Le ali di Horus

di Algernon Blackwood4

 

 

Titolo originale: The Wings of Horus (1917) 

Traduzione di Claudio De Nardi 

Apparso sul n. 1263 di Urania (6 agosto 1995) 

 

 

 

Binovitch aveva in sé qualcosa dell’uccello: certamente nei lineamenti, con quegli occhi penetranti e il naso aquilino; e anche nei movimenti con quel suo spostarsi a scatti, saltellante; nel modo in cui si appollaiava sul bordo di una sedia e in cui becchettava il cibo, e pure nella voce pigolante; ma lo era soprattutto nella sua mente aerea e fantasiosa, veloce come il lampo. Sfiorava qualsiasi argomento e ne coglieva subito il cuore, come un uccello che voli rasoterra catturando infallibilmente la preda. E in effetti aveva una visione delle cose a volo d’uccello. Amava gli uccelli e li capiva istintivamente e riusciva ad imitarne gli acuti gorgheggi con sorprendente accuratezza e abilità. L’unica loro qualità che non possedeva era la mirabile capacità di bilanciarsi e mantenersi in equilibrio. Era un omino nervoso, nevrastenico. E si trovava in Egitto per ordine del suo medico. 

Quante idee fantasiose, campate in aria, aveva! E in che cose poco comuni credeva! 

— Gli antichi egizi — diceva sorridendo, ma con tono solenne — erano un grande popolo. Possedevano una coscienza delle cose diversa dalla nostra. L’idea dell’uccello, ad esempio, implicava quella di divinità, del dio-uccello, cioè; e c’erano uccelli da essi reputati sacri: il falco, l’ibis, e via discorrendo. E li adoravano. — E rideva con tono di sfida: — Ah, ah, ah! 

— Adoravano anche cani, coccodrilli e vacche — sogghignò Palazov. Binovitch fissò il suo avversario dall’altra parte del tavolo; i suoi occhi lampeggiarono, il suo naso becchettò l’aria e si poteva quasi immaginare il suo rabbioso sbatter d’ali. 

— Perché ogni essere vivente — gridò quasi — era simbolo, per loro, di un qualche potere spirituale. La tua mente è prosaica come un dizionario ed altrettanto incoerente; pagine di carta stampata senza un rapporto fra una definizione e l’altra! Verbi sempre all’infinito! Se tu fossi un antico egiziano, tu... tu — balbettò, gli occhi fiammeggianti, la lingua a fior di labbra — faresti di tutte quelle parole un romanzo cosmico, una sorta di grande interpretazione della vita, com’era loro costume. E invece hai in bocca il gusto amaro dell’inchiostro e ce lo sputi addosso — sussultò in tutto il corpo con un rapido movimento da uccello — in frasi vuote! 

Khilkoff ordinò un’altra bottiglia di champagne mentre Vera, sua sorella, disse con un po’ di nervosismo: — Andiamo a fare un giro in macchina; c’è il chiaro di luna. — La proposta fu accolta con unanime entusiasmo. Un altro membro della compagnia chiamò il capo-cameriere ordinandogli di preparare dei cestini con cibo e bevande. Erano soltanto le sette. Sarebbero andati in macchina nel deserto, avrebbero mangiato alle due del mattino, cantato, e atteso l’alba. 

Si trovavano in uno di quegli alberghi cosmopoliti in Egitto che attirano i turisti qualsiasi così come coloro che stanno facendo una “cura”, e tutti quei russi, chi per un verso chi per un altro, avevano qualche problema di salute. A ciascuno di loro era stato prescritto un soggiorno terapeutico in Egitto e ognuno di loro era la disperazione del rispettivo medico. Erano altrettanto ingovernabili d’un bazar e similmente incoerenti. Stravizi e letto costituivano la loro routine, e nessuno di loro “migliorava”; allo stesso modo nessuno di loro “peggiorava”. Parlavano l’uno con l’altro in quel modo spigliato e senza peli sulla lingua tanto caratteristico dei russi ma che non sottintendeva malizia né tanto meno offesa. Gli inglesi, i francesi e i tedeschi dell’hotel li osservavano con vago sbalordimento, riferendosi a essi come a «quella banda di russi». Possedeva un’energia paragonabile a una forza della natura. Non si fermavano mai. Si limitavano a scomparire quando il ritmo diventava troppo frenetico, per ricomparire dopo un giorno o due riprendendo a “vivere” come prima. Binovitch, a dispetto della sua nevrastenia, era l’anima della compagnia. 

Era anche un paziente di riguardo del dr. Plitzinger, il famoso psichiatra, che coltivava un peculiare interesse per il suo caso. Non c’era da stupirsene: Binovitch era un uomo di grande intelligenza e di vasta cultura. Ma c’era qualcos’altro in lui che destava particolare curiosità: era la sua appariscente “originalità”. Diceva e faceva cose sorprendenti. 

— Potrei volare se volessi — disse una volta quando dei piloti vennero a stupire i nativi con i loro biplani librati sul deserto — ma senza tutto quel macchinario e quel rumore. È soltanto una questione di fede e di volontà... 

— Dimostracelo! — gridarono gli altri. — Facci vedere come voli! 

— Ah, un’altra delle sue! È in preda a uno dei suoi deliziosi momenti di stranezza! 

Queste occasioni in cui Binovitch si lasciava andare destavano sempre il buon umore generale. Diceva cose abnormi e incredibili con la massima serietà, come se ci credesse davvero. Amavano la sua follia, perché provvedeva loro sempre nuove sensazioni. 

— Non è altro che levitazione, dopo tutto, il volo umano — esclamò, cacciando la lingua fra le labbra e sputacchiando mentre parlava com’era sua abitudine se particolarmente eccitato; — e cos’è la levitazione se non un potere dell’aria? Nessuno di voi, con tutta la vostra scienza, può tenere sospesa un’arancia a mezz’aria per un secondo. Ma la luna è sempre in perfetta levitazione. E anche le stelle. O pensate siano sospese a dei fili? Chi sollevò gli enormi blocchi di pietra nell’antico Egitto? Pensate davvero che l’abbiano fatto a suon di corde, carrucole e braccia o con altri congegni simili a certi nostri macchinari odierni? Bah! Era levitazione. Era il potere dell’aria. Credete in questo potere e la gravità diventa una storiella da balie. Conoscere la quarta dimensione significa uscire da una stanza chiusa a chiave e ritrovarsi all’istante sul tetto o addirittura in un altro Paese. Allo stesso modo, conoscere i poteri dell’aria significa annullare ciò che voi chiamate peso e... volare! 

— Faccelo vedere, faccelo vedere! — gridarono gli altri, ridendo di gusto. 

— È soltanto questione di crederci — ripeté, la lingua che appariva e scompariva dalle labbra come un’ombra appuntita. — È nel cuore; il potere dell’aria risiede in tutto il nostro essere. Perché dovrei dimostrarlo? Perché dovrei chiedere alla mia divinità di persuadere le vostre piccole menti con un miracolo? Perché si tratta di una divinità, vi dico, e di nient’altro. Lo so. Seguite una idea come questa, come io seguo la mia idea di uccello, seguitela con la forza e la fissa concentrazione di un proiettile, e otterrete quel potere. Conoscete la divinità... cioè l’idea di uccello connessa alla sfera divina. Essi la conoscevano. Gli antichi egiziani la conoscevano. 

— Faccelo vedere, faccelo vedere! — gridavano con impazienza, annoiati dei suoi non-sense. — Sollevati e vola! Levita come facevano loro! Diventa una stella! 

Binovitch improvvisamente impallidì e una strana luce si accese nei suoi penetranti occhi castani. Si alzò lentamente dal bordo della sedia dov’era appollaiato. Qualcosa in lui cambiò. Gli altri tacquero all’istante. 

— Ve lo mostrerò — disse con calma e gli altri lo fissarono sbalorditi; — ve lo dimostrerò, non per convincere voi ma per provarlo a me stesso. Perché i poteri dell’aria sono dalla mia, qui, adesso. Io credo. E Horus, grande simbolo dalla testa di falco, è il mio nume tutelare. 

L’energia trattenuta nella sua voce e nel suo atteggiamento era indescrivibile. Emanava dalla sua persona il potere di alzarsi, di sollevarsi in aria. Alzò le braccia e guardò verso l’alto, inspirò profondamente e infine proruppe in una sorta di grido cantilenante, metà preghiera, metà canto: 

 
O Horus,
Divinità del vento dall’occhio splendente,
Fai volare la mia anima
Attraverso la densa aria della terra,
Per conoscere la tua tremenda velocità...
 

Si interruppe bruscamente. Salì con agilità sul tavolo più vicino – si trovavano in una sala da giuoco deserta, fatta eccezione per la loro presenza, dove nel corso dell’ultima partita aveva perso più sterline di quanti giorni ci sono in un anno – e si lanciò nell’aria. Si librò per un istante, allargò braccia e gambe, parve fluttuare per un secondo... e quindi si piegò e precipitò in avanti, cadendo con fracasso sul pavimento, accolto da un ruggito di risate. 

Ma queste ultime si spensero quasi subito, perché qualcosa nella sua esibizione era stato particolare e inusuale, non del tutto naturale e quasi fantastico. Per un istante era sembrato che il suo corpo fluttuasse nell’aria o vi restasse sospeso, come facevano Mordkin e Nijinski. Per un secondo aveva dato la straordinaria impressione di vincere la forza di gravità. V’era stato in tutta la scena un tocco di quell’orrore che impaurisce proprio per la sua indeterminatezza. Si rialzò del tutto illeso, il volto grave come un ritratto dell’Accademia, ma con una nuova espressione dipinta in esso, e tutti la notarono; anzi, fu proprio questa nuova espressione che fece morire il loro riso sulle labbra, come il vento porta via con sé un suono di campana. Come molti uomini brutti, era un attore inimitabile, e il repertorio delle sue espressioni facciali era pressoché sterminato e quasi incredibile. Ma in questo caso non stava posando né recitando; v’era qualcosa in quella sua strana fisionomia russa che faceva battere più forte il cuore. Ecco perché le risate si spensero quasi all’istante. 

— Avresti dovuto volare di più — gridò qualcuno esprimendo il pensiero di tutti. 

— Icaro non beveva champagne — soggiunse un altro ridendo; ma nessuno si unì a lui. 

— Hai volato troppo vicino a Vera — disse Palazov — e la passione ha sciolto la cera. — Ma il suo volto si contrasse nervosamente mentre parlava. C’era qualcosa che non capiva e che non gli andava a genio in tutta quella faccenda. 

La strana espressione dipinta in volto a Binovitch si accentuò tanto da mettere a disagio gli astanti. Tutti tacquero, fissandolo, incapaci di spiegarsi quella strana sensazione. Qualcuno abbassò gli occhi, altri guardarono da un’altra parte; ma le donne della compagnia si sentivano affascinate. Vera, in particolare, non riusciva a staccare gli occhi da lui. Lo scherzoso accenno all’ammirazione appassionata di Binovitch passò inosservato. Erano rimasti quasi tutti molto scossi e ben presto si alzò un coro di bisbigli. 

— Guarda Binovitch! Cos’è accaduto alla sua faccia? 

— È cambiata... lui sta cambiando! 

— Dio! Ma assomiglia a... a un uccello! 

Ma nessuno rise. Cercarono invece dei nomi d’uccelli: falco, aquila, persino gufo. Non notarono la figura di un uomo chino sull’uscio e che li osservava. Stava passando in corridoio, aveva visto la scena e si era fermato. Aveva assistito all’intera esibizione di Binovitch e adesso lo fissava pensosamente. Era il dottor Plitzinger, il grande psichiatra. 

Perché Binovitch s’era rialzato dal pavimento con un atteggiamento tutt’altro che ridicolo e che non faceva certo sorridere. Non appariva confuso né sconcertato ma semmai sorpreso ed anche un po’ arrabbiato e impaurito. Come aveva detto qualcuno, avrebbe dovuto “volare di più”. Questa era l’incredibile impressione che le sue acrobazie avevano prodotto – incredibile ma vera. Quell’idea fantastica alla fine prevalse, come in una seduta spiritica in cui non ci si aspetta che accada nulla di genuinamente vero e invece, dopo tutto, qualcosa di simile accade. Non era stata messa in atto alcuna simulazione: Binovitch per un istante aveva davvero volato. 

E adesso se ne stava lì, bianco in volto di paura e di rabbia. Appariva straordinario, quel piccolo russo nevrastenico, ma nello stesso tempo anche terribile. In lui vi era qualcosa di non comune e di non comunemente sperimentato dagli uomini ma che pure si era palesato, colpendo direttamente le menti dei suoi compagni e turbandoli molto. Aprì la bocca, i suoi occhi fiammeggiavano, e ne uscì la lingua simile a quella di un formichiere, ma nessuno rise perché non v’era nulla di comico in quel gesto. Allargò le braccia come un paio d’ali e gridò acutamente, quasi in falsetto: 

— Mi ha abbandonato, mi ha abbandonato! Horus, il mio dio dalla testa di falco, il potere dell’aria, mi ha abbandonato! Vada all’inferno! Possano le sue ali bruciare assieme ai suoi occhi! L’inferno lo riduca in cenere per le sue false profezie! Lo maledico... maledico Horus! 

La voce che avrebbe dovuto ruggire nella sala silenziosa assomigliava piuttosto al pigolio e allo strillo di un uccello; e l’effetto di quella voce, aggiunto al singolare aspetto di Binovitch, fu agghiacciante. Eppure fu anche, a modo suo, uno spettacolo fantastico, un pezzo di bravura meravigliosamente recitato: tutto era stato perfetto, la sua voce, le sue parole, i suoi gesti, il suo aspetto esagitato. Soltanto – e questo scosse gli astanti – si capiva benissimo che non stava recitando, e la strana espressione dipinta sul suo volto era genuina e sincera. Quella non era una posa. V’era qualcosa di nuovo e di estraneo in lui, qualcosa di freddo e di inconciliabile con la vita umana, qualcosa di allarmante, veloce e crudele non assimilabile all’elemento terra. Una bizzarra grandezza e bellezza da rapace s’era dipinta su quei lineamenti tesi. Il suo volto assomigliava alla testa d’un falco. 

E improvvisamente si mosse in direzione di Vera, il cui sguardo fisso non l’aveva abbandonato per un istante, osservandolo con una sorta di fascino allarmato e bramoso a un tempo. Binovitch avanzava in punta di piedi; senza dubbio stava recitando adesso, continuando a voler far credere il suo folle nonsense circa il fatto che adorava Horus, il dio dalla testa di falco di giorni dimenticati, e che questi non l’aveva aiutato nel momento del bisogno; ma in qualche modo la sua straordinaria rassomiglianza con un falco aveva qualcosa di impressionante, e poi il modo in cui guardava e si muoveva. La ragazza, una creaturina dai soffici capelli biondi, socchiuse le labbra e la sigaretta cadde sul pavimento. Indietreggiò e per un istante assomigliò a un uccellino variopinto che cercava di sfuggire agli artigli di un grande falco. Urlò. Binovitch, le braccia allargate, il volto da uccello proteso in avanti, era piombato su di lei. Fece un salto e quasi la prese. 

Nessuno sapeva dire esattamente ciò che accadeva. Il gioco s’era fatto improvvisamente e inaspettatamente troppo reale e confondeva le emozioni. Il cambiamento fu repentino: nella mente umana, il passaggio dal divertimento al terrore è assai breve e complesso. Qualcuno – era Khilkoff, suo fratello – afferrò una sedia; tutti cominciarono a parlare contemporaneamente, tutti balzarono in piedi. Nell’aria c’era molta tensione e un’atmosfera da tragedia imminente, come accade spesso in quelle liti fra ubriachi che scaturiscono dal nulla e finiscono a colpi di pistola e con la morte senza che nessuno riesca a spiegare chiaramente com’è successo. Fu la silenziosa figura che li osservava dall’uscio a salvare la situazione. Prima che qualcuno lo notasse era già in mezzo alla compagnia, ridendo, scherzando, chiacchierando e applaudendo... e si era frapposto fra Binovitch e Vera. Stava dando vigorose pacche sulla schiena al suo paziente e la sua voce si fece udire sopra la confusione generale. Possedeva una personalità forte e tranquilla; persino nel suo sorriso c’era un tocco di autorità. Adesso nella stanza si udiva soltanto la sua risata, come se con la sua semplice presenza avesse ristabilito pace, ordine e armonia. Ispirava fiducia. Cessò la confusione; Vera tornò a sedersi sulla sua sedia. Khilkoff versò una coppa di vino per il grand’uomo. 

— Allo zar! — esclamò Plitzinger sorseggiando lo champagne mentre tutti si alzavano in piedi deliziati dal suo tatto e dal suo buon gusto. — E alla vostra notte che s’è aperta con il balletto russo — aggiunse rapidamente — o alla sua prima performance al Théatre des Arts di Mosca! — Sorridendo con espressione piena di sottintesi, diede un’occhiata a Binovitch e brindò con lui facendo tintinnare i calici. Avevano allacciato le braccia secondo l’usanza russa, ma fu Palazov a notare che le dita del medico sembravano riassettare la gualcita giacca nera di Binovitch. Tutti bevvero guardando con un rispettoso sorriso il russo che pareva un nano in confronto all’alta statura del dottore austriaco e s’era fatto improvvisamente tranquillo e mansueto come un agnello. 

— Naturalmente... “L’Uccello di Fuoco!” — esclamò Binovitch, ricordando il famoso balletto russo. — Proprio così! Per noi aggiunse divorando Vera con gli occhi. Era molto compiaciuto. Cominciò a parlare rumorosamente di danza e dei fondamenti logici della danza. Gli dissero che era un maestro sconosciuto. Era deliziato e lusingato. Fece l’occhiolino a Vera e ne toccò il calice con il suo. — Faremo insieme il nostro debutto! — gridò. — Cominceremo al Covent Garden di Londra. Io disegnerò gli abiti e i poster: “Il Falco e la Colomba”! Magnifique! Io in grigio scuro e tu in celeste e oro! Ah, la danza è sacra, sai. Il nostro piccolo io ne viene travolto, assorbito. È un’estasi, è divina. E danzare nell’aria... il giuoco che amano gli uccelli e le stelle... ah! Sono i movimenti degli dèi. Conosci il divino in questo modo... vivendolo. — E via di questo passo. 

Con un cambiamento repentino si era gettato, anima e corpo, su questo nuovo soggetto di conversazione. L’idea di realizzare il divino mediante la danza lo assorbì completamente. Gli altri della compagnia ne discussero con lui come se non esistesse altro al mondo, sedendo e chiacchierando tutti assieme in perfetta armonia. Vera accettò la sigaretta che lui le offrì accendendola direttamente a quella di Binovitch; le loro dita si sfiorarono; adesso egli era normale e inoffensivo come un diplomatico in pensione in un salotto. Ma era stato Plitzinger ad operare quel cambiamento agendo con grande sottigliezza, e fu ancora Plitzinger a suggerire una partita a biliardo: lo condusse in un’altra sala; Binovitch adesso era pieno di entusiasmo per quel gioco. Se ne andarono dalla sala da giuoco a braccetto, ridendo e chiacchierando. 

La loro uscita di scena non parve essere notata in un primo tempo. Vera lo seguì con gli occhi, poi si volse ad ascoltare il barone Minski che stava descrivendo con evidente piacere come catturava lupi vivi per farli correre. Era impossibile rendersi conto, stava dicendo, della potenza e velocità del lupo, della forza dei suoi denti che potevano intaccare persino il metallo. Mostrò una cicatrice sul braccio e un’altra su un labbro. Stava raccontando cose vere e tutti lo ascoltavano con grande interesse. Parlò per una decina di minuti poi Minski s’interruppe bruscamente. Aveva finito e si guardò intorno; vide il suo bicchiere vuoto e lo riempì. Tutti tacevano. Sembravano aver esaurito gli argomenti di conversazione. Alcuni sospirarono rumorosamente, altri si mossero sulle loro sedie; furono accese nuove sigarette; e tuttavia non erano annoiati perché dove due o tre russi si riuniscono c’è sempre vita. Come il vento produce le onde essi creano gaiezza ed entusiasmo. Come bambini troppo cresciuti si gettano anima e corpo in qualunque argomento di conversazione si presenti al momento. Hanno un modo di prendere la vita che è paragonabile a un selvaggio far capriole. Sembra sempre che stiano combattendo quella profonda tristezza nazionale che scorre nel loro stesso sangue. 

— Mezzanotte! — esclamò improvvisamente Palazov, guardando il suo orologio; all’istante tutti cominciarono a parlare di quell’orologio ammirandone la bellezza e ponendo mille domande al proprietario. Perché in quel momento lo strumento per indicare il tempo era al centro della loro attenzione. Palazov disse quanto lo aveva pagato. — Non si ferma mai — aggiunse con orgoglio, — neanche sott’acqua. — Li fissò uno per uno con aria di sfida. E raccontò che una volta aveva fatto una scommessa: doveva raggiungere a nuoto una certa isola in un lago; vinse la scommessa. Lui e una ragazza furono i vincitori, ma siccome la posta in giuoco era un cavallo, lui non vinse un bel niente perché lo lasciò alla ragazza. E in un certo qual modo adesso se ne lagnava. — Comunque l’orologio continuò a funzionare per tutta quella nuotata — disse con malcelato orgoglio esibendolo a tutti. — Rimasi in acqua dodici minuti, completamente vestito, tra l’altro. 

In ogni modo quei discorsi frammentari non erano altro che pretesti. Dalla sala in fondo al corridoio giungeva il suono delle palle da biliardo che cozzavano l’una contro l’altra. Ci fu un’altra pausa. La pausa naturalmente era intenzionale: non era certo stanchezza o mancanza di argomenti che l’avevano provocata; al contrario ciascun membro del gruppo stava rimuginando su un nuovo soggetto di conversazione tra gli infiniti possibili. Solo che a nessuno importava particolarmente di cominciare; finché, alla fine, incapace di resistere alla tensione, Palazov si volse verso Khilkoff, che stava dicendo che avrebbe preso un “whisky e soda” perché lo champagne era troppo dolce, e gli bisbigliò qualcosa; e allora Khilkoff, dimenticando il suo whisky e soda, guardò sua sorella, si strinse nelle spalle e fece una buffa smorfia. — Adesso è a posto — rispose in tono appena udibile — è con Plitzinger. — E con un movimento della testa accennò in direzione della sala da biliardo dove si stava ancora giocando. 

Era stato trovato un nuovo argomento di conversazione: tutti volsero la testa verso Palazov e Khilkoff, si udì subito un brusio di voci, vi furono domande, risposte, e mezze risposte; sopracciglia si corrugarono, spalle si strinsero, mani si protesero in modo espressivo. Si creò un’atmosfera di presagio, di mistero, di cose non del tutto capite e appena sussurrate; si agitò un istinto primitivo e sopito, una sorta di timore razziale di cose indefinite e non dette che, se assecondato, avrebbe preso il sopravvento. Evitavano di affrontare certi discorsi come se un influsso superstizioso avesse stesso le sue ali su di loro. 

Stavano discutendo di Binovitch, naturalmente, e della sua stupefacente performance. Vera ascoltava osservandoli con i grandi occhi preoccupati, ma non diceva nulla. Il cameriere arabo aveva spento le luci in corridoio e adesso soltanto un lampadario a candelabro ardeva sopra le loro teste lasciando i volti in ombra. Continuavano a udire il suono delle palle da biliardo all’estremità del corridoio. 

— Non stava posando; faceva sul serio! — esclamò Minski con veemenza. — Posso prendere lupi — borbottò — ma uccelli... bah! e uccelli umani per di più! — Aveva assistito a qualcosa che non poteva capire e questo aveva destato in lui una paura istintiva. — È stato il modo in cui è balzato su Vera che mi ha fatto pensare al lupo; solo che non era affatto un lupo. 

Alcuni furono d’accordo, altri no. — All’inizio fingeva ma alla fine faceva sul serio — bisbigliò un altro; — e non era un animale che stava imitando con mimica perfetta ma un uccello, l’uccello della sua preghiera! 

Vera rabbrividì. Nella donna russa si nasconde quell’alcunché di selvatico che ama essere preso, dominato da chi è forte abbastanza per farlo. Si alzò dalla sua sedia e andò a sedersi accanto alla donna più anziana del gruppo, che subito le prese con dolcezza le mani. Nel piccolo volto di Vera era dipinta un’espressione perplessa, triste e selvaggia nello stesso tempo. Era evidente che Binovitch non le era indifferente. 

— È diventata un’idée fixe per lui — disse la vecchia. — L’idea dell’uccello ha messo radici e vive nella sua mente, nella sua fantasia. Ne è preso sin da quella volta ad Edfu, quando pretendeva di adorare i grandi falchi di pietra scolpiti sulla facciata del tempio, le immagini di Horus. 

Tacque. Forse, in quel particolare momento, era meglio lasciar perdere il modo in cui Binovitch si era comportato a Edfu.

Tutti i presenti rabbrividirono leggermente, e ciascuno fissava l’altro sperando mettesse a fuoco la propria emozione spiegandola a parole in modo di comprenderla. Ma nessuno osò farlo. 

Vera in quel momento sobbalzò.

— Ascoltate! — esclamò in un bisbiglio, aprendo bocca per la prima volta. Sedeva rigida accanto alla vecchia, gli orecchi tesi in ascolto. 

— Ascoltate! — ripeté. — Eccolo di nuovo, ma più vicino di prima. Si sta facendo più vicino, posso sentirlo. — Tremava come una foglia, e la sua voce, il suo atteggiamento, soprattutto i grandi occhi quasi sbarrati, fecero trasalire tutti gli altri. Per alcuni secondi nessuno disse nulla, tutti stavano in ascolto. La hall e i corridoi erano già immersi nell’oscurità che sembrava aver preso possesso del grande hotel. 

Tutti erano a letto ormai, e anche il rumore delle palle da biliardo che cozzavano l’una contro l’altra nell’apposita sala in fondo al corridoio era cessato. 

— Ascoltare cosa? — chiese sommessamente la vecchia con un percettibile tremito nella voce. Sentiva che la mano della ragazza le stringeva forte il braccio. 

— Lo sente anche lei? — bisbigliò la ragazza. 

Tutti ascoltavano in silenzio e fissavano il suo volto pallido. V’era nell’aria qualcosa di meraviglioso e incomprensibile a un tempo. Improvvisamente udirono un fievole mormorio o un fruscio, appena udibile, senza riuscire a capire da che direzione provenisse. Rabbrividirono. Quella strana paura insita nella loro razza si impadronì ancora di loro, inspiegabile, radicata nel loro inconscio primitivo, infantile e facile alle suggestioni. 

Cosa senti? — le chiese spazientito il fratello, in preda all’irritazione dovuta alla paura. 

— L’ho udito la prima volta quando è venuto da me — rispose a voce bassa. — Adesso lo sento di nuovo. Ascolta! Sta venendo. 

E in quel preciso istante dall’oscurità del corridoio emersero due figure umane, Plitzinger e Binovitch. 

Avevano finito di giuocare e si apprestavano ad andare a letto. Attraversarono la soglia della sala da giuoco. Ma Plitzinger tratteneva l’altro che tentava di entrare con volanti passi di danza. Fece un salto. Assomigliava a un enorme uccello che cercasse di alzarsi in volo, mentre il suo compagno lo tratteneva a terra a viva forza. Come entrarono nell’arco di luce, Plitzinger cambiò posizione, piazzandosi rapidamente fra il suo paziente e il gruppo nell’angolo buio della stanza. Invitò Binovitch a proseguire lungo il corridoio sempre tenendosi fra lui e il gruppo. Scivolarono nuovamente nell’oscurità del corridoio e scomparvero. E ognuno guardò il proprio vicino con aria interrogativa ma in un primo tempo senza dire una parola. Sembrava che fossero seguiti, Plitzinger e Binovitch, da un udibile perturbamento dell’aria. 

Vera fu la prima ad aprir bocca. — Lo hai sentito, allora — disse quasi senza fiato, il volto più pallido del bianco soffitto. 

— Dannazione! — esclamò furioso il fratello. — Era il vento che soffiava contro i muri dell’albergo... il vento del deserto che scagliava la sabbia contro l’albergo. 

Vera lo guardò. Si strinse al fianco della vecchia che le aveva passato un braccio sulle spalle.

Non era il vento — si limitò a rispondere. 

Tacque. Tutti aspettavano a disagio che completasse la frase. La guardavano in volto come contadini che aspettassero un miracolo.

— Ali — bisbigliò Vera. — Era un fruscio di ali. 

 

E alle quattro del mattino, quando tornarono esausti dall’escursione nel deserto, il piccolo Binovitch stava dormendo tranquillamente e saporitamente nel suo letto. Entrarono nella sua stanza in punta di piedi ed egli non li udì. Stava sognando. La sua anima era a Edfu e sperimentava con quell’antico dio signore del volo le strane gioie alla cui teorizzazione s’era sempre appassionatamente dedicato con il suo fragile e turbato cuore di uomo. Al sicuro con il possente dio-falco i suoi poteri avevano denigrato poche ore prima, la sua anima, liberata nel vivido sogno, volava dolcemente. Era stupefacente, meraviglioso. Sorvolò il Nilo a velocità crescente. Lanciandosi a capofitto dalla sommità della Grande Piramide, ghermì con infallibile precisione una piccola colomba che cercò invano di sfuggire al suo terrificante inseguitore sotto i palmizi. Perché ciò che egli amava doveva adorare dove lui adorava, e la maestà di quelle terribili effigi aveva acceso a tal punto la sua immaginazione che necessariamente questa doveva trovare uno sbocco in immagini artistiche. 

Poi improvvisamente, proprio nell’istante in cui catturava la colomba, il sogno sfumò in un terribile incubo. Il cielo perse tutto il suo azzurro e il suo splendore. Distante, molto distante e al di sotto di lui la colombella lo attirò in abissi senza nome, cosicché egli volava sempre più veloce senza tuttavia riuscire a raggiungerla. Dietro di lui sopraggiunse una grande cosa nera sospesa nell’aria, con gigantesche ali spiegate. Aveva occhi terrificanti e lo inseguiva guadagnando spazio; vide un becco colossale, adunco e ricurvo come una scimitarra e appuntito come un dente di acciaio. Vacillò, tremò, cercò di urlare. 

Precipitava attraverso lo spazio vuoto, preso per il collo; l’enorme falco spettrale era su di lui e gli piantò gli artigli nel cuore. E allora, pur sognando, ricordò che lo aveva maledetto, ricordò le sue parole incaute. La maledizione dell’ignorante cade nel vuoto, quella del credente sortisce un effetto. Era, quello, un attacco contro la sua anima e lui lo aveva suscitato. E subito dopo si rese conto con orrore che la colomba che aveva cacciato era, dopo tutto, l’esca che lo aveva attirato di proposito alla rovina... e si svegliò in quell’istante lanciando un grido di terrore soffocato, madido di sudore diaccio. Proveniente dalla finestra aperta, udì un battito di grandi ali che si perdevano nell’oscurità del cielo. 

L’incubo impressionò molto Binovitch, di temperamento drammatico e facilmente suggestionabile; e accentuò le sue bizzarre inclinazioni. Lo raccontò il giorno dopo a Madame de Drúhn, l’amica di Vera, sforzandosi di scherzarci sopra, ma non ricevette alcun incoraggiamento. Lo stato d’animo della sera prima era ormai svanito con la notte; era già “storia antica”. I russi non commettono mai il banale errore di ripetersi, se una certa sensazione è dileguata; amano le novità. La vita fugge e cambia non fermandosi mai abbastanza perché gli obiettivi delle loro menti possano fotografarla. 

Madame de Drühn, d’altra parte, si prese la briga di accennarne a Plitzinger, perché Plitzinger, come Freud di Vienna, riteneva che i sogni rivelassero tendenze inconsce che prima o poi debbono tradursi in azioni concrete. 

— La ringrazio di avermelo detto — le rispose con un sorriso — ma me ne aveva già parlato lui. — La guardò negli occhi un istante, in realtà studiando la sua anima. — Sa, considero Binovitch — continuò, evidentemente soddisfatto di ciò che aveva letto in quegli occhi — un fenomeno raro... un genio privo di sfogo. Il suo spirito, intensamente creativo, non trova un’adeguata espressione; il suo potenziale creativo è enorme e prolifico, eppure non produce nulla. 

Tacque un istante.

— Binovitch dunque corre il pericolo di avvelenare... se stesso. 

La guardò nuovamente negli occhi come chi soppesi quanto può confidare. — Adesso — continuò — se riusciamo a trovargli uno sbocco, un campo ove il suo genio creativo possa produrre risultati, soprattutto risultati concreti si strinse nelle spalle — l’uomo è salvo. Diversamente — appariva adesso piuttosto turbato — c’è pericolo che prima o poi... 

— Follia? — gli chiese tranquillamente. 

— C’è pericolo che esploda, diciamo così — rispose gravemente. — Ad esempio, prenda questa sua ossessione per Horus: au fond è una megalomania sebbene di un genere inconsueto. Il suo interesse appassionato, il suo amore, la sua adorazione per gli uccelli, per quanto innocui in se stessi, non trovano uno sbocco soddisfacente. Un uomo che ama davvero gli uccelli non li tiene in gabbia, non gli spara, non gli tormenta. Dunque cosa può fare Binovitch? Il comune appassionato di uccelli li osserva con il binocolo, studia le loro abitudini, e poi magari ci scrive sopra un libro. Ma un uomo come Binovitch, travolto dalla sua esuberante immaginazione e dal suo straordinario potenziale creativo, non si appagherebbe mai di tutto ciò. Lui gli uccelli vuole conoscerli dal di dentro, per così dire. Vuole sentire ciò che essi sentono, vivere la loro vita. Vuole diventare un uccello... Mi segue? Non troppo. Be’, egli cerca di identificarsi con l’oggetto della sua sacra e appassionata adorazione. Tutti i geni cercano di identificarsi con l’oggetto della loro creatività; il genio tende all’unione. Ebbene, probabilmente senza saperlo e dunque a livello inconscio, egli cela questa tendenza. — Esitò un istante. — E l’improvvisa vista di quelle maestose statue a Edfu – cristallizzazione della sua idée fixe nel granito – ha gettato benzina sul fuoco di questo suo eccesso, per così dire, portandolo completamente in luce. Binovitch a volte si sente... un uccello! Avete notato cos’è successo ieri sera? 

Annuì rabbrividendo leggermente.

— Una bizzarra performance — bisbigliò — un’esibizione cui non vorrei assistere un’altra volta. 

— E la parte più bizzarra di quella performance era anche la più vera — rispose il dottore freddamente. 

— La più vera! — esclamò in un bisbiglio la vecchia. Qualcosa nella voce e nelle maniere insolitamente gravi del medico la spaventò. Si sentiva sull’orlo di cose al di là della sua capacità di comprensione. 

— Vuole dire che Binovitch per un istante ha... si è librato nell’aria? — Non riuscì ad usare l’altro verbo, molto più appropriato. 

Il volto del grand’uomo era enigmatico. E forse parlava più per sé che per lei. 

— Il vero genio — rispose sorridendo — è una cosa assai rara. Esso significa che la persona, anche se soltanto per un secondo, diventa qualsiasi cosa; diventa l’universo; diventa l’anima del mondo. Si identifica con la vita universale. Potendo essere qualsiasi cosa e in qualunque posto, tutto gli è possibile... in quell’istante di vivida realizzazione. Può identificarsi con il cristallo, crescere con la pianta, saltare con l’animale e volare con l’uccello. Questo è il significato di “creativo”. È fede. Può passare attraverso il fuoco senza bruciare, camminare sull’acqua senza affondare, muovere una montagna, volare. Perché diventa fuoco, acqua, terra, aria. Il genio, vede, è follia nel senso più splendido dell’essere sovrumano. Binovitch lo possiede. 

S’interruppe bruscamente vedendo che la vecchia non lo capiva e non lo seguiva più. Fu costretto a reprimere il suo grande entusiasmo. 

— Il punto è — disse riassumendo il suo punto di vista e scegliendo con cura le parole — che dobbiamo cercare di incanalare il genio esuberante di quest’uomo in qualche campo che lo assorba rendendolo dunque inoffensivo. 

— Ama Vera — disse la donna, stupita, ma cogliendo nel segno. 

— Ma la sposerebbe? — chiese subito Plitzinger. 

— È già sposato. 

Il medico la osservò per qualche istante, esitando se esprimerle o meno tutto il suo pensiero.

— In questo caso — disse infine lentamente — è meglio che si lascino. 

Il suo tono e il modo di fare erano molto gravi.

— Intendere dire che c’è pericolo? — gli chiese. 

— Voglio dire — rispose con convinzione — che questo suo grande genio creativo tutto preso attualmente dall’idea di Horus e degli uccelli potrebbe in qualche modo esplicarsi con violenza. 

— La qual cosa sarebbe follia — disse lei guardandolo fissamente. 

— La qual cosa sarebbe disastrosa — la corresse Plitzinger. E poi aggiunse lentamente: — Perché nel momento psicologico della creazione egli potrebbe trascendere le leggi della materia. 

 

Il ballo in maschera di due notti dopo fu un grande successo. Palazov s’era travestito da beduino e Khilkoff da apache; Madame de Drühn indossava una veste tradizionale russa; Minski sembrava Don Chisciotte; e nell’insieme l’intera “banda” di russi era bardata in modo simpatico e stravagante. Ma Binovitch e Vera, in assoluto, riscossero il maggior successo fra i duecento ospiti presenti alla festa. Un’altra figura, un omone vestito da Pierrot, richiamò pure l’attenzione generale perché, sebbene il costume fosse alquanto banale, lo portava con una sfumatura di dignità tale da attirare su di sé gli sguardi di tutti. Ma siccome aveva la maschera, fu impossibile scoprire la sua identità. 

Ma erano Binovitch e Vera che avrebbero dovuto vincere il premio se un premio ci fosse stato, perché non solo indossavano i costumi ma si comportavano anche di conseguenza; il primo, con tunica di piume grigio-scure e maschera di falco complete di becco adunco e di artigli, appariva fiero, feroce e splendido. Il suo costume era tanto ammirevole eppure così spontaneo e naturale da risultare singolarmente affascinante. Vera, in blu e oro, una mascherina da colomba sul volto e i capelli biondi, un paio di alucce bianche che le fluttuavano sulle spalle, fu ugualmente ammiratissima. I suoi grandi occhi timidi, i suoi movimenti volteggianti, il suo modo lieve e grazioso di danzare: tutto contribuiva a rendere la sua maschera perfetta. 

Come avesse fatto Binovitch a procurarsi un simile costume rimase un mistero, perché le penne delle ali sulle sue spalle erano vere; le avevano fornite i grossi nibbi scuri che volteggiano a centinaia sul Nilo, sul Cairo e sulle alture di Mokattam. Ma come avesse fatto a procurarsele nessuno lo sapeva. Le ali, uguali in tutto e per tutto a quelle di un grosso falco, misuravano un metro e mezzo da un capo all’altro. Binovitch danzava con ragazze orientali, principesse egiziane e zingare rumene; ballava bene, con grazia e leggerezza. Ma con Vera non danzò affatto, con lei volava. La stringeva appassionatamente mentre sfioravano il pavimento quasi senza toccarlo in modo tale che tutti si voltavano a guardarli. Era delizioso e sorprendente e anche molto strano. Quella stranezza era sulle labbra di tutti ed essi erano al centro dell’attenzione. La gente bisbigliava. 

— Eccolo quello straordinario uomo-uccello! Guardate! Volteggia come un falco che insegua la ragazza-colomba. È meraviglioso! E piuttosto spaventoso anche. Chi è? Certo non la invidio. 

La gente faceva ala quando lui passava. E sembrava che inseguisse Vera anche quando ballava con un’altra. La cosa passò di bocca in bocca; nella sala si diffuse una sorta di interesse telepatico per la strana coppia. Il Falco a volte appariva troppo vero, c’era qualcosa di eccessivamente incalzante in quella finta caccia selvaggia, qualcosa di sgradevole. I presenti si allarmarono. 

— È violento; preferirei non vederlo; è alquanto scandaloso — disse qualcuno. — Penso sia orribile; guarda, la ragazza-colomba è terrorizzata. 

E si verificò un episodio, abbastanza banale in sé, che tradiva quanto tutti notavano senza apprezzarlo. Binovitch si fece avanti per reclamare un ballo, il carnet stretto fra i grossi artigli, e nello stesso momento il Pierrot si presentò con una richiesta analoga. Coloro che assistettero al fatto affermano che il Pierrot aveva atteso apposta quel momento e che incedette con portamento protettivo e autoritario. Il qui pro quo era abbastanza comune – entrambi gli uomini avevano scritto il nome della ragazza-colomba allo stesso numero di danza – ma “Num. 13 - Tango” includeva anche l’intervallo per la cena, sebbene né il Falco né il Pierrot si dessero per vinti. Entrambi la volevano. Era una situazione imbarazzante. 

— La Colomba deciderà fra noi due — sorrise il Falco, mentre le sue dita dotate di artigli si agitavano nervosamente. Il Pierrot, d’altra parte, più esperto nel modo di trattare le donne, o più audace, disse soavemente: — Sono pronto a sottomettermi alla sua decisione — e la sua voce accentuò il suo atteggiamento dignitoso — solo che mi era stato promesso questo ballo prima che Sua Maestà Horus apparisse sulla scena, e dunque è chiaro che Pierrot vanta un diritto di precedenza. 

E subito, con aria dominatrice, la prese sotto braccio. Intendeva averla e la aveva. Ma poiché il Falco non si dava per vinto, il Pierrot fu quasi costretto a strappargliela dalle mani. Scomparvero fra la folla delle maschere variopinte che danzavano lasciando il Falco, sconsolato e sconfitto, fra i risolini soffocati dei presenti. La sua velocità nulla aveva potuto contro quella forza solida ed equilibrata. 

E fu allora che i presenti si accorsero per la prima volta del singolare fenomeno. Coloro che vi assistettero affermano che Binovitch si era completamente immedesimato nella maschera che portava. Fu spaventoso, una cosa impossibile. Un bisbiglio di paura corse per la sala e i corridoi: — C’è nell’aria una cosa straordinaria! 

Alcuni si allontanarono mentre altri fecero ressa per vedere meglio. Alcuni giurarono che nell’aria si udiva uno strano suono frusciante e che l’atmosfera ne era visibilmente perturbata; che un’ombra piombò sull’angolo che la coppia aveva lasciato vuoto; e che si udì un alto grido selvaggio: — Horus! Luminoso dio del vento... — cominciò, ma si perse in lontananza e morì. Un testimone affermò che le finestre si erano aperte e che qualcosa era volato dentro la sala. Fu la spiegazione più ovvia. Si diffuse rapidamente panico, costernazione ed eccitazione. Coloro che danzarono cominciarono a non seguire più il tempo che, del resto, l’orchestra stava perdendo. La coppia che guidava quel tango esitò, si fermò e si guardò intorno. Sembrava che tutti fossero ansiosi di vedere ma ancor di più di non essere visti e si accalcavano, si spingevano, si nascondevano come se fossero stati in presenza di qualcosa di inusuale, pericoloso e terribile. Alla fine si ritrovarono in lunghe file addossate alle pareti della sala al cui centro si era creato un vasto spazio vuoto in cui ricomparvero improvvisamente il Pierrot e la Colomba. 

Era una sorta di sfida. Si udirono applausi e bisbigli semisoffocati. La coppia danzava con grazia squisita nella pista da ballo. Tutti osservavano. Si diffuse l’impressione che quanto era successo fosse stato preparato a bell’apposta. L’orchestra riprese a suonare e la musica riempì la sala. Pierrot era forte e dignitoso, per nulla turbato da quell’improvvisa pubblicità. La Colomba, sebbene incerta e tremante, lo seguiva obbediente e aggraziata nella danza. Sembravano una cosa sola. E per l’uomo che aveva bisogno di lei quella vista fu, naturalmente, dolorosa: il modo protettivo in cui il Pierrot la stringeva, la forza di quella stretta, la padronanza e il dominio che in quel momento esercitava su di lei. 

— Sta ballando ancora con lei! — si lasciò sfuggire qualcuno esprimendo il pensiero di tutti. — Meno male che non è il Falco! 

Ma, con sbalordimento generale, il Falco non si era dato per vinto e quella scena idilliaca era solo apparenza. Perché una figura attraversò fulminea lo spazio della sala. 

E si udì nuovamente quel grido acuto, quasi in falsetto:

— Fai volare la mia anima... per conoscere la tua tremenda velocità! 

La sua appassionata dolcezza era meravigliosa e toccava il cuore, e creò stupore e sgomento la figura di quell’uomo travestito da grosso uccello nero che sembrava piombasse dall’alto al centro della sala con grazia e naturalezza splendide. Le penne s’inarcarono, le ali si gonfiarono e si allargarono come vele che prendessero il vento. Come un falco che si lancia sulla preda con infallibile precisione e potenza, quella cosa dalle poderose ali piombò nello spazio vuoto dove la coppia ballava. Osservato da tutti egli fece il suo ingresso in scena, planando meravigliosamente, stendendo le ali come un’aquila, dopo aver scelto un punto dove atterrare, con consumata abilità, nei pressi della coppia che danzava. 

Accadde con tanta rapidità che i presenti ne furono quasi abbagliati, come con i lampi. La gente, a seconda del posto dove si trovava nella sala, videro particolari differenti; certuni non videro proprio un bel nulla, avendo chiuso gli occhi o essendosi coperti il volto con le mani. Ma tutti ebbero paura e la sala fu quasi in preda al panico. Quell’alcunché di straordinario e di incombente che i presenti avevano avvertito nell’atmosfera della sala per tutta la sera alla fine si era improvvisamente materializzato. 

Perché la cosa incredibile si verificò in piena luce e nello spazio aperto del pavimento. Binovitch, fattosi in un certo senso formidabile stese le sue grandi e nere ali sulla ragazza, trascinandola a sé, le ali fremevano provocando potenti colpi di vento con un suono frusciante. Aveva un aspetto terribile, come un’emanazione. La grande testa dal becco adunco era pronta a colpire, gli artigli erano sollevati e si aprivano e chiudevano come dita, e la sua figura magnifica e terribile suggeriva l’idea di un attacco imminente. Nessuno di coloro che la videro ne dubitò. Eppure vi fu chi sostenne che non era Binovitch ma che un altro profilo cupo, mostruoso e torreggiante s’era sovrapposto alla sua figura con due colossali ali di tenebra. Che in lui trasparisse qualcosa dell’antico dio era fuori di discussione come risultò poi dalle diverse testimonianze per quanto contrastanti su altri punti. Perché molti chinarono la testa e si fecero piccini, in preda al terrore e a un timore reverenziale come se un potere terribile fosse passato sopra le loro teste. 

Certamente nella sala si udiva un frullar d’ali che battevano. 

Poi qualcuno urlò; si levò un grido alto e chiaro, e l’emozione, la comune emozione umana non abituata a cose terrificanti, ruppe gli argini e trovò uno sbocco. Il Falco e Vera volavano e la ragazza era felice. Il Pierrot barcollava, sbattuto contro una parete da un colpo di vento. Li guardò mentre se ne andavano. Volarono fuori della sala illuminata, via dalla calca umana, dal caldo e dalla luce artificiali, da corridoi e sale simili a una gabbia. Tutto ciò si lasciarono alle spalle. Sembravano appartenere all’aria e al vento, fatti felicemente di un altro elemento. Non appartenevano più alla terra. Verso l’aperta notte volavano con la straordinaria leggerezza degli uccelli, via, lungo i corridoi fino al terrazzo sud dove tende colorate pendevano dalle colonne. Furono visibili ancora per un istante, quando una grande tenda sollevata dal vento lasciò intravedere il loro nero profilo contro il cielo stellato. Ci fu un grido, un sobbalzo. Poi la tenda fluttuò e si richiuse. Erano scomparsi. Nella sala da ballo soffiò per un istante un freddo colpo di vento del deserto. 

Ma tre figure s’erano lanciate all’istante al loro inseguimento, mentre la folla di persone in maschera ancora non si riaveva dallo sbalordimento; correvano come proiettili lungo il corridoio, l’Apache, Don Chisciotte e ultimo il Pierrot. Perché Khilkoff, il fratello di Vera, e il barone Minski, che catturava lupi vivi, già da qualche tempo stavano in guardia, mentre il dottor Plitzinger, riconosciuti i sintomi dell’ossessione del suo paziente, non lo aveva mai perso d’occhio. Toltosi la maschera, tutti riconobbero il grande psichiatra. Raggiunsero la balaustra proprio nell’istante in cui la tenda ricadeva tornando al suo posto; un attimo dopo erano scomparsi alla vista di tutti dietro la stessa tenda. Khilkoff fu il primo, comunque, spinto a correre a velocità frenetica dalle parole di messa in guardia che il medico gli aveva bisbigliato quando s’erano lanciati all’inseguimento di Binovitch e Vera. Una trentina di metri oltre il terrazzo c’era il bordo del dirupo franoso ove era stato costruito il grand hotel e al di là di questo un salto d’una ventina di metri fino al deserto sottostante. Soltanto un basso muretto di pietra ne delimitava il bordo. 

A questo punto le testimonianze sono discordi. Sembra comunque che Khilkoff arrivasse giusto in tempo ad afferrare la sorella virtualmente sospesa sul dirupo. Udì del terriccio franare sulla sabbia sottostante. Per qualche istante vi fu una violenta lotta, perché Vera si opponeva con tutte le sue forze alla presa del fratello. In un certo senso era al di là, fuori di se stessa. Quindi Khilkoff fece una cosa tipica di lui: perché non solo la riportò nella sala da ballo ma la costrinse a ballare. Fu ammirevole. Niente di meglio per calmare l’agitazione generale. 

E danzarono insieme come se niente fosse successo. Abituato al duro servizio nel suo reggimento di cosacchi, questo giovane ufficiale non aveva perduto la testa. E i presenti si limitarono a pensare che forse la ragazza aveva un aspetto un po’ stanco. Si ristabilì una certa qual fiducia e confidenza generale, tale è la psicologia della folla; e nel bel mezzo d’un valzer viennese la fece uscire lentamente dalla sala, le fece bere del brandy, e la mise a letto... Nel frattempo l’assenza del Falco fu appena notata; si fecero dei commenti presto dimenticati, perché la simpatia generale era concentrata su Vera. E una volta che la videro sana e salva quel momento di panico primitivo e infantile passò. Fu visto danzare anche Don Chisciotte come se non fosse accaduto nulla di particolare; poi andarono tutti a cena; l’incidente fu dimenticato, confuso con le follie del ballo in maschera. Nessuno notò che Pierrot non era più ricomparso dopo la precipitosa uscita di scena. 

Ma il dottor Plitzinger era ben diversamente occupato, tutte le sue facoltà essendo impegnate nell’esercizio del proprio lavoro. Un certificato di morte non sempre è quella cosa semplice che il pubblico ritiene. Che Binovitch fosse morto di soffocamento in seguito a una caduta d’una ventina di metri non era concepibile; e ancor più strano era il fatto che il suo corpo non giacesse scompostamente dopo una simile caduta. Non era schiacciato né deformato; non un solo osso era rotto né un muscolo stirato. Non c’erano segni sulla sabbia. 

La figura giaceva riversa su un fianco come se dormisse e non presentava alcun segno di violenza, le grandi ali scure erano ripiegate come quelle d’un uccello che muoia in solitudine. 

Sotto la maschera di Horus il volto era atteggiato a un sorriso, come se fosse scivolato nella morte nell’elemento che amava più d’ogni altro. 

E soltanto Vera aveva visto le enormi ali spiegate in modo invitante sul nero abisso, che lo portavano dolcemente in un altro mondo. Cioè, anche Plitzinger le aveva viste, ma sostenne fermamente che appartenevano ai grandi falchi neri che volteggiavano sulle alture di Mokattam e si appollaiavano per dormire la notte sui dirupi nei pressi dell’albergo. Ma sia lui che Vera concordarono su un punto: il richiamo alto e acuto, selvaggio e lamentoso che udirono nell’aria sopra di loro, era certamente il grido del nibbio nero, l’acuta nota del falco che cerca appassionatamente la sua compagna. E fu proprio il fatto che lei si fermasse ad ascoltarlo, quella pausa di un secondo, che aveva reso possibile la sua salvezza. Ancora un istante e anche Vera sarebbe volata nelle braccia della morte assieme a Binovitch.