56.
Lepido stava davanti al banco del pretore. Teneva un po’ piegato il capo, cercando di non dargli la piena visione del suo naso rincagnato, nel a cui unica narice pervia profumava il sentore di fiume che aveva annusato percorrendo la contrada.
Le prime due domande del Sacaraffia furono scontate.
Rispondeva al vero che lui aveva visto partire la barca e che gli sciagurati erano due?
A Lepido non restò che dire sì e poi sì e poi tacere.
«L’ora, all’incirca?»
«Quel a del ’immediato dopopranzo», rispose Lepido.
«Fu un caso che vi portò fin lì? Passeggiavate forse per favorire il chilo?»
Lepido tirò su col naso.
«Sì», ammise.
La Teresotta ebbe un sobbalzo di carne flaccida.
Voleva fare il furbo? Mentire per mentire ancora dopo, quando, parola di pretore, in coda all’audizione lei e le altre gli avrebbero presentato il conto?
E no! Il male va estirpato dall’inizio.
«Bugia!» sparò la Teresotta.
Il Sacaraffia volse lo sguardo su di lei.
«Bugia?» chiese.
Di chi, a proposito di che?
«Voglio sperare che abbiate buone ragioni per interrompere il mio interrogatorio», l’avvisò.
L’occhio esoftalmico del a Teresotta sembrò voler sfuggire definitivamente dalla sua orbita. La donna fu sul punto di chiedere scusa, ma dalla schiera del e comari si levò un miagolio di gatto: «Ben detto!».
Era la Cherchelina.
«E allora!» fece il pretore picchiando una manata. «Chi ha parlato? Si faccia avanti.»
La Cherchelina non vedeva l’ora. Piccola, scura, pelosa, con una col ezione di verruche coralline sul naso, si presentò. Non aveva paura di nessuno, accoppava i conigli con le mani e si diceva che mangiasse anche le bisce d’acqua che il marito pescatore le portava.
«Ben detto, cosa?» le chiese il pretore.
La Cherchelina scoccò un’occhiata alla Teresotta, che le rispose con un cenno del capo: parlasse lei.
«Ben detto», spiegò quindi quel a, «perché quel giorno il sarto non aveva un bel niente da digerire.»
«Da cui bugia», concluse la Teresotta, che voleva fare anche lei la sua parte.
«È vero?» chiese il Sacaraffia al sarto.
Lepido chinò il capo.
«Sì.»
«Non avevate fame?»
«Infatti», ammise Lepido.
«Niente di male, non è certo reato non aver appetito», spiegò il pretore alla Teresotta.
La quale, d’impeto, rispose.
«Non dubito, ma pure questa è un’altra bugia.»
«No!» insorse Lepido. «Non avevo davvero appetito.»
«Va bene», ribatté la Teresotta, «ma anche se ne aveste avuto non avreste certo potuto soddisfarlo.»
«Mangiava pane e odori come al solito!» si levò una voce femminile dalla fol a, forse la Strascia.
«Ebbene!» gridò il Sacaraffia. «Cos’è? La rivoluzione?»
«Spiegatevi», ordinò però a quel a che aveva parlato, proprio la Strascia.
La Strascia aveva le gambe storte, camminava come un’oca ma aveva una mira fenomenale e più di un ragazzo di corte o di contrada, dopo averla presa in giro, poteva testimoniare di quanto i suoi tiri di pentolini colpissero il suo bersaglio preferito: l’occipite. Spiegò che era un modo di dire, quando nel piatto non c’era niente e non restava altro da fare che intingere il pane negli odori altrui: cosa che al sarto capitava spesso.
«Spesso?» indagò il pretore.
«A ogni litigio con la moglie», precisò la Strascia.
«E litigaste anche quel giorno?» chiese il Sacaraffia al sarto.
«Litigarono eccome», esplose tra la fol a la Bracicca.
«Per le mie braghe!» insorse la magnana.
Ii h, queste braghe!
«Va bene, ho detto dopo!» sentenziò il Sacaraffia.
Quindi, grazie al litigio, aveva avuto l’opportunità di vedere i due partire verso la triste sorte, continuò, tornando a parlare col sarto.
«Sì», ammise Lepido.
E aggiunse che aveva tentato di avvisarli.
«Ah sì?» fece il pretore.
Aveva testimoni che potessero confermare il fatto?
«Ero da solo.»
«Peccato!» esplose il Sacaraffia.
«Però…»
Però, subito dopo, aveva anche tentato di informare il Baldi, recandosi all’Osteria del Crachen…
«Lì l’ho trovato!» suggerì la magnana.
«Zitta un po’!» impose il Sacaraffia.
Poi, a bassa voce: «Riusciste a informarlo?».
Lepido non rispose.
Un silenzio improvviso calò sul ’aula.
«Riusciste?» insisté il pretore.
Lepido stentava a rispondere. Il Sacaraffia, paziente, diede un’occhiata all’aula dove gli parve di vedere solo bocche senza denti, orecchie porcine, nasi bitorzoluti o congesti o tumefatti, crani sformati, occhi vacui, a macero nel ’ignoranza: certo un’il usione del a vista dettata dal disprezzo che covava verso quel popolo. Svanì, tale visione, quando un rumore interruppe il silenzio: un fruscio di scosà, un cip ciap di ciabatte. Era la Diomira che abbandonava l’aula. Sgusciando con qualche spinta tra gli insensibili paesani, si trovò fuori nel caldo ancora feroce quando suo marito il sarto emise la flebile risposta alla domanda del pretore.
«No.»
Con gesto da papa il Sacaraffia congiunse le mani e chiuse gli occhi: aveva sottomano e finalmente un colpevole perfetto. Un ignavo, tanto nel suo lavoro quanto nel resto del a vita. Che, per ignavia, aveva omesso di chiamare aiuti quando quei due erano partiti, e pur sapendo del rischio che stavano per correre.
Lui solo, testimone unico e unico colpevole. Altro che il Gorgia!
Immaginò quel o che avrebbe scritto nel a sentenza a proposito del crimine insito in omissioni di tal tipo: li aveva lasciati andare contro una triste sorte, sapeva del rischio e non aveva fatto niente, lasciandoli in balia del lago e del vento. E aveva addirittura messo in cattiva luce e in ambasce altri: il Baldi, per esempio, e il Gorgia.
Ormai tutto era chiaro.
Una sentenza che avrebbe fatto epoca!
«Silenzio!» ordinò il pretore anche se nessuno parlava.