11.
Tra le comari del a corte toccò alla Berscia intuire che quel a sarebbe stata una giornata memorabile.
Chiamata così perché esibiva una mol ezza grassa e umida che rievocava le lumache senza guscio, la donna aveva una figlia tale e quale a lei detta Berscèta, che la seguiva passo passo lasciando, a detta dei cisposi maschietti del a corte, una striscia di bava dietro di sé. Aveva un marito fabbro ferraio cui la limatura di ferro aveva impregnato la pel e del viso al punto da colorargliela di un grigio stinto: chiedere alla Berscèta se fosse vero che suo padre cagava chiodi era uno dei passatempi preferiti dei più arditi tra i suoi coetanei.
La Cherchelina stava proprio di fronte a lei. Si trastul ava tirandosi l’unico dente, un incisivo, che le era rimasto in bocca. Vedendo che Berscia e Berscèta s’erano appiccicate alla finestra, diede un’occhiata verso il basso e poi fece partire l’allarme, un calcio con il tacco alla parete del a cucina. Ne venne via l’ennesimo pezzo di stucco e la Venegonda, dall’altra parte, si tirò su dal letto: a sua volta, con un pitale incrostato, diede una botta alla parete. La Bracicca, l’Orrida e la Testina comparvero come tre scimmie alle finestre, la Testina con ancora in mano il manico di scopa con cui aveva appena avvisato, picchiandolo sul soffitto, la Teresotta, che stava sopra di lei: segnale grazie al quale la Volpassa, la Gambetta, la Strascia e la ex balia Nutrimento poterono a loro volta mettersi di vedetta: in totale, dodici paia d’orecchie tese, dodici coppie di occhi lustri di godimento.
Da vedere c’era che la Diomira stava lì, impalata sul a soglia del a bottega. E ci sarebbe stato da sentire.
Aveva aperto lei il locale, per amore di puntualità, ma bol iva. Braccia conserte, i capel i già in aria per le avvisaglie del favonio che stava cominciando a pettinare il paesaggio, aveva in fronte tante rughe quanti i minuti di ritardo del marito. Quando lo vide comparire inseguito dalla magnana, la fronte si spianò, pessimo segno, e una volta che l’uomo le fu a tiro per prima cosa lo annusò. A quel rumore di risucchio, Lepido rispose con uno sguardo tiepido: sapeva quel o che stava pensando sua moglie, ma aveva una spiegazione seria, onesta.
«Cos’è ’sto odore?» lo interrogò la Diomira.
Non c’era bisogno di chiedere, conosceva anche lei gli effluvi dei mangiari, ma aveva fatto una domanda e voleva una risposta.
«Guazzetto del Crachen», la informò la magnana.
Lo sguardo del a Diomira si posò un solo istante sul a bisunta: la domanda l’aveva fatta a suo marito.
«Cos’è?» ripeté come se non l’avesse sentita, come se non la vedesse, come se non l’avesse mai vista.
Lepido scoccò uno sguardo al cielo. Ormai nuvole dalle forme più varie vi correvano veloci.
«Posso spiegare», disse.
«Lo spero bene», macinò la Diomira.
In quel momento il favonio scaricò la pancia e partì all’attacco. Scavalcate le cime del e Prealpi si abbatté con la sua furia calda sul a breva, d’un subito sconfitta, sui tetti, sugli alberi, sul e rive. E sul e tre vele latine del a barca che aveva percorso sì e no cinque-seicento metri e che venne quasi sol evata e poi scaraventata in acqua.