Età della fede

Quando abitavamo in quella casa in fondo a Flats Road, e prima che mia madre imparasse a guidare la macchina, lei e io andavamo a piedi in paese; vale a dire a Jubilee, che era a un miglio di distanza. Mentre chiudeva a chiave la porta io dovevo correre al cancello e guardare di qua e di là per assicurarmi che non arrivasse nessuno. Chi sarebbe mai potuto arrivare, su quella strada, oltre al postino e allo zio Benny? Al mio no con la testa, lei nascondeva la chiave nel secondo palo del portico, dove era marcito il legno e si era creato un piccolo foro. Mia madre credeva nei ladri.

Voltando la schiena alla palude di Grenoch, al Wawanash e a certi monti lontani, boscosi e brulli allo stesso tempo che, sebbene io non fossi del tutto digiuna in materia di geografia, mi capitava di considerare il limite estremo del mondo, percorrevamo Flats Road: da quel lato, non era molto di piú di due carrarecce separate nel mezzo da una rigogliosa corsia di centonchio e piantaggine. Il mio pensiero si concentrava sui ladri. Me li vedevo perfettamente, con facce malinconiche e attente, in tenuta d’ordinanza. Li immaginavo da qualche parte non troppo lontano, magari nella felceta fangosa ai margini della palude, in agguato e forniti di una conoscenza esattissima di casa nostra e di tutto il suo contenuto. Sapevano delle tazzine coi manici ad ala di farfalla, dipinti in oro; della mia collana di corallo che per me era brutta e fastidiosa al collo ma che mi era stato insegnato a considerare di valore, essendomi stata spedita dall’Australia dalla zia di mio padre, zia Helen, durante il suo viaggio intorno al mondo; di un braccialetto d’argento che mio padre aveva comprato a mia madre prima del matrimonio; di una ciotola nera con sopra delle sagome giapponesi dipinte, che infondevano pace a guardarle, un regalo di nozze; e del calamaio bianco-verdognolo a foggia di Laocoonte con il quale mia madre era stata premiata alla fine del liceo per i suoi voti altissimi e una preparazione di assoluta eccellenza: il serpente marino risultava avvinto con tale maestria intorno alle tre figure maschili che non riuscii mai a scoprire se nascondesse o no sotto le sue spire i loro genitali di marmo. I ladri concupivano oggetti come quelli, mi era stato insegnato, ma non avrebbero mai fatto il primo passo senza l’incoraggiamento fornito da una nostra distrazione. La loro competenza e cupidigia confermavano il valore e l’unicità di ogni cosa. Il nostro mondo risultava saldamente riflesso nella loro mentalità.

In seguito naturalmente cominciai a dubitare dell’esistenza dei ladri o quantomeno a dubitare che potessero operare in quel modo. Compresi che molto piú probabilmente i loro metodi dovevano seguire le esigenze del caso e fondarsi su competenze piuttosto appannate, una cupidigia meno mirata e un rapporto con le nostre persone pressoché fortuito. Costeggiai con maggiore disinvoltura il fiume verso la palude, quando la mia fede in loro diminuí, ma mi mancarono, il pensiero di loro mi mancò per un pezzo.

Non avevo mai posseduto un’idea di Dio altrettanto chiara e lineare come quella che avevo dei ladri. Mia madre non era molto disposta a parlare di lui. Eravamo – o almeno lo erano mio padre e la sua famiglia – membri della Chiesa unita di Jubilee, e mio fratello Owen e io avevamo entrambi ricevuto il battesimo da neonati, il che rivelava una sorprendente debolezza o una generosità da parte di mia madre; forse la gravidanza tendeva a raddolcirla e a confonderla.

La Chiesa unita era la piú moderna, numerosa e fiorente di Jubilee. Aveva raccolto tutti gli ex metodisti e congregazionalisti nonché una larga fetta di presbiteriani (lo erano stati anche i parenti di mio padre) al tempo della fondazione della Church Union. C’erano altre quattro chiese in paese ma tutte piccole, relativamente povere e, in base ai parametri della Chiesa unita, tendenti a forme di estremismo. Prima fra tutte, in questo senso, era la chiesa cattolica. Bianca, lignea, sovrastata da una semplicissima croce missionaria, si ergeva in cima a un colle al confine settentrionale del paese e dispensava cerimonie singolari ai suoi fedeli che risultavano bizzarri e pieni di segreti come indú, con tutti quegli idoli, e le confessioni e le macchie nere in fronte il mercoledí delle ceneri. A scuola i cattolici erano una piccola tribú di irriducibili; perlopiú irlandesi; non restavano in classe durante l’ora di religione, potevano scendere nel seminterrato dove si mettevano a battere sui tubi. Era difficile collegare la loro semplice litigiosità con quella fede pericolosa e aliena. Le zie di mio padre, mie prozie, abitavano di fronte alla chiesa cattolica e dicevano sempre per scherzo che ci avrebbero «fatto volentieri una scappata per una confessione veloce», ma in realtà sapevano, e potevano raccontarti, tutto quello che andava al di là della battuta, di scheletri di neonati, e monache strozzate e fatte sparire sotto i pavimenti dei monasteri, sí, e di preti grassi e belle signore e degli antichi papi neri. Era tutto vero, avevano tanto di libri a confermarlo. Tutto vero. Come gli irlandesi a scuola, l’edificio della chiesa non sembrava adeguato; troppo semplice, spoglio, disadorno per avere a che fare con tanta scandalosa lussuria.

All’estremismo tendevano pure i battisti, ma in modo tutt’altro che minaccioso, per non dire vagamente comico. Nessuno che avesse un minimo di importanza o di prestigio sociale frequentava la chiesa battista, perciò uno come Pork Childs, che consegnava il carbone e ritirava i rifiuti a domicilio, poteva trovarsi a ricoprire un ruolo di spicco, da anziano della congregazione. I battisti non erano autorizzati a ballare né ad andare al cinema; le signore non potevano usare il rossetto. I loro inni in compenso erano chiassosi, spensierati, ottimisti e, a dispetto dell’austerità delle loro vite, la loro fede ammetteva una quantità di grossolana allegria superiore a quella di qualunque altra fede. La chiesa battista non era lontana dalla casa che piú tardi avremmo affittato a River Street; un edificio modesto, ma moderno e bruttissimo, in blocchi di cemento e vetri a bolle alle finestre.

Quanto ai presbiteriani, si trattava di avanzi, gente che si era rifiutata di passare alla Chiesa unita. In gran parte anziani, protestavano contro gli allenamenti domenicali di hockey, e intonavano salmi.

La quarta era la chiesa anglicana, di cui nessuno sapeva né parlava molto. A Jubilee non aveva nulla della ricchezza economica né del prestigio di cui disponeva in cittadine dove restavano tracce dell’antico Family Compact, o qualche istituzione militare o sociale in grado di mantenerla in vita. I fondatori della contea del Wawanash e di Jubilee erano stati presbiteriani scozzesi, congregazionalisti, metodisti oriundi dell’Inghilterra del Nord. Essere anglicani dunque non era elegante come in certi altri posti, e neppure interessante come essere cattolici e battisti, né indicativo di una fede incrollabile come essere presbiteriani. Tuttavia, la chiesa aveva una campana, l’unica del paese, e avere una campana mi sembrava una bella cosa, per una chiesa.

Nella chiesa unita i banchi, in lucido legno biondo di quercia, erano sistemati democraticamente a ventaglio, con pulpito e coro al centro. Niente altare, solo un imponente sfoggio di canne d’organo. Le finestre in vetri colorati mostravano Cristo impegnato in miracoli di grande utilità (sebbene non quello dell’acqua che diventa vino), oppure illustravano parabole. La Domenica dell’Eucarestia passava il vassoio del vino, versato in minuscoli bicchieri di vetro spesso; sembrava un piccolo rinfresco per tutti. E non era neanche vino, bensí succo d’uva. Era questa la chiesa frequentata dall’Associazione veterani della Royal Canadian Legion una certa domenica; nonché dai membri del Lions Club coi loro copricapi dalle nappe viola. Dottori, avvocati, commercianti si passavano il vassoio.

I miei genitori andavano di rado in chiesa. Mio padre, con il completo che non metteva mai, aveva un’aria deferente ma anche appartata. Durante la preghiera appoggiava il gomito al ginocchio e la fronte sulla mano, e chiudeva gli occhi con un’espressione edificata e paziente. Mia madre, al contrario, non chiudeva gli occhi un istante e raramente abbassava la testa. Stava seduta a guardarsi intorno, cauta ma disinibita, come un antropologo che osservi il comportamento di una tribú primitiva. Ascoltava il sermone a schiena dritta e occhi aperti, mordicchiandosi il rossetto per lo scetticismo; temevo che da un momento all’altro potesse saltare su con una provocazione qualsiasi. Gli inni si rifiutava apertamente di cantarli.

Quando affittammo casa in paese, avevamo da noi una pensionante, Fern Dogherty, che cantava nel coro della Chiesa unita. Andavo in chiesa con lei e mi sedevo per conto mio, unico membro della mia famiglia a presenziare. Le zie di mio padre abitavano dall’altra parte del paese e non facevano spesso quella lunga camminata; comunque la cerimonia andava in onda, alla stazione radio di Jubilee.

Perché lo facevo? In un primo tempo probabilmente per dar fastidio a mia madre – che pure non espresse mai alcuna esplicita obiezione –, e poi per rendermi interessante. Immaginavo che la gente mi guardasse e dicesse: «Hai visto la piccola dei Jordan? Viene qui ogni domenica, sempre per conto suo». Speravo di incuriosire e commuovere, con la mia devozione e la tenacia, chi, come loro, era al corrente della fede, o meglio della mancanza di fede di mia madre. A volte pensavo alla popolazione di Jubilee come a nient’altro che al mio vasto pubblico; e in un certo senso lo era; per ogni abitante il resto del paese era un pubblico.

Ma il secondo inverno che passammo in paese – quello dei miei dodici anni – le mie motivazioni erano cambiate, o forse si erano rinsaldate. Volevo risolvere la questione di Dio. Avevo letto una serie di libri sul Medioevo; l’idea della fede mi conquistava sempre di piú. La possibilità di Dio era stata una costante, nella mia vita; adesso ero preda di un’autentica nostalgia di Lui. Era diventato un bisogno. E tuttavia mi occorrevano certezze, prove sicure della Sua esistenza. Era per questo motivo che ora andavo in chiesa, solo che non potevo farne parola con nessuno.

A ogni domenica di pioggia e vento, di neve, di mal di gola, andavo a sedermi nell’edificio della Chiesa unita carica di questa indicibile speranza: che Dio si manifestasse, almeno a me, come una volta di luce, una cupola innegabile e splendente tesa sopra i banchi moderni della chiesa; che fiorisse all’improvviso come un pendio di emerocallidi all’ombra delle canne d’organo. Sentivo di dover saldamente contenere la speranza; rivelarla con fervore di tono, gesto o parola sarebbe stato disdicevole quanto scoreggiare. La cosa che emergeva con piú forza sulle facce della gente nel corso delle prime fasi del rituale, quelle piú esplicitamente orientate a Dio (il sermone di fatto tendeva a deviare su temi di maggiore attualità), era una sorta di delicatezza condivisa, bersaglio preferito delle provocazioni che mia madre accompagnava con sguardi inquisitori come se fosse pronta a chiamarsi fuori da un momento all’altro ed esigere che ogni cosa avesse senso.

La questione dell’esistenza di Dio non si affrontava mai, in chiesa. Si trattava solo di capire che cosa Dio approvasse o, ancor piú di frequente, cosa non approvasse. Dopo la benedizione serpeggiava un moto di placido abbandono, in chiesa, come dopo uno sbadiglio generale, che ovviamente non c’era mai stato, e tutti si alzavano e prendevano a salutarsi in modo allegro, rincuorato, encomiastico. In quei momenti invece io mi sentivo inquieta, sgomenta, febbricitante, oppressa.

Non mi venne mai in mente di esporre il mio problema a un credente, nemmeno a Mr McLaughlin, il ministro. Sarebbe stato oltremodo imbarazzante. E poi avevo paura. Temevo che il credente potesse vacillare nella difesa della propria fede, o nella sua esposizione, e che per me questo avrebbe comportato una battuta d’arresto. Se, per esempio, Mr McLaughlin avesse dimostrato di avere di Dio una comprensione non piú salda della mia, ne avrei ricevuto una delusione immensa, se non definitiva. Preferivo credere nella sua certezza, piuttosto che metterla alla prova.

Quello che invece pensai fu di esportare il mio dilemma in un’altra chiesa, l’anglicana, nella fattispecie. Fu per via della campana, e perché ero curiosa di vedere l’interno di un altro edificio e di scoprire le diverse procedure, e si dava il caso che l’anglicana fosse l’unica possibilità. Non lo dissi a nessuno, naturalmente, ma salii insieme a Fern Dogherty i gradini della chiesa unita, dove ci separammo perché lei proseguiva verso la sagrestia a mettersi la tunica del coro. Quando sparí dalla mia vista, feci dietrofront e ripercorsi le strade del paese fino alla chiesa anglicana, in risposta all’invito di quella campana. Sperai che nessuno mi vedesse. Entrai.

Davanti al portone centrale c’era un piccolo portico antivento. Poi un ingressino spoglio con una guida di stuoia marrone e una pila di innari sul davanzale della finestra. Mi introdussi nella chiesa vera e propria.

Non avevano una caldaia, a quanto pare, ma solo un calorifero accanto alla porta, con il suo ronzio continuo e familiare. Una striscia della stessa stuoia foderava il fondo della sala e si infilava nella navata centrale; per il resto il pavimento era in grosse tavole di legno nudo, non verniciato, elastico sotto i piedi in qualche punto. Sette otto banchi per parte, non di piú. Un paio di panche del coro perpendicolari ai banchi, un armonium da una parte e il pulpito – che a tutta prima in realtà non riconobbi – ritto come un posatoio per galline, dall’altra. Oltre tutto questo una balaustra, un gradino, un minuscolo presbiterio il cui pavimento era ingentilito da un vecchio tappeto da salotto. Poi c’era un tavolo con sopra due candelabri d’argento, un cestino delle offerte foderato di panno verde e una croce che dava l’idea di poter essere di cartapesta ricoperta di stagnola, come una corona da teatro. Sopra il tavolo era appesa la riproduzione del dipinto di Holman Hunt del Cristo che bussa alla porta. Non avevo mai visto quell’immagine. Il Cristo raffigurato rivelava una differenza minima ma significativa dal Gesú intento ai miracoli sulle vetrate della chiesa unita. Era d’aspetto piú regale e piú tragico, mentre lo sfondo risultava piú tetro e piú ricco al tempo stesso, piú pagano in un certo senso, o mediterraneo almeno. Ero abituata a una figura modesta e pastorale dai disegni a pastello della scuola di dottrina.

In tutto potevano esserci una decina di persone, in chiesa. C’era Dutch Monk, il macellaio, con la moglie e la figlia Gloria, che frequentava la quinta elementare. Gloria e io eravamo le uniche presenti sotto la soglia dei quaranta. Poi c’era qualche vecchia.

Ero arrivata appena in tempo. La campana aveva giusto smesso di suonare quando l’organo attaccò un inno e, dalla porta laterale che doveva essere della sagrestia, entrò il ministro, alla testa del coro composto da tre signore e due uomini. Il ministro era un giovane dalla testa rotonda e l’aria cordiale; non l’avevo mai visto prima. Sapevo che la chiesa anglicana non se ne poteva permettere uno in esclusiva e perciò lo divideva con le congregazioni di Porterfield e di Blue River; probabilmente abitava in una delle due cittadine. Sotto la veste, portava i doposcí.

Aveva l’accento inglese. Fratelli amatissimi, le scritture ci spingono in disparati luoghi a riconoscere e fare ammenda dei nostri numerosi peccati e malvagità…

Davanti a ciascun banco c’era una pedana su cui inginocchiarsi. I presenti scivolarono avanti, sfogliando le pagine del libro di preghiere e, appena il ministro ebbe finito la sua parte, presero a rispondergli qualcosa. Cercai nel libro che avevo trovato sul ripiano dinanzi a me, ma non riuscii a rintracciare il punto, quindi lasciai perdere e ascoltai quel che dicevano. Dall’altra parte della navata, e un banco avanti a noi, c’era una vecchia signora alta e ossuta, in turbante di velluto nero. Non aveva aperto il libro di preghiere, non ne aveva bisogno. Inginocchiata a schiena dritta, volgendo al cielo il profilo gessoso e lupigno – mi ricordava l’effigie di un crociato che avevo a casa, sull’enciclopedia – conduceva tutte le altre voci dell’assemblea, anzi, le dominava al punto da trasformarle in un contorno indistinto della sua, che era forte, bassa, melodiosa e carica di un’esultanza funerea.

… trascurato le cose che eravamo chiamati a compiere, per dedicarci invece a cose che eravamo chiamati a trascurare; non c’è salvezza in noi. Ma tu, o Signore, abbi misericordia di noi, sventurati peccatori. Perdona, Dio, chi confessa le proprie colpe. Assolvi coloro che mostrano pentimento; in accordo con quanto il Cristo Gesú nostro Signore ha promesso al genere umano…

E via dicendo, senza mutare la linea discorsiva che poi il ministro riprendeva con la sua bella voce inglese, rasserenante benché forse un po’ piú severa, e il dialogo proseguiva a ritmo costante, salendo e scendendo, con incrollabile fiducia, carico di un fervore che, trasmesso dal piú elegante dei canali linguistici, conduceva, infine, alla perfetta quiete della riconciliazione.

Signore, pietà.

Cristo, pietà.

Signore, pietà.

Ecco la cosa che non conoscevo, ma di cui dovevo aver sempre sospettato l’esistenza, ciò che i vari metodisti e congregazionalisti e presbiteriani avevano con sgomento abolito: il teatro nella religione. Ne fui immediatamente incantata. Erano tante le cose che apprezzavo: genuflettersi sul ripiano duro, alzarsi in piedi e genuflettersi ancora ciondolando il capo rivolto all’altare ogni volta che si nominava Gesú; la recitazione del Credo che amavo per la litania di assurde meraviglie in cui si doveva credere. Mi piaceva l’idea di chiamare Gesú, Jesus, qualche volta; gli conferiva un che di magico e regale, come fosse uno stregone o una divinità indiana; mi piaceva il cristogramma logoro e vetusto IHS sulla striscia sfarzosa del pulpito. Mi piacevano la trascurata modestia e povertà di quella chiesa spoglia, l’odore di topi e di muffa, il canto tremulo del coro, l’isolamento sparuto dei fedeli. Se sono raccolti qui, dicevo, è probabile che sia tutto vero. Rituali che in altre circostanze sarebbero sembrati artificiosi e obsoleti, rimediavano qui una sorta di dignità terminale. Era la ricchezza delle parole rispetto alla povertà del luogo. Se non precisamente il profumo di Dio, potevo almeno cogliere quello dei vecchi tempi della Sua gloria, un’autentica gloria, non quella che Gli era tributata nella Chiesa unita al giorno d’oggi; ero in grado di rammemorare le Sue ormai vaghe favoleggiate gerarchie, la bellezza polverosa del calendario dei santi e delle festività. C’erano tutti, nel libro di preghiere; mi ci imbattevo ad apertura di pagina; l’onomastica dei beati. C’era qualcuno che li festeggiasse? Gli onomastici mi facevano pensare a posti talmente diversi da Jubilee: a fienili aperti e fattorie a graticcio, all’Angelus e ai ceri, a una processione di monache sulla neve, ai corridoi coperti dei chiostri, a una quiete assoluta, a un mondo di arazzi alle pareti, in salvo e al riparo nella fede. La salvezza. Se Dio poteva essere trovato, o ricordato, ogni cosa sarebbe stata salva. Perché tu avresti visto ciò che vedevo io – la grana opaca del legno nelle tavole del pavimento, i semplici vetri alle finestre che incorniciavano rami stecchiti e un cielo carico di neve – e l’assurdo dolore impaurito che la semplice vista di queste cose poteva generare sarebbe svanito. A me pareva chiaro come fosse l’unico modo per tollerare il mondo, l’unico modo per tollerare il mondo, che tutti quegli atomi, le galassie di atomi, fossero da sempre salvi e mulinanti senza sosta nella mente di Dio. Come poteva la gente essere serena, perfino continuare a respirare e a esistere, senza questa certezza? Eppure continuavano, perciò dovevano averla.

E mia madre, allora? Trattandosi di mia madre, lei non faceva testo fino in fondo. Ma addirittura lei, messa alle strette, avrebbe detto che sí, beh sí, qualcosa ci doveva essere, un disegno di qualche tipo. Ma non serviva a niente perder tempo a pensarci, ammoniva, perché comunque non lo avremmo mai capito; ne avevamo già piú che abbastanza di problemi da risolvere provando a migliorare la vita qui e ora, per una volta; da morti poi avremmo saputo del resto, sempre che un resto ci fosse.

Ma nemmeno lei era disposta a rispondere che non c’era niente e a vedere se stessa insieme a ogni singola pietruzza, stecco o piuma vagare alla deriva nelle tenebre senza speranza e senza fine. No.

L’idea di Dio non era legata per me all’idea di essere buoni, il che può sembrare strano, considerato tutto quel che mi toccava ascoltare sul peccato e la malvagità. Io credevo che sarei stata salvata in virtú della fede soltanto, come da una grande mano pronta a ghermirmi l’anima. Ma lo volevo poi, volevo poi davvero che mi capitasse? Sí e no. Cioè, volevo che mi capitasse, ma intuivo che doveva rimanere un segreto. Come avrei potuto continuare a vivere con mio padre, mia madre e Fern Dogherty e la mia amica Naomi e tutti gli altri, a Jubilee, altrimenti?

Il ministro mi si rivolse in tono disinvolto, sulla porta.

– Fa piacere vedere delle belle signorine fuori casa in una mattina cosí rigida.

Gli strinsi la mano con difficoltà. Avevo rubato un libro di preghiere che nascondevo sotto il cappotto tenendolo stretto con il braccio ripiegato.

– Non ho visto dov’eri, in chiesa, – disse Fern. Il rito anglicano, risparmiando sul sermone, era piú breve del nostro, perciò avevo avuto tempo di tornare alla chiesa unita e di aspettarla sui gradini, all’uscita.

– Ero dietro una colonna.

Mia madre volle sapere l’argomento del sermone.

– La pace, – disse Fern. – Le Nazioni Unite. Eccetera, eccetera.

– La pace, – ripeté divertita mia madre. – Allora, è contrario o a favore?

– È un grande sostenitore delle Nazioni Unite.

– Allora lo sarà anche Dio, immagino. Meno male. Pochissimo tempo fa Lui e Mr McLaughlin erano grandi sostenitori della guerra. Cambiano idea volentieri, quei due.

La settimana dopo ero con mia madre nel negozio di Walker e la vecchia alta col turbante nero ci passò accanto e si fermò a parlare, e io avevo paura che le dicesse di avermi visto nella chiesa anglicana, ma non lo fece.

Mia madre disse a Fern Dogherty: – Oggi ho visto la vecchia Mrs Sherriff al negozio di Walker. Sempre con lo stesso cappello in testa. Mi ricorda un vigile urbano inglese.

– Viene continuamente in posta e fa scenate se il suo giornale non arriva entro le tre, – disse Fern. – È rognosa da morire.

Poi, da una conversazione tra loro durante la quale mia madre provò inutilmente a farmi uscire dalla stanza – lo faceva come per assolvere un dovere formale, secondo me, perché dopo avermi detto di andarmene non si preoccupava tanto che obbedissi –, venni a sapere che Mrs Sherriff aveva avuto strani guai in famiglia che erano stati all’origine, o forse l’origine, di una discreta dose di stravaganza e follia in lei. Il figlio maggiore era morto per il bere, il secondo entrava e usciva dal manicomio (a Jubilee l’ospedale psichiatrico si chiamava solo in questo modo) e la figlia si era suicidata affogandosi proprio nel Wawanash. E il marito? Era il titolare di una merceria e considerato il pilastro della comunità, disse secca mia madre. Forse aveva la sifilide e l’aveva passata ai figli; aggredisce il cervello nella seconda generazione; erano tutti ipocriti, quei bravi giovanotti col colletto inamidato. Mia madre disse che per molti anni Mrs Sherriff aveva portato i vestiti della figlia morta per stare in casa e in giardino, finché non li aveva consumati.

Un altro aneddoto: una volta all’alimentari Red Front si erano dimenticati di mettere un panetto di burro nella spesa che aveva ordinato e lei aveva inseguito il ragazzo delle consegne, armata di un’accetta.

Cristo, pietà.

Quella stessa settimana feci una brutta cosa. Chiesi a Dio di provare la Sua esistenza rispondendo a una mia preghiera. La preghiera aveva a che fare con una materia denominata «Economia domestica» che facevamo a scuola una volta la settimana, il giovedí pomeriggio. Nell’ora di Economia domestica imparavamo a lavorare a maglia e all’uncinetto, a ricamare e a usare la macchina da cucire, e una cosa era piú difficile dell’altra, mi sudavano le mani e l’aula di Economia domestica con le sue macchine da cucire d’antiquariato, i tavoli da taglio e i manichini ammaccati finí per apparire ai miei occhi come una sala di tortura. Lo era, a tutti gli effetti. L’insegnante, Mrs Forbes, era una donnetta pingue con la faccia pitturata da bambola di celluloide e con la gran parte delle ragazze era gentile. Ma la mia imbecillità, le mie mani tozze e impacciate capaci solo di sgualcire il fazzoletto che avrei dovuto orlare, o il mio penoso imparaticcio all’uncinetto, le scatenavano terremoti di furia.

«Ma guarda qua che orrore, guarda che orrore! Ho sentito parlare di te, ti credi chissà quale genio perché hai buona memoria (ero famosa perché imparavo subito a memoria le poesie) e poi fai dei punti, qui, che si vergognerebbe una bambina di sei anni».

Si era messa in mente di insegnarmi a infilare la macchina da cucire, ma io non imparavo. Facevamo un grembiule con dei tulipani in appliqué. Certe ragazze erano già alla rifinitura dei fiori e all’orlo e io non avevo nemmeno attaccato la cintura, perché non riuscivo a infilare la macchina e Mrs Forbes disse che non intendeva mostrarmelo un’altra volta. Tanto non sarebbe servito a niente; le sue mani velocissime non facevano che accecarmi, paralizzarmi e confondermi, con quei loro guizzi di sprezzante abilità.

E cosí pregai: per favore fa’ che giovedí pomeriggio io non debba infilare la macchina da cucire. Lo ripetei molte volte nella mente, a raffica, con serietà e senza fervore, come se provassi una formula magica. Non feci ricorso a nessuna particolare supplica né a un accordo di scambio. Non chiedevo niente di straordinario, tipo che scoppiasse un incendio nell’aula di Economia domestica o che Mrs Forbes scivolasse per strada e si rompesse una gamba; niente di piú di un modesto intervento non meglio specificato.

Non accadde niente. Non si era dimenticata di me. All’inizio della lezione mi spedí alla macchina da cucire. Mi sedetti cercando di capire dove far passare il filo – non avevo la minima speranza di trovare la cruna giusta ma da qualche parte dovevo comunque infilarlo per dimostrare la mia buona volontà – e lei si venne a piazzare alle mie spalle, col suo respiro pesante e disgustoso; come sempre cominciarono a tremarmi le gambe, e tremavano talmente forte che azionai il pedale e la macchina poco alla volta partí, anche senza filo.

– Bene cosí, Del, – disse Mrs Forbes. La sua voce mi sorprese perché, seppure non gentile, non sembrava nemmeno arrabbiata, solo stanca.

– Bene cosí ho detto. Puoi alzarti.

Radunò i pezzi del grembiule che avevo miseramente imbastito, ne fece un solo fagotto e buttò tutto quanto nel cestino dei rifiuti.

– Non imparerai mai a cucire, – disse, – come chi non ha orecchio musicale non potrà mai cantare. Ci ho provato ma ci rinuncio. Vieni con me.

Mi consegnò una scopa. – Sei capace a scopare? Bene, voglio che tu scopi tutta l’aula e butti gli avanzi di stoffa nel cestino, d’ora in poi sei responsabile di tenere pulito il pavimento e quando hai finito, puoi venire a sederti al tavolo qui in fondo e imparare poesie a memoria, per quanto mi riguarda.

Ero commossa dal sollievo e dalla contentezza, nonostante l’umiliazione pubblica, a cui avevo fatto l’abitudine. Spazzai con cura il pavimento e poi tirai fuori il libro della biblioteca, quello su Maria Stuarda, e mi misi a leggere mortificata ma leggera, sola in fondo all’aula. In un primo momento giudicai quanto era successo decisamente miracoloso, una risposta alla mia preghiera. Poi però cominciai a chiedermi, e se invece non avessi pregato, sarebbe magari successa la stessa cosa comunque? Non avevo modo di sapere, non esisteva la possibilità di verificare il mio esperimento. Di minuto in minuto, mi facevo piú taccagna, piú avara di riconoscenza. Come facevo a essere sicura? Senza considerare l’ovvia meschinità, la pochezza di un Dio subito pronto a rispondere a richieste tanto insignificanti. Sembrava quasi che si desse delle arie. Da Lui mi aspettavo una modalità piú misteriosa.

Avrei voluto parlarne con qualcuno ma a Naomi non potevo dirlo. Le avevo chiesto se credeva in Dio e la sua risposta secca e sprezzante era stata: «Beh, ma certo, non sono come la tua vecchia, io. Pensi che mi voglia ritrovare all’Inferno?» Non affrontai mai piú l’argomento.

Scelsi mio fratello Owen, invece. Aveva tre anni meno di me. Era stato un bambino credulone e influenzabile. Una volta avevamo sul terreno una baracca di legno in cui giocavamo a fare casa; lui si era seduto sul fondo di un’asse e io gli avevo dato da mangiare delle bacche di sambuco dicendogli che erano cornflakes. Se le mangiò tutte. Mentre ancora mangiava, mi venne in mente che potevano essere velenose, ma non glielo dissi per ragioni di prestigio personale e per l’importanza del gioco, e a quel punto decisi di non dirlo, per prudenza, a nessuno. Ormai aveva imparato a pattinare, si allenava a hockey, si sporgeva dalla balaustra e mi sputava in testa, un maschio come tutti gli altri, insomma.

Ma da certi punti di vista sembrava ancora piccolo e indifeso; si lanciava in imprese che mi parevano perse in partenza. Partecipava a tutte le gare. Era il carattere di mia madre che si manifestava in lui, la sua sconfinata mania di accogliere ogni sfida e ogni promessa del mondo esterno. Owen credeva nei premi: telescopi attraverso i quali vedere i crateri lunari, scatole del piccolo prestigiatore con cui far apparire gli oggetti, o da piccolo chimico, per fabbricare in casa l’esplosivo. Sarebbe diventato un alchimista, se avesse saputo che cosa voleva dire. E tuttavia, non era religioso.

Se ne stava seduto per terra in camera sua a ritagliare figurine minuscole di giocatori di hockey che poi divideva in squadre e faceva giocare; a queste partite si dedicava con divino rapimento e a me pareva abitare un mondo lontanissimo dal mio (da quello vero, cioè), e cosí irrilevante, di una tale straziante inconsistenza nella sua illusorietà.

Sedetti sul letto dietro di lui.

– Owen.

Non mi rispose; quando giocava non voleva mai nessuno intorno.

– Secondo te cosa succede alle persone quando muoiono?

– E io che ne so? – disse maldisposto Owen.

– Secondo te Dio le tiene vive, le nostre anime? Lo sai no, cos’è l’anima? Tu ci credi in Dio?

Owen girò la testa e mi rivolse uno sguardo disarmato. Non aveva nulla da nascondere, nient’altro da offrire se non la sua sincera indifferenza.

– Faresti bene a crederci, in Dio, – dissi. – Senti qua –. Gli raccontai della preghiera, di Economia domestica. Ascoltò svogliato. Il bisogno che sentivo non lo toccava affatto. Scoprirlo mi fece arrabbiare; mi pareva disorientato, inerme eppure malleabile, come una palla di gomma. Su mia insistenza avrebbe ascoltato, magari mi avrebbe anche dato ragione, se ci tenevo tanto, ma in cuor suo, pensai, non mi stava davvero a sentire. Che stupido.

Da quel momento presi a vessarlo spesso, quando lo sorprendevo da solo. Non dirlo alla mamma, gli ordinavo. Era l’unica cavia sulla quale testare la mia fede; una almeno dovevo averla. Il suo profondo disinteresse, il suo apparente benessere in un mondo senza Dio erano ciò che non riuscivo a tollerare e che mi ostinavo a mettere alla prova; per giunta ero convinta che, essendo il fratello minore ed essendo stato a lungo in mio potere, avesse l’obbligo di seguirmi; non dava segni di assenso, dunque mi pareva un atto di ribellione.

In camera mia, a porta chiusa, leggevo il Libro delle preghiere comuni.

Certe volte, camminando per strada, chiudevo gli occhi (come facevamo con Owen quando giocavamo a essere ciechi) e mi dicevo, pregando tutta seria: «Dio. Dio. Dio». E per alcuni fuggevoli secondi immaginavo una fitta nube luminosa calare sopra Jubilee e avvolgersi a spira intorno al mio cranio. Ma subito spalancavo gli occhi, spaventata; non ce la facevo a lasciarmi invadere e nemmeno a uscire da me stessa. E poi avevo paura di andare a sbattere, di essere vista, di rendermi ridicola.

Arrivò il venerdí santo. Stavo per uscire. Mia madre mi vide nell’ingresso e mi chiese: – Come mai hai messo il berretto?

Era venuto il momento di prendere una posizione. – Vado al culto.

– Non c’è nessun culto, oggi.

– Ma io vado alla chiesa anglicana. Loro ce l’hanno il culto il venerdí santo.

Mia madre dovette sedersi sui gradini. Mi rivolse la stessa occhiata smorta, inquisitrice e stanca con cui mi aveva scrutata un anno prima quando aveva trovato un disegno fatto su un taccuino di schizzi da Naomi e da me: una grassa signora nuda con tette a pallone e un grosso cespuglio di peli di inchiostro nero sul pube.

– Sai almeno che cosa si ricorda il venerdí santo?

– La crocifissione, – dissi brusca.

– Quello è il giorno in cui Cristo è morto per i nostri peccati. Cosí ci dicono. Allora. Tu ci credi?

– Sí.

– Cristo è morto per i nostri peccati, – ripeté mia madre, scattando in piedi. Nello specchio dell’ingresso si lanciò di sfuggita uno sguardo aggressivo. – Bene, bene, bene. Redenti dal suo sangue. Che bella idea. Tanto vale fare come gli aztechi che strappavano il cuore a gente viva perché credevano che altrimenti il sole non sarebbe sorto e tramontato l’indomani. Il cristianesimo non è poi tanto meglio. Che ne pensi di un Dio che chiede sangue? Sangue, sangue, sangue. Prova ad ascoltare gli inni che cantano, non si parla d’altro. E di un Dio che non è soddisfatto finché qualcuno non finisce in croce per sei, nove ore, o quante sono? Se io fossi Dio non sarei tanto assetata di sangue. La gente normale non lo è. Lascia perdere Hitler. Magari una volta, ma adesso no. Hai capito cosa ti sto dicendo, hai capito dove voglio arrivare?

– No, – dissi sinceramente.

– Dio è un’invenzione dell’uomo! E non viceversa! È l’uomo che ha creato Dio. E l’uomo a uno stadio di sviluppo piú primitivo e sanguinario di quello attuale, si spera. L’uomo ha creato Dio a sua immagine. L’ho sostenuto davanti a dei ministri. Sono pronta a sostenerlo con chiunque. Non ho mai incontrato nessuno che abbia saputo dimostrarmi il contrario dicendo cose sensate.

– Posso andare?

– Non ho certo intenzione di impedirtelo, – disse mia madre, anche se di fatto si era spostata davanti alla porta. – Va’ pure a farti riempire la testa. Vedrai se non ho ragione. Magari hai preso da mia madre –. Mi scrutò intensamente cercando tracce della fanatica religiosa. – In quel caso, credo di non poterci fare niente.

Non fui scoraggiata dalle obiezioni di mia madre, non quanto lo sarei stata se mi fossero arrivate da chiunque altro, almeno. Ciononostante, attraversando il paese, ero a caccia di prove della posizione contraria. Mi consolai banalmente del fatto che i negozi fossero tutti chiusi, con le saracinesche abbassate su ogni vetrina. Provava qualcosa, no? Se avessi bussato alla porta di tutte le case lungo il tragitto e chiesto alla gente: «Gesú Cristo è morto per i nostri peccati?», la risposta, imbarazzata ed esterrefatta, sarebbe stata senz’altro sí.

Mi resi conto che, personalmente, di Cristo morto per i nostri peccati non mi importava un granché. Io avevo bisogno soltanto di Dio. Ma se Cristo morto per i nostri peccati era la strada per arrivare a Dio, ero pronta a lavorarci.

Quel venerdí santo il tempo era, poco opportunamente, mite e soleggiato, con i ghiaccioli che si spezzavano gocciolando, i tetti fumanti, rivoli d’acqua in corsa lungo le vie. Dai semplici vetri alle finestre della chiesa entravano fiotti di luce. Arrivai in ritardo, per colpa di mia madre. Il ministro aveva già preso posto davanti all’assemblea. Scivolai nell’ultimo banco e Mrs Sherriff, la signora in turbante di velluto, mi squadrò con rabbia; o forse non era arrabbiata, solo immensamente stupita; mi sentivo un po’ come se mi fossi appollaiata a fianco di un’aquila sul suo posatoio.

Eppure vederla mi rincuorava. Ero contenta di vederle tutte, le sei, otto, dieci persone in carne e ossa che si erano messe il cappello in testa, erano uscite di casa e avevano percorso le strade del paese, scavalcando rivoli di neve sciolta, per presentarsi lí; non l’avrebbero mai fatto senza un motivo.

Volevo trovare un credente, un vero credente su cui scaricare il fardello dei miei dubbi. Volevo osservare questa persona e trarne conforto, senza parlarci. In un primo tempo pensai che potesse essere Mrs Sherriff, ma lei non poteva funzionare; la sua follia la squalificava. Il mio credente doveva essere di una luminosa lucidità mentale.

Vieni, o Signore, aiutaci e liberaci dal male nel Tuo nome.

Vieni, o Signore, aiutaci e liberaci dal male nella Tua gloria.

Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.

Mi concentrai sulle sofferenze di Cristo. Tenevo le mani giunte in modo da potermi conficcare l’unghia di un dito con tutta la forza possibile in ciascun palmo. Scavai torcendo allo stremo ma non mi uscí nemmeno una goccia di sangue; mi sentivo a disagio, ero consapevole di non potermi considerare partecipe della sofferenza. Se avesse avuto buongusto, Dio avrebbe condannato simili idiozie (ma ce l’aveva? Prendi le cose che avevano fatto i santi, con la Sua approvazione). Avrebbe saputo che cosa mi passava davvero per la testa, che cosa cercavo di mettere a tacere dentro di me. Il pensiero era: Ma le sofferenze di Cristo sono state davvero cosí atroci?

Davvero cosí atroci, sapendo, e Lui lo sapeva, perché lo sapevano tutti, che sarebbe risorto nella carne e nella luce per sedere in eterno alla destra di Dio Padre Onnipotente e venire a giudicare i vivi e i morti? Chissà quanta gente – magari non tutti, magari nemmeno la maggioranza, ma comunque un bel po’ – si presterebbe a un simile strazio se avesse la certezza di un dopo come quello che ha avuto Lui. Molti l’avevano fatto, anzi, se pensiamo ai santi e ai martiri.

Sí, d’accordo, ma c’è differenza. Perché Lui era Dio; è stato piú un concedersi, piú un accettare di scendere al nostro livello, per Lui. Ma Lui era Dio, o all’epoca solo il figlio terreno di Dio? Non ne venivo fuori. Lo sapeva già che tutto si stava compiendo deliberatamente e che alla fine sarebbe andato a posto, o il Suo essere-Dio era momentaneamente oscurato, e Lui constatava soltanto la Sua caduta? Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?

Dopo il lungo salmo con le profezie sulle vesti e sul tiro a sorte per aggiudicarsele, il ministro raggiunse il pulpito e disse che avrebbe pronunciato un breve sermone sulle ultime parole di Cristo in croce. Esattamente quelle a cui stavo pensando. Purtroppo scoprii che ce n’erano delle altre, oltre a quelle che conoscevo. Cominciò con Ho sete e questo, disse, dimostrava che Cristo poteva patire nel corpo come avremmo patito noi nella Sua condizione, non un’oncia di meno, e che non aveva vergogna di ammetterlo né di chiedere aiuto concedendo ai poveri soldati l’opportunità di ottenere la grazia, con quella spugna imbevuta di aceto. Il Donna, ecco tuo figlio… figlio, ecco tua madre mostrava come il Suo ultimo o pressoché ultimo pensiero andasse ad altri, e avesse a cuore il loro conforto reciproco dopo la Sua dipartita (seppure non definitiva). Perfino nell’ora dell’agonia e della passione Cristo non dimenticava la bellezza e l’importanza dei rapporti umani. Le parole Oggi tu sarai con me in Paradiso ovviamente davano prova del Suo prendersi cura del peccatore, del malfattore reietto dalla società e appeso sulla croce al Suo fianco. O Signore che nulla disdegni di ciò che hai creato né… vuoi la morte del peccatore, ma che desista dalla condotta malvagia e che viva…

E tuttavia perché – non riuscivo a levarmi quest’idea dalla testa pur sapendo che non mi avrebbe dato la minima gioia –, perché mai Dio avrebbe dovuto sdegnare una cosa che aveva creato? Se sapeva che l’avrebbe sdegnata, perché crearla? E se invece aveva creato le cose come desiderava che fossero, allora niente poteva aver colpa di essere com’era, il che eliminava grossomodo alla radice il problema del peccato, o no? Ma allora perché Cristo era dovuto morire per i nostri peccati? Il sermone mi stava facendo un effetto sgradevole, mi sconcertava e mi rendeva polemica. Arrivava perfino a suscitarmi, anche se non sarei riuscita ad ammetterlo, un’antipatia nei riguardi di Cristo, per il modo in cui vi si continuava a insistere sulla Sua perfezione. Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? Brevemente, disse il ministro, oh, brevissimamente, Gesú aveva perso il contatto con Dio. Sí, era successo, perfino a Lui. Aveva perso il collegamento e a quel punto nell’oscurità aveva gridato la Sua disperazione. Ma anche questo era parte del piano, anche questo era necessario. Avremmo cosí saputo, nei nostri momenti piú bui, che i nostri dubbi, la nostra angoscia erano stati sofferti da Cristo Stesso e, con questa certezza, ogni dubbio si sarebbe rapidamente dissolto.

Ma perché? Perché i dubbi avrebbero dovuto dissolversi, e piú rapidamente? Supponiamo che quello sia stato davvero l’ultimo grido di Cristo, le ultime vere parole che gli sentirono pronunciare. Occorre almeno ipotizzarlo, no? Prenderlo in considerazione. Supponiamo che abbia gridato quelle parole e sia morto, e mai piú risorto, che non abbia mai realmente scoperto che era tutto parte della complessa sceneggiatura di Dio. Questa sí che è sofferenza. Già; pensiamo a Cristo che all’improvviso capisce: non c’era niente di vero. Non era vero niente. Al confronto lo strazio delle mani e dei piedi è nulla. Aver sbirciato fra le tapparelle del mondo, essere arrivato fin lí, e aver detto tutto quello che aveva detto per poi alla fine vedere… niente. Parlaci di questo!, urlai mentalmente al ministro. Oh, parlaci di questo, trascina il male allo scoperto e… sconfiggilo!

Ma ciascuno fa quel che può, e il ministro non poteva fare di piú.

Incontrai Mrs Sherriff in strada qualche giorno dopo. Ero da sola, quella volta.

– Io ti conosco. Che ci fai sempre alla chiesa anglicana? Credevo che fosse la Chiesa unita, la tua.

Quando quasi tutta la neve fu sciolta e il fiume rientrato negli argini, Owen e io ricominciammo ad andare alla fattoria di Flats Road di sabato, separatamente. La casa dove lo zio Benny aveva abitato per tutto l’inverno e mio padre per la maggior parte del tempo, tranne i sabati e le domeniche quando veniva a stare da noi, era talmente lurida da aver perso i connotati di una vera casa per trasformarsi in una specie di estensione al coperto del fuori. Il disegno del linoleum in cucina era sparito; adesso era lo sporco, il disegno. Zio Benny mi disse: – Oh, è arrivata la donna delle pulizie, ce n’era giusto bisogno, – ma io non ci pensavo neanche. C’era puzza di volpe in tutte le stanze. La stufa restava spenta fino alla sera e la porta era sempre aperta. Sui prati fangosi gracchiavano i corvi, il fiume era alto e color d’argento, la linea dell’orizzonte esattamente, magnificamente la stessa che avevo ricordato, dimenticato e ricordato di nuovo. Le volpi guaivano inquiete perché era il periodo dell’anno in cui le femmine facevano i piccoli. Owen e io non avevamo il permesso di avvicinarci ai recinti.

Owen si dondolava a una corda appesa al frassino, dove l’estate prima c’era stata la nostra altalena.

– Major ha ammazzato una pecora!

Era il nostro cane, Major, ormai considerato di Owen anche se a lui di Owen non importava particolarmente, ma a Owen del cane, sí. Era un incrocio di pastore scozzese biondo e marrone di grossa taglia e dall’estate precedente era diventato talmente pigro da non abbaiare nemmeno alle macchine, per limitarsi a sonnecchiare sdraiato all’ombra; ma addormentato o sveglio che fosse conservava comunque una specie di placida dignità senatoria. Ora però se ne andava a caccia di pecore; si era dato al crimine in vecchiaia, proprio come un fiero senatore anziano fino a quel momento morigerato avrebbe potuto scegliere apertamente di darsi al vizio. Owen e io andammo a dargli un’occhiata, e Owen mi raccontò che la pecora uccisa era dei Potter, che avevano il pascolo vicino al nostro e che i figli dei Potter avevano visto Major dal furgone, perciò si erano fermati, e avevano scavalcato la recinzione urlando, ma che Major era riuscito a separare la sua pecora dal resto del gregge e le era stato addosso finché non l’aveva ammazzata.

Ammazzata. Me la vedevo tutta coperta di sangue, e ridotta a brandelli; Major non aveva mai cacciato né ucciso niente in vita sua. – La voleva per mangiarla? – domandai tra lo sbigottimento e lo schifo, e Owen dovette spiegarmi che la morte era in un certo senso stata accidentale. A quanto pareva le pecore potevano essere rincorse a morte, o spaventate a morte, tanto erano deboli, grasse e paurose; anche se poi Major le aveva strappato dal collo, a mo’ di trofeo, un ciuffo di lana tiepida, le era zompato sopra e l’aveva strapazzata un poco coi denti, per ragioni di prestigio. Dopodiché era dovuto schizzare come un fulmine (un fulmine, Major, figuriamoci!) a casa, perché arrivavano i Potter.

Era legato dentro la stalla, con la porta aperta perché avesse aria e luce. Owen gli si mise a cavalcioni per svegliarlo – si svegliava ogni volta talmente in fretta e tranquillo, senza scomporsi, che era difficile stabilire se dormiva davvero o faceva finta – e si rotolò per terra con lui, cercando di farlo giocare. – Vecchio brigante, ammazzi le pecore adesso, eh, vecchio brigante, – gli disse Owen tutto fiero battendogli addosso coi pugni. Major sopportava i colpi, ma non si mostrò piú giocoso del solito; non pareva aver recuperato giovinezza se non per quell’unico aspetto fenomenale. Si mise a leccare Owen in faccia con paternalistica sufficienza per tornare a dormire appena l’altro lo lasciò stare.

– Deve restare legato perché non vada a cacciare altre pecore, ’sto vecchio brigante. I Potter hanno detto che se lo beccano un’altra volta gli sparano.

Era vero. In effetti Major era sotto i riflettori. Mio padre e zio Benny venivano a trovarlo, coricato per terra nella stalla, pieno di fasulla prosopopea e innocenza. Secondo zio Benny era spacciato. A suo parere nessun cane che si dia alla caccia di pecore può sperare di uscirne. – Una volta che ci han preso gusto, – disse, accarezzando Major sulla testa, – ci han preso gusto. Bisogna abbatterlo, un cane che ammazza le pecore.

– Vuoi dire sparargli? – esclamai, non tanto per amore di Major ma perché mi pareva una fine talmente brutale per una vicenda che tutti quanti consideravano piuttosto comica. Un po’ come trascinare il senatore canuto al patibolo per le sue imbarazzanti facezie.

– Non puoi tenerlo, un cane che ammazza le pecore. Ti riduce in miseria, per tutte le bestie che ti tocca pagare. E comunque se non lo fai tu, lo finisce di sicuro qualcun altro.

Mio padre, al nostro appello in proposito, disse che magari Major non ne avrebbe piú prese altre, di pecore. Era comunque legato. Doveva rimanere legato per il resto dei suoi giorni, se necessario, o comunque finché non avesse superato la sua seconda giovinezza e fosse diventato troppo fiacco per dare la caccia a qualsiasi animale; ormai non mancava piú molto.

Ma si sbagliava, mio padre. Aveva ragione zio Benny, col suo pessimismo sornione, le sue ferali profezie compiaciute. Major evase dalla cattività, alle prime ore del mattino. La porta della stalla era chiusa ma riuscí a squarciare una rete metallica su una finestra senza vetri, a saltare fuori e a precipitarsi dai Potter per riassaporare il piacere appena scoperto. Tornò a casa entro l’ora di colazione, ma la corda spezzata, la finestra e la pecora morta nel pascolo dei Potter la dicevano lunga su come erano andate le cose.

Eravamo a tavola. Mio padre aveva passato la notte in paese. Lo chiamò zio Benny per dirglielo e al suo ritorno in cucina mio padre disse: – Owen. Dobbiamo disfarci di Major.

Owen si mise a tremare ma non gli uscí una parola. Mio padre ci raccontò in breve della fuga e della pecora morta.

– Comunque è già vecchio, come cane, – disse mia madre fingendosi serena. – È un vecchio cane, ha avuto una bella vita e chissà a cosa andrebbe incontro d’ora in poi, fra tutti i malanni e le disgrazie della vecchiaia.

– Potrebbe venire a stare qui, – propose Owen flebilmente. – Cosí non saprebbe neppure piú dove stanno, le pecore.

– Un cane cosí non può abitare in paese. E comunque, non è detto che non scapperebbe di nuovo.

– Prova a pensarlo in paese, legato, Owen, – disse mia madre in tono di rimprovero.

Owen si alzò senza aggiungere altro. Mia madre non lo fece tornare a dire con permesso.

Ero abituata a uccisioni varie. Zio Benny andava a caccia e metteva le trappole per i topi muschiati, e ogni autunno mio padre ammazzava le volpi e vendeva le pelli per mantenerci. Durante l’anno abbatteva cavalli vecchi, azzoppati o anche semplicemente diventati inutili, per dar da mangiare alle volpi. Avevo fatto due brutti sogni al riguardo, qualche tempo prima, e non riuscivo a dimenticarli. Una volta avevo sognato di andare giú all’affumicatoio di mio padre, un capanno riparato da zanzariere al di là della stalla dove d’estate teneva quarti scuoiati di cavallo appesi ai ganci. Il capanno era all’ombra di un melo selvatico; le zanzariere erano nere di mosche. Nel sogno guardavo dentro e, senza sorprendermi, constatavo che la carne appesa era in realtà carne umana smembrata e scuoiata. L’altro sogno si ispirava in parte alla storia d’Inghilterra che in quel periodo leggevo sull’enciclopedia. Sognai che mio padre aveva piazzato sul prato davanti alla porta della cucina un semplice ciocco di legno e ci metteva tutti in fila – Owen, mia madre e me – per mozzarci la testa. Non fa male per niente, diceva, come se non ci fosse altro da temere, in un attimo sarà tutto finito. Era calmo e gentile, pacato, stancamente autorevole nel tentativo di spiegarci che tutto ciò era fatto in qualche modo per il nostro bene. Pensieri di fuga lottavano nella mia testa come uccelli intrappolati nel petrolio, le ali pesanti, inservibili. Ero paralizzata dalla sua ragionevolezza, dai preparativi semplici e familiari, come scontati, dal volto rassicurante della follia.

Durante il giorno non ero spaventata come questi sogni parevano suggerire. Non mi disturbava passare davanti all’affumicatoio, o sentire il rumore di spari. Ma quando pensavo alla fine di Major, quando immaginavo mio padre nell’atto di caricare senza fretta il fucile, con gesti rituali, come faceva sempre, e chiamare Major che non avrebbe sospettato niente essendo avvezzo agli uomini con il fucile, e poi li vedevo andarsene insieme oltre la stalla dove mio padre avrebbe cercato un posto adatto, allora in effetti mi tornavano in mente i contorni di quella faccia efficiente, blasfema. Era sulla premeditazione che mi soffermavo, sulla scelta deliberata di spedire un proiettile dentro il cervello e bloccarne il funzionamento – perché in quella scelta e in quel gesto, non importa quanto ragionevoli e necessari, alloggiava l’assenso a qualsiasi orrore. La morte era resa possibile. E non in quanto ineluttabile, bensí in quanto voluta, sí, voluta da tutti quegli adulti e uomini d’affari, da tutti quei boia con le loro facce gentili e spietate.

E da me? Io non volevo che succedesse, non volevo che sparassero a Major, ma ero anche carica di una fortissima eccitazione oltre che di rammarico. La scena dell’esecuzione su cui fantasticavo e che mi procurava lampi di tenebra, mi era davvero soltanto odiosa? No. Indugiavo sulla fiducia di Major, sul suo affetto per mio padre – che amava, in effetti, in un suo modo poco espansivo, come avrebbe potuto amare chiunque –, sui suoi occhi allegri e mezzi ciechi. Andai di sopra a vedere come la stava prendendo Owen.

Era seduto per terra in camera da letto a perdere tempo giocando a ripiglino. Non piangeva. Ebbi la vaga speranza di riuscire a convincerlo a fare una scenata, non perché credevo che sarebbe servita a qualcosa, ma perché mi pareva che la circostanza lo esigesse.

– Se preghi che non sparino a Major non gli spareranno? – sbottò Owen con voce imperiosa.

L’idea di pregare non mi era nemmeno passata per la mente.

– Hai pregato di non dover infilare la macchina da cucire e non l’hai piú dovuto fare.

Previdi con angoscia l’inevitabile collisione in arrivo, tra la religione e la vita.

Owen si alzò, mi si mise di fronte e disse tesissimo: – Prega. Come si fa? Prega subito, adesso!

– Non posso pregare per una cosa cosí, – dissi.

– Perché?

Perché? Perché, avrei potuto rispondergli, non si prega per far succedere o non succedere qualche cosa, ma per avere la forza e la grazia di sopportare quello che succede. Non male come espediente per venirne fuori, peccato puzzasse orrendamente di resa. Comunque non ci pensai. Pensai semplicemente, perché lo sapevo, che pregare non avrebbe impedito a mio padre di uscire, prendere il fucile e chiamare Major! Qui Major… Pregare non avrebbe modificato niente di tutto ciò.

Dio non l’avrebbe modificato. Se Dio stava dalla parte del bene e della pietà e della misericordia, allora perché rendere queste cose tanto difficili da ottenere? Lasciamo perdere la solfa del renderle degne di tanta fatica; lasciamo perdere. Pregare affinché un’esecuzione non abbia luogo era inutile semplicemente perché Dio non si interessava a simili contestazioni, non coincidevano con le Sue.

Poteva esistere un Dio non intrappolato nella rete delle varie chiese, non manipolato da croci e incantesimi, un Dio vero, presente nel mondo, e alieno e inaccettabile come la morte? Poteva esserci un Dio eccezionale, indifferente, al di là della fede?

– Come si fa? – chiese testardo Owen. – Bisogna mettersi giú, in ginocchio?

– Non importa.

Ma si era già inginocchiato, e teneva le mani serrate strette lungo i fianchi. Poi, senza chinare la testa, contorse la faccia in una smorfia di concentrazione.

– Alzati, Owen! – dissi in tono duro. – Non serve a niente. Non funziona, Owen, non funziona, alzati, su, da bravo tesoro.

Senza darsi la pena di aprire gli occhi, sferrò a casaccio un colpo a pugni chiusi. Nel corso della preghiera la sua faccia attraversò una serie di espressioni intime, disperate, ciascuna delle quali a me parve una condanna e una rivelazione difficile da guardare come carne umana scuoiata. Vedere qualcuno aver fede, da molto vicino, non è piú facile che vedere mozzare un dito.

Li avranno anche i missionari, dei momenti cosí, di sbalordimento e vergogna?