in piedi soltanto per abitudine.
E poi improvvisamente fu libero. Camminò, corse, volò verso il limite della foresta, fino sullo spiazzo, fino alla grande splendente astronave. Restò là e gridò: — Qui, sono qui. Guardate! Guardate giù! — Ma l’astronave ruggì e potenti lingue di fuoco si riversarono sopra di lui, accecandolo, impedendogli la vista dell’erba, degli alberi, del cielo e persino dello scintillio del sole. L’astronave se n’era andata, un punto che divenne sempre più piccolo, e poi niente, soltanto un ricordo, un sogno.
Tristemente Jordan tornò indietro. Ai piedi dell’albero, sotto il quale era rimasto seduto per tanto tempo, c’era un mucchietto di polvere. Lo guardò attonito per un momento. Si sentiva senza peso. Sentiva che avrebbe potuto volare. Provò, e infatti si staccò da terra. Volava. Sotto di lui la foresta diventava più piccola, il mondo non fu che una palla rotonda, con tutti i fiumi e le pozzanghere e l’oceano in una vasta panoramico. Che cosa voleva dire? Si domandò. Che cosa voleva dire?
Il suo corpo doveva essere morto. No, non era esattamente così. Il suo corpo era durato tanto, che la morte non poteva più toccarlo. Doveva essere stata l’aria a provocare questo; si ricordò che i due astronauti indossavano tute spaziali. Il suo corpo aveva continuato ad invecchiare sempre di più e ancora di più. Era diventato così vecchio che si era disintegrato ad un movimento; ma non era veramente morto. E se non era veramente morto, ma solo invecchiato al punto di non poter invecchiare oltre, al punto che i tessuti del suo corpo non erano più tessuti... che cosa avrebbe impedito che la mente, la sua coscienza, continuassero a esistere?
Jordan conosceva la risposta: non era più vincolato al pianeta, non era più prigioniero della gravità. Lo seppe non appena ebbe lasciato sotto di sé il pianeta, lontano, circondato dalla luminosa atmosfera, non appena fu passato vicino al sole, bruciante e lo accarezzò col pensiero. E poi fu libero.
La notte lo ricoprì come un mantello di velluto freddo, con le stelle di ghiaccio cristallino. Restò sospeso per un breve momento, centinaia di emozioni lo assalivano. Poi girò su se stesso eccitato, guardando prima di qua e poi di là.
Ecco le stelle, e le costellazioni, e gli universi e le nebulose che si curvavano a spirale e si stendevano in larghe bande gassose in mezzo ai cieli, come fieri diamanti in un enorme cofanetto. E qui, e qui, ancora ce n’erano delle altre e tutte aspettavano. Dolcemente pronunciò i loro nomi come se fossero vecchi amici non visti da troppo tempo. Ci sarebbero voluti milioni e milioni di vite per visitarne anche soltanto un limitato numero, ma lui aveva tutti il tempo e anche di più.
«Da che parte per prima» si domandò. «Da che parte?»
Intorno a lui, paziente, l’universo aspettava.