Cambiamenti e cerimoniali

L’odio dei maschi era una minaccia acuminata e lucente, era un prodigioso diritto di nascita, come la spada di Artú sfilata dalla roccia nell’antologia di seconda media. L’odio delle femmine, al confronto, sembrava lacrimevole e confuso, stizzosamente difensivo. I maschi ti travolgevano con le biciclette e fendevano l’aria dove eri passata, grandiosamente, senza alcun rimorso, come se desiderassero lame di coltello montate sulle ruote. E ti dicevano di tutto.

Ti sussurravano: «Ma ciao troooie».

Ti dicevano: «Ehi, tu dove ce l’hai il buco per scopare?» in tono di raggiante ribrezzo.

Le cose che ti dicevano ti sottraevano la libertà di essere quello che volevi, riducendoti a quello che vedevano di te, e questo, chiaramente, bastava a scatenare le loro facezie. La mia amica Naomi e io ci dicevamo: «Fa’ finta che non hai sentito», perché eravamo troppo orgogliose per attraversare la strada ed evitarli. Certe volte ribattevamo urlando: «Ma andate a lavarvi la bocca nella stalla, cosí non sprecate acqua pulita almeno!»

Dopo la scuola Naomi e io non avevamo mai voglia di tornare a casa. Guardavamo le locandine dei film al Lyceum Theatre e le spose nella vetrina del fotografo, e poi entravamo in biblioteca, che era una sala dentro il municipio. Sulle finestre da un lato della porta centrale c’erano delle lettere che dicevano TO LET E PER IGNORE. E sul lato opposto ALA DI LET URA. Le lettere mancanti non furono mai rimesse a posto. Avevamo tutti imparato a leggere le parole anche senza.

Accanto alla porta c’era una corda; pendeva dalla campana sotto la cupola, e il cartello ingiallito sistemato a fianco diceva: L’USO IMPROPRIO COMPORTA UNA SANZIONE DI $100. Le mogli degli agricoltori sedevano alle finestre della toilette per signore, pronte con foulard in testa e galosce ai piedi, in attesa che i mariti le passassero a prendere. C’era di rado qualcuno in biblioteca, a parte la bibliotecaria, Bella Phippen, sorda come una campana e zoppa per la polio. Il Consiglio comunale la teneva come bibliotecaria perché un lavoro vero non l’avrebbe mai trovato. Se ne stava perlopiú confinata in una specie di nido che si era allestita dietro il banco, con cuscini, plaid all’uncinetto, scatole di biscotti, un fornellino, una teiera, gomitoli di nastri colorati. Aveva l’hobby dei puntaspilli. Li faceva tutti uguali: una bambolina Kewpie abbigliata con quei nastri a formare una gonna a crinolina sul puntaspilli vero e proprio. Ne regalava uno a tutte le ragazze di Jubilee che si sposavano.

Una volta le chiesi dove potevo trovare qualcosa e lei emerse da dietro il banco e arrancò zoppicando lungo gli scaffali per tornare con il mio libro. Me lo consegnò dicendo con la voce mesta e stentorea dei sordi: – Questo è proprio bello.

Era La rivincita di Barbara Worth.

La biblioteca era piena di libri del genere. Libri vecchi, con la copertina azzurro cupo, verde e marrone leggermente floscia, leggermente lasca. Spesso avevano in frontespizio l’acquerello di una diafana signora in costume stile Gainsborough e, sotto, una citazione, tipo: Lady Dorothy cercò riparo nella solitudine del roseto, per meglio riflettere sulla portata di quel misterioso annunzio. (p. 112)

Jeffery Farnol. Marie Corelli. Il principe della casa di Davide. Malinconici, vecchi, logori amici. Un tempo li leggevo, ora non piú. C’erano invece altri libri di cui conoscevo benissimo il dorso, la curva di ogni lettera del titolo, ma che non avevo mai toccato, mai avuto tra le mani. Quarant’anni di un prete di campagna. Il reggimento della regina in pace e in guerra. Erano come persone che si incontravano ogni giorno per strada, un anno dopo l’altro, ma che si conoscono solo di vista; poteva capitare perfino a Jubilee.

Mi sentivo felice, in biblioteca. Intere pareti di pagine stampate, testimonianza di innumerevoli mondi di invenzione: era un lusso per me. Per Naomi, il contrario: tutti quei libri le pesavano addosso, la facevano sentire oppressa e diffidente. In passato aveva letto – gialli per signorine – ma poi era diventata troppo grande per quel passatempo. Il che era normale, a Jubilee: leggere era considerato come masticare gomma, un vizio da perdere appena la serietà e le gratificazioni della vita adulta prendevano il sopravvento. Resisteva soprattutto fra le donne non sposate, e per un uomo sarebbe stato disdicevole.

Cosí, per tenere tranquilla Naomi mentre io mi guardavo intorno, le cercavo qualcosa da leggere che non si sarebbe mai sognata di trovare in un libro. Si sedeva sulla scaletta che Bella Phippen non usava mai e io le portavo un grosso tomo verde della trilogia di Kristin, figlia di Lavrans. Cercavo il punto in cui Kristin partorisce per la prima volta, e ci mette ore e ore, pagine e pagine, tra sangue e dolori lancinanti, accovacciata sulla paglia. Mentre glielo passavo, mi sentivo un po’ triste. Tradivo sempre qualcosa o qualcuno, sembrava l’unico modo per andare avanti. Quel libro non era una semplice curiosità per me. No; non per me che avevo desiderato vivere nell’undicesimo secolo e perfino avere un bambino nella paglia, come Kristin – a condizione di sopravvivere, s’intende –, e soprattutto di avere un amante come Erlend, un cavaliere altrettanto solitario, tenebroso, inadeguato.

Dopo aver letto, Naomi veniva a cercarmi e mi chiedeva: – Era stata obbligata a sposarsi?

– Sí.

– Lo dicevo io. Perché quando una ragazza è obbligata a sposarsi, o muore di parto, o quasi, oppure il bambino nasce con qualcosa che non va. Un labbro leporino o un piede torto o una rotella fuori posto. Mia madre l’ha proprio visto.

Non discutevo, ma neppure ci credevo. La madre di Naomi era infermiera non diplomata. Secondo il suo informato parere – o quello che Naomi spacciava per tale – avevo saputo che i bambini nati con la camicia sono destinati a diventare criminali, che dall’accoppiamento di uomini e pecore erano nate creature lanuginose e raggrinzite con la testa umana e la coda ovina, subito morte e conservate chissà dove dentro boccioni di vetro, e che certe malate di mente si erano ferite in modi indecenti usando degli appendiabiti. Personalmente credevo o non credevo a questi fatti a seconda del livello di ottimismo o di paura dell’umore del momento. La madre di Naomi non mi piaceva: aveva una voce sfacciata, prepotente e occhi in fuori, chiarissimi – come quelli di Naomi –, e mi aveva chiesto se avevo già il ciclo. Tuttavia, chiunque se la veda con la nascita e la morte, si accolli la fatica di assistere e affrontare quel che viene – emorragie, sconci secondamenti, orribili decomposizioni –, chiunque faccia un lavoro simile, va ascoltato, indipendentemente dalle notizie che riporta.

– C’è un punto del libro in cui lo fanno?

Desiderosa di giustificare la letteratura agli occhi di Naomi – come un ministro che si affanni a dimostrare quanto la religione possa essere concreta e perfino divertente –, mi mettevo a caccia e trovavo la pagina dove Kristin e Erlend si rifugiano dentro la stalla. Ma Naomi non era soddisfatta.

– E sarebbe qui che racconta che lo fanno?

Le feci notare la riflessione di Kristin: Possibile che quella brutta cosa fosse ciò di cui parlano tutte le canzoni?

Stava calando il buio quando uscimmo e le slitte dei contadini si allontanavano dal centro abitato. Naomi e io prendemmo un passaggio su una che passava da Victoria Street. Il contadino era infagottato in uno sciarpone e un grande berretto di pelliccia. Sembrava un vichingo con l’elmo. Si girò imprecando che ci levassimo, ma noi tenemmo duro, sfidandolo con allegra prepotenza come criminali nate con la camicia; ci tenevamo forte, con il bordo della slitta che ci segava la pancia e i piedi che sollevavano spruzzi, finché non raggiungemmo l’angolo di Mason Street e là fummo scaraventate in un cumulo di neve. Dopo aver radunato i libri e ripreso fiato ci gridammo a vicenda.

– Scendi da lí, porca puttana.

– Scendi da lí, porca puttana.

Entrambe, con la paura e la speranza che qualcuno ci sentisse parlare in quel modo in mezzo alla strada.

Naomi abitava in Mason Street, io in River Street; era nata cosí la nostra amicizia. Subito dopo il mio trasloco in paese Naomi mi aspettava la mattina, davanti a casa sua che era sul tragitto. «Come mai cammini in quel modo?», mi diceva, e io: «Quale modo?» E lei si metteva a camminare a zigzag, a testa bassa senza guardare. Offesa, io ridevo. Ma le sue critiche erano un sigillo, un marchio; fui spaventata e felice di scoprire che pensava fossimo amiche. Non avevo mai avuto un’amica. Limitava la mia libertà e mi faceva sentire disonesta per certi versi, ma espandeva anche i confini della vita e ne aumentava l’importanza. Il brivido di quelle grida e le parolacce e farsi scaraventare nella neve non erano cose che si potessero fare da soli.

E comunque ormai sapevamo troppo l’una dell’altra per poter smettere di essere amiche.

Naomi e io segnammo insieme i nostri nomi per candidarci al ruolo di controllori-lavagne; questo comportava che ci fermassimo dopo la scuola a pulire le lavagne e a portare fuori le cimose bianche rosse e blu da sbattere contro i muri della scuola disegnando sui mattoni ventagli di gesso colorato. Entrando, udimmo una musica nuova arrivare dalla sala insegnanti; la voce era di Miss Farris e subito ci ricordammo. L’operetta. Ecco cos’era.

Ogni anno a marzo la scuola allestiva uno spettacolo di operetta, cosa che metteva in gioco forze diverse e, per un po’, modificava tutto. Responsabili della recita erano Miss Farris, la quale per il resto dell’anno non faceva niente di speciale, a parte insegnare ai bambini di terza e suonarci ogni mattina la «Marcia turca» al pianoforte per accompagnare il nostro ingresso in classe, e Mr Boyce, l’organista della Chiesa unita, che veniva a scuola due volte la settimana come maestro di musica.

Mr Boyce attirava su di sé attenzione e irriverenza per il modo in cui si discostava dal modello del maestro tipico. Basso di statura, aveva baffi morbidi e occhi tondi e lustri come due caramelle al latte già succhiate. Per giunta era inglese, arrivato al principio della guerra, dopo essere sopravvissuto all’affondamento dell’Athenia. Mr Boyce, a bordo di una scialuppa di salvataggio, su nel Nordatlantico: da non credere. Ma se perfino il tratto dalla macchina a scuola, nell’inverno di Jubilee, lo lasciava maldisposto e senza fiato! Portava in classe un giradischi, ci faceva ascoltare brani come l’Ouverture 1812 e poi ci chiedeva a che cosa ci facesse pensare quella musica, come ci facesse sentire. Abituati solo a domande concrete, normali, fissavamo le assi del pavimento ridacchiando un po’ eccitati, come se avesse detto una cosa sconveniente. Lui ci guardava deluso e commentava: «Scommetto che non vi fa pensare a un bel niente, e che preferireste non doverla ascoltare», e si stringeva nelle spalle con un gesto troppo tenue, troppo… personale, per un maestro.

Miss Farris era di Jubilee. Aveva frequentato la nostra stessa scuola, era salita a passo di marcia su per quelle lunghe scale consumate in due punti dalla quotidiana processione di piedi, mentre qualcun altro suonava la «Marcia turca» (perché doveva essere dall’inizio dei tempi che la suonavano). Il suo nome di battesimo era ben noto: Elinor. Abitava nella sua casetta senza giardino in Mason Street, vicino a casa di Naomi, e frequentava la Chiesa unita. Andava anche a pattinare, una sera alla settimana, nel periodo invernale, e per l’occasione indossava un costume di velluto blu scuro che doveva essersi cucita da sola, perché non avrebbe mai potuto comprarlo. Era bordato di pelliccia bianca, con cappello e manicotto uguali. La gonna corta, a godet, foderata di taffettà celeste, la portava sopra una calzamaglia bianca. Una tenuta del genere lascia immaginare parecchio, e in tanti sensi.

Miss Farris non era nemmeno giovane. Si tingeva i capelli con l’henné e li teneva a caschetto, secondo la moda degli anni Venti. Aveva sempre due macchie di fard sulle guance e una frettolosa mezzaluna di rossetto sulla bocca. Pattinava in cerchio, lasciando svolazzare la gonna foderata di cielo. Ciononostante aveva un’aria arida, legnosa, ingenua, e anche il suo pattinaggio in fondo pareva piú uno sfoggio di perizia da maestrina che un’esibizione di sé.

Si cuciva tutti i vestiti da sola. Portava scollature alte e maniche lunghe castigate, oppure chiusure a cordoncino e passamanerie in stile campestre, o vaporosi fronzoli di pizzo bianco sotto il mento e ai polsi, o arditi bottoni sfavillanti di schegge di specchietto incastonate. La gente la prendeva in effetti un po’ in giro, ma non quanto avrebbe fatto se non fosse stata di Jubilee. Fern Dogherty, la pensionante di mia madre, diceva: «Poverina, cerca solo di accalappiare un uomo. Chiunque ha il diritto di provarci a modo suo, dico io».

Se quello era il suo modo, non funzionava. Anno dopo anno ci s’inventava un’ipotetica storia d’amore, uno scandalo tra lei e Mr Boyce. Succedeva durante i preparativi per l’operetta. Qualcuno si metteva a dire di averli visti seduti vicini vicini sullo sgabello del pianoforte, con il piede di lui che sfiorava il suo sulla pedaliera, o di averlo sentito chiamarla Elinor. Ma tutte quelle tortuose congetture si sgretolavano appena uno la guardava in faccia, quel faccino ossuto, vispo, truccato nervosamente, con due virgole guizzanti agli angoli della bocca, e occhi luminosi e stupefatti. Di qualunque cosa fosse a caccia, non poteva trattarsi di Mr Boyce. Checché ne pensasse Fern Dogherty, era ben difficile che fosse un uomo.

La sua passione era l’operetta. In un primo tempo il suo ardore risultò discreto quando lei e Mr Boyce si presentarono in classe alle due di un pomeriggio di neve e cielo basso, e ci trovarono tutti mezzi addormentati a copiare dalla lavagna in una quiete tale che si sentiva il borboglio delle tubature provenire dalle viscere profonde dell’edificio. Quasi in un sussurro Miss Farris chiese che tutti ci alzassimo in piedi a cantare, non appena Mr Boyce ci dava la nota.

D’ye ken John Peel with his coat so gay

D’ye ken John Peel at the break of day

D’ye ken John Peel when he’s far far away,

With his hounds and his horse in the morning?

Mr McKenna, il nostro insegnante nonché preside della scuola, mostrò che cosa ne pensava continuando a scrivere sulla lavagna. La valle del Nilo era protetta dalle invasioni dai tre deserti circostanti: il deserto libico, il nubiano e l’arabico. Ma qualsiasi cosa facesse alla fine era destinato a perdere. L’operetta sarebbe andata crescendo inesorabilmente, e avrebbe travolto tutte le sue regole e le ripartizioni di tempo come steccati di fiammiferi. Quanto erano delicati al momento Miss Farris e Mr Boyce, a girare per la stanza ossequiosi, in punta di piedi, il capo teso a individuare la singola voce. Ma non sarebbe durato per molto. L’intera operetta, per ora, si riduceva alle loro due persone, ma a tempo debito, una volta liberata, si sarebbe gonfiata come un tendone da circo e a noi tutti non sarebbe rimasto altro che tenerci forte.

Con un gesto garbato invitarono alcuni di noi a sedersi. Io fui tra quelli, e cosí pure Naomi, come notai con sollievo. Fecero cantare di nuovo gli altri e, con un cenno, tirarono fuori dal gruppo i prescelti.

L’assegnazione delle parti, in un’operetta, aveva esiti imprevedibili. Per tutte le altre attività, dal portare la ghirlanda di papaveri al cenotafio l’11 novembre, al redigere il programma per l’associazione giovanile della Croce Rossa, giú giú fino a consegnare messaggi da un insegnante all’altro percorrendo androni stranamente deserti, si poteva stabilire in anticipo su chi la scelta sarebbe ricaduta quasi sempre, su chi qualche volta, e su chi mai, in nessuna circostanza. In cima alla lista stavano Marjory Coutts, il cui padre era avvocato e deputato provinciale, e Gwen Mundy, il cui padre era impresario funebre e proprietario di un negozio di arredamento. Nessuno aveva mai nulla da eccepire riguardo al loro status. Al contrario, in caso di libere elezioni del direttivo della Croce Rossa giovanile, le avremmo votate noi stessi, senza esitare e con illuminato senso dell’opportunità. Anni di benevolenza diffusa tributata a entrambe in paese come a scuola le avevano di fatto trasformate nella scelta migliore: spigliate e diplomatiche, riservate e gentili. Le persone di cui diffidare, quelle che il potere avrebbe reso tiranniche, che non sarebbero arrivate al cenotafio senza inciampare o che avrebbero letto i messaggi degli insegnanti nell’androne, nella speranza di guadagnarci un pettegolezzo da raccontare, erano i nominati raramente, gli ambiziosi e insicuri – come Alma Cody, specialista di informazioni sessuali, o come Naomi, come me.

Sicuri quanto Marjory e Gwen, per altri versi, erano gli eterni esclusi: una grassona di nome Beulah Bowes il cui sedere strabordava dalla sedia – i maschi ci ficcavano dentro il pennino –, la ragazzina italiana che non parlava mai e che spesso era assente per una malattia ai reni, e un gracilissimo albino piagnucoloso, figlio di un negoziante di alimentari, destinato a comprarsi la sopravvivenza, per tutti gli anni di scuola, a furia di giuggiole, gommose farcite e stringhe di liquirizia. Costoro occupavano i banchi in fondo all’aula, non dovevano mai leggere ad alta voce, non andavano alla lavagna a scrivere le operazioni di aritmetica e, il giorno di San Valentino, ricevevano due messaggi in tutto. (Immancabilmente da Gwen e Marjory, che spedivano biglietti a chiunque senza paura di esserne contaminate). Trasmigravano di classe in classe, di anno in anno in uno stato di sognante e inviolata solitudine. L’italiana sarebbe stata la prima di noi a morire, quando stavamo ancora al liceo; da quel momento l’avremmo ricordata con onore e tardivo orgoglio.

«Ma era in classe con noi».

Una bella voce poteva nascondersi ovunque. Non fu individuata in Beulah Bowes, o nella ragazzina italiana, e nemmeno nell’albino, ma avrebbe potuto; ci mancò tanto cosí. Chi fu trascinato infatti fuori dall’aula, tra Miss Farris e Mr Boyce, come una specie di trofeo, se non il ragazzo seduto dietro di me, uno che io avrei piazzato agli ultimi posti nella categoria dei nominati raramente: Frank Wales?

La cosa non avrebbe dovuto sorprendermi. Lo sentivo ogni mattina alle mie spalle intonare il God Save the King, e una volta alla settimana, durante le lezioni di Mr Boyce, cantare John Peel e Flow Gently Sweet Afton e As Pants the Hart [per molto tempo rimasi convinta che fosse heart e che, al posto di una cerva, si parlasse di un cuore] for Cooling Streams, When Heated in the Chase. La sua era una voce bianca ancora perfetta, immemore di sé, di fatto a stento umana, placida e isolata come il suono di un flauto. (Il flauto dolce che in seguito imparò a suonare come previsto dal suo ruolo nell’operetta pareva l’estensione strumentale di quella voce). Dal canto suo Frank era cosí indifferente al possesso di quel dono, cosí inconsapevole, che quando smetteva di cantare la voce cessava di esistere e nessuno l’avrebbe mai collegata alla sua persona.

In realtà, ai miei occhi, Frank Wales era solo il compagno che faceva errori tremendi di ortografia. Doveva passare a me i dettati per farseli correggere. Dopo la correzione andava alla lavagna, docile e imperturbabile, a scrivere ogni parola per tre volte. Il sistema non sembrava sortire grandi effetti. Si faticava a credere che errori simili non fossero il frutto perverso di uno scherzo testardo, ma nessun altro aspetto del suo comportamento sembrava sostenere questa ipotesi. Ortografia a parte, era uno scolaro senza infamia e senza lode. Di quelli che sanno dove si trova il mar Mediterraneo, ma probabilmente non il Mar dei Sargassi.

Quando tornò in classe scrissi sul righello: «Che parte ti hanno dato?» e lo passai dietro, fingendo di imprestarglielo. L’aula era una zona franca nella quale un certo livello di comunicazione neutrale, ancorché segreta, tra maschi e femmine era possibile.

Frank scrisse sull’altro lato del righello: Il piferaio maggico.

Cosí avevo scoperto quale operetta avremmo messo in scena. Ero delusa al pensiero che non ci sarebbero state scene di corte, niente dame di compagnia, niente bei vestiti. Ciononostante non so cosa avrei dato per avere una parte. Miss Farris venne a scegliere i ballerini per la «Danza nuziale campestre».

– Mi servono quattro ragazze che sappiano tenere la testa alta e che abbiano il senso del ritmo. Marjory Coutts, Gwen Mundy, chi altri? – Andava su e giú tra i banchi soffermando lo sguardo su diverse di noi, compresa me che sedevo a testa alta, spalle dritte, aria gioiosa ma svagata per ragioni di amor proprio, le dita intrecciate strette sotto il banco in un gesto di privata scaramanzia. – Alma Cody e… June Gannett. E adesso quattro maschi in grado di ballare senza tirarsi addosso il sipario.

Ormai ero in pena. E se mi fosse toccato solo un ruolo di comparsa, tra la folla, in fondo al palcoscenico? E se non ci fossi mai neanche salita, su quel palco? Ad alcuni membri della classe doveva capitare, sarebbero stati costretti a rimanere seduti sulle panche messe in fila su entrambi i lati del pianoforte di Mr Boyce, insieme ai bambini delle classi inferiori selezionati per il coro, tutti in divisa, gonna scura e blusa bianca, o camicia bianca e calzoni scuri. C’ero già stata ben tre anni seduta lí, durante le recite di La principessa zingara, I danzatori di Kerry e La corona rubata. Di sicuro alla bambina italiana, alla grassona e all’albino sarebbe toccato anche durante la recita del Pifferaio magico. Ma non a me! A me no. Non potevo credere a un’ingiustizia tanto crudele come tenermi lontana da quello spettacolo.

Neanche Naomi aveva avuto una parte. Non ne parlammo nel tragitto verso casa, e facemmo invece battute di spirito su tutto ciò che riguardava l’operetta.

– Tu fai Miss Farris, io faccio Mr Boyce. Oh, amore mio, passerottina mia, la musica del Pifferaio mi riempie di passione, quando potrò stringerti fra le braccia fino a spezzarti la spina dorsale visto che sei magra come un chiodo?

– Magra come un chiodo un corno; io sono bellissima e tu mi fai venire l’orticaria, con quei baffi. Ma come facciamo, amore mio, con Mrs Boyce?

– Oh, angelo mio, non ti crucciare, la chiuderò dentro un armadio buio pieno di scarafaggi.

– Ma ho paura che riesca a uscire lo stesso.

– In quel caso le farò bere l’arsenico e poi la segherò in tanti pezzettini e la butterò nel gabinetto. Anzi no, la sciolgo nella vasca da bagno con la soda caustica. E con le otturazioni d’oro che ha nei denti, faccio due belle fedi per le nostre nozze.

– Oh, come sei romantico. Oh, tesoro mio.

Poi Naomi fu scelta per fare una madre che doveva dire: «Ah, Marta, mia piccola gioia, quanto volevi ballare la mattina, mentre cercavo di farti le trecce! E io a rimproverarti! Ah, se solo potessi vederti ballare ora!» E nell’ultima scena diceva: «Ora ho imparato la riconoscenza, mai piú dirò male dei miei vicini, non voglio piú essere avara e pettegola!» Mi convinsi che l’avessero presa per via del suo fisico piuttosto basso e massiccio che poteva facilmente farla sembrare una matrona. Dovetti tornare a casa da sola, perché chi aveva battute da recitare si fermava alle prove, dopo la scuola. Mia madre chiese: «Come va l’operetta?», che voleva dire, hai avuto una parte?

– Non hanno ancora cominciato. Non hanno nemmeno distribuito le parti.

Dopo cena andai giú in Mason Street e passai davanti alla casa di Miss Farris. Non sapevo neanch’io cosa volevo. Camminai su e giú senza fare rumore sulla neve battuta. Miss Farris non chiudeva gli scuri, non sarebbe stato da lei. La casa era piccolissima, quasi da bambola; bianca, con le persiane azzurre, tetto spiovente, un minuscolo abbaino, lambrequin di legno sopra la porta e le finestre. Se l’era fatta costruire apposta, con i soldi ereditati alla morte dei genitori. E sebbene nei film ci siano spesso case del genere – vale a dire con velleità estetiche e bizzarrie che le fanno sembrare piú adatte a un mondo giocattolo che alla vita –, a Jubilee non se n’erano mai viste. In confronto con le altre del paese, la sua sembrava senza segreti, senza contraddizioni. La gente infatti diceva: «È talmente carina, non sembra una casa vera». Non sapevano spiegare meglio come mai non risultasse credibile.

Non c’era niente che potessi fare, è ovvio, e dopo un po’ me ne tornai indietro.

Ma l’indomani Miss Farris si presentò in classe con June Gannett al seguito, venne dritta al mio banco e disse: – In piedi, Del, – come se avessi già dovuto farlo, senza aspettare la richiesta (il suo piglio da operetta era in forte aumento), e ci fece mettere schiena contro schiena. Capii che June non era della statura giusta ma non sapevo se per eccesso o difetto, perciò non ero sicura se rattrappirmi o distendermi. Miss Farris appoggiò le mani sulle nostre teste e le scostò con forza. Era cosí vicina che sentivo il suo sudore pepato, le vedevo le mani tremare leggermente; un minaccioso, sommesso mormorio di eccitazione la attraversava tutta.

– Sei un paio di centimetri di troppo, June, cara. Vediamo se possiamo farti fare una madre.

Naomi, io e altre ci scambiavamo sguardi studiatamente soavi; Mr McKenna ci raggelò tutti con un’espressione severa.

– Con chi ti hanno messa in coppia? – mi bisbigliò Naomi piú tardi, nello spogliatoio, mentre rovistavamo in cerca dei nostri stivali. Dovevamo marciare fuori, in fila, prendere sciarpe e cappotti, riportarli dentro e metterceli al nostro posto, per motivi di ordine.

– Jerry Storey, – confessai. Non ero affatto contenta dell’assegnazione. Sembrava studiata a tavolino. Gwen Mundy e Marjory Coutts dovevano stare con Murray Heal e George Klein, grossomodo il loro corrispettivo maschile in classe, visto che erano vivaci, sportivi e, se serviva, sapevano comportarsi con garbo. Ad Alma Cody era toccato Dale McLaughlin, il figlio del ministro della Chiesa unita, che era alto e allampanato, stupidamente baldanzoso, con gli occhiali spessi e un occhio che andava per conto suo. Aveva già fatto piú o meno sesso con Violet Toombs nella rimessa per le biciclette dietro la scuola. E a me, Jerry Storey, con quel testone di riccioli da bambino, e gli occhi accesi e insolenti da cervello ad alto voltaggio. Durante l’ora di scienze alzava sempre la mano e con voce nasale e barbosa si metteva a descrivere degli esperimenti che aveva fatto col piccolo chimico. Sapeva il nome di tutto: elementi, piante, fiumi, e deserti segnati sulla cartina. Lui sí che avrebbe saputo dov’era il Mar dei Sargassi. Per tutto il tempo delle prove di ballo non mi guardò mai in faccia. Gli sudava la mano. Anche a me.

– Poveretta! – disse Naomi. – Adesso penseranno tutti che sei come lui.

Non importa. Ormai l’operetta era l’unica cosa, a scuola. Come durante la guerra, quando la gente non capiva di che cosa ci si fosse preoccupati o di cosa parlassero i notiziari prima, allo stesso modo ora nessuno si ricordava come fosse stata la scuola prima della frenesia, della tensione e del subbuglio creati dall’operetta. Provavamo il ballo dopo la scuola, ma anche durante le ore di lezione, nella sala insegnanti. Non ci ero mai entrata prima ed era strano vedere la piccola credenza con le tendine di cretonne, le tazze, il fornello elettrico, la boccetta di aspirina, il divano di pelle pieno di gobbe. Agli insegnanti non si pensava mai in relazione a un’atmosfera tanto domestica, per non dire sciatta e banale.

Continuavano a verificarsi scene improbabili. C’era una botola nel soffitto della sala insegnanti e un giorno, quando arrivammo per le nostre prove, trovammo Mr McKenna, incredibilmente proprio lui, che estraeva a fatica dalla botola le gambe e il sedere in calzoni marroni tutti impolverati cercando di centrare il primo gradino della scaletta. Poi tirò giú alcuni scatoloni che intanto Miss Farris gli prendeva dalle mani esclamando: – Sí, quello lí, quello lí! Ah, cosa abbiamo qui, vediamo un po’ se troviamo un tesoro!

Strappò il cordino con un energico strattone e rovesciò a terra un mucchio di stamigna rossa e blu bordata con gli stessi fili d’oro e d’argento con cui si decora l’albero di Natale. E corone foderate di carta stagnola dorata o argentata. Brache in velluto color ruggine, uno scialle a motivi cachemire con le frange gialle, qualche abito di corte di un taffettà polveroso e friabile come carta. A Mr McKenna non restò che scuotersi la polvere dai pantaloni, senza ricevere il bene di un ringraziamento.

– Niente ballo, oggi! I maschi, fuori, andate pure a giocare a hockey –. (Era una delle sue fisse che, se non erano a scuola, i maschi stessero sempre a giocare a hockey). – Voi ragazze, invece, fermatevi a darmi una mano. Cosa abbiamo qui che possa andar bene per un villaggio medievale, in Germania? Non so, non so. I vestiti sono troppo sfarzosi. E comunque cadrebbero a pezzi in palcoscenico. Hanno avuto il loro momento di gloria con La corona rubata. Forse le brache possono andare per il borgomastro. A proposito, a proposito… mi serve una catena da borgomastro! E devo anche fare il costume di Frank Wales, l’ultimo Pifferaio che abbiamo avuto era due volte lui. Chi era poi? Non mi ricordo nemmeno chi era. Grasso, di sicuro. L’avevamo scelto solo per la voce.

– Quante operette diverse ci sono? – Era Gwen Mundy, spigliata con gli insegnanti, che metteva su il suo tono gentile e beneducato.

– Sei, – rispose automaticamente Miss Farris. – Il pifferaio magico. La principessa zingara. La corona rubata. Il cavaliere arabo. I danzatori di Kerry. La figlia del taglialegna. Una volta che finiamo il ciclo e ricominciamo da capo, abbiamo sempre un vivaio di attori tutti nuovi da cui scegliere e speriamo tanto che il pubblico abbia dimenticato la volta prima –. Prese un mantello di velluto nero foderato di rosso, lo scosse e se lo appoggiò sulle spalle. – Vi ricordate? Questo era di Pierce Murray, quando ha recitato la parte del capitano nella Principessa zingara. Ma no, come fareste a ricordarvelo? Era il 1937. Poi è stato ucciso, in aviazione –. Ma lo disse distrattamente; dopo aver recitato la parte del capitano nella Principessa zingara, poteva contare poi tanto che altro gli fosse successo? – Ogni volta che la indossava la faceva ruotare… cosí… per far vedere la fodera –. E si esibí lei stessa in una giravolta teatrale. Ogni sua indicazione di scena o di ballo era pronunciata in modo deliberato, splendidamente iperbolico, come se pensasse di strapparci via da noi stessi con la meraviglia. Ci insultava, ci diceva che ballavamo come dei cinquantenni artritici, minacciava di metterci i petardi dentro le scarpe, ma allo stesso tempo volteggiava intorno a noi come se contenessimo la possibilità di esprimere la bellezza impetuosa della danza, come se lei fosse in grado di cavare da noi quello che nessun altro, e nemmeno noi stessi, sapevamo di possedere.

Entrò Mr Boyce a prendere il flauto dolce che stava insegnando a Frank Wales a suonare. Vide la giravolta.

Con brio, – disse con dignitoso stupore britannico. – Con brio, Miss Farris.

Miss Farris, mantenendo lo spirito di quel volteggio, fece un inchino garbato e noi glielo concedemmo, e arrivammo perfino a capire, per una volta, che il rossore che le cancellò il trucco sulle guance come un’aurora non aveva nulla a che fare con Mr Boyce, ma solo con il piacere del suo movimento. Ci appropriammo di quel con brio, decise a ripeterlo. Non sapevamo che cosa significasse né ci importava, sapevamo solo che era bizzarro – lo erano del resto tutte le parole straniere – e decisamente clamoroso. Ne fu subito colta l’adeguatezza. Ben dopo la fine dell’operetta Miss Farris non poteva percorrere l’androne a scuola, né superarci sulla salita di John Street, canticchiando fra sé come d’abitudine per darsi forza («The minstrel boy – Buongiorno, ragazze! – to the war has gone!») senza che quella espressione aleggiasse furtiva nelle sue vicinanze. Con brio, Miss Farris. Avevamo la sensazione che la riassumesse, che la rendesse completa.

Era venuto il momento di trasferirsi in municipio per le prove. L’auditorium era vasto e pieno di spifferi come lo ricordavamo, con il telo del sipario in vecchissimo velluto blu notte a frange dorate, regale, come lo ricordavamo. Le luci erano accese in quelle giornate buie d’inverno, ma non proprio fino in fondo alla sala dove Miss Farris ogni tanto scompariva gridando: «Non sento una sola parola da qui! Non una parola! Di cosa avete paura, si può sapere? Volete che la gente in fondo alla sala ci chieda indietro i soldi del biglietto?»

Era ormai quasi al picco dello sconforto. Aveva sempre tra le mani qualcosa che stava cucendo. Un giorno mi chiamò con un cenno e mi consegnò un pezzetto di cordoncino dorato che stava applicando al cappello di velluto del borgomastro. Mi disse di fare una corsa al negozio di Walker e di prendergliene qualche centimetro. Adesso sí che tremava; e il suo ronzio interno si era fatto ben piú cospicuo. – Non tardare, – mi disse, come se mi mandasse a prenderle un farmaco salvavita, o a consegnare un dispaccio che potesse sottrarre a un pericolo un esercito. Perciò volai fuori senza abbottonarmi il cappotto nelle strade soffici, bianche e silenziose di una Jubilee sotto la neve fresca; il palcoscenico del municipio alle mie spalle sembrava avvampare come un falò, incendiato da tanta fanatica abnegazione. Abnegazione nel fabbricare il non vero, il non direttamente indispensabile, eppure piú importante, una volta scattata la fede, di qualunque altra cosa a nostra disposizione.

Liberati grazie all’operetta dalla routine delle nostre vite, e ricordando come un luogo mesto, tetro e negletto l’aula in cui Mr McKenna teneva occupati i non scelti a furia di gare di ortografia e calcolo mentale rapido, adesso eravamo tutti indistintamente alleati di Miss Farris. Montavamo insieme le varie parti dell’operetta e riuscivamo a vederla come un tutt’uno. Ero, e sono ancora, commossa dalla vicenda. Riflettevo sul personaggio del Pifferaio Magico e lo trovavo unico, micidiale e indifeso allo stesso tempo. Non c’era slealtà che lo potesse sorprendere; condannato all’uso che il mondo faceva di lui, conservava, come Humphrey Bogart, il suo sfinito senso dell’onore. Persino la sua vendetta (guastata ovviamente dal finale modificato) non sembrava astiosa, ma quasi dolce, una tremenda, dolcissima vendetta nell’interesse di una giustizia piú grande. Mi parve che Frank Wales, irrecuperabile com’era quando scriveva sotto dettatura, si fosse calato nella parte in modo spontaneo, naturale, senza forzare la recitazione. Portava sul palcoscenico la sua consueta riservatezza, il distacco, e cosí era perfetto. Per la prima volta lo vidi com’era, anche fisicamente: la testa affusolata, i capelli scuri tosati cortissimi, come un irsuto zerbino, la faccia triste che poteva rivelarsi adatta a un attore comico anche se nel suo caso non capitò, i segni di vecchie pustole e l’indizio di quella nascente sul retro del collo. Il corpo era stretto come la faccia, la statura media per un ragazzo della nostra classe – il che voleva dire un centimetro circa meno di me –, e poi aveva un modo di camminare svelto e spigliato, il passo di chi non ha bisogno di nascondersi ma nemmeno di farsi notare. Ogni giorno indossava una maglia grigio-azzurra, rammendata sui gomiti, e quel colore caliginoso, cosí normale, riservato e impenetrabile, a me sembrava definirlo, descrivere la sua essenza.

Lo amavo. Amavo il Pifferaio Magico. Amavo Frank Wales.

Dovevo parlare di lui con qualcuno, perciò ne parlai con mia madre, fingendo imparzialità e senso critico.

– Ha una bella voce, ma non è abbastanza alto. Non credo che si vedrà bene sul palco.

– Come fa di cognome? Wales? Per caso è il figlio della bustaia? Una volta andavo a farmi fare i busti da una certa Mrs Wales – aveva la linea Slender-eze, ma non la tiene piú adesso. Abitava su in Beggs Street, dopo il caseificio.

– Deve essere sua madre –. Ero stranamente eccitata all’idea che potesse esserci stato un punto di contatto tra la famiglia di Frank Wales e la mia, tra la sua vita e la mia. – Andavi tu a casa sua, o veniva lei qui?

– Andavo io, si doveva andare da lei.

Avevo voglia di chiedere com’era la casa, se c’erano delle foto appese in soggiorno, di cosa parlava sua madre, se nominava mai i suoi figli. Eccessivo sperare che fossero diventate amiche, che si fossero raccontate delle rispettive famiglie, che a tavola la sera Mrs Wales avesse potuto dire: «Oggi è passata una signora tanto carina a provare il busto e mi ha detto che sua figlia è in classe con te…» A che cosa sarebbe servito? Solo a pronunciare il mio nome dove lui lo poteva sentire, a evocare la mia immagine dove lui la poteva vedere.

L’atmosfera di quei giorni all’auditorium del municipio non mise soltanto me in quello stato. La consolidata e rituale ostilità tra maschi e femmine si andava incrinando in centinaia di punti. Non si riusciva piú a sostenerla, se non in maniera scherzosa, tra confuse avvisaglie di simpatia.

Tornando a casa Naomi e io ci mangiavamo le barrette di caramello da cinque centesimi, durissime da mordere nel freddo e quasi altrettanto dure da masticare. Parlavamo a fatica, con la bocca piena.

– Con chi vorresti far coppia se non dovessi stare con Jerry Storey?

– Non lo so.

– Murray? George? Dale?

Scuotevo la testa senza esitazione, risucchiando rumorosamente saliva al sapore di caramello.

– Frank Wales, – disse diabolica Naomi.

– Dimmi sí o no, – aggiunse. – Dài. E io ti dico con chi vorrei io, se toccasse a me.

– Non mi dispiacerebbe stare con lui, – dissi con voce pacata, guardinga. – Frank Wales.

– Beh, a me non dispiacerebbe Dale McLaughlin, – sbottò Naomi riuscendo a sorprendermi, perché aveva saputo custodire il suo segreto meglio di me. Si sporse sopra un cumulo di neve, sbavando, e diede un morso alla sua barretta. – Lo so, devo essere matta, – disse alla fine. – Mi piace tantissimo.

– A me piace tantissimo Frank Wales, – confessai senza ritegno. – Devo essere matta anch’io.

Dopo questo, non parlammo piú d’altro che di quei due. Li chiamavamo AF. Stava per Attrazione Fatale.

«Ecco che passa il tuo AF. Vedi di non svenire».

«Perché non dici al tuo AF di metterci un po’ di Noxzema, su quelle pustole, eh?»

«Credo che il tuo AF ti stesse guardando, ma non è facile dirlo, strabico com’è».

Inventammo un linguaggio in codice fatto di sopracciglia alzate, dita scrollate sul petto, parole pronunciate a fior di labbra come Cardiopalma (per quando ci trovavamo nelle loro vicinanze in palcoscenico), Furia e Furore (per quando Dale McLaughlin rivolgeva la parola ad Alma Cody e le faceva schioccare le dita sul collo) ed Estasi (per quando invece faceva il solletico sotto le ascelle a Naomi dicendo: «Levati di torno, palla di grasso!»)

Naomi voleva parlare dell’incidente nella rimessa delle bici. La ragazza con cui Dale McLaughlin l’aveva fatto, l’asmatica Violet Toombs, si era trasferita in un altro paese.

– Meno male che ha traslocato. Qui si era fatta una brutta fama.

– Non era tutta colpa sua.

– Invece sí. È sempre colpa della ragazza.

– In che senso è stata colpa sua se lui la teneva ferma?

– Non è possibile che la tenesse, – disse inflessibile Naomi. – Come faceva a tenerla ferma e intanto a ficcarglielo dentro? Eh? Come faceva?

– Perché non glielo vai a chiedere? Gli dico che ti interessa.

– Secondo mia madre la colpa è sempre della ragazza, – disse Naomi, ignorandomi. – È la ragazza perché noi abbiamo gli organi sessuali all’interno e loro invece ce li hanno all’esterno, perciò noi possiamo controllare meglio le nostre voglie. Per i maschi è piú forte di loro, – mi rendeva edotta utilizzando un tono di voce profetico ma stranamente comprensivo che riconosceva l’anarchia, l’incomprensibile brutalità dominante in quel mondo collaterale.

I discorsi su questi temi erano irresistibili eppure, percorrendo River Street, spesso avrei preferito essermi tenuta per me il mio segreto, come succede a chiunque ne abbia uno. – A Frank Wales non viene duro perché non ha ancora cambiato voce, – mi disse Naomi, di certo riferendo un’altra informazione fornitale dalla madre, e a me da un lato interessava ma mi dava anche fastidio, come se si fosse etichettato in modo scorretto quello che provavo per lui incanalando i miei sentimenti in una direzione del tutto inattesa. Quel che volevo da Frank non lo sapevo bene neanch’io. Avevo una fantasticheria su di lui, un sogno a occhi aperti ricorrente. Immaginavo che mi riaccompagnasse a casa dopo lo spettacolo dell’operetta. (Si stava diffondendo la voce che quella sera i maschi – almeno alcuni – avrebbero accompagnato a casa le ragazze – almeno alcune – ma Naomi e io non prendemmo neppure in considerazione la possibilità; eravamo caute nel dare voce alle speranze reali). Percorrevamo le strade silenziosissime di Jubilee, passavamo sotto i lampioni accesi che mandavano il turbinio delle nostre ombre ad affondare nella neve e lí, nella meraviglia buia e spopolata del paese, Frank mi avrebbe circondata, vuoi con l’autentica e improbabile ma favolosa dolcezza del suo canto, vuoi, nella versione piú realistica del sogno, semplicemente con la silente melodia della sua presenza. Aveva in testa ancora il cappello a punta, quasi da giullare, e addosso il mantello multicolore, ma soprattutto azzurro, che Miss Farris aveva cucito per lui. Mi concedevo spesso quel sogno appena prima del sonno ed era strano quanta gioia mi desse, un’ondata di pace e di consolazione sulla quale a occhi chiusi scivolavo nei miei sogni veri che non erano mai altrettanto sereni, ma irti di piccoli problemi pratici, calzini che non si trovavano, l’incapacità di arrivare all’aula della terza media, oppure terrorizzanti, come ballare in palcoscenico scoprendo di essermi dimenticata il copricapo del costume.

Alla prova generale Miss Farris esclamò affinché tutti potessero sentire: – Tanto vale che mi butti adesso dalla torre del municipio! Tanto vale che lo faccia subito! Siete o non siete pronti ad assumervi le vostre responsabilità? – E si straziò la faccia con le dita come se volesse lasciarsi i solchi nella pelle. – Indietro, indietro, tornate indietro, dimenticatevi l’ultimo quarto d’ora! No, anzi, l’ultima mezzora. Ripartiamo da capo! – Mr Boyce sorrideva placidamente e attaccò le note del coro d’apertura.

Poi arrivò quella sera. L’ora di inizio, gli spettatori nella sala affollata, tutto lo scalpiccio, i colpi di tosse, l’attesa del pubblico in ghingheri anziché il buio e il rimbombo ai quali eravamo abituati. Il palco era pieno di luce e talmente ingombro, tra le facciate delle case di cartone e la fontana di cartone: non l’avevamo mai visto cosí. Accadde tutto troppo in fretta, e subito dopo era finito, passato; non aveva importanza come l’avessimo fatto, doveva andar bene per forza, tanto non si poteva rimediare. Niente era piú rimediabile. Dopo tante prove risultava quasi incredibile che l’operetta andasse davvero in scena. Mr Boyce si mise in frac, il che, a detta della gente, era ridicolo.

Le sale consiliari sottostanti il palcoscenico – e collegate al palco attraverso una scala sul retro – furono suddivise in camerini tramite lenzuola appese a dei fili tirati, e lí Miss Farris, con un grembiule sul suo nuovo vestito rosa ciliegia con baschine a vita, disegnava punti rossi all’angolo degli occhi, picchiettava i lobi delle orecchie di cipria scura, imbrattava i capelli di gelatina all’amido di mais. C’era un trambusto pazzesco. Parti indispensabili di certi costumi che non si trovavano; qualcuno che aveva strappato dalla vita in giú il vestito della moglie del borgomastro, appoggiando un piede sull’orlo della gonna. Alma Cody che sosteneva di aver preso quattro aspirine per calmarsi i nervi e poi era intontita, sudava freddo, stava seduta per terra minacciando di svenire da un momento all’altro. Crollarono alcune lenzuola. Qualche ragazza fu vista in mutande dai maschi e viceversa. Le coriste, che in teoria non sarebbero mai dovute scendere nelle sale consiliari, si presentarono in gonna scura e blusa bianca mettendosi spudoratamente in fila al trucco e Miss Farris, troppo agitata per farci caso, imbellettò anche le loro facce automaticamente.

Non faceva piú caso a tante cose. Ce l’aspettavamo intrattabile, come era stata per tutta la settimana. Niente affatto. – Sarà sbronza? – disse Naomi, coi pomini rossi sulle guance e il vestitone da madre. – Le ho sentito addosso un odore strano –. Io non avevo sentito altro che la solita acqua di colonia alla rosa canina mista a un soffio del suo sudore pepato. Tuttavia scintillava – con la giacca bordata di lustrini su quel vestito a metà fra il costume da circo e la divisa militare – e sfarfallava mormorando in modo insolito per lei e planando su tutto quel putiferio con magnanima benevolenza.

– Chiuditela con una spilla di sicurezza, Louise, – disse alla moglie del borgomastro, – non puoi fare altro, a questo punto. Nessuno se ne accorgerà, dal pubblico.

Nessuno se ne accorgerà! Proprio lei, che era stata incontentabile sul dettaglio piú insignificante, che aveva costretto le mamme a scucire e rifare le cose da capo anche tre volte!

– Una ragazzona in salute come te può prenderne sei, di aspirine, senza battere ciglio, – disse ad Alma Cody. – In piedi, andiamo, signorina!

Le ballerine erano in sgargianti gonne di cotone rosse, gialle, verdi, azzurre, e camicette bianche ricamate con scollo a cordoncino. Alma aveva allentato il cordoncino della sua per esibire l’impudico annuncio di un futuro seno. Perfino di questo Miss Farris si limitò a sorridere, glissando oltre. Qualsiasi cosa volesse capitare, poteva farlo, si sarebbe detto.

Quasi all’inizio della danza il mio copricapo, un lungo cono medievale di cartone avvolto nel tulle giallo e ornato da un brandello floscio di velo, cominciò a scivolarmi disastrosamente da una parte. Fui costretta a tenere la testa piegata come se avessi il torcicollo e farmi cosí tutto il balletto, stringendo i denti in un sorriso vacuo.

Dopo il God Save the King, dopo l’ultimo sipario, ci trasferimmo di corsa dal fotografo sulla via, ancora con i costumi addosso, senza cappotti, per le foto di rito. Eravamo tutti ammassati in attesa, tra le cascate color seppia e i giardini all’italiana dei suoi fondali in disuso. Dale McLaughlin trovò una sedia, di quelle su cui venivano sistemati i padri con moglie e figli accalcati intorno, per la foto di famiglia. Si sedette e Alma Cody prese sfrontatamente posto sul suo ginocchio. Poi gli si buttò al collo.

– Mi sento cosí debole. Sono uno straccio. Lo sai che ho preso quattro aspirine?

Ero in piedi davanti a loro. – Dài, siediti, – mi disse tutto allegro Dale tirandomi addosso ad Alma, che si mise a strillare. Lui allora aprí di scatto le gambe lunghe e ci scaricò tutte e due per terra. Ridevano tutti. Cappello e velo mi erano saltati via e Dale lo raccolse e me lo rimise in testa al contrario, con il velo che mi copriva la faccia.

– Stai benissimo cosí. Non ti si vede.

Cercai di spolverarlo e di rimetterlo per il verso giusto. All’improvviso da dietro le tende comparve Frank Wales, che era stato fotografato da solo, nel suo costume da gran signore ridotto in miseria.

– Avanti i ballerini! – gridò seccata la moglie del fotografo ficcando la testa tra le tende. Fui l’ultima ad arrivare perché stavo ancora cercando di mettermi a posto il copricapo. – Guardate nei miei occhiali, – disse Dale, e cosí feci, anche se mi confondeva vedere il suo occhio strabico dietro il mio riflesso. Lui intanto faceva facce oscene.

– Dovresti accompagnarla a casa, – disse a Frank Wales.

E Frank: – Chi?

– Lei, – disse Dale, indicandomi con un cenno del capo. La testa mi ciondolò nei suoi occhiali. – Non la conosci? Sta seduta nel banco davanti a te.

Temevo che si stesse per trasformare in uno scherzo. Mi sentivo il sudore colare sotto le ascelle, segno inequivocabile della paura di un’umiliazione. Vedevo la mia faccia nuotare negli occhi di quello stupido di Dale. Era troppo, troppo pericoloso essere scaraventati in quel modo tra le righe stesse del mio sogno.

Comunque, Frank Wales disse con serietà da galantuomo: – Lo farei volentieri. Se solo abitasse un po’ piú vicino.

Si riferiva a quando stavo al fondo di Flats Road e in classe ero famosa per il lungo tragitto che percorrevo a piedi fino a scuola. Ma non lo sapeva che abitavo in paese, adesso? Non c’era tempo per dirglielo; non ne avevo neppure il modo, e restava comunque il seppur minimo rischio, che non intendevo correre, di finire per sentirlo ridere la sua placida risata nasale e pensosa e dirmi che stava solo scherzando.

Tutti i ballerini! – urlò la moglie del fotografo, e io mi girai alla cieca e la seguii dietro le tende. Un attimo dopo la mia delusione era già sommersa dalla gratitudine. Le parole di Frank mi si ripetevano autonomamente nella testa, come fossero espressioni di elogio e richiesta di perdono, in un tono di voce che era tenero, diretto, rispettoso e amabile. Mentre si scattavano le fotografie mi invase una sensazione di rara serenità, simile a quella del mio sogno a occhi aperti, che mi riaccompagnò nel freddo, fino alle sale consiliari, e mi rimase accanto mentre ci cambiavamo, nonostante Naomi dicesse: – Stavamo morendo tutti dal ridere, a guardare come tenevi la testa mentre ballavi. Sembravi un burattino con il collo rotto. Ma non potevi farci niente –. Era di cattivo umore, tendente a peggiorare. Mi bisbigliò all’orecchio: – Sai tutte le cose che ti ho raccontato su Dale McLaughlin? Erano solo storie. Mi sono inventata tutto per scoprire i tuoi segreti, ah ah.

Miss Farris intanto radunava e piegava i costumi come un automa. Aveva una macchia di gelatina per capelli sul davanti del vestito rosa ciliegia, e il petto che sembrava veramente incavato, come se le fosse collassato qualcosa dentro. Non faceva neanche finta di badare a noi, se non per dirci: – Sfilate le coccarde dalle scarpe, ragazze, lasciate qui anche quelle. Servirà tutto di nuovo, un giorno o l’altro.

Feci il giro della platea e trovai mia madre ad aspettarmi con Fern Dogherty e mio fratello Owen in divisa della scuola (i bambini piú piccoli avevano partecipato con attività irrilevanti tipo giuramento alla bandiera e brani per strumenti a percussione prima che si alzasse il sipario e avesse inizio l’operetta) intento a conficcare la bandiera che gli avevano dato da portare a casa dentro un cumulo di neve.

– Perché diamine ci hai messo tanto? – disse mia madre. – È stato carino, avevi un crampo al collo? Quel Wales è stato l’unico su tutto il palco che si è dimenticato di togliersi il cappello durante l’inno –. Mia madre aveva in serbo una curiosa varietà di piccoli conformismi.

Che cosa accadde, dopo l’operetta? Nel giro di una settimana si era completamente eclissata. Imbattersi in un pezzo di costume era fare un tuffo nel passato, trovarsi nel guardaroba era come vedere l’albero di Natale a gennaio nel retro del portico, a ingiallire con qualche brandello di filo d’argento impigliato fra i rami, il ricordo di un tempo le cui febbrili aspettative, il cui lavorio sembrino essere stati in certa misura malriposti. Riavere sotto i piedi il terreno saldo di Mr McKenna ci rassicurava. Ogni giorno risolvevamo diciotto quesiti di aritmetica, per rimetterci al passo, e ascoltavamo serenamente dichiarazioni del tipo: «E adesso, per tutto il tempo che abbiamo perso, ci toccherà incatenarci alla macina». Incatenarci alla macina, spalle alla ruota, piedi ai pedali – le frasi fatte preferite di Mr McKenna, nella loro frusta prevedibilità, ci parevano ora straordinariamente apprezzabili. Ci portavamo a casa mucchi e mucchi di libri e passavamo il tempo a disegnare cartine dell’Ontario e dei Grandi Laghi – la cartina piú difficile da disegnare al mondo – e a studiare La visione di Sir Launfal.

Ci cambiarono tutti di posto; le grandi pulizie in classe e i nuovi compagni di banco si rivelarono stimolanti. Frank Wales adesso sedeva dall’altra parte dell’aula. Un giorno entrò il bidello con una lunga scala a rimuovere un coso che, da Halloween, avevamo tutti quanti intravisto sotto una plafoniera. Ci eravamo convinti che fosse un guanto francese e lo avevamo perciò collegato al nome di Dale McLaughlin; meno scabrosamente, sebbene non meno misteriosamente, si rivelò un vecchio calzino. Sembrava proprio arrivato il momento di farla finita con i trucchi di scena. Di venire al sodo, avrebbe detto Mr McKenna.

Naturalmente il mio amore non si sciolse come neve al sole, al primo cambiamento di clima. I sogni a occhi aperti continuarono, alimentati tuttavia dal passato. Non trovavano nuovo nutrimento. A me pareva che fosse l’inverno la stagione dell’amore, e non la primavera. In inverno il mondo abitabile si riduceva al minimo: in quel piccolo spazio raccolto che ci accoglieva potevano fiorire formidabili speranze. La primavera invece metteva a nudo la modesta geografia dei luoghi; le lunghe strade marroni, i vecchi marciapiedi rotti, i rami degli alberi spezzati dalle bufere d’inverno che ora andavano sgomberati dai cortili. La primavera metteva a nudo le distanze per quello che erano.

Frank Wales non si iscrisse alle superiori come la maggior parte della classe, ma si trovò un lavoro alla tintoria di Jubilee. Allora la tintoria non disponeva di un furgone. Passavano quasi tutti a ritirare gli abiti puliti, ma certi articoli venivano consegnati a domicilio. Le consegne in paese erano compito di Frank Wales, e qualche volta, all’uscita da scuola, lo incontravamo in giro. Ci salutava con fare compunto, sbrigativo e cortese da uomo d’affari o di fatica che si rivolga a gente non ancora entrata nel mondo dell’impegno responsabile. Teneva i pacchi sollevati all’altezza delle spalle, con il gomito debitamente piegato; nei primi tempi non aveva ancora raggiunto la sua statura di adulto.

Per un po’ – circa sei mesi, direi – entravo in tintoria con un residuo moto di eccitazione, la speranza di vederlo anche se lui non stava mai in negozio; c’erano sempre il titolare, o sua moglie – tutti e due bassi, sfiniti, di colorito azzurrognolo come se i liquidi utilizzati in tintoria li avessero macchiati, o si fossero introdotti nel loro apparato circolatorio.

Miss Farris annegò nel Wawanash. Accadde quando frequentavo il liceo, dunque solo tre o quattro anni dopo Il pifferaio magico, eppure quando seppi la notizia mi sembrò che Miss Farris esistesse solo nel passato, e al livello delle sensazioni piú ingenue e remote, di percezioni fraintese. Per me era relegata al tempo andato, e mi sconcertò che ne fosse uscita per commettere quel gesto. Sempre che di un gesto si trattasse.

Era possibile, sebbene decisamente improbabile, che Miss Farris si fosse incamminata lungo l’argine a nord del paese, nei pressi del ponte di cemento, e che fosse scivolata in acqua senza poi riuscire a salvarsi. E nemmeno si poteva escludere, come qualcuno fece notare sull’«Herald-Advance» di Jubilee, che uno o piú sconosciuti l’avessero trascinata fuori di casa e costretta a gettarsi nel fiume. Era uscita verso sera, senza chiudere a chiave, e lasciando le luci accese. Chi amava emozionarsi al pensiero che la notte custodisse l’insidia di crimini strabilianti, decise di credere che era stato un omicidio. Altri, per bontà d’animo o vigliaccheria, optarono per l’incidente. Queste le alternative di cui si parlò e si discusse. Chi pensava fosse stato un suicidio, e alla fine fu la maggioranza a pensarlo, non aveva tanta voglia di parlarne; e perché, dopotutto? C’era ben poco da dire. Era un mistero verificatosi cosí, senza nemmeno la speranza di una spiegazione, con tutta l’insolenza di un bel cielo azzurro. Nessuna epifania.

Miss Farris in completo di velluto blu, sempre visibile con il suo bel colbacco di pelliccia che ondeggiava fra le teste dei pattinatori, Miss Farris con brio, Miss Farris che pitturava facce nelle sale consiliari, Miss Farris riversa nell’acqua a faccia in giú, imperturbabile, nel fiume Wawanash, per sei giorni prima di essere trovata. Benché non ci sia modo di considerare coerenti queste immagini – se l’ultima corrisponde al vero, non modifica per forza tutte le altre? – adesso dovranno comunque stare insieme.

Il pifferaio magico; La principessa zingara; La corona rubata; Il cavaliere arabo; I danzatori di Kerry; La figlia del taglialegna.

Aveva lanciato in alto tutte quelle operette, come bolle soffiate con fatica estenuante, con fervore e poi quasi distrattamente lasciate libere di svaporare trattenendo tuttavia per sempre le nostre piccole persone trasfigurate, il suo amore irriducibile, non corrisposto.

Quanto a Mr Boyce, si era già trasferito da Jubilee dove, a sentire la gente, non si era mai sentito a casa, per trovare impiego come organista e maestro di musica a London – che, sento il dovere di precisare, non è la vera London d’Inghilterra, bensí una cittadina di media grandezza nell’Ontario occidentale. Giunsero voci che non se la passasse affatto male laggiú, dove qualche persona un po’ piú simile a lui c’era.