Epilogo: il Fotografo
«Questo paese pullula di suicidi»: ecco una frase oscura e inappellabile che mia madre ripeteva spesso e che per molto tempo mi portai dentro, credendola vera – cioè, credendo che a Jubilee la gente si suicidasse molto di piú che altrove, un po’ come a Porterfield c’erano piú ubriaconi e piú risse, credendo, insomma, che i suicidi caratterizzassero il luogo non meno della cupola del municipio. In seguito il mio atteggiamento riguardo a tutto ciò che mia madre diceva divenne scettico e sprezzante e mi ritrovai a sostenere che in realtà i suicidi a Jubilee erano pochissimi, e che comunque non potevano di sicuro superare numericamente la media statistica; alla fine sfidavo mia madre a fare dei nomi. E lei allora percorreva mentalmente ogni singola via del paese, dicendo: «tizio si è impiccato, mentre la moglie e i figli erano in chiesa, caio è uscito dalla stanza dopo colazione e si è sparato un colpo in testa…» ma di fatto non ce n’erano tanti; è probabile che fossi piú vicina io alla verità che non lei.
C’erano stati due suicidi per annegamento, contando Miss Farris, la mia ex insegnante. L’altra era Marion Sherriff, sulla cui famiglia mia madre, e altri come lei, indugiava, parlando, con una punta di orgoglio: «Quella sí è gente che ha avuto la sua dose di tragedie!» Un fratello era morto alcolizzato, un altro era ricoverato in manicomio a Tupperton, e Marion invece era scesa nel fiume, nel Wawanash. Dicevano tutti cosí, che era scesa nel fiume, mentre nel caso di Miss Farris dicevano che ci si era buttata. Dal momento che nessuno le aveva colte sul fatto, le espressioni diverse dovevano per forza dipendere dalla differenza tra le due donne, essendo Miss Farris impulsiva e teatrale in tutto quel che faceva, e Marion Sherriff al contrario riflessiva e pacata.
O perlomeno questa era l’impressione che dava a vederla nella foto appesa nell’atrio del liceo, sopra la teca che conteneva il Trofeo di atletica femminile Marion A. Sherriff, una coppa d’argento consegnata ogni anno alla migliore atleta della scuola e poi ritirata non senza avere inciso sul metallo il nome dell’ultima vincitrice. Nella foto Marion Sherriff teneva in mano una racchetta da tennis e indossava una gonnellina a pieghe e un maglioncino bianco con due righe scure intorno allo scollo a V. Con i capelli spartiti in mezzo e poco lusinghieramente tirati sulle tempie da due forcine, la ragazza appariva tracagnotta e imbronciata.
– Incinta, ovviamente, – era solita commentare Fern Dogherty, come del resto Naomi, e tutti gli altri, tranne mia madre.
– Non è mai stato appurato. Che bisogno c’è di rovinarle la reputazione?
– Qualcuno l’avrà messa nei guai per poi sparire, – affermava sicura Fern. – Altrimenti perché annegarsi, a diciassette anni?
Venne il momento in cui tutti i libri della biblioteca civica messi insieme non bastarono piú, volevo i miei. Mi ero resa conto che l’unica cosa che potevo fare della vita era scrivere un romanzo. Elessi gli Sherriff come materiale; le cose che erano successe a quella famiglia ne isolavano i membri in modo formidabile, destinandoli naturalmente alla narrativa. Cambiai il cognome, che da Sherriff diventò Halloway, e il mestiere del padre morto, da negoziante a magistrato. Dalle letture al mio attivo sapevo che nelle famiglie di giudici, come dei grandi proprietari terrieri, depravazione e follia allignavano inesorabilmente. La madre potevo tenerla cosí com’era, come mi capitava di vederla nel periodo in cui mi ero messa a frequentare la Chiesa anglicana, perché era sempre là, scarna e superba, a strombazzare le sue suppliche altisonanti. Li spostai da casa loro, però, trasferendoli dalla villetta tinteggiata color senape alle spalle dell’«Herald-Advance» dove avevano sempre abitato e dove tuttora Mrs Sherriff teneva il prato tosato e le aiuole pulite, in una casa di mia invenzione, un edificio in mattoni dalle finestre lunghe e strette, un ingresso carraio e un’abbondanza di arbusti tutto attorno, perversamente potati in forma di gallo, di cane, di volpe.
Nessuno sapeva di quel romanzo. Non sentivo il bisogno di parlarne. Ne produssi alcuni passaggi e li ritirai, ma ben presto capii come fosse un errore cercare di scrivere; ciò che bloccavo in forma scritta poteva alterare la bellezza e l’integrità del romanzo che avevo in mente.
Lo portavo – ne portavo l’idea – ovunque insieme a me, come uno di quegli scrigni magici di cui l’eroe di una fiaba talvolta entra in possesso: bastava toccarlo e ogni pena spariva. L’avevo con me quando con Jerry Storey camminavo lungo le traversine della ferrovia e lui mi disse che un giorno, se il mondo non fosse finito prima, si sarebbe riusciti a stimolare i neonati elettricamente rendendoli capaci di comporre musica in stile verdiano, o beethoveniano, a seconda dei gusti. Mi spiegò che ciascuno si sarebbe potuto far installare intelligenza, talento, predilezioni e desideri a piacere, purché in proporzioni ragionevoli; perché no?
– Come nel Mondo nuovo di Huxley? – gli chiesi, ma non sapeva cos’era.
Glielo dissi, e lui candidamente rispose: – Non saprei, non leggo romanzi.
Io mi aggrappai all’idea del romanzo, e mi sentii meglio; sembrava rendere irrilevante quel che Jerry diceva, anche se fosse stato vero. Si mise a cantare lagne sentimentali con accento tedesco provando a marciare sulle rotaie col passo dell’oca, e cadendo di lato come avevo previsto.
«Believe me if all those eendearrring young charms –»
Nel romanzo avevo eliminato il fratello maggiore, l’alcolizzato; tre destini tragici erano troppi per un libro solo, e di sicuro piú di quanto potessi personalmente gestire. Il minore lo dipingevo mite e amorevole, circonfuso di un candore irritante; incarnato roseo e lentigginoso, corporatura di una pinguedine inerme. Vittima di prepotenza a scuola, negato per l’aritmetica come per la geografia, provava un po’ di gioia una volta l’anno quando, sorridendo beato, si godeva il privilegio di non scendere mai dalla giostra alla fiera del paese. (L’idea l’avevo avuta da Frankie Hall, naturalmente, l’idiota grande e grosso che abitava giú a Flats Road e che ormai era morto; lo lasciavano salire gratis sulla giostra tutto il giorno e lui salutava con sovrano distacco gente che manco dava segno di riconoscere per tutto il resto del tempo). I maschi lo prendevano in giro per sua sorella, per… Caroline! Di nome faceva Caroline. Mi si presentò nella mente già fatta e finita, provocante e piena di segreti, in grado di offuscare d’un colpo Marion, la tennista burrosa. Cos’era, una strega? Una ninfomane? Niente di tanto semplice!
Scatenata e leggera come una foglia, scivolava lungo le strade di Jubilee come se cercasse di infilarsi di taglio nelle crepe di un muro invisibile. Aveva lunghi capelli neri. Elargiva le proprie grazie a capriccio, non ai bei giovanotti che pensavano di averne diritto, né agli accigliati eroi del liceo pieni di passione che portavano scritta in faccia l’abitudine alla conquista, ma a stanchi mariti di mezza età, piazzisti sconfitti di passaggio in paese, e perfino, di quando in quando, a storpi e dementi non pericolosi. Ma tanta generosità si prendeva gioco di loro, le sue carni dolciamare, candide come mandorle sbucciate, consumavano gli uomini in pochissimo tempo, lasciando in bocca il sapore della morte. Si offriva come un sacrificio, pronta a concedersi su scomode lapidi muschiose, contro la corteccia pungente degli alberi, il corpo fragile accucciato nel fango tra lo sterco di gallina nei cortili, a sostenere il peso mortale degli uomini, anche se a sopravvivere era piú lei di loro.
Un giorno andò a scuola un tale a fare delle fotografie. La prima volta lo vide semicoperto sotto il panno nero da fotografo, una sagoma grigio scura di tela sdrucita, dietro un tripode, il grande occhio, la fisarmonica nera pieghettata del vetusto apparecchio. E quando sbucò, com’era? Capelli neri con la riga in mezzo e pettinati all’indietro in due ali ripiegate, forfora, spalle e torace strettissimi, incarnato pallido, pelle squamosa – e nonostante l’aria malandata e poco sana, un’onda di energia maliziosa, un sorriso vivido, spietato.
Nel libro non aveva nome. Era chiamato sempre e solo Il Fotografo. Girava per la zona a bordo di un’automobile alta e squadrata dalla capote di tela nera svolazzante. Le foto che scattava risultavano insolite, per non dire allarmanti. In quelle immagini la gente si vedeva invecchiata di venti o trent’anni. Soggetti di mezza età intuivano nei propri lineamenti la tremenda, ineluttabile e crescente somiglianza con i genitori morti; giovani donne fresche e giovanotti tradivano l’espressione smunta, opaca o idiota che le loro facce avrebbero assunto a cinquant’anni. Le spose parevano incinte, i bambini adenoidei. Perciò non era amato, come fotografo, nonostante i prezzi bassi. E tuttavia nessuno osava lasciarlo senza lavoro; lo temevano tutti. I bambini si gettavano nei fossi all’arrivo della sua auto sulla strada. Caroline in compenso gli correva dietro, batteva a piedi le strade assolate in cerca di lui, lo aspettava, lo intercettava e gli si offriva senza la tenerezza sprezzante e la disponibilità distaccata che mostrava agli altri uomini, bensí con slancio appassionato, lacrime e implorazioni. E un giorno (quando già si sentiva il ventre gonfio come se avesse una zucca gialla e dura dentro la pancia), trovò la sua macchina rovesciata nei pressi di un ponte, in un fossato che correva accanto all’alveo di un torrentello in secca. Vuota. Lui era sparito. Quella notte, Caroline scese nel fiume Wawanash.
Fine. A parte il fatto che, dopo la sua morte, il povero fratello, osservando la foto di classe scattata dal Fotografo, si accorse che in quella foto Caroline aveva gli occhi bianchi.
Per il momento nemmeno io avevo elaborato le conseguenze implicite in questo fenomeno, ma sentivo che erano molteplici e potenti.
Nel romanzo avevo cambiato anche Jubilee, o meglio, ne avevo usato alcuni tratti e trascurati altri. Diventò un paese piú vecchio, tetro e decadente, pieno di tabelloni non dipinti coperti con manifesti a brandelli che annunciavano circhi equestri, fiere stagionali, elezioni fatte e disfatte da un pezzo. Gli abitanti erano a scelta magri magri, come Caroline, oppure grassi come palle. I loro discorsi andavano dall’arguta ambiguità all’assoluta insulsaggine; nella loro banalità ribolliva un che di folle. Si era sempre al colmo dell’estate: caldo atroce, cani riversi sui marciapiedi come morti, ondate d’aria tremolante, quasi gelatinosa, sui nastri delle statali deserte. Ma allora come spiegare – perché di quando in quando il tormento implacabile della plausibilità veniva di fatto a impensierirmi –, come spiegare la presenza di acque sufficienti nel Wawanash? Anziché incedere pacata a testa bassa, nuda sotto la luna, dentro le profondità del fiume, Caroline si sarebbe dovuta coricare a faccia in giú come chi si annega nella vasca da bagno.
Erano immagini, e basta. I motivi per cui le cose succedevano mi pareva di conoscerli vagamente senza però saperli spiegare; ero convinta che si sarebbero chiariti in seguito. L’essenziale era che a me sembrava tutto vero, non reale ma vero, come se non avessi inventato bensí scoperto quelle persone e quella storia, come se quel paese si trovasse giusto alle spalle di quello che attraversavo vivendo tutti i giorni.
Non badai molto alla famiglia Sherriff della realtà, una volta che l’ebbi trasformata a scopo narrativo. Bobby Sherriff, il ragazzo che era stato ricoverato in manicomio, tornò a casa per un po’ – a quanto pare era già successo in passato – e lo si incontrava a spasso per Jubilee a chiacchierare con la gente. Mi ero trovata abbastanza vicina da poter sentire la sua voce sommessa, rispettosa, gradevole, avevo notato che dava sempre l’impressione di essersi appena sbarbato e cosparso di talco, che indossava abiti di buona qualità, che era basso, robusto e camminava con la disinvoltura ostentata di chi non ha niente da fare. A stento lo si riconduceva mentalmente al mio forsennato fratello Halloway.
Di ritorno dalle nostre passeggiate, Jerry Storey e io avevamo modo di vedere bene Jubilee, ora che gli alberi erano senza foglie; si dispiegava dinanzi a noi un reticolo poco complesso di strade che portavano nomi di battaglie e dame, e sovrani e pionieri. Una volta, mentre attraversavamo il cavalcavia, passò strombazzando un’auto carica di ragazzi della nostra scuola, e io ebbi la percezione, come dall’esterno, di quanto fosse assurdo tutto quanto: Jerry entusiasticamente concentrato su un futuro che avrebbe annientato Jubilee e ogni sua forma di vita, e io a mia volta decisa a trasformarla segretamente in una favola nera, a impacchettare dentro il mio romanzo il paese, mentre le persone che di quel paese costituivano l’essenza vera sfrecciavano in auto strombazzando – per deridere chiunque andasse a piedi e non in macchina, la domenica pomeriggio – senza avere la minima idea del pericolo a cui si esponevano, con noi.
Ogni mattina, a partire piú o meno dalla metà di luglio, l’ultima estate che trascorsi a Jubilee, scendevo in centro a piedi tra le nove e le dieci. Arrivavo fino alla sede dell’«Herald-Advance», sbirciavo dentro la vetrina e tornavo a casa. Aspettavo gli esiti degli esami scritti che avevo sostenuto a giugno. Avremmo ricevuto i risultati per posta, ma in redazione li avevano sempre un paio di giorni prima, e li affiggevano sui vetri. Se non erano nella posta del mattino, per quel giorno non arrivavano piú. E ogni volta che non vedevo fogli di carta incollati al vetro, ma solo la patata a forma di piccione che Pork Childs aveva trovato nel suo orto, e che ora se ne stava in mostra sul davanzale in attesa della zucchina doppia e della carota deforme e della zucca gigante che prima o poi l’avrebbero raggiunta di sicuro, io mi sentivo graziata. Un giorno in piú di serenità. Sapevo di aver fatto male, in quegli esami. A sabotarmi era stato l’amore, e ora risultava scarsa la probabilità che ottenessi la borsa di studio sulla quale per anni io e tutti gli altri avevamo fatto conto, per portarmi lontano da Jubilee.
Una mattina, dopo la solita visita all’«Herald-Advance», passai davanti a casa degli Sherriff anziché tornare dalla via maestra come facevo sempre, e Bobby Sherriff, che stava accanto al cancello, mi sorprese dicendomi: – Buongiorno.
– Buongiorno.
– Posso sperare di convincerti a entrare ad assaggiare una fetta di torta? Disse il ragno alla mosca, giusto? – Le sue buone maniere erano umili e, a me sembrò, anche ironiche. – Mia madre ha preso il treno delle sei per Toronto e io mi sono detto beh, visto che sei in piedi, tanto vale che provi a fare una torta, no?
Teneva il cancello aperto. Non seppi come uscirne. Lo seguii sui gradini del portico.
– Si sta bene qui al fresco. Siediti. Ti va un bicchiere di limonata? Sono un esperto in fatto di limonata.
E cosí sedetti nel portico di casa Sherriff sperando soprattutto che nessun eventuale passante mi vedesse, e Bobby Sherriff mi portò un pezzo di torta su un piattino con tanto di forchetta da dolce e tovagliolo ricamato. Poi rientrò e mi portò un bicchiere di limonata con cubetti di ghiaccio, foglie di menta e una ciliegia al maraschino. Si scusò di non avermi servito torta e bevande insieme, su un vassoio; mi spiegò che i vassoi stavano nella credenza, sotto una gran pila di piatti, e che perciò era complicato arrivarci e che lui preferiva, disse, stare lí con me che in ginocchio a rovistare dentro una vecchia credenza buia. Poi si scusò per la torta, dicendo di non essere un maestro pasticciere, ma che gli piaceva provare una ricetta ogni tanto, e sapeva che non avrebbe dovuto offrirmi un dolce senza glassa, ma che non aveva mai imparato l’arte della glassa, che si affidava a sua madre, per quello, e cosí non aveva di meglio. Disse che sperava gradissi le foglie di menta nella limonata – come se di solito la gente facesse un mucchio di storie riguardo alle foglie di menta nella limonata e non si potesse mai sapere se si sarebbe messa in testa di tirarle fuori a una a una. Si comportava come se stare seduta lí a mangiare e bere fosse da parte mia un gesto di squisita cortesia, una benevolenza inattesa.
C’era una striscia di tappeto sulle assi del portico, assi larghe, dipinte di grigio e con ampie fessure tra l’una e l’altra. Sembrava una vecchia guida da ingresso, troppo malconcia per tenerla in casa. C’erano le due sedie di vimini non verniciate con cuscini bitorzoluti di cretonne sbiadito sulle quali sedevamo, e un tavolo in vimini rotondo. Sul tavolo una specie di boccale di ceramica, o un vaso, senza fiori, ma decorato con una minuscola Red Ensign, e una Union Jack. Uno di quei souvenir messi in vendita per la visita del re e della regina nel 1939; ecco i loro giovanili volti regali che dispensavano una luce benevola, come dinanzi alla classe della terza media, nella scuola pubblica. Un oggetto simile sul tavolo non significava necessariamente che gli Sherriff fossero dei patrioti sfegatati. Erano souvenir presenti in moltissime case, a Jubilee. Ecco, fu questo. La normalità delle cose mi fece trasalire e ricordare. Era questa, casa Sherriff. Dalla zanzariera vedevo uno spicchio di ingresso, con la tappezzeria rosa e marrone. Quella era la porta dalla quale usciva Marion. Per andare a scuola. A giocare a tennis. Per scendere nel fiume Wawanash. Marion era Caroline. Era tutto ciò che avevo avuto, per cominciare: il suo gesto e il suo mistero. Non mi era nemmeno passato per la testa mentre entravo nel cortile degli Sherriff, né mentre aspettavo nel portico che Bobby mi portasse la torta. Non avevo pensato al mio romanzo. Non ci pensavo quasi piú ormai. Non mi ero mai esplicitamente detta che l’avevo perduto, perché credevo di averlo messo via in un posto sicuro dal quale l’avrei tirato fuori prima o poi, in un domani. La verità era che aveva subíto un danno che sapevo essere irreparabile. Il danno ormai era fatto; Caroline e con lei gli altri Halloway e tutto il loro paese avevano perso potere; io avevo perso fiducia. Ma non ci volevo pensare, e cosí non ci pensai.
Mi sorprese tuttavia il ricordo di come avessi proceduto, dell’intera struttura misteriosa, e a quel punto evidentemente non affidabile, che avevo ricavato da quella casa, dagli Sherriff, da pochi miseri fatti e da ogni cosa non raccontata.
– Io ti conosco, – disse timido Bobby Sherriff. – Non immaginavi che io sapessi chi sei? Sei la ragazza che andrà all’università con la borsa di studio.
– Non l’ho ancora ottenuta.
– Ma tu sei intelligente.
E cosa era successo, mi domandai, a Marion? Non a Caroline. Che cosa era successo a Marion? Che cosa era successo a Bobby Sherriff quando aveva dovuto smettere di fare torte per entrare in manicomio? Sono domande che restano, nonostante i romanzi. Quando uno ha manipolato con tanto formidabile ingegno la realtà, è un vero shock ritornarci e trovarla ancora dov’era. Chissà, forse Bobby Sherriff mi avrebbe offerto un indizio, un chiarimento sulla sua follia. Forse, con quella sua voce garbata e salottiera, avrebbe detto: «Mio padre era Napoleone». O magari poteva sputare in mezzo alle assi del portico e dire: «Voglio far piovere sul deserto del Gobi». Chissà se era quello il tipo di cose che faceva.
– Lo sai che anch’io sono stato al college? Università di Toronto. Il Trinity College. Oh, già.
– Senza vincere borse di studio, – proseguí un attimo dopo, come se gliel’avessi chiesto. – Ero uno studente mediocre. Mia madre pensava che potessero fare di me un avvocato. Era un sacrificio farmi studiare. C’era la Depressione, sai, nessuno aveva un centesimo ai tempi della Depressione. Adesso sembra di sí, invece. Altro che. Da dopo la guerra. Son tutti a comprare. Hai presente Fergus Colby, giú alla Colby Motors? Mi ha fatto vedere l’elenco delle persone che si sono messe in lista d’attesa per comprarsi una nuova Oldsmobile, o una Chevrolet.
Quando sarai al college, fa’ attenzione a quello che mangi. È importantissimo. La gente al college tende a ingozzarsi di carboidrati, perché saziano e costano poco. Conoscevo una ragazza che si faceva da mangiare in stanza, viveva di pane e di pasta. Pasta e pane! Io sono convinto che il mio esaurimento lo devo a come mangiavo. Roba senza un briciolo di nutrimento per il cervello. Se vuoi usare il cervello devi nutrirlo. Al cervello fanno bene le vitamine del gruppo B. Vitamina B1, B2, B12. Ne avrai sentito parlare, no? Si trovano nel riso integrale, nella farina non raffinata… ma ti sto annoiando, per caso?
– No, – dissi sentendomi in colpa. – No, no.
– Scusami, sai. Mi lascio trasportare dall’argomento, lo so. Perché penso che tutti i miei guai… tutti i guai che ho avuto sin da quando ero giovane… sono collegati al fattore malnutrizione. All’aver studiato tanto senza nutrire il cervello. Certo, non che avessi chissà quale cervello in partenza, mai detto il contrario.
Continuavo a fissarlo intensamente per evitare che mi chiedesse di nuovo se mi annoiava. Indossava una polo gialla, morbida, ben stirata, aperta sul collo. Era di carnagione rosea. In effetti poteva assomigliare, remotamente, al fratello di Caroline nel quale lo avevo trasformato. Sentivo l’odore di quella sua lozione da barba. Che strano, pensare che si radesse, che avesse la barba come gli altri uomini, e un pene nei pantaloni. Lo immaginai, rattrappito, umido, molle. Mi sorrise con dolcezza, parlando in modo ragionevole; chissà se poteva leggermi nel pensiero… Nella pazzia doveva esserci di sicuro un segreto, un dono particolare, qualcosa che non sapevo.
Bobby mi raccontava come perfino i topi si rifiutino di mangiare la farina per via degli sbiancanti chimici che contiene. Annuivo, e dietro la sua testa intanto vidi Mr Fouks uscire dal retro della redazione dell’«Herald-Advance», svuotare un cestino in un inceneritore e trascinarsi di nuovo dentro l’edificio. Quel muro posteriore era senza finestre; qualche macchia, qualche mattone sbreccato, una lunga crepa diagonale che partiva da poco meno di metà altezza e finiva nell’angolo in fondo, accanto all’emporio Chainway.
Alle dieci in punto le banche di fronte avrebbero aperto, la Canadian Bank of Commerce e la Dominion Bank. Alle dodici e trenta l’autobus che da Owen Sound scendeva a London avrebbe attraversato il paese. Se qualcuno voleva salirci, da Haines’ si esponeva una bandiera.
Bobby Sherriff parlava di topi e farina bianca. La fotografia della faccia di sua sorella era appesa nell’atrio del liceo, accanto alla fontanella di acqua potabile col suo incessante gorgoglio. La sua faccia era chiusa, ostinata, gli occhi bassi ormai carichi d’ombra. Le vite delle persone, a Jubilee come altrove, erano monotone, semplici, sorprendenti e insondabili… caverne profonde dai pavimenti in linoleum.
Non mi passò per la mente, allora, che un giorno sarei diventata avida di Jubilee. Vorace e sprovveduta non meno dello zio Craig, quando redigeva la sua storia alla Jenkin’s Bend, avrei voluto mettere anch’io per iscritto le cose.
Provai a compilare elenchi. Uno di tutti i negozi e le ditte lungo i due lati della via maestra, con i rispettivi titolari; un elenco delle famiglie, i nomi sulle lapidi del cimitero con tutte le frasi incise sulla pietra. Un elenco dei titoli dei film in cartellone al Lyceum Theatre grossomodo dal 1938 al ’50. I nomi scritti sul cenotafio (piú numerosi per la prima che per la seconda guerra mondiale). I nomi delle vie e la posizione in cui si trovavano.
L’ambizione di accuratezza di cui investiamo simili imprese è folle e struggente.
E poi nessun elenco poteva contenere quel che volevo, perché quel che volevo era ogni singola cosa, ogni strato di conversazione e pensiero, pennellata di luce su una corteccia d’albero come su un muro, ogni odore, ogni buca, dolore, fessura, illusione, tenuti immobili, insieme: in un’inestinguibile radiosità.
Al momento non lo guardavo molto, il paese.
Bobby Sherriff mi parlava in tono malinconico, mentre mi liberava di forchetta, tovagliolo e piattino vuoto.
– Sinceramente, – disse, – ti auguro buona fortuna nella vita.
E a quel punto fece l’unica cosa speciale che avrebbe mai fatto per me. Con le mani ancora ingombre di tutto, si alzò in punta di piedi come una ballerina, diciamo una ballerina grassoccia. Quel gesto, accompagnato da un sorriso lieve, sembrò uno scherzo non tanto da condividere con me quanto da recitare a mio beneficio, e sembrò anche contenere un significato essenziale, sintetico… come una lettera, o un’intera parola scritta in un alfabeto a me ignoto.
Gli auguri degli altri, come qualsiasi offerta spontanea, erano ciò che al tempo accoglievo con una disinvoltura anche un tantino distratta, come se non fossero mai nulla di piú di quanto mi era dovuto.
– Sí, – dissi. Non, grazie.