La vita delle ragazze e delle donne
La neve sulla via maestra si accumulò al punto che dentro uno dei mucchi scavarono un arco fra il marciapiede e la strada, davanti all’ufficio postale. Scattarono una foto e la pubblicarono sull’«Herald-Advance» di Jubilee, affinché la gente potesse ritagliarla e spedirla a parenti e amici che abitavano in posti dal clima meno eroico, in Inghilterra, in Australia, a Toronto. La torre dell’orologio in mattoni rossi sbucava dalla neve e, sotto l’arco, stavano in posa due signore per dimostrare che non c’era nessun trucco. Entrambe lavoravano all’ufficio postale e si erano infilate il cappotto senza abbottonarlo. Una era Fern Dogherty, la pensionante di mia madre.
Mia madre ritagliò la foto, primo perché c’era Fern, e poi perché disse che dovevo tenerla da far vedere un giorno ai miei bambini.
– Una cosa cosí non la vedranno piú, – disse. – A quel punto ci saranno macchine apposta per raccogliere la neve e… farla sciogliere. O magari la gente abiterà sotto cupole trasparenti, a temperatura programmabile. Non ci saranno piú cose come le stagioni.
Dove le rimediava tutte quelle informazioni poco rassicuranti sul futuro? Non vedeva l’ora che paesi come Jubilee venissero rimpiazzati da cupole e funghi di cemento, con tapis roulant sospesi per trasportare le persone da un posto all’altro, e la campagna fosse collegata una volta per tutte da un perfetto reticolato di ampi nastri di marciapiedi. Niente sarebbe stato piú come lo conoscevamo, niente piú padelle per friggere, forcine per capelli, carta stampata né penne stilografiche, basta. A mia madre non sarebbe mancato nulla di tutto ciò.
Mi sconcertava anche sentirla parlare di figli miei, perché io non avevo mai pensato di averne. Era la gloria quella che volevo, camminare per le strade di Jubilee come un’esule o una spia, non sapendo con certezza da quale direzione si sarebbe presentata la celebrità, né quando; semplicemente convinta, perché me lo sentivo nelle ossa, che dovesse arrivare. Una convinzione che mia madre mi aveva trasmesso, in cui era stata mia alleata, ma che al momento non mi andava piú di discutere con lei; era invadente, e le sue aspettative tendevano ad assumere proporzioni eccessive.
Fern Dogherty. Eccola lí, sul giornale, nel gesto civettuolo di stringersi con tutte e due le mani il collo a scialle del cappotto buono che un puro colpo di fortuna le aveva fatto indossare proprio quel giorno per andare a lavorare. – Sembro grassa come un’anguria, – disse, – con quel cappotto.
Guardando la foto insieme a lei, Mr Chamberlain le pizzicò il braccio appena sopra l’attaccatura del polso.
– Scorza dura, eh, vecchia anguria.
– Non sia cattivo, – disse Fern. – Dico sul serio –. Aveva una vocetta fioca per il donnone che era, frignante, vittimistica, ma in fondo anche docile, cordiale. Tutte le qualità che mia madre aveva coltivato per poter aggredire la vita – intuito, intelligenza, determinazione, selettività – sembravano trovare il proprio opposto in Fern e nella sua eterna lagna, i suoi momenti pigri, la svogliata accondiscendenza. Era di carnagione scura, non olivastra, ma opaca, polverosa, con chiazze di colore marrone grandi a volte come monete; pareva il sottobosco maculato di un albero in un giorno di sole. I denti erano bianchi, squadrati, leggermente in fuori e un po’ separati. Le ultime due caratteristiche, di per sé non particolarmente belle, le conferivano in effetti una sensualità speciale, malandrina.
Possedeva una vestaglia di raso color rubino, un capo bellissimo che, quando si sedeva, assecondava le linee morbide di ventre e cosce. Se la metteva la domenica mattina quando veniva a fumare e a bere tè con noi in sala da pranzo, finché non era ora di prepararsi per andare in chiesa. La vestaglia si apriva all’altezza delle ginocchia su un velo chiaro di viscosa: la camicia da notte. Io non le sopportavo, le camicie da notte, per come ti si attorcigliano e salgono intorno alle gambe lasciandoti tutta scoperta là in mezzo. Naomi e io, quando eravamo piú piccole, disegnavamo uomini e donne con genitali di un’allarmante volgarità, quelli delle donne grassi e irti di peli ispidi come la schiena di un porcospino. Con la camicia da notte non ci si poteva dimenticare di quella roba schifosa che un pigiama invece era in grado di coprire e contenere. A quello stesso tavolo di colazione, la domenica, mia madre indossava un ampio pigiama a righe, un kimono sbiadito color ruggine chiuso da un cordone con nappine e il tipo di pantofole che sono in realtà calze di lana con una suola cucita al fondo.
Fern Dogherty e mia madre erano amiche pur essendo tanto diverse. Mia madre negli altri apprezzava l’esperienza del mondo, il contatto con ogni fonte di sapere o interesse culturale e, per finire, qualsiasi segnale che indicasse l’essere guardati con un certo sospetto, a Jubilee. E Fern non aveva sempre lavorato all’ufficio postale. No; un tempo aveva studiato canto, al Royal Conservatory of Music. Ora cantava nel coro della Chiesa unita; la domenica di Pasqua cantava I Know that My Redeemer Liveth, e ai matrimoni, Because, O Promise Me e The Voice that Breathed O’er Eden. Il sabato pomeriggio, quando l’ufficio postale era chiuso, lei e mia madre ascoltavano alla radio le opere del Metropolitan. Mia madre aveva un volume con i libretti d’opera. Lo tirava fuori e seguiva la vicenda, riconoscendo le arie di cui il testo forniva la traduzione. Rivolgeva domande a Fern, ma lei dell’opera non sapeva quanto ci si aspettava; le capitava addirittura di confondersi sul titolo di quella che ascoltavano. Certe volte però si sporgeva puntando i gomiti sul tavolo, non piú per rilassarsi ma per farsi sorreggere e, sprezzante del testo straniero, si metteva a cantare. «La-lalà, la, la, la lalà…» La potenza, la tensione che metteva nella voce risultava sempre sorprendente. Non la imbarazzava sprigionare quelle emozioni cosí teatrali e sproporzionate alle quali non badava affatto nella vita vera.
– Volevi fare la cantante lirica? – le chiesi.
– No. Io volevo fare l’impiegata delle poste. Insomma, sí e no. Tutto quel lavoro, quello studio. Mi mancava la grinta, credo sia stato questo il problema. Ho sempre preferito divertirmi –. Il sabato pomeriggio si metteva in pantaloni, con un paio di sandali che le lasciavano scoperte le dita grassocce e le unghie dipinte. Le cadeva la cenere sulla pancia che, senza il busto, esplodeva in una rotondità da gravidanza. «Il fumo mi sta rovinando la voce», diceva meditabonda.
Lo stile di Fern nel canto, seppure ammirato, era considerato, a Jubilee, a un passo dall’ostentazione, perciò capitava che i bambini la seguissero in strada strepitando e gorgheggiando per farle il verso. Mia madre era capace di prenderla come una persecuzione. Congetturava su processi simili a partire dagli indizi piú irrilevanti, e si andava a cercare i coniugi ebrei che gestivano lo spaccio militare, o il cinese taciturno e avvizzito della tintoria, su cui riversare dosi di stupefacente comprensione e tentare approcci amichevoli a voce alta e stentorea. Costoro non sapevano come prenderla. Fern comunque non era una perseguitata, questo mi era chiaro. Anche se, in effetti, le mie vecchie prozie, le zie di mio padre, pronunciavano il suo nome in modo strano, come se ci fosse dentro un sassolino da succhiare prima e poi sputare. E Naomi una volta mi disse: – Quella Fern Dogherty ha avuto un bambino.
– Ma figurati, – dissi io istintivamente sulla difensiva.
– E invece sí. L’ha avuto a diciannove anni. Per questo l’hanno cacciata dal conservatorio.
– Tu come lo sai?
– Lo sa mia madre.
La madre di Naomi aveva spie ovunque, puerpere di tanti anni prima, assistenti di moribondi, gente che la teneva informata. Col lavoro di infermiera, girando di casa in casa, era in grado di funzionare come una specie di aspirapolvere subacqueo, vale a dire di risucchiare quello a cui nessun altro aveva accesso. Riguardo a Fern, io mi sentivo in dovere di discutere con Naomi, perché lei era la nostra pensionante, e Naomi trovava sempre da ridire su persone di casa mia («Tua madre è atea», diceva con piacere satanico, e io a lei: «Non è vero. È agnostica», e per tutto il tempo che impiegavo nel fornirle il mio fiducioso chiarimento razionale Naomi ripeteva a cantilena stessa identica cosa, stessa identica cosa). Vuoi per delicatezza, vuoi per vigliaccheria, non ero in grado di rendere pan per focaccia, anche se il padre di Naomi era membro di una setta religiosa malvista e se ne andava in giro per il paese a sparare profezie strampalate con un fervore finto quanto i suoi denti.
Cominciai a notare le foto dei neonati sul giornale o le riviste, quando Fern era nei dintorni, e dicevo: «Oooh, ma guarda che carino!» e poi la scrutavo per cogliere eventuali moti di rimorso, di istinto materno, come se un giorno o l’altro potesse finire per scoppiare in lacrime e spalancare le braccia vuote, colpita al cuore da un annuncio pubblicitario per il borotalco o l’omogeneizzato di carne.
Sempre secondo Naomi, Fern faceva tutto con Mr Chamberlain, esattamente come se fossero marito e moglie.
Era stato Mr Chamberlain a presentarci Fern e a proporci di prenderla a pensione. Affittavamo casa da sua madre, ormai da tre anni cieca e costretta a letto nella clinica di lungodegenza della contea. C’era anche la madre di Fern, nella stessa struttura; era proprio lí, in effetti, che si erano conosciuti, in un giorno di visita. Lei al tempo era impiegata all’ufficio postale di Blue River. Mr Chamberlain lavorava alla stazione radio di Jubilee e abitava in un piccolo appartamento nello stesso palazzo, non avendo voluto sobbarcarsi l’impegno di una casa di proprietà. Mia madre, parlando, lo chiamava sempre «l’amico di Fern», in tono definitivo come se intendesse chiarire che l’appellativo di amico nel caso specifico era da intendersi in modo letterale.
«Si fanno buona compagnia, – diceva. – Senza stupidaggini per la testa».
Stupidaggini voleva dire sentimentalismi; voleva dire volgarità; voleva dire sesso.
Verificai su mia madre quel che aveva detto Naomi.
– Tanto varrebbe che Fern e Mr Chamberlain fossero sposati.
– Cosa? In che senso? Chi l’ha detto?
– Lo sanno tutti.
– Io no. Non tutti, quindi. Nessuno ha mai detto una cosa del genere quando potevo sentirla io. L’ha detto quella là, eh? Naomi.
Naomi non era molto gradita in casa mia, né io nella sua. Ciascuna delle due era sospettata di possibile contagio, nel mio caso di ateismo, nel suo, di interessamento al sesso.
– È che in questo paese pensare male è la prima cosa, e nessuno usa la testa.
– Se Fern Dogherty non fosse perbene, – concluse mia madre, con afflato logico, – pensi che l’avrei presa a vivere in casa mia?
Quell’anno, il nostro primo alle superiori, Naomi e io affrontavamo dibattiti pressoché quotidiani sul tema del sesso, immancabilmente con lo stesso tono che ci permetteva livelli di franchezza inarrivabili. Il tono era scurrile, sprezzante, di una curiosità fanatica. Solo un anno prima ci deliziava immaginarci vittime della passione; ora invece ci classificavamo come spettatrici, o tutt’al piú come fredde e gioiose sperimentatrici. Avevamo un libro che Naomi aveva scovato nel vecchio baule di sua madre, sotto le coperte buone ritirate in naftalina.
Occorre delicatezza nelle fasi iniziali del rapporto, leggevamo ad alta voce, specialmente qualora l’organo maschile si presenti di misura anomala. Si consiglia l’utilizzo di vaselina con funzione di lubrificante.
– Personalmente preferisco il burro. Piú buono di sapore.
Nelle fasi terminali della gravidanza è consueto il ricorso al rapporto intercrurale, o tra le cosce.
– Nel senso che lo fanno anche allora?
La penetrazione da tergo risulta indicata in caso di rilevante obesità della donna.
– Fern, – disse Naomi. – È cosí che lo fa con Fern. Obesità rilevante, come la sua.
– Aaah! Questo libro mi fa vomitare.
L’organo sessuale in erezione, leggemmo, poteva misurare anche fino a trentacinque centimetri. Naomi sputò la gomma e se la rollò tra le mani per farla sempre piú lunga, poi la prese da un lato e la lasciò penzolare in aria.
– Mr Chamberlain, campione dei campioni.
Da allora, ogni volta che veniva a casa mia Mr Chamberlain, se stavamo masticando gomma, una delle due, o tutt’e due, la sputava e rollava in quel modo e poi la faceva penzolare con aria ingenua, finché persino gli adulti se ne accorsero e Mr Chamberlain diceva: «Avete inventato proprio un bel gioco, eh?», e mia madre: «Smettetela. Fa schifo». (Si riferiva alla gomma). Tenevamo d’occhio Mr Chamberlain e Fern per captare segnali di passione, promiscuità, sguardi vogliosi o mani su per la sottana. Non ne ricavammo niente, e la mia difesa a loro favore si rivelò piú fondata di quanto io stessa avrei voluto. Perché anch’io, non meno di Naomi, adoravo intrattenermi fantasticando sulle loro ansimanti indecenze, il loro sguazzare in letti cigolanti (nei capanni per escursionisti, diceva Naomi, ogni volta che andavano in macchina a Tupperton per dare un’occhiata al lago). La ripugnanza non escludeva il godimento, nei miei pensieri; al contrario, le due cose erano inseparabili.
Mr Chamberlain, Art Chamberlain, leggeva i notiziari alla stazione radio di Jubilee. Si occupava anche degli annunci piú seri. Aveva una bella voce professionale, calda come cioccolata amara, che alternava alle note della musica per organo trasmessa la domenica pomeriggio in un programma dal titolo In Memoriam, sponsorizzato dall’agenzia di pompe funebri locale. Qualche volta aveva fatto cantare Fern, in quel programma; inni sacri, come I Wonder as I Wander, o brani dolenti sebbene non sacri, come The End of a Perfect Day. Non era difficile andare in onda sulla radio di Jubilee; io stessa avevo recitato una poesia comica, nel programma per ragazzi del sabato mattina, e Naomi aveva suonato al pianoforte The Bells of St. Mary’s. Ogni volta che accendevi la radio avevi una buona probabilità di sentire la voce di un conoscente, o almeno il suo nome citato fra i dedicatari. («Vi facciamo ora ascoltare questo brano che dedichiamo anche ai coniugi Otis, in occasione del loro ventottesimo anniversario; la richiesta ci è arrivata dal figlio George, con la moglie Etta e i tre nipotini Lorraine, Mark e Lois, ma anche dalla sorella di Mrs Otis, Mrs Townley di Porterfield Road»). Una volta avevo chiamato anch’io per dedicare una canzone allo zio Benny che compiva quarant’anni; mia madre però non aveva voluto che si facesse il suo nome. Lei preferiva ascoltare la stazione di Toronto che portava nelle nostre case le opere del Metropolitan, notiziari senza interruzioni pubblicitarie e un quiz che la metteva in competizione con quattro signori i quali, a giudicare dalla voce, dovevano avere tutti la barbetta a punta.
Mr Chamberlain doveva leggere anche certi annunci pubblicitari, e lo faceva con matura partecipazione, raccomandando le gocce nasali Vicks della farmacia Cross, e il menu domenicale dell’hotel Brunswick, o la ditta Lee Wickert & Figli per lo smaltimento del bestiame morto. – Allora, soldato, come andiamo a bestie morte? – lo salutava Fern, e lui, a volte, con una leggera sculacciata, rispondeva: – Se vuoi gli dico che hai bisogno di loro! – Mi sa che ne hai piú bisogno tu, va’, – ribatteva Fern senza troppa malizia, mentre lui si lasciava andare in poltrona e sorrideva a mia madre che intanto gli versava il tè. Aveva occhi verdeazzurri inespressivi, ma di un colore talmente bello che veniva voglia di farsi fare un vestito cosí. Era eternamente stanco.
Le mani bianche di Mr Chamberlain, le unghie tagliate corte e dritte, i capelli radi, tendenti al grigio e ben pettinati, il suo corpo che non turbava minimamente le pieghe dei vestiti, anzi sembrava fatto dello stesso materiale, come se fosse tutto camicia, abito e cravatta giú fino in fondo; erano cose che mi risultavano strane, in un uomo. Perfino lo zio Benny, magro e striminzito com’era, con i suoi bronchi devastati, manteneva certe espressioni o atteggiamenti che indicavano la possibilità di un gesto violento, inteso a creare scompiglio; e lo stesso valeva per mio padre, nonostante i suoi modi tanto riservati. Eppure era proprio Mr Chamberlain, quello che scrollava la cenere delle sue sigarette industriali nel posacenere, che aveva fatto la guerra, che era stato nella divisione corazzata. Se mio padre era in casa quando veniva a trovarci – a trovare Fern, in realtà, ma non lo rendeva subito esplicito – gli faceva domande sulla guerra. Ma era chiaro che la vedevano in modi diversi. Per mio padre si trattava di un progetto su vasta scala, scandito da varie campagne, ciascuna con il proprio preciso intento, destinato a realizzarsi o a fallire. Per Mr Chamberlain invece era un ammasso di storie che non portavano a nulla. Le sue, cercava di renderle comiche.
Ad esempio ci raccontò della prima volta che era entrato in azione e del caos che era capitato. Alcuni carri armati si erano spinti all’interno di un bosco, dal quale erano usciti, svoltando nella direzione sbagliata e credendo di avere di fronte i tedeschi. Perciò i primi colpi li avevano sparati contro un carro dei loro.
– Bum, saltato in aria! – concluse allegramente Mr Chamberlain, niente affatto mortificato.
– E c’erano dei soldati, nel carro?
Mi lanciò uno sguardo tra lo spiritoso e lo stupefatto come ogni volta quando dicevo qualcosa; sembrava sempre che mi vedesse camminare a testa in giú. – Beh, non mi stupirei che ce ne fossero.
– Allora, sono morti?
– Qualcosa di certo gli è successo. Io in giro non li ho mai piú visti. Puf!
– Abbattuti dal fuoco amico, ma è terribile, – disse mia madre, scandalizzata ma meno sicura di sé, rispetto al solito.
– In guerra può succedere, – mormorò mio padre con un tono severo, come se ogni commento a quel genere di racconti dimostrasse un certo candore donnesco. Mr Chamberlain si limitò a ridere. E proseguí col racconto del loro ultimo giorno di guerra. Avevano fatto saltare la cucina da campo; ci avevano puntato contro tutta l’artiglieria per godersi l’ultimo bel falò.
– Sembra di sentir parlare di un mucchio di ragazzini, – disse Fern. – Non di adulti in grado di combattere una guerra. Si direbbe che non avete fatto altro che spassarvela, da scemi.
– Come cerco di fare sempre io, no? Di spassarmela.
Una volta saltò fuori che era stato a Firenze, il che non era poi cosí strano, visto che aveva fatto la guerra in Italia. Ma mia madre si scosse, balzò sulla sedia e si mise in fremente ascolto.
– Lei è stato a Firenze?
– Sissignora, – disse Mr Chamberlain senza entusiasmo.
– A Firenze, lei è stato a Firenze, – ripeté mia madre, beata e incredula. Credevo di sapere che cosa provava, ma sperai che non lo dicesse troppo esplicitamente. – Non avevo mai pensato, – iniziò. – Cioè, sapevo che era stato in Italia ma è cosí strano… – Voleva dire che l’Italia di cui si era parlato, quella della guerra, era lo stesso posto della grande storia, esattamente lo stesso posto dei papi, dei Medici, di Leonardo. Dei Cenci. Dei cipressi. Di Dante Alighieri.
Curiosamente, se si considera il suo entusiasmo per il futuro, mia madre era emozionata dal passato. Si precipitò in soggiorno e tornò con il supplemento dell’enciclopedia dedicato all’arte e all’architettura, pieno di statue, dipinti, edifici, perlopiú fotografati in una luce fredda, plumbea, museale.
– Ecco qua! – lo aprí sulla tavola davanti a lui. – Eccola qui, la sua Firenze! Il David di Michelangelo. Questo, l’ha visto?
Un uomo nudo. Con il suo coso di marmo che gli pendeva davanti, come un petalo di giglio floscio che tutti potevano vedere. Chi altri se non mia madre, nel suo tremendo, ostinato candore, avrebbe mostrato a un uomo, a tutti noi, anzi, un’immagine come quella? Fern aveva le labbra tesissime, nello sforzo di trattenere il sorriso.
– Non ho avuto modo, no. Lí era pieno di statue. Il famoso qua, il famoso là. Ce n’è una in ogni angolo.
Mi rendevo conto che non era la persona adatta con cui parlare, non di queste cose. Ma mia madre proseguí imperterrita.
– Comunque, almeno le porte di bronzo?… Quelle porte stupefacenti? L’artista ha impiegato tutta la vita per farle. Guardate, eccole qua. Com’è che si chiamava? Ghiberti. Ghiberti. Tutta la vita.
Certe cose, ammise Mr Chamberlain, le aveva viste, altre no. Osservava il volume con una ragionevole dose di pazienza, e infine disse che a lui l’Italia non era piaciuta.
– Beh, sí, magari l’Italia non era male. Erano gli italiani…
– Le sono sembrati decadenti? – disse dispiaciuta mia madre.
– Decadenti? Non so. Non so com’erano. Non gliene importa niente. Per la strada in Italia una volta un tizio è venuto a offrirmi in vendita la figlia. Succedeva di continuo.
– Perché voleva vendere una ragazza? Per farne cosa? – dissi io, mettendo su, con tutta la disinvoltura di cui ero capace, una facciata di ingenuità senza complicazioni. – Una schiava?
– In un certo senso, – disse mia madre, e chiuse il libro, rinunciando a Michelangelo e alle porte di bronzo.
– Poteva avere l’età di Del, – disse Mr Chamberlain con un ribrezzo che in lui risultava un tantino fasullo. – Certe anche meno.
– Maturano prima, – disse Fern. – In quei climi caldi.
– Del. Porta via il libro, ritiralo –. L’allarme nella voce di mia madre fu come un frullo d’ali improvviso.
Comunque, avevo sentito. Non tornai in camera da pranzo, andai di sopra invece, a spogliarmi. Infilai la vestaglia di mia madre, quella di viscosa nera a chiazze di fiori bianchi e rosa. Un regalo inutile che non si metteva mai. In camera sua, con la pelle d’oca e l’aria di sfida, mi studiai nello specchio a tre ante. Abbassai la stoffa dalle spalle e la raccolsi sul seno, al tempo piú o meno della misura di quei piccoli coni di carta che si mettevano sotto le coppe per il gelato. Avevo acceso la luce accanto alla petineuse; arrivava morbida e calda attraverso un supporto di vetro color caramello e spalmava sulla mia pelle uno splendore diffuso. Osservai la mia fronte alta e convessa, la carnagione picchiettata di efelidi, la mia faccia acqua e sapone: con lo sguardo ero in grado di modificare quello che vedevo, di rendermi vellutata e sfuggente, di trasformare i miei capelli castano chiaro e sottili come erba secca in una ricca massa ondulata tendente piú all’oro che al fango. La voce di Mr Chamberlain mentre diceva poteva avere l’età di Del funzionava nella mia testa come la carezza della viscosa sulla pelle, mi avvolgeva, facendomi sentire desiderata e in pericolo. Pensai alle ragazze di Firenze, di Roma, ragazze della mia età che un uomo poteva comprare. Peli neri, italiani, sotto le ascelle. Peluria scura agli angoli della bocca. Maturano prima, in quei climi caldi. Cattoliche. Un uomo ti pagava per lasciarglielo fare. E cosa ti diceva? Ti spogliava lui o aspettava che lo facessi tu? Si calava i pantaloni o se se li sbottonava soltanto e ti puntava contro il suo coso? Era la fase di transizione, il ponte fra ciò che era considerato un comportamento accettabile, noto e normale e l’atto bestiale e magico, quella che non ero in grado di immaginare. Niente di tutto questo si trovava nel libro della madre di Naomi.
C’era una casa a Jubilee dove abitavano tre prostitute. Cioè, tre se si contava anche Mrs McQuade che la dirigeva; aveva almeno una sessantina d’anni. La casa era all’estremità settentrionale della via maestra, affacciata su un cortile infestato di tarassaco e malvone, accanto a una stazione di servizio B/A. Nelle belle giornate le due donne piú giovani uscivano a volte a sedersi su seggiole di tessuto. Naomi e io avevamo fatto numerose escursioni da quelle parti e, una volta, le avevamo anche viste. Stavano in ciabatte e vestagliette di cotone stampato, le gambe pallide e nude. Una di loro leggeva lo «Star Weekly». Naomi disse che era quella di nome Peggy e che una sera nella toilette maschile della sala da ballo Gay-la l’avevano convinta ad accontentare una squadra di uomini, da in piedi. Ma cose del genere erano possibili? (Sentii la storia una seconda volta ma in quella versione era stata Mrs McQuade in persona l’eroina dell’impresa, e non alla sala da ballo Gay-la bensí contro il muro sul retro del Blue Owl Cafe). Peccato aver visto cosí poco di Peggy, giusto un nido di riccioli morbidi, bruno topo, sopra il giornale; peccato non aver visto la faccia. Mi aspettavo qualcosa: il lampo indecente della corruzione, come il miasma esalato da una palude. Mi sorprese, in un certo senso, che anche lei leggesse il giornale, che le parole stampate significassero le stesse cose che probabilmente significavano per tutti noi, che mangiasse e bevesse, che fosse rimasta umana. Perché la pensavo come qualcuno che si sia spinto oltre la condizione attiva degli esseri umani per approdare alla depravazione perfetta, al polo opposto della santità, ma altrettanto remota e inconoscibile. Quello che voleva apparire come ordinario – lo «Star Weekly», le tendine a pois tirate indietro, i gerani che provavano a fiorire dentro le latte sul davanzale del bordello – a me parevano inganni deliberati e insidiosi: la buccia della vita di tutti i giorni tesa su tanta spudoratezza, su quello sfogo di devastante lussuria.
Mi accarezzai le ossa iliache sotto il tessuto fresco. Se fossi nata in Italia, la mia carne avrebbe già conosciuto usi e abusi. Non sarebbe stata colpa mia. Il pensiero della prostituzione al di là della colpa mi tonificò per un attimo; era un pensiero inquieto, allettante in quanto assolutamente estremo, capace di fare piazza pulita di ansia e ambizioni.
Dopodiché mi costruii una fantasia strutturata in episodi abborracciati e incerti. Immaginavo che Mr Chamberlain mi sorprendesse con la vestaglia a fiori nera di mia madre tirata giú sulle spalle come mi ero vista io allo specchio. Poi la vestaglia se ne andava e lui mi vedeva senza niente addosso. Come poteva succedere? Innanzitutto occorreva liberarsi delle altre persone che di norma sarebbero state in casa con noi. Mia madre, la spedivo fuori a vendere enciclopedie; mio fratello, lo esiliavo alla fattoria. Doveva essere durante le vacanze estive, quando ero a casa da scuola. Fern non era ancora tornata dall’ufficio postale. Scendevo di sotto nel caldo del tardo pomeriggio di una giornata dall’aria ferma, sulfurea, e avevo addosso soltanto quella vestaglia. Bevevo un po’ d’acqua dal rubinetto, senza accorgermi della presenza di Mr Chamberlain, seduto in silenzio nella stanza… e poi? Magari un cane sconosciuto, entrato in casa nostra quell’unica volta, mi saltava addosso levandomi la vestaglia. O forse io mi giravo di scatto e la stoffa restava impigliata nel chiodo di una sedia, e cosí mi scivolava tutto sulle caviglie. La cosa importante era che si trattasse di un incidente: nessuna volontà da parte mia, e certamente nessuna da parte di Mr Chamberlain. Oltre l’istante della rivelazione, il mio sogno non si spingeva. Spesso anzi non arrivava nemmeno fin là, per indugiare in dettagli preliminari e perfezionarli. L’attimo in cui ero vista nuda non poteva essere perfezionato, era una lama di luce pura. Non immaginavo mai la reazione di Mr Chamberlain, non riuscivo nemmeno a vederlo distintamente. La sua presenza risultava essenziale ma sfocata; nell’angolo del mio sogno a occhi aperti lui era una sagoma priva di connotati ma potente, elettrica, ronzante come una luce azzurra fluorescente.
Il padre di Naomi ci intercettò mentre sfrecciavamo davanti alla sua porta, dirette da basso.
– Ehi, signorinelle, venite a trovarmi un minuto, mettetevi comode.
Ormai era primavera, una serata gialla e ventosa. Eppure lui bruciava rifiuti dentro una stufetta rotonda in camera sua, dove faceva caldo e c’era cattivo odore. Si era lavato calze e mutande e le aveva stese a un filo lungo la parete. Naomi e sua madre lo trattavano senza tanti riguardi. Quando sua madre era via, come adesso, Naomi apriva una lattina di spaghetti e glieli metteva in un piatto, per cena. Io le dicevo: «Ma non glieli scaldi?» e lei rispondeva: «Non vale la pena. Tanto non gli fa differenza».
In camera sua, per terra, teneva mucchi di opuscoli che immaginavo avessero a che fare con le sue credenze religiose. Certe volte Naomi doveva andarli a prendere all’ufficio postale. Influenzata da sua madre, Naomi guardava alle sue convinzioni di fede con grande disprezzo. «Sono solo profezie, una dietro l’altra, – diceva. – La fine del mondo l’hanno già annunciata tre volte».
Sedemmo al bordo del letto, che non aveva sopraccoperta ma solo un ruvido plaid piuttosto sporco; lui stava sulla sedia a dondolo di fronte. Era un vecchio. La madre di Naomi era stata la sua infermiera, prima di sposarlo. Parlava con intervalli di solito lunghi fra una parola e l’altra, durante i quali, però, non si dimenticava di te, ma ti puntava quegli occhi chiari sulla fronte come se si aspettasse di leggerci il resto del suo discorso.
– Dalla Bibbia, – disse cordialmente quanto inutilmente, un po’ come chi scelga di ignorare obiezioni di cui pure è consapevole. Aprí una Bibbia stampata a caratteri grossi alla pagina già segnata e cominciò a leggere con voce stridula, da anziano, tra pause irregolari e difficoltà di fraseggio.
Allora il regno de’ cieli sarà simile a dieci vergini le quali, prese le loro lampade, uscirono a incontrar lo sposo. Or cinque d’esse erano stolte e cinque avvedute; le stolte, nel prendere le loro lampade, non avean preso seco dell’olio; mentre le avvedute, insieme con le loro lampade, avean preso dell’olio ne’ vasi. Or tardando lo sposo, tutte divennero sonnacchiose e si addormentarono. E sulla mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, uscitegli incontro! Allora tutte quelle vergini si destarono e acconciaron le loro lampade. E le stolte dissero alle avvedute: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono.
A quel punto naturalmente si scopriva (ricordai di aver già sentito tutta la storia in passato) che le vergini prudenti si rifiutavano di rinunciare a un po’ del loro olio per paura di non averne abbastanza, e le vergini stolte dovevano andarlo a comprare e cosí si perdevano l’arrivo dello sposo e restavano chiuse fuori. Avevo sempre pensato che quella parabola, che non mi piaceva, avesse a che fare con la prudenza, il non farsi cogliere impreparati, roba del genere. Ma mi resi conto che, secondo il padre di Naomi invece, riguardava il sesso. Lanciai un’occhiata a Naomi per intercettare il vago risucchio agli angoli della bocca, la voglia di ridere con cui sempre riconosceva e accoglieva l’argomento, ma aveva invece una faccia impenetrabile e mesta, come nauseata proprio da quello che era per me un piacere segreto: il flusso poetico delle parole, delle espressioni arcaiche. Avean preso seco e acconciaron le loro lampade e Ecco lo sposo, uscitegli incontro! Tutto ciò la irritava al punto da toglierle perfino il piacere della parola vergini.
La bocca sdentata tacque. Insidiosa e perbene come quella di un neonato.
– Per ora, basta. Pensateci quando sarà il momento. Contiene un insegnamento per voi ragazze.
– Vecchio coglione, – disse Naomi, sulle scale.
– Mi fa… pena.
Mi rifilò un colpo in un rene.
– Sbrighiamoci, dobbiamo uscire di qui. Come niente, ne trova un’altra. Rischia di perderci gli occhi, a furia di leggere la Bibbia. Gli starebbe bene.
Corremmo fuori, su Mason Street. In quelle lunghe serate di luce, perlustrammo tutto il paese, bighellonando oltre il LyceumTheatre, il Blue Owl Cafe, la sala da biliardo. Ci sedemmo sulle panchine accanto al cenotafio e, se una macchina ci suonava il clacson, salutavamo con la mano. Sconcertati dalla stupidità acerba di quelle due coscelunghe, si limitavano a superarci, ridendo forte dai finestrini. Entrammo nella toilette femminile del municipio – pavimenti umidi, pareti porose, in cemento, odore acre di ammoniaca – e lí, sulle porte dei gabinetti, dove soltanto le villane senza cervello incidevano il proprio nome, scrivemmo i nomi delle due reginette della nostra classe: Marjory Coutts, Gwen Mundy. Usammo il rossetto e disegnammo sotto piccole figure oscene. Perché? Per odio verso quelle ragazze che trattavamo in modo immancabilmente dolce e ossequioso? No. Sí. Odiavamo la loro immunità, la raffinata mancanza di curiosità, qualunque forza le trascinasse lievi e caritatevoli sulla superficie della vita di Jubilee, e avrebbe continuato a tenerle a galla verso associazioni femminili, fidanzamenti e matrimoni con medici e avvocati, in località ricche e lontane. Le odiavamo perché nessuno avrebbe mai immaginato che potessero entrare nelle toilette del municipio.
Dopo quell’impresa, scappammo via, senza sapere per certo se avevamo commesso un reato o no.
Ci sfidammo a vicenda. Camminando sotto lampioni fiochi come fiori di carta velina, o davanti a finestre non illuminate dietro le quali speravamo che il mondo guardasse, ci lanciammo sfide.
– Fai finta di avere una paralisi cerebrale. Ti sfido.
E subito mi disarticolavo, ciondolavo la testa, rovesciavo gli occhi, cominciavo a parlare in modo incomprensibile, farfugliando rabbiosamente.
– Fallo per tutto l’isolato. Chiunque incontriamo. Senza fermarti. Ti sfido.
Incontrammo il vecchio dottor Comber, magro e compunto, vestito benissimo. Si fermò, batté a terra il bastone e commentò:
– Cos’è questa scenata?
– Una crisi, signore, – disse Naomi in tono dolente. – Le vengono sempre queste crisi.
Ridere dei poveri inermi, degli afflitti. Che cattivo gusto, che crudeltà, che gioia.
Andammo al parco pubblico, un posto trascurato, deserto, un triangolo di terra che i grandi cedri rendevano troppo cupo perché i bambini ci volessero giocare, senza del resto richiamare adulti per il passeggio. Perché mai a Jubilee uno avrebbe voluto andarsene a spasso e vedere altra erba, altra terra, altri alberi, vale a dire le stesse cose che assediavano l’abitato da tutti i lati? La gente passeggiava in centro, per guardare i negozi, incontrarsi sui marciapiedi, sentire la speranza di una vita attiva. Naomi e io tutte sole ci arrampicammo sui grandi cedri antichi, graffiandoci le ginocchia sulla corteccia, urlando come non avevamo sentito il bisogno di fare da piú piccole per la vista che si godeva dai rami biforcuti, dai quali la terra sembrava inclinata. Ci spencolavamo aggrappandoci strette con le mani o dalle caviglie bloccate; fingevamo di essere due babbuini, chiassosi, farneticanti. Sentivamo tutto il paese sotto di noi, attonito, disposto a lasciarsi sbalordire.
Si udivano i rumori tipici della stagione. Bambini che cantavano saltellando sui marciapiedi, con le loro vocette chiare, sincere.
La signora sta sul monte
il suo nome non si sa
veste solo d’oro e argento
scarpe nuove non ne ha.
E l’urlo dei pavoni. Scendemmo dagli alberi per andarli a guardare, giú oltre il parco pubblico, su una stradina senza nome che portava al fiume. I pavoni erano di un certo Pork Childs che guidava il camion della spazzatura in paese. La strada non aveva marciapiedi. Procedemmo scavalcando pozzanghere luccicanti nel fango soffice. Pork Childs aveva un capanno dietro casa dove teneva il pollame. Né la casa né il capanno erano tinteggiati.
Eccoli là, i pavoni, sotto le querce spoglie. Come facevamo a scordarceli, da una primavera all’altra?
Le femmine si dimenticavano in fretta, coi loro colori smorti come il cortile in cui razzolavano. I maschi in compenso non deludevano mai. Per i colori strabilianti, essenziali, l’azzurro intenso di petto, collo e gola, le penne piú scure fra le quali si intravedevano chiazze d’inchiostro, o verdi come di soffici alghe sommerse da acque tropicali. Uno aveva aperto la coda mostrandone gli occhi ciechi, di raso dipinto. E quelle testoline idiote, regali. Una gloria nel gelo della primavera, una meraviglia di Jubilee.
Ma il chiasso era ripreso e non proveniva da nessuno di loro. Ci fece alzare gli occhi verso ciò che si stentava a credere non avessimo visto immediatamente – l’unico pavone bianco in cima a un albero, con la coda completamente spalancata che ricadeva tra i rami, come acqua sulle rocce. Bianco purissimo, un vero miracolo. E nascosto lassú, dalla testa gli uscivano quelle grida convulse, gutturali, riottose.
– È il sesso che li fa urlare cosí, – disse Naomi.
– Le gatte urlano, – dissi io, ricordando qualcosa di quando stavamo in campagna. – Urlano da matti quando il maschio le prende.
– Tu non urleresti? – disse Naomi.
Poi dovemmo andar via, perché comparve Pork Childs, che avanzava a passo lesto e ondeggiante in mezzo ai pavoni. Gli avevano amputato tutte le dita dei piedi, come sapevamo, dopo che gli si erano assiderate la volta che aveva dormito buttato in un fosso, troppo ubriaco per riuscire a tornare a casa. Era passato tanto tempo, era prima che si convertisse alla Chiesa battista. – Buonasera, ragazzi! – ci gridò, l’eterno saluto, l’eterna spiritosaggine. Ciao, ragazzi! Ciao, ragazze! strillato dalla cabina del camion della spazzatura, per tutte le strade col bello e col cattivo tempo, senza ricevere mai risposta. Scappammo.
L’auto di Mr Chamberlain era parcheggiata davanti a casa nostra.
– Entriamo, – disse Naomi. – Voglio vedere che cosa fa alla povera Fern.
Niente. In sala da pranzo Fern si provava il vestito di chiffon a fiori che mia madre la stava aiutando a cucire per il matrimonio di Donna Carling, per il quale avrebbe cantato come solista. Mia madre era seduta di lato sulla sedia di fronte alla macchina da cucire e Fern le ruotava davanti come un enorme parasole mezzo aperto.
Mr Chamberlain sorseggiava un vero drink, whisky con acqua. Andava in macchina fino a Porterfield per comprarsi il whisky, perché a Jubilee la vendita era proibita. Mi sentii fiera e imbarazzata al pensiero che Naomi vedesse la bottiglia sulla credenza, perché a casa sua non sarebbe mai successo. Mia madre giustificava il bere di Mr Chamberlain, perché aveva fatto la guerra.
– Ed ecco che arrivano le due belle signorine, – disse Mr Chamberlain con profonda insincerità. – Una ventata di grazia e di primavera. Di aria fresca dei prati.
– Ci fai assaggiare? – dissi per darmi delle arie davanti a Naomi. Lui però rise e portò una mano sopra il bicchiere.
– Niente da fare, finché non ci dite dove siete state.
– Siamo andate giú da Pork Childs a guardare i pavoni.
– Vi piacciono, eh, gli uccelli? Sono belli, eh, i pavoni? – cantilenò Mr Chamberlain.
– Dài, vogliamo assaggiare.
– Del, comportati come si deve, – disse mia madre con la bocca piena di spilli.
– Voglio solo scoprire che gusto ha.
– Non posso certo farti assaggiare gratis. Non ho ancora visto nessun numero, nemmeno un’acrobazia. Tipo alzarti sulle zampette e guaire da bravo cagnetto.
– So fare la foca. Vuoi vedere? Ti faccio vedere?
Mi piaceva tanto. Non mi preoccupavo che fosse perfetta o no, che potessi sbagliare qualcosa; non avevo paura che gli altri mi giudicassero stupida. L’avevo fatto perfino a scuola, durante l’ora di reclutamento dei nuovi iscritti alla Croce Rossa, e avevano riso tutti; la risata di meraviglia era una tale soddisfazione, mi faceva sentire talmente accettata che avrei potuto continuare a fare la foca per sempre.
Mi misi in ginocchio, i gomiti stretti sui fianchi, e agitai le mani come fossero pinne, mentre mi esibivo nel mio impareggiabile latrato ragliante. L’avevo copiato da un vecchio film di Mary Martin in cui Mary Martin canta una canzone seduta accanto a una piscina turchese mentre le foche latrano in coro.
Mr Chamberlain abbassava per gradi il bicchiere e me lo avvicinava alle labbra ma lo ritraeva ogni volta che smettevo di latrare. Ero inginocchiata vicino alla sua sedia. Fern mi dava le spalle, con le braccia sollevate; la testa di mia madre era nascosta, mentre puntava la stoffa intorno alla vita di Fern. Naomi, che aveva già visto la foca piú volte ed era interessata al cucito, osservava Fern e mia madre. Finalmente Mr Chamberlain mi permise di sfiorare con le labbra il bordo del bicchiere che teneva in una mano. Poi con l’altra fece una cosa che nessuno poté vedere. La passò sotto il giromanica umido della mia camicetta per infilarla nell’ampio scamiciato che indossavo. E sfregò rapidamente, premendomi forte contro il seno. Spinse cosí forte sulla carne soffice da schiacciarla. Io mi ritirai subito. Fu come uno schiaffo, una stangata.
– Allora, che gusto ha? – mi chiese dopo Naomi.
– Sa di piscio.
– Cosa ne sai? Non hai mai bevuto il piscio –. Mi rivolse un’occhiata fra lo scaltro e il perplesso; aveva un sesto senso per i segreti.
Avevo pensato di dirglielo, ma cambiai idea, lo tenni per me. Perché dirglielo comportava ripetere la scena.
«Come? Come teneva la mano all’inizio? Come ha fatto a infilartela sotto lo scamiciato? Ha sfregato o premuto, o tutt’e due? Con le dita o con tutta la mano? Cosí?»
C’era un dentista in paese, il dottor Phippen, fratello della bibliotecaria sorda, del quale si diceva che avesse infilato la mano su per le gambe di una ragazza mentre le controllava i molari. Passando sotto le finestre del suo studio Naomi e io dicevamo a voce alta: «Sarebbe bello prendere appuntamento dal dottor Phippen, no? Il dottor Palpone Phippen. Lui sí che va fino in fondo!» Sarebbe andata cosí anche con Mr Chamberlain; l’avremmo trasformato in uno scherzo, sperato nello scandalo, e progettato strategie per inchiodarlo, ma non era questo che io volevo.
– Ah, era bellissimo, – dice Naomi, con voce stanca.
– Che cosa?
– Il pavone. Quello sull’albero.
Mi sorprese e mi irritò anche un poco sentirle usare quell’aggettivo a proposito di una cosa del genere, e che se ne fosse ricordata, perché ero abituata a un certo comportamento da parte sua, a un’attenzione rivolta solo a certe cose e a nient’altro. Mentre correvamo a casa, io avevo già in mente di scrivere una poesia sul pavone. Il fatto che ci pensasse anche lei mi pareva quasi un’intrusione; in quella zona dei miei pensieri non lasciavo entrare né lei né nessun altro.
In effetti cominciai a scriverla, la mia poesia, quando salii per andare a letto.
Chi grida tra gli alberi in queste notti velate?
È il pavone che sento o l’annuncio dell’estate?
Questa era la parte migliore.
Ripensai anche a Mr Chamberlain, alla sua mano, diversa da tutto ciò che aveva mostrato di sé fino a quel momento con gli occhi, la voce, le risate e le storie. Era come un segnale, messo là dove poteva essere compreso. Una violazione impertinente, molto sicura di sé, imperiosa, libera da qualsiasi sentimento.
Alla sua visita successiva, gli agevolai la possibilità di fare qualcosa di simile, andando a mettermi vicino a lui mentre si infilava gli stivali di gomma nell’ingresso buio. Ogni volta, quindi, aspettavo il segnale, e lo ricevevo. Non si prendeva il disturbo di cominciare con un pizzicotto sul braccio, un buffetto, un braccio intorno alle spalle, con fare paterno e cameratesco. Puntava dritto al seno, alle natiche, alle cosce, con la brutalità del fulmine. Ed era proprio cosí che immaginavo la comunicazione sessuale: come un lampo di follia, come l’irruzione surreale, sprezzante, spietata dentro il modo della decenza apparente. Ormai avevo messo da parte le idee di amore, tenerezza e conforto alimentate dai miei sentimenti per Frank Wales; tutto ciò mi sembrava insipido e di una puerilità intollerabile. Nella segreta violenza del sesso avrei trovato un riconoscimento che andava ben al di là di qualunque dolcezza, al di là delle buone intenzioni e delle persone.
Non che progettassi di fare sesso. Un lampo isolato può non precedere altro che il fulmine successivo.
E tuttavia mi si piegarono le ginocchia, il giorno che Mr Chamberlain suonò il clacson per me. Aspettava a un mezzo isolato da scuola. Naomi non c’era; aveva la tonsillite.
– E la tua amica?
– È malata.
– Che peccato. Ti do un passaggio a casa?
In macchina tremavo. Avevo la lingua asciutta, la bocca riarsa, a stento riuscivo a parlare. Che fosse quello, il desiderio? Voglia e paura di sapere che montano fino all’angoscia? Essere sola con lui, senza la protezione degli altri e delle circostanze, cambiava le cose. Che poteva volere, in pieno giorno, sul sedile della macchina?
Non mosse un dito verso di me. Ma non prese per River Street; procedette placido su varie strade traverse evitando le buche lasciate dall’inverno.
– Pensi di potermelo fare un favore, se te lo chiedo?
– Va bene.
– Hai idea di cosa può essere?
– Non lo so.
Parcheggiò dietro il caseificio, sotto i castagni che gettavano le primissime foglie di un verdegiallo amarognolo. Qui?
– Tu ci vai nella stanza di Fern? Potresti andarci una volta che in casa non c’è nessuno?
Ritrassi lentamente i pensieri dalle mie aspettative di stupro.
– Dovresti entrare in camera sua e passarla in rassegna per me, vedere che cosa ci tiene. Se c’è una cosa che mi potrebbe interessare. Hai idea di cosa potrebbe essere, eh? Secondo te cosa mi interessa?
– Che cosa?
– Lettere, – disse Mr Chamberlain, abbassando di colpo la voce per assumere un tono pratico, reso mesto dall’aver scorto una realtà a me impenetrabile. – Vedi se ha delle vecchie lettere. Magari dentro un cassetto. O nel suo guardaroba. Probabile che le tenga dentro una vecchia scatola. Legate a fasci; fanno cosí, le donne.
– Lettere di chi?
– Mie. Cosa credevi? Non devi leggerle tutte, basta che guardi la firma. Le ho scritte un po’ di anni fa, la carta potrebbe essere ingiallita. Non lo so. Le ho scritte a penna, sono sicuro, perciò dovrebbero essere ancora leggibili. Ecco qua. Ti do un campione della mia scrittura, per aiutarti –. Prese una busta dal vano portaoggetti e ci scrisse sopra: Del non è una brava ragazza.
La infilai nel libro di latino.
– Non farla vedere a Fern, sennò riconosce la scrittura. E nemmeno alla mamma. Potrebbe stupirsi di quello che ho scritto. Una bella sorpresa per lei, eh?
Mi accompagnò a casa. Volevo scendere all’angolo di River Street ma mi disse di no. – Cosí sembra che abbiamo qualcosa da nascondere. Allora, come pensi di farmi sapere? Che ne dici di domenica sera, quando vengo a cena? Ti chiedo se hai finito i compiti! Se le hai trovate, dici sí. Se hai cercato e non le hai trovate, dici di no. Se per qualche motivo non hai potuto cercarle, dici che non ti ricordi se ne avevi.
Mi fece ripetere. – Sí vuol dire trovate, no, non trovate; non mi ricordo vuol dire non ho potuto cercare –. Questa esercitazione mi offendeva; ero famosa per la mia memoria.
– Benissimo. Ciao –. Sotto il livello visibile dall’esterno dell’auto, mi scaricò sulla gamba una serie di pugni a rimbalzo forti abbastanza da farmi male. Mi scaraventai fuori coi libri e, quando fui sola, con la coscia ancora formicolante, tirai fuori la busta per leggere cosa ci aveva scritto. Del non è una brava ragazza. Mr Chamberlain dava per scontato che ci fosse il seme della slealtà in me, come pure quello di una sensualità criminale in attesa di essere messa a frutto. Aveva sempre saputo che non avrei strillato quando mi aveva schiacciato il seno, sapeva che non avrei riferito a Fern questa nostra conversazione e che l’avrei invece spiata come mi aveva chiesto di fare. Che avesse individuato la mia vera natura? In effetti, nel tedio delle ore di scuola durante le quali avevo lavorato di goniometro e compasso e tradotto frasi latine [avendo posto l’accampamento e massacrato i cavalli del nemico per mezzo di sotterfugi, Vercingetorige si preparava a dare battaglia il giorno seguente], non era mai venuta meno in me la consapevolezza della mia depravazione rigogliosa come frumento a primavera, del mio corpo che si ammaccava di chiazze invisibili nei punti in cui era stato toccato. In tuta azzurra, mentre mi lavavo con un sapone che quasi mi portava via la pelle, dopo una partita di pallavolo, mi ero guardata nello specchio dei bagni femminili e avevo sorriso di nascosto alla mia faccia arrossata, pensando alla lussuria che mi era stata prospettata, agli inganni di cui ero capace.
Entrai nella stanza di Fern il sabato mattina, mentre mia madre era andata a fare le pulizie nella casa di campagna. Mi guardai intorno senza fretta, osservando il koala di peluche sul cuscino, la cipria versata sul ripiano della petineuse, i vasetti con dentro un avanzo di deodorante ormai secco, del balsamo, crema da notte, un vecchio rossetto e uno smalto per unghie col tappo incrostato. La foto di una signora con addosso un vestito a fasce sovrapposte, come tante sciarpe una sull’altra, probabilmente la madre di Fern, con in braccio un grasso bebè vestito di lana, probabilmente Fern. Fern, di sicuro, sfocata, in maniche a farfalla, con un fascio di rose tra le braccia, e una massa di riccioli scalati sulla testa. Ancora, altre foto accartocciate ai bordi e infilate nella cornice dello specchio. Mr Chamberlain in paglietta a falda rigida, pantaloni bianchi, lo sguardo all’obiettivo come se la sapesse piú lunga lui della macchina fotografica. Fern meno in carne di adesso, ma comunque in carne, seduta in pantaloncini corti su un tronco d’albero, in una località di vacanze tra i boschi. Mr Chamberlain e Fern vestiti a festa – lei con tanto di bouquet da polso – nello scatto di un fotografo di strada, mentre passeggiano in una città sconosciuta davanti all’ingresso di un cinema che proietta Due marinai e una ragazza. Il picnic del personale dell’ufficio postale nel parco di Tupperton, sotto un cielo coperto, con Fern in pantaloncini che impugna soddisfatta una mazza da baseball.
Non trovai nessuna lettera. Frugai nei cassetti, sui ripiani dell’armadio, sotto il letto, perfino dentro le valigie. C’erano però tre diversi fasci di carte tenute insieme da un elastico.
In uno era contenuta una di quelle lettere a catena, e tantissime copie dello stesso testo, a matita o inchiostro, in grafie differenti, alcune battute a macchina o ciclostilate.
Questa preghiera ha già fatto sei volte il giro del mondo. È stata composta sull’isola di Wight da una chiaroveggente a cui era comparsa in sogno. Copia il testo della lettera sei volte e inviala a sei amici, poi copia la preghiera allegata e inviala a sei indirizzi che trovi in cima all’elenco. Nel giro di sei giorni incomincerai a ricevere copie della stessa preghiera da ogni angolo del pianeta e, con le preghiere, si riverseranno sulla tua vita benedizioni e fortuna SE NON AVRAI INTERROTTO LA CATENA. Se interromperai la catena, puoi aspettarti il verificarsi di un evento triste e spiacevole in capo a sei mesi dal giorno in cui ricevesti la preghiera. NON INTERROMPERE LA CATENA, NON OMETTERE LA PAROLA SEGRETA CHE TROVERAI AL FONDO DEL TESTO. PER MEZZO DI QUESTA PREGHIERA SI DIFFONDERANNO NEL MONDO LA GIOIA E LA BUONA FORTUNA.
Su questo/a nostro/a fratello/sorella, o Signore,
riversa con dovizia pace e amore.
Lenisci la sua pena, benedici il suo cuore,
non si prosciughi in lui/lei la fonte dell’amore.
KARKAHMD
Un altro fascio raccoglieva svariati fogli di stampe tutte imbrattate e interrotte da smorte illustrazioni in bianco e nero di quelle che a tutta prima scambiai per sacche da enteroclisma su un groviglio di tubi ma che, leggendo le didascalie, scoprii essere disegni in sezione trasversale del corpo umano maschile e femminile, corredate da articoli quali pessari, tamponi e profilattici (termini a me del tutto ignoti nella loro esattezza) infilati al loro posto. Non riuscivo a fermare lo sguardo su quelle figure senza provare ansia e un forte disagio localizzato, perciò cominciai a leggere. Lessi della moglie di un povero agricoltore del Nord Carolina che si era gettata sotto un treno merci quando aveva scoperto di aspettare il nono figlio, di donne che morivano in case popolari per complicazioni da gravidanza o orrendi tentativi falliti di aborto praticati con spilloni da cappello, ferri da calza, pompe da biciclette. Lessi, scorrendo, statistiche sull’incremento demografico, su leggi passate in diversi paesi riguardo al controllo delle nascite, su donne finite in galera per averne sostenuto la necessità. Poi c’erano istruzioni sull’uso di numerosi dispositivi. Anche nel libro della madre di Naomi c’era un capitolo sull’argomento, ma non eravamo mai arrivate a leggerlo, essendoci impantanate alla sezione «Analisi e casistica dei rapporti sessuali». Tutto ciò che leggevo ora su schiuma e gelatina, perfino l’uso del termine «vagina», rendeva il fenomeno al tempo stesso laborioso e domestico, in qualche modo connesso a pomate, unguenti, fasciature e ospedali, e mi procurava la stessa sensazione di ripugnanza, di ridicola impotenza di quando mi dovevo spogliare dal dottore.
Il terzo fascio conteneva delle poesie battute a macchina. Certe avevano titolo Spremuta di limone fatta in casa. Il lamento della moglie del camionista.
Che posso farci, marito, ti scongiuro,
se ho tanta voglia di qualcosa di duro?
Non sei mai a casa, ogni notte ti aspetto;
la mia micia il tuo uccello vuol portarsi nel letto.
Ero allibita che una persona adulta potesse conoscere, o ricordare, parole simili. L’avida successione di versi, la brevità di quei termini crudi affidati alla spudoratezza del dattiloscritto, accendevano a fiotti l’eccitazione, come spruzzi di cherosene su un falò. Ma erano versi ripetitivi, artificiosi; dopo un po’ lo sforzo meccanico necessario a comporli cominciò a farsi sentire e ne affaticò il ritmo; diventarono di una noia stupefacente. Le singole parole invece conservavano lampi di energia, una su tutte l’ineffabile cazzo, su cui non ero mai riuscita a posare gli occhi davvero quando la individuavo su marciapiedi e steccati. Prima di quel momento non ero mai stata capace di contemplare l’impeto brutale, il magnetismo ribaldo.
Dissi di no a Mr Chamberlain, quando mi chiese se avevo finito i compiti. Non mi toccò per tutta la sera. Ma il lunedí all’uscita da scuola mi aspettava.
– Amica ancora malata? Che peccato. Anche bello, però. Non è bello?
– Che cosa?
– Chessò? Gli uccelli, gli alberi. Bello, che puoi farti un giro in macchina insieme a me, mia piccola investigatrice –. Lo disse con una vocetta infantile. Il male non poteva aspirare a nessuna grandezza, con lui. La sua voce suggeriva la possibilità di fare di tutto, qualsiasi cosa, e spacciarla per uno scherzo, un gioco alla faccia di ogni paludato senso di colpa, di tutta la gente piena di sentimenti e virtú del mondo, la gente che si prende sempre sul serio. Ecco che cosa non sopportava negli altri. Il suo sorrisetto era disgustoso, puro compiacimento teso su un baratro di irresponsabilità, se non peggio. Il che non mi trattenne comunque dall’andare con lui, a fare qualunque cosa avesse in mente di fare. La sua fibra morale non aveva per me la minima importanza; anzi, non è da escludere che dovesse per forza essere nera.
L’eccitazione prodotta dalle poesiole oscene di Fern aveva avuto il completo sopravvento su di me.
– Hai guardato bene? – mi chiese con voce normale.
– Sí.
– Trovato proprio niente? Hai guardato in tutti i cassetti? Intendo quelli del comò. Nelle valigie, nelle cappelliere? Hai passato il guardaroba?
– Ho guardato benissimo, dappertutto, – dissi in tono dimesso.
– Deve averle buttate.
– A quanto sembra non è una smelensita.
– Smele… che? Io no capire questi paroloni, bimba.
Ci stavamo dirigendo fuori dell’abitato. Proseguimmo a sud sulla statale n. 4 e svoltammo alla prima trasversale. – Mattinata bellissima, – disse Mr Chamberlain. – Pardon, pomeriggio bellissimo, giornata bellissima –. Guardai dal finestrino: il paesaggio che conoscevo risultava alterato dalla sua presenza, dalla sua voce, dall’incombente presagio di ciò che andavamo a fare insieme. Da un anno o due osservavo alberi, prati, panorami con segreto e acceso entusiasmo. In certi stati d’animo, in certi giorni, ero in grado di provare per una zolla d’erba, uno steccato o un mucchio di sassi un’emozione libera e pura come quelle che avevo sperato e intuito di poter provare in relazione a Dio. Non mi succedeva in presenza d’altri, naturalmente, e, adesso, con Mr Chamberlain la natura mi appariva invece svilita, pervasa di un esasperante erotismo. Era giusto il periodo piú verde e rigoglioso dell’anno; dai fossi spuntavano semplici margherite, linarie, ranuncoli, i valloni erano pieni di anonimi arbusti delicatamente dorati e dello scintillio di torrenti in piena. A me tutto questo appariva come un vasto allestimento di nascondigli, e i campi arati al di là, come spudorate distese di materassi. I sentieri che aprivano un varco in mezzo ai cespugli, le piccole aree di erba schiacciata su cui di sicuro si era sdraiata una mucca, mi risultavano inviti espliciti e urgenti come certe parole o certe pressioni fisiche.
– Speriamo di non incontrare la mamma, in giro in macchina da queste parti.
Non lo reputavo possibile. Mia madre abitava un livello diverso di realtà rispetto a quello nel quale mi ero introdotta.
Mr Chamberlain svoltò dalla strada per imboccare un viottolo che finí presto in un campo mezzo inselvatichito. Lo spegnersi dell’auto e l’interrompersi del tiepido flusso sonoro e motorio nel quale ero stata sospesa mi inquietarono un poco. Gli eventi cominciavano ad assumere contorni reali.
– Facciamo due passi al torrente.
Scese dalla sua parte, io dalla mia. Lo seguii giú per una scarpata, tra biancospini fioriti che odoravano di fermentazione. Era un tragitto trafficato, a giudicare dai pacchetti di sigarette, dalla bottiglia di birra e la scatoletta di Chiclets buttati nell’erba. Alberi bassi, arbusti ovunque.
– Meglio se ci fermiamo qui, – disse Mr Chamberlain in tono pratico. – La terra è molle vicino all’acqua.
Lí nella penombra appena sopra il torrente sentivo freddo, ed ero talmente ansiosa di scoprire che cosa mi sarebbe stato fatto che tutto il calore e il fremito tra le gambe mi si azzerò, come se mi ci avessero appoggiato sopra un blocco di ghiaccio. Mr Chamberlain si sbottonò la giacca e slacciò la cintura, poi si abbassò la cerniera. Infilò dentro una mano a scostare un’altra patta di stoffa ed esclamò: – Buu!
Tutto diverso da quello di marmo del David, puntava dritto davanti a lui, il che, come sapevo dalle mie letture, è quello che fanno. Aveva in cima una specie di testa, tipo fungo, e di colore era viola-rossastro. Sembrava stupido, inoffensivo in confronto, chessò, alle dita di mani e piedi con la loro espressività intelligente, ma perfino a un gomito, o a un ginocchio. Personalmente non mi pareva temibile, ma pensai che forse era proprio questa l’insidia di Mr Chamberlain, il quale intanto se ne stava lí con lo sguardo concentratissimo a tenersi i calzoni aperti per metterlo in mostra. Cosí nudo e spuntato, di un colore sgradevole come una ferita, mi dava l’idea di essere vulnerabile, ingenuo, giocherellone come certi animali dal muso grosso la cui bruttezza modesta costituisce una specie di garanzia di benevolenza. (L’opposto di ciò che di solito è la bellezza). Non mi restituí minimamente la mia eccitazione. Non sembrava avere niente a che fare con me.
Senza smettere di guardarmi, accennando un sorriso, Mr Chamberlain strinse la mano intorno a quell’affare e cominciò ad andare su e giú, dolcemente, con ritmo regolare, compassato. La faccia si rilassò; gli occhi, ancora fissi su di me, si fecero vitrei. Poco per volta, quasi in modo sperimentale, aumentò la velocità della mano; il ritmo adesso era meno calmo. Incurvò le spalle, aprí il sorriso tendendo le labbra sui denti e rovesciando un po’ gli occhi al cielo. Il respiro gli si fece pesante, affannoso, ora la mano pompava con furia e lui gemeva, quasi piegato in due nello spasimo. La faccia che mi puntava addosso, dalla nicchia delle spalle, era vacua e ondeggiante come una maschera su un bastone, e dalla bocca gli uscivano suoni che non controllava, al limite dell’espressione umana, al tempo stesso improbabili e tragici. In effetti l’atto nel suo insieme, circondato dalla placida fioritura dei rami, pareva artefatto, nella sua prevedibile e strabiliante esagerazione, come fosse una danza indiana. Avevo letto che, nelle fasi estreme del piacere, il corpo può apparire posseduto ma tale espressione non uguagliava affatto il tremendo sforzo indefesso, la smania premeditata che si verificava qui ora. Se non fosse arrivato al piú presto a destinazione, pensai, sarebbe morto. Poi però emise un guaito diverso, ancora piú acuto e straziante; un suono tremulo come se qualcuno lo colpisse alla laringe. Il suono si spense, magicamente, in un gemito di quieta riconoscenza, mentre quella roba gli usciva a fiotti, proprio lo sperma, la roba biancastra che mi schizzò fino all’orlo della gonna. Lui si tirò su vacillante, senza respiro, e rimise subito tutto nei pantaloni. Prese un fazzoletto e si pulí prima la mano, poi la mia gonna.
– Porta fortuna, eh? – Rideva di me, anche se ancora stentava a riprendere fiato.
Dopo una simile convulsione, un’epifania di quel genere, come poteva un uomo infilarsi in tasca il fazzoletto, controllarsi la patta dei pantaloni e – benché tutto rosso e accaldato – tornare da dove eravamo venuti?
L’unica cosa che disse fu in macchina, quando sedette ricomponendosi per un istante prima di avviare il motore.
– Uno spettacolo, eh? – Disse cosí.
Il paesaggio era di un’insulsaggine remota, postcoitale. Forse anche Mr Chamberlain era di cattivo umore, o preoccupato, perché mi fece abbassare sul pavimento dell’auto, quando rientrammo in paese, poi fece il giro largo e mi lasciò in un posto deserto, dove la strada scendeva ripida, nei pressi della stazione ferroviaria. Ma era tornato abbastanza se stesso, comunque, da darmi un colpetto col pugno in mezzo alle gambe, come se controllasse la qualità di una noce di cocco.
Quella fu una visita di congedo per Mr Chamberlain, come avrei dovuto indovinare. Tornai a casa a mezzogiorno e trovai Fern che, seduta in sala da pranzo, al tavolo apparecchiato, ascoltava mia madre urlarle cose dalla cucina soverchiando il rumore dello schiacciapatate.
– Non importa cosa dice la gente. Non eravate sposati. E nemmeno fidanzati. Non sono affari degli altri. La tua vita è la tua vita.
– Vuoi vedere la mia letterina d’amore? – disse Fern, sventolandomela sotto il naso.
Cara Fern, per circostanze che superano la mia volontà, ho deciso di partire stasera con la fedele Pontiac diretto all’Ovest. C’è un mucchio di mondo che ancora non ho visto e non ha senso che mi chiuda in gabbia con le mie mani. Magari ti mando una cartolina dalla California o dall’Alaska, chi lo sa? Continua a fare la brava ragazza come sempre, a leccare francobolli e aprire la posta con il vapore, un giorno o l’altro potresti trovarlo, quel biglietto da cento dollari. Alla morte di mamma, è probabile che torni a casa, ma c’è ancora tempo. Ciao, Art.
La stessa mano che aveva scritto: Del non è una brava ragazza.
– Manomettere la posta è reato federale, – disse mia madre, entrando. – Non mi sembra particolarmente spiritoso quello che dice.
Intanto distribuiva carote in scatola, purè di patate, polpettone. Indipendentemente dalla stagione, a mezzogiorno ci toccava un pasto completo.
– A quanto pare non mi ha tolto l’appetito, comunque, – disse Fern, con un sospiro. Si versò il ketchup nel piatto. – Potevo averlo. Tanto tempo fa, se avessi voluto. In certe lettere parlava perfino di matrimonio. Dovevo tenerle, avrei potuto denunciarlo per rottura di promessa.
– Meno male che non l’hai fatto, – disse animatamente mia madre, – pensa come saresti finita, oggi.
– Che non ho fatto cosa? Denunciarlo o sposarlo?
– Sposarlo. Una denuncia per rottura di promessa è degradante per una donna.
– Oh, il matrimonio non lo rischiavo di sicuro.
– Avevi il tuo canto, tu. I tuoi interessi, nella vita.
– È che mi divertivo sempre un po’ troppo, tutto qui. Ne sapevo abbastanza di matrimonio per non dubitare che quando ti sposi smetti di divertirti.
Quando parlava di divertirsi Fern intendeva andare a ballare al Lakeshore Pavilion, andare a cena o a bere qualcosa all’hotel Regency di Tupperton, fare il giro dei locali il sabato sera. Mia madre si sforzava di comprendere quel genere di svago, ma non ci riusciva, non piú di quanto capisse la gente che va sulle giostre ai luna park, vomita quando scende, e si compra subito un altro giro.
Fern non era tipo da disperarsi, nonostante la sua passione per l’opera lirica. Si limitò a dire che gli uomini comunque se ne vanno, e tanto vale che succeda prima di averti stancata. Tuttavia diventò molto ciarliera, non stava piú zitta un secondo.
– Senti che impiastro che era, Art, – disse rivolta a Owen, durante il pranzo. – Non voleva saperne di nessuna verdura gialla. Sua madre avrebbe dovuto fargli assaggiare il battipanni quando era piccolo. Glielo dicevo sempre.
– Peccato che sei fatto tutto l’opposto di Art, – disse a mio padre. – Il guaio di aggiustare i suoi vestiti è che lui era lungo di busto e corto di gamba. L’unico posto dove poteva vestirsi era da Ransom a Tupperton.
– L’ho visto uscire dai gangheri solo una volta. Al Pavilion; eravamo andati a ballare e un tizio mi invita, perciò io mi alzo e vado, che altro vuoi fare?, e quello mi ficca la faccia dritta dentro la scollatura. Mi divorava come fossi una torta glassata. Art arriva e gli fa, se ti va di sbavare vedi di non farlo sulla mia ragazza, magari ne ho voglia io! E lo ha scostato con uno strattone. Giuro!
Se entravo in una stanza e stavano parlando lei e mia madre, calava un silenzio sospeso, surreale. Mia madre ascoltava con la faccia mesta di chi è incastrata, risolutamente comprensiva. Che poteva fare? Fern era la sua migliore, forse unica amica. Ma c’erano cose che non aveva immaginato di dover sentire. Non è escluso che rimpiangesse Mr Chamberlain.
«Ti ha trattata malissimo, – diceva a Fern, contestando le sue alzate di spalle, le sue risatine ambigue. – È vero. È cosí. Non ho mai perso tanto in fretta la stima di qualcuno. In compenso mi manca quando sento quelli che cercano di leggere le notizie alla radio».
Questo perché la stazione di Jubilee non aveva trovato nessun altro capace di leggere i notiziari di allora, pieni di nomi russi, senza agitarsi, e aveva permesso che qualcuno pronunciasse Bach Batc, con la c di cera, presentando la corale Jesus bleibet meine Freude durante la trasmissione In Memoriam. Mia madre diventava matta.
Avevo pensato di raccontare a Naomi tutto su Mr Chamberlain, adesso che era finita. Ma Naomi uscí dalla malattia con sette chili di meno e una prospettiva completamente diversa sulla vita. La sua franchezza se n’era andata insieme alla figura pienotta di un tempo. La sua lingua ne uscí disinfettata. L’audacia si afflosciò del tutto. Aveva una delicatezza, un riguardo nei confronti di se stessa completamente nuovi. Sedeva sotto un albero con la gonna ben allargata intorno e ci guardava giocare a pallavolo, portandosi di continuo la mano alla fronte per controllare se aveva la febbre. Non si mostrò neppure curiosa rispetto al fatto che Mr Chamberlain se ne fosse andato, tanto si preoccupava di sé e della sua malattia. La temperatura le era salita quasi a quarantuno. Tutti gli aspetti piú volgari del sesso erano scomparsi dalla sua conversazione e, si sarebbe detto, dai suoi pensieri, sebbene parlasse tanto del dottor Wallis, delle spugnature che le aveva fatto personalmente, e di come, quando stava male, si fosse trovata nuda e inerme nelle sue mani.
Cosí non ebbi il sollievo di trasformare ciò che Mr Chamberlain aveva fatto in un racconto spassoso, sebbene orripilante. Non sapevo che farmene. Non potevo restituire a Mr Chamberlain il suo ruolo di prima, non potevo piú fargli recitare la parte del banale sporcaccione compiacente e monomaniacale dei miei sogni a occhi aperti. La mia fede nell’esistenza di una depravazione semplice si era indebolita. Forse soltanto nelle fantasie quella botola si schiudeva dolcemente e senza intoppi, risucchiando corpi del tutto liberi da complicazioni mentali e caratteriali nel piacere sfrenato, nella smodatezza ossessiva. Al contrario, come Mr Chamberlain mi aveva mostrato, la gente si porta appresso parecchio del proprio testardo disorientamento, delle molteplici ombre di sé, e la carne non cede affatto ma deve essere costretta all’estasi con fatica.
A giugno ci fu la cena annuale per la stagione delle fragole sui prati retrostanti la chiesa unita. Fern andò a cantare per l’occasione, con il vestito di chiffon a fiori che mia madre l’aveva aiutata a cucire. A quel punto le stava molto teso a vita. Dalla partenza di Mr Chamberlain Fern aveva messo su chili, e adesso non era piú solo morbida e tondetta ma decisamente grassa, gonfia come un budino, con la pelle a chiazze non piú vellutata ma lucida e tesa.
Si massaggiava i fianchi e diceva: «Se non altro non si può dire che mi sto consumando di dolore, no? Sarà uno scandalo se faccio saltare le cuciture, semmai».
Udimmo il rumore dei suoi tacchi alti sul marciapiede. Nelle serate tranquille di cielo coperto e alberi fronzuti, l’aria trasportava i suoni molto lontano. Il vocio conviviale dell’intrattenimento alla chiesa unita arrivava a ondate fino ai gradini di casa nostra. Chissà se mia madre avrebbe avuto voglia di infilarsi un vestito leggero e un cappello e di andarci anche lei… Il suo agnosticismo entrava spesso in conflitto con la sua socievolezza, a Jubilee, dove vita religiosa e mondana erano quasi sempre tutt’uno. Fern le aveva detto di presentarsi. – Fai parte della congregazione. Non mi hai detto che ti sei sposata lí?
– Allora non avevo ancora le idee tanto chiare. Ora sarebbe da ipocriti. Non sono credente.
– Pensi che tutti gli altri lo siano?
Io ero in veranda a leggere Arco di trionfo, un romanzo che avevo preso in biblioteca. In seguito a una donazione, la biblioteca aveva acquistato un certo numero di libri nuovi perlopiú su raccomandazione di Mrs Wallis, la moglie del medico, che aveva una laurea ma forse non esattamente i gusti letterari su cui contava l’amministrazione locale. C’erano state proteste, qualcuno aveva suggerito che le scelte dovevano essere appannaggio di Bella Phippen, ma alla fine un unico libro fu letteralmente rimosso dagli scaffali: I trafficanti. Io però l’avevo già letto. Mia madre l’aveva trovato e ne aveva letto qualche pagina con grande delusione.
– Non pensavo che si potesse fare un uso simile della carta stampata.
– Parla del mondo della pubblicità, di quanto è corrotto.
– Non è l’unica cosa corrotta, ho paura. Un giorno o l’altro si metteranno a raccontare come la gente va in gabinetto: perché no? Di sicuro non trovi niente di simile in Silas Marner. In nessun classico. Perché quelli erano bravi scrittori, non ne avevano bisogno.
Mi ero allontanata dai romanzi storici, tipo Kristin, figlia di Lavrans, un tempo miei prediletti. Adesso leggevo autori moderni. Somerset Maugham. Nancy Mitford. Leggevo di personaggi ricchi e altolocati carichi di disprezzo per gente che a Jubilee sarebbe stata in cima alla piramide sociale: farmacisti, commercianti, dentisti. Imparai nomi come Balenciaga, Schiaparelli. Scoprivo alcolici. Whisky and soda. Gin and tonic. Cinzano, Bénédictine, Grand Marnier. Nomi di hotel, strade, ristoranti a Londra, Parigi, Singapore. In quei libri in effetti i personaggi andavano a letto insieme, lo facevano di continuo, ma le descrizioni delle loro gesta fra le lenzuola non erano dettagliate, checché ne pensasse mia madre. In uno il rapporto sessuale veniva paragonato all’esperienza di entrare in una galleria ferroviaria (probabilmente dal punto di vista del treno) per emergere su un prato di alta montagna, di una tale celestiale bellezza da farti sentire in paradiso. I romanzi lo paragonavano sempre a qualcos’altro, non lo spiegavano mai in sé.
– Non puoi leggere lí, – disse mia madre. – Come fai, con quella luce? Vieni fuori, sui gradini.
E io scesi, ma la verità era che non voleva vedermi leggere affatto. Voleva compagnia.
– Hai visto, i lillà cambiano colore. Tra poco possiamo andare in campagna.
Lungo il bordo del nostro giardino, dalla parte del marciapiede, c’erano dei lillà ormai pallidi e molli come stracci, picchiettati di ruggine. Poco oltre, la strada già polverosa, e arbusti di more selvatiche che crescevano davanti alla fabbrica sprangata su cui si leggeva ancora, a grandi lettere sbiadite e boriose, l’insegna: PIANOFORTI MUNDY.
– Mi dispiace per Fern, – disse mia madre. – Per la sua vita.
Il suo triste tono confidenziale mi mise in stato di allerta.
– Magari si trova un fidanzato nuovo, stasera.
– In che senso? Non è in cerca di un fidanzato nuovo. Ne ha avuto abbastanza di quella roba. Deve cantare Where’er You Walk. Ha ancora una bella voce, comunque.
– È sempre piú grassa.
Mia madre assunse il tono grave e fiducioso di quando sermoneggiava.
– È in arrivo un cambiamento, secondo me, nella vita delle ragazze e delle donne. Sí. Ma spetta a noi favorirlo. Finora le donne sono state solo quello che erano in rapporto a un uomo. Punto e basta. Una vita non piú autonoma di quella di un animale domestico. Quando il tempo la passione gli avrà spento, poco piú del suo cane ti avrà accanto, del suo cavallo non ti avrà cara altrettanto. L’ha scritto Tennyson. Ed è vero. Era vero. Tu però vorrai dei bambini, comunque.
Ecco come mi conosceva bene.
– Però spero che… userai il cervello. Usalo. Non perdere la testa. Se fai quell’errore… perdere la testa per un uomo, la vita non sarà mai tua. Ti caricherai il fardello, le donne fanno sempre cosí.
– Adesso ci sono gli anticoncezionali, – le ricordai, e mia madre mi squadrò stupefatta, benché – proprio lei – avesse pubblicamente messo in imbarazzo la nostra famiglia scrivendo all’«Herald-Advance» di Jubilee che «occorrerebbe distribuire profilattici gratuitamente a tutte le donne della contea del Wawanash, per aiutarle a evitare ulteriori incrementi all’interno della famiglia». I maschi a scuola mi avevano urlato: – Ehi, quand’è che tua mamma viene a distribuire i proplastici?
– Ma non bastano, per quanto siano già una gran benedizione e il vero nemico sia la religione che si mette contro qualunque cosa possa alleviare la sofferenza sul pianeta. Ci vuole amor proprio, è di questo che parlo. Di amor proprio.
Non afferravo il concetto fino in fondo, o se anche lo afferravo ero decisa a opporre resistenza. Mi sentivo in dovere di opporre resistenza a qualsiasi idea mia madre propugnasse con tanto zelo, tanta ostinata fiducia. Il suo darsi pensiero per la mia vita era una cosa di cui avevo bisogno e che davo per scontata, ma che non tolleravo di sentire espressa apertamente. Inoltre, non mi pareva poi tanto diversa da tutti gli altri consigli dispensati alle ragazze, alle donne, consigli che partivano dal presupposto che essere femmine rendesse di per sé vulnerabile, che una certa dose di prudenza e di seria e affannata protezione fosse indispensabile, laddove gli uomini erano in teoria in grado di uscire e concedersi qualsiasi tipo di esperienza, gettare via ciò che non volevano e tornare indietro pieni d’orgoglio. Senza nemmeno pensarci, avevo deciso di fare altrettanto.