Eredi della viva carne

La casa alla curva di Jenkin aveva il nome Jenkin’s Bend dipinto su un’insegna – opera dello zio Craig – appesa al portico anteriore, fra una Red Ensign canadese e una Union Jack britannica. Sembrava un centro di reclutamento o un luogo di transito alla frontiera. Un tempo era stata un ufficio postale e conservava qualcosa dell’istituzione semipubblica, perché lo zio Craig era il segretario comunale di Fairmile e la gente veniva da lui a richiedere licenze matrimoniali e permessi vari; il Consiglio si riuniva nel suo antro, alias ufficio, arredato con schedari, un divano di pelle nera, un enorme scrittoio, altre bandiere, una foto dei Padri della Confederazione e una dei reali con principessine, tutti in tenuta da incoronazione. C’era inoltre una foto in cornice della baracca di tronchi che aveva preceduto il vasto e decoroso quanto ordinario edificio attuale in mattoni. L’immagine pareva ritrarre un paese diverso, nel quale ogni cosa era stata molto piú bassa, piú scura e fangosa di adesso. Arbusti sfocati, insieme a una fitta macchia di conifere dalle punte nere, si ammassavano molto vicino alle costruzioni, e la strada in primo piano era fatta a sua volta di tronchi.

– Le chiamavano piste di velluto a coste, – mi notificò lo zio.

Parecchi uomini in maniche di camicia, con baffoni flosci ed espressioni fiere e al tempo stesso inermi, circondavano un carro e un cavallo. Commisi l’errore di chiedere allo zio Craig se c’era anche lui nella foto.

– Pensavo sapessi leggere, – disse, indicandomi lo scarabocchio della data sotto la ruota del carro: 10 giugno 1860. – Non era un uomo fatto nemmeno mio padre, a quei tempi. Eccolo là, dietro la testa del cavallo. Si è sposato solo nel ’75. Io sono nato nell’82. Ti ho risposto?

Si era irritato con me non perché avessi offeso la sua vanità, ma per la mia stolida inaccuratezza in fatto di tempo e di storia. – Prima che nascessi io, – proseguí brusco, – tutto quel verde che si vede nella foto non c’era già piú. E non c’era piú quella strada. Ce n’era già una di ghiaia.

Aveva un occhio cieco; anche dopo l’operazione gli era rimasto scuro e velato, con la palpebra cascante che metteva paura. La faccia era squadrata, cadente, il corpo massiccio. Ce n’era un’altra di foto, non in quella stanza, ma nel soggiorno di fronte, e lí lo si vedeva disteso su un tappeto davanti a genitori dall’aria già vecchia: un adolescente biondo, pienotto, insolente, con la testa appoggiata al gomito. La piccola zia Grace e la zia Elspeth, sue sorelle minori, vestite alla marinara e con le frangette arricciate, sedevano una di qua e l’altra di là su due sgabellini. Mio nonno, padre di mio padre, che era morto di spagnola nel 1918, era in piedi alle spalle dei genitori con la zia Moira (ancora snella al tempo!) di Porterfield da una parte e dall’altra la zia Helen, che si era sposata un vedovo e, dopo aver viaggiato in lungo e in largo, ora si godeva i suoi soldi in British Columbia. «Guardalo qui, il tuo zio Craig, – dicevano le zie Elspeth e Grace, spolverando la foto. – Ce l’ha l’aria soddisfatta, eh?, come un gatto che si è pappato tutta la panna dal secchio del latte!» Ne parlavano come se fosse ancora un ragazzetto disteso là in tutta la sua seducente insolenza, un oggetto di tenerezza e risate, per loro due.

Lo zio Craig era prodigo di informazioni; certe mi interessavano, altre no. Volevo sentire la storia di come la curva di Jenkin si era guadagnata quel nome, dopo che un giovanotto era rimasto ucciso sotto un albero caduto a pochi passi da lí; era arrivato in questo paese da meno di un mese. Era stato il nonno dello zio Craig, vale a dire il mio trisnonno, dopo aver messo su casa, aver aperto l’ufficio postale e aver gettato le basi di quella che un giorno credeva e sperava sarebbe diventata una cittadina importante, a battezzare la curva col nome di quel ragazzo, perché altrimenti per cosa avrebbe mai potuto essere ricordato un uomo tanto giovane e non sposato?

– Dove è morto?

– Piú su, sulla strada, a meno di un quarto di miglio.

– Posso andare a vedere?

– Non c’è niente da vedere. Non è che si metta un cartello per cose del genere.

Lo zio Craig mi guardava con l’aria di chi disapprova; lui non si lasciava prendere dalla curiosità. Spesso mi reputava volubile e stupida, ma non mi importava granché; c’era qualcosa di impersonale e magnanimo nel suo giudizio, che mi permetteva di sentirmi libera. La mia pochezza non lo toccava né lo feriva mai personalmente, sebbene non mancasse di sottolinearla. Era questa l’enorme differenza tra deludere lui o qualcuno come mia madre, o anche le zie. L’autoreferenzialità maschile rendeva riposante la sua compagnia.

L’altro genere di informazioni che mi passava aveva a che fare con la storia politica della contea del Wawanash, alleanze tra le famiglie, parentele, risultati elettorali. Era la prima persona che avessi mai conosciuto sinceramente convinta dell’importanza di un mondo fatto di eventi pubblici, di politica, un uomo che non metteva in dubbio il proprio essere parte di queste cose. Anche i miei ascoltavano sempre i notiziari, che commentavano con scoraggiamento o sollievo (perlopiú con scoraggiamento, dato che la guerra era scoppiata da poco), ma io avevo la sensazione che per loro, come per me, tutto quello che succedeva nel mondo fosse fuori dal nostro controllo, irreale eppure catastrofico. Lo zio Craig era meno scettico. Intuiva un collegamento diretto tra la sua gestione delle faccende del paese, con tutto il loro carico di immancabili problemi, e gli affari di stato di cui si occupava, a Ottawa, il primo ministro. E si era anche fatto un’opinione ottimistica della guerra, che vedeva come un’enorme esplosione di ordinaria attività politica destinata a consumarsi da sé fino a spegnersi; assai piú del suo reale procedere, lo interessavano i suoi possibili effetti sugli esiti elettorali, ad esempio le conseguenze della coscrizione sul Partito liberale, e questo nonostante fosse un patriota che aveva appeso fuori la bandiera e si era messo a vendere Victory Bonds.

Quando non era impegnato in Comune si occupava di altri due progetti: una storia della contea e la stesura di un albero genealogico che risaliva al 1670, in Irlanda. Nella nostra famiglia nessuno aveva compiuto gesta memorabili. Si erano sposati fra protestanti irlandesi e avevano messo al mondo parecchi figli. Certi non si erano sposati. Alcuni dei figli erano morti giovani. Quattro membri della famiglia erano morti in un incendio. Uno aveva perso due mogli, entrambe subito dopo il parto. Uno aveva sposato una cattolica romana. Poi erano arrivati in Canada e avevano continuato a fare grossomodo la stessa vita, spesso sposandosi con presbiteriani scozzesi. E allo zio Craig sembrava necessario che i nomi di tutte queste persone, i loro legami reciproci, le tre grandi date di nascita matrimonio e morte, o le due sole di nascita e morte se non era successo nient’altro, venissero portate alla luce, spesso con grande fatica e con una stupefacente quantità di corrispondenza intercontinentale (non scordava mai il ramo della famiglia finito in Australia), e trascritte qui in bell’ordine, nella sua ampia e curata grafia. Non chiedeva a nessun membro della famiglia niente di piú interessante, o scabroso, che sposare una donna di religione cattolica romana (particolare annotato in inchiostro rosso sotto il nome della sposa); al contrario, ogni stranezza avrebbe turbato l’impianto di tutto il suo organigramma. Non erano i singoli nomi ad avere importanza, bensí la solida quanto intricata struttura di esistenze che ci sostenevano dal passato.

Lo stesso valeva per la storia della contea, che era stata esplorata, popolata, si era sviluppata e aveva poi iniziato il suo attuale lento declino senza conoscere che modeste calamità: l’incendio di Tupperton, le regolari esondazioni del fiume Wawanash, alcuni inverni terribili, qualche omicidio senza mistero; e che aveva dato i natali a tre sole celebrità: un giudice della Corte suprema, un archeologo che aveva dissepolto villaggi indiani intorno alla Georgian Bay e scritto un libro sull’argomento, e una donna le cui poesie erano pubblicate sui quotidiani nazionali e statunitensi. Ma non erano queste le cose importanti; era la vita di tutti i giorni a contare. Gli schedari e i cassetti dello zio Craig erano pieni di ritagli di giornale, di lettere contenenti descrizioni del clima, la cronaca di un cavallo fuggiasco, elenchi di persone presenti a un certo funerale, un immenso accumulo di fatti assolutamente consueti che aveva cura di ordinare. Ogni cosa doveva trovare posto nella sua storia perché diventasse una storia esauriente della contea del Wawanash. Non restava fuori nulla. Ecco perché, alla sua morte, lo zio Craig non era arrivato oltre il 1909.

Quando lessi, anni dopo, della Nataša di Guerra e pace e di come attribuisse un’immensa importanza, pur senza averne comprensione alcuna, alle occupazioni astratte e intellettuali del marito, non potei non pensare a zia Grace e a zia Elspeth. Non avrebbe fatto la minima differenza per loro se le occupazioni dello zio Craig fossero state di tipo «astratto e intellettuale», o se avesse in effetti passato le giornate a riordinare penne di gallina; erano programmate per credere in quello che faceva. Aveva una vecchia macchina da scrivere nera, coi cerchietti metallici intorno ai tasti dai lunghi bracci a vista; quando dava inizio alla sua lenta e rumorosa, incerta ma autorevole attività di scrittura, loro abbassavano la voce, e si scambiavano assurde espressioni di rimprovero per l’eventuale acciottolio di un tegame. C’è Craig che lavora! Non mi lasciavano uscire sul portico per paura che passassi davanti alla sua finestra e lo disturbassi. Rispettavano il lavoro degli uomini oltre ogni dire; ne ridevano, anche. Il che era strano; potevano contemporaneamente credere in modo assoluto alla sua importanza e comunicare che, da un certo punto di vista, lo giudicavano frivolo e inessenziale. Mai e poi mai si sarebbero comunque immischiate; la linea di demarcazione tra il lavoro degli uomini e quello delle donne era nettissima e qualsiasi incursione, o anche solo ipotesi di incursione al di là del confine, veniva da loro accolta con risa stupefatte e leggere di una superiorità nient’affatto compiaciuta.

Il portico era il posto dove passavano i pomeriggi, dopo le maratone mattutine di pavimenti tirati a lustro, raccolte di cetrioli e patate, fagioli e pomodori nell’orto, preparazione di conserve e sottaceti, bucato, inamidatura, spruzzaggio, stiratura, lucidatura pavimenti e cottura alimenti da forno. Non che se ne stessero sedute con le mani in mano; i loro grembiuli eran pieni di lavoro: ciliegie da snocciolare, piselli da sgranare, mele da detorsolare. Le mani e i vecchi coltelli dal manico di legno scuro si muovevano a una velocità strabiliante, quasi rancorosa. Nell’arco di un’ora passavano due o tre macchine che di solito rallentavano perché a bordo c’era gente del paese e qualcuno salutava con un gesto. Zia Elspeth o zia Grace ribattevano con la frase di prammatica della cortesia contadina: «Fermatevi un momento, venite via dalla polvere!», al che i passeggeri rispondevano: «Magari. E voi, voi quando passate a trovarci?»

Zia Elspeth e zia Grace raccontavano storie. Non davano l’impressione di raccontarle a me, per il mio divertimento; sembrava che l’avrebbero fatto comunque, per puro piacere personale, anche se fossero state sole.

– Oh, te lo ricordi l’operaio che aveva papà, il forestiero, aveva un diavolo di carattere, parlando con licenza. Da dove veniva, Grace, non era tedesco?

– No, austriaco. Era arrivato a piedi in cerca di lavoro e papà lo aveva assunto. Mamma ha sempre avuto paura; non si fidava dei forestieri, lei.

– Eh, figuriamoci.

– Lo faceva dormire nel granaio.

– Urlava e bestemmiava in austriaco tutto il tempo, te lo ricordi quando andavamo a saltare in mezzo ai suoi cavoli? Tirava giú un fiume di parolacce straniere, da gelarti il sangue.

– Finché non ho deciso di dargli una lezione.

– Cosa si era messo a bruciare quella volta? era in fondo all’orto a bruciare ramaglie.

– Bruchi tessitori.

– Ecco cos’era. Stava bruciando bruchi tessitori e tu ti sei infilata una tuta di Craig, una camicia, e ti sei imbottita ben bene di cuscini, hai tirato su i capelli per nasconderli con un cappello di papà e ti sei impiastrata mani e faccia per far finta di essere un negro…

– Poi ho preso il coltellaccio da macellaio, quel coltellaccio lungo e tremendo che abbiamo ancora…

– E sei sgattaiolata nell’orto, nascosta dietro gli alberi. Io e Craig intanto guardavamo dalla finestra di sopra, no?

– Di sicuro mamma e papà dovevano essere via.

– Sí, sí, infatti, erano in paese. Erano andati a Jubilee col carro a cavallo.

– Gli sono arrivata a pochi metri di distanza e sono saltata fuori da dietro l’albero… Santo cielo se ha strillato! Ha cacciato un urlo ed è partito come un razzo verso il granaio. Che vigliacco che era.

– Tu poi sei tornata a casa, ti sei tolta i vestiti e ti sei lavata bene prima che mamma e papà tornassero dal paese. Ed eccoci sedute a tavola, di nuovo costrette a servirlo. Sotto sotto avevamo sperato che decidesse di tagliare la corda.

– Io no. Per niente. Volevo godermi la scena.

– Si presentò pallido come un cencio e con un diavolo per capello, si mise a tavola senza dire una parola. Ci aspettavamo che accennasse al fatto che un balordo di negro girava libero nei dintorni. Macché.

– Non voleva far sapere che vigliacco era stato, tutto qui.

E giú a ridere, con la frutta che cadeva fuori dai grembiuli.

– Non ero sempre io, non ero l’unica capace di inventarsi uno scherzo. Sei stata tu ad avere l’idea di appendere le lattine sopra la porta, quella volta che ero andata a ballare. Non è che adesso ce ne dimentichiamo, eh?

– Eri uscita con Maitland Kerr. (Poverino, Maitland, ormai è morto). Eri andata a ballare a Jericho…

– Jericho! Era un ballo alla Stone School.

– Può darsi, comunque tu l’avevi fatto entrare in casa a darti la buonanotte, insomma, volevate intrufolarvi in casa, zitti zitti come due agnellini…

– E patatrac, giú di colpo…

– Un baccano che pareva si fosse staccata di colpo una valanga. Papà salta giú dal letto e corre a prendere il fucile. Te lo ricordi, il fucile, che stava dietro la porta della loro camera? Che confusione. E io intanto, sotto le coperte, col cuscino tra i denti per non far sentire che ridevo.

Agli scherzi non avevano ancora rinunciato. Zia Grace e io entravamo nella stanza dove zia Elspeth coricata sulla schiena faceva il sonnellino, russando con solennità regale, sollevavamo pianissimo la trapunta e le legavamo le caviglie con un nastrino rosso. Una domenica pomeriggio che lo zio Craig si era addormentato sul divano nero del suo ufficio, fui spedita a svegliarlo per dirgli che c’era una coppia di giovani venuti a richiedere la licenza matrimoniale. Si alzò di malumore, andò nel retrocucina e si lavò all’acquaio, si ravviò i capelli inumiditi, mise giacca, gilè e cravatta – non si sarebbe mai sognato di concedere una licenza senza essere vestito come si deve – e si presentò alla porta. Trovò una vecchia in gonna scozzese, con la testa coperta da uno scialle, tutta ingobbita su un bastone insieme a un vecchio non meno curvo, in completo lustro e vetusto cappello a tesa larga. Lo zio Craig era ancora intontito dal sonno; buttò là un: «Piacere, come va?», prima di esplodere in una furia allegra: – Ah, Elspeth! Grace! Diavoli di donne che non siete altro!

Quando veniva l’ora della mungitura, si legavano in testa un fazzoletto, coi lembi svolazzanti come alucce, infilavano addosso strati di stracci a toppe e si incamminavano verso il pascolo, raccogliendo un bastone sul sentiero. Le mucche avevano al collo campanoni pesanti. Una volta io e la zia Elspeth ne seguimmo il suono pigro, sporadico fino al margine del bosco e vedemmo un cervo immobile, in mezzo ai ciocchi d’albero e al fitto delle felci. Zia Elspeth non disse una parola, ma levò in alto il bastone, come un sovrano che intimi l’alt, e cosí potemmo guardarlo per un istante, prima che lui vedesse noi e spiccasse un balzo ruotando il corpo in una specie di mezza piroetta da vero danzatore, e si allontanasse nel folto del bosco sgroppando, a lunghi salti. Era una sera molto calda, l’aria fermissima, con fasce di luce sui tronchi degli alberi, dorate come bucce d’albicocche. – Una volta era normale vederli, – disse zia Elspeth. – Quando eravamo ragazze, figurati, capitava di incontrarli mentre si andava a scuola. Adesso non piú. È il primo che vedo da non so quanti anni.

Nella stalla mi mostravano come si fa a mungere, un’operazione meno facile di quel che sembra. Si davano il cambio a schizzare latte in bocca a un gatto randagio che si alzava apposta sulle zampe posteriori, a poca distanza. Era un maschio polveroso, tigrato, di nome Robber. Lo zio Craig scendeva, con ancora addosso la camicia inamidata, le maniche tirate su, il gilè col dietro lucido, la penna e la matita infilate nel taschino. Si occupava lui della scrematrice. Alle zie piaceva cantare mentre mungevano. Cantavano «Meet me in St. Louis, Louie, meet me at the Fair!», oppure «I’ve got sixpence, jolly jolly sixpence», e ancora «She’ll be comin’ round the mountain when she comes –» Attaccavano canzoni diverse allo stesso tempo, cercando tutte e due di sovrastare la voce dell’altra e protestando: «Non so come si è messa in testa di saper cantare, quella!» Mungere le rendeva sfrontate e trionfanti. La zia Grace, che di solito non si avventurava nella dispensa di casa per paura che ci fosse un pipistrello, scorrazzava nell’aia battendo sul posteriore le vacche dalle lunghe corna e spingendole fuori dal cancello le riportava al pascolo. E la zia Elspeth sollevava i secchi della panna con una disinvoltura quasi sprezzante, un gesto da uomo nel pieno delle forze.

Eppure, erano le stesse donne che in casa di mia madre si facevano scontrose, subdole, senili, permalose. Al riparo dalle orecchie di mia madre erano capaci di dirmi cose tipo: «Ma quella è la spazzola che usi per i capelli? Oh, pensavamo fosse per il cane!» Oppure: «È con quello che ci asciughi i piatti?» Curve sui tegami passavano il tempo a grattare via ogni strato di nero che si era accumulato sul fondo dalla loro ultima visita. Accoglievano quel che mia madre aveva da dire con sorrisetti quasi sempre sbalorditi; i suoi modi diretti, stravaganti le paralizzavano provvisoriamente lasciandole inermi, giusto in grado di sbattere le palpebre come accecate da una luce violenta.

Le cose piú gentili che lei diceva erano le piú sbagliate. La zia Elspeth suonava il piano a orecchio; si sedeva e strimpellava i due o tre pezzi che sapeva: My Bonnie Lies over the Ocean, e Road to the Isles. Mia madre si offrí di insegnarle a leggere la musica.

– Cosí puoi suonare dei pezzi davvero belli.

Zia Elspeth rifiutò con una risatina innaturale, come se le avessero proposto di prendere lezioni di biliardo. Uscí e notò un’aiuola mal tenuta, si inginocchiò nella terra, sotto il sole torrido di mezzogiorno, e cominciò a strappare le erbacce. – Ah, quell’aiuola non mi interessa piú. Ci ho rinunciato, – le disse in tono disinvolto mia madre, dalla porta di cucina. – Non c’è piú niente in quella terra, a parte una vecchia sassifraga che comunque prima o poi devo decidermi a levare! – La zia Elspeth continuò a diserbare come se non avesse sentito. Alla fine mia madre fece una smorfia esasperata per liquidare la faccenda e si accomodò sulla sua sdraio, dove chiuse gli occhi e rimase lí inerte, a sorridere di rabbia per una decina di minuti. Mia madre procedeva in linea retta. Zia Elspeth e zia Grace giravano in tondo, avanti e indietro, in un andirivieni di ritorni e scomparse, sfuggenti, silenziose e indistruttibili. Lei le spazzava via come fossero ragnatele; io avevo piú buonsenso.

Una volta tornate a casa alla Jenkin’s Bend – con me al seguito per il mio lungo soggiorno estivo – si rinfrancavano, rifiorivano come piante messe a bagno nell’acqua. Le vedevo cambiare sotto i miei occhi. Io stessa, pur con qualche leggera fitta di slealtà, cedevo il mondo di mia madre fatto di seri quesiti laici, faccende domestiche interminabili ma eseguite con sufficienza, grumi nel purè di patate e idee poco rassicuranti, in cambio del loro, pieno di fatica e di allegria, ordine, serenità e complicati formalismi. In casa loro si imparava una lingua completamente nuova. Le conversazioni avvenivano su molti livelli stratificati; in modo diretto non si diceva mai nulla e ogni battuta era una stoccata perfettamente ambigua. La disapprovazione di mia madre era aperta e inequivocabile, come il brutto tempo; la loro, si presentava in forma di minuscola rasoiata, circondata da parole cortesi, e lasciava di stucco. Avevano un talento irlandese per la celia devastante ricamata con il filo del riguardo.

La figlia dei vicini aveva sposato un uomo di città, un avvocato di cui andava assai orgogliosa tutta la famiglia. Lo portarono da noi per presentarcelo. Per l’occasione zia Elspeth e zia Grace avevano infornato ogni bendidio, lucidato l’argenteria e tirato fuori i piatti dipinti a mano e i coltellini con il manico di madreperla. Gli offrirono pandispagna, biscotti di frolla, panfrutto alle noci, crostatine. Lui si rivelò un ingordo o forse un povero ragazzo assolutamente sconcertato disposto a ingozzarsi per superare l’agitazione. Prendeva con le mani dolci interi che si sbriciolavano nel tragitto verso la bocca; la glassa invece gli sporcava i baffi. A cena la zia Grace, senza dire una parola, prese a imitare le sue maniere a tavola, esagerandone a poco a poco gli schiocchi sonori e afferrando alimenti immaginari direttamente dal piatto. – Oh, l’avvocaa…to! – esclamò con sussiego zia Elspeth prima di sporgersi sopra il tavolo e domandare: – Mi dica, è interessato da sempre alle «usanze contadine»? – Dopo tutti gli straordinari convenevoli che gli avevano riservato, trovai questo risvolto piuttosto inquietante; era un monito. Si credeva chissà chi, questo è sicuro! Ecco il verdetto finale, emesso con leggerezza. Si credeva chissà chi, eccome. Quelli si credono chissà chi. La presunzione è di casa ovunque.

Non che le zie fossero contrarie alle doti personali. Ne riconoscevano la presenza anche nella loro famiglia, cioè nella nostra. Tuttavia davano l’impressione di credere che la cosa migliore fosse tutelare per quanto possibile la segretezza. Era l’ambizione a metterle soprattutto in allarme, perché vedevano gli ambiziosi come individui destinati a corteggiare il fallimento rischiando il ridicolo. Non c’era cosa peggiore, mi parve di capire, niente di peggio nella vita che farsi ridere dietro dagli altri.

– Tuo zio Craig, – mi disse zia Elspeth, – il tuo zio Craig è uno degli uomini piú intelligenti, amati e rispettati della contea. Poteva essere eletto in Parlamento. Poteva diventare ministro, se avesse voluto.

– Non è mai stato eletto, lo zio Craig?

– Non dire stupidaggini, non si è mai candidato. Non voleva mettere a rischio il suo buon nome. Ha preferito di no.

Eccola qui, l’ipotesi a me incomprensibile e nuova che scegliere di non fare una cosa rivelasse, in fondo, maggiore saggezza e rispetto di sé che decidere di farla. Le zie stimavano chi declinava le proposte ricevute: matrimoni, incarichi, opportunità, denaro. Mia cugina Ruth McQueen, di Tupperton, aveva vinto una borsa di studio per il college, perché era brava, ma, dopo averci riflettuto, l’aveva rifiutata; e aveva scelto di restare a casa.

– Ha preferito di no.

Che cosa c’era poi di tanto ammirevole in decisioni simili? Come certe raffinate armonie di colori o di note, la bellezza della rinuncia era al di là della mia capacità di comprendere. Anche se, a differenza di mia madre, sapevo riconoscerne l’esistenza.

«Terrorizzata di mettere la testa fuori dalla tana»: questo era stato il commento di mia madre riguardo a Ruth McQueen.

Zia Moira era la moglie di zio Bob Oliphant. Stavano a Porterfield e avevano una figlia, Mary Agnes, nata piuttosto avanti nel matrimonio. D’estate capitava qualche volta che la zia Moira facesse in macchina le tredici miglia da Porterfield alla curva di Jenkin, per venire a trovarci, di pomeriggio, portandosi appresso Mary Agnes. Zia Moira sapeva guidare. Zia Elspeth e zia Grace la reputavano una cosa molto coraggiosa da parte sua (anche mia madre stava imparando a guidare, ma nel suo caso a loro pareva un’iniziativa sconsiderata e superflua). Stavano di vedetta ad aspettare che la sua vecchia automobile dalle linee squadrate passasse il ponte e arrivasse sulla strada del fiume, poi uscivano a salutarla con parole di benvenuto, incoraggiamento e ammirazione, come se avesse percorso il deserto del Sahara anziché le torride strade di polvere da Porterfield.

Il guizzo malevolo che serpeggiava fra le cortesie riservate al resto del mondo risultava del tutto assente nei loro riguardi, tra fratelli e sorelle. Tra loro mostravano solo affetto e orgoglio reciproci. Come pure nei confronti di Mary Agnes Oliphant. Non potevo levarmi dalla testa che preferissero lei a me. Erano contente di avermi, mi accoglievano bene, certo, ma io risultavo contaminata da altre influenze e da metà patrimonio genetico; la mia educazione era crivellata di eresie inemendabili. Mi sembrava che Mary Agnes venisse accolta con un affetto piú fiducioso, scintillante e puro.

Alla Jenkin’s Bend nessuno si lasciava mai scappare che Mary Agnes avesse qualcosa che non andava. In effetti, non c’era quasi niente, Mary Agnes era suppergiú come tutti gli altri. A parte il fatto che non era pensabile immaginarla entrare in un negozio a comprare qualcosa, o andare dovunque, da sola; doveva esserci sempre sua madre. Idiota non era idiota; non come Irene Pollox o Frankie Hall di Flats Road, di sicuro non abbastanza deficiente da poter girare gratis in giostra per tutto il giorno come loro alla fiera di Kinsmen, ammesso e non concesso che zia Moira le permettesse di dare un simile spettacolo di sé, cosa inconcepibile. Aveva la pelle opaca, come ricoperta da un vetro sottilissimo e sporco, o da una leggera carta oleata.

«Le è mancato l’ossigeno, – diceva mia madre, con quel pizzico di compiacimento che mostrava ogni volta che poteva spiegare qualcosa. – Le è mancato l’ossigeno nel canale del parto. Lo zio Bob Oliphant le ha tenuto le gambe chiuse per tutto il tragitto verso l’ospedale perché il dottore li aveva avvisati del rischio di un’emorragia».

Non volevo sentire altro. Per cominciare mi difendevo dall’idea che una cosa del genere potesse toccare a chiunque, che io stessa avrei potuto rimanere menomata per la penuria di una sostanza banale, nota e quantificabile come l’ossigeno. Inoltre l’espressione canale del parto mi faceva pensare a un fiume di sangue dalle sponde diritte. Pensavo allo zio Bob Oliphant nell’atto di stringere le gambe pesanti e costellate di vene della zia Moira che intanto smaniava nello sforzo di partorire; non sono mai piú riuscita a guardarlo senza pensarci, dopo quel racconto. In realtà, ogni volta che lo vedevamo in casa sua, se ne stava seduto accanto alla radio, a tirare boccate di pipa, ascoltando Boston Blackie o Police Patrol, tra sgommate di auto e colpi di pistola che lui commentava ciondolando il testone calvo come un uovo. Chissà se aveva la pipa in bocca anche allora, mentre stringeva le gambe della zia Moira, chissà se reagiva alla sua frenesia annuendo con quell’aria convinta, come faceva con gli episodi di Boston Blackie

Forse era colpa di quel racconto se la tristezza irradiata dalla zia Moira a me pareva emanare un odore ginecologico, come quello della lanuginosa fascia elastica che le avvolgeva le gambe. Era, la zia, un soggetto che adesso annovererei fra le donne probabilmente soggette a vene varicose, emorroidi, prolasso uterino, cisti ovariche, infiammazioni, aborti, masse e calcoli alloggiati qua e là, uno di quei relitti dalla mobilità impaurita, la classica sopravvissuta a un’esistenza femminile, con tante storie da raccontare. Viveva seduta nel portico sul dondolo di bambú, indossando, a dispetto del caldo, certi maestosi vestiti scuri, a piú strati, tremolanti di giaietto, col capo inturbantato e le calze color terra che di quando in quando doveva arrotolarsi alle caviglie per far «respirare» la fascia. Non faceva una gran pubblicità all’istituto del matrimonio, in effetti, se la si paragonava alle sorelle ancora cosí scattanti, odorose di fresco e in salute, perfino pronte, ogni tanto, vergognosamente, a vantarsi della misura del loro girovita. Anche solo per alzarsi in piedi, sedersi, o muoversi su quel dondolo, la zia Moira emetteva rugli di sfinimento, involontari ed espliciti non meno di altri rumori digestivi, di altre flatulenze.

Raccontava di Porterfield. Non un posto castigato come Jubilee; ospitava ben due birrerie, una di fronte all’altra sulla via maestra, nei due rispettivi hotel. Qualche volta il sabato sera o alle prime ore di domenica mattina scoppiavano in strada risse violente. La casa della zia Moira era a meno di un isolato dalla via maestra e a ridosso del marciapiede. Dall’oscurità delle finestre di casa aveva osservato uomini strillare come selvaggi, aveva visto un’auto scartare di lato e andare a schiantarsi contro un palo del telegrafo, con il volante che entrava a forza nel petto del guidatore; aveva visto due uomini trascinare di peso una ragazza ubriaca che intanto urinava per strada, vestita. Aveva scrostato il vomito di ubriachi dalla vernice del suo steccato. Tutte cose che non la sorprendevano affatto. E non erano solo gli ubriaconi del sabato ma anche i fruttivendoli, i vicini di casa, i garzoni di bottega, a comportarsi male, essere sguaiati, indecenti. La voce della zia Moira, che raccontava a ruota libera, si dilatava sul tempo del giorno, lo spazio del cortile, come petrolio, raccogliendo la partecipazione affettuosa di zia Elspeth e zia Grace.

– Beh, no, questo non ti si poteva chiedere di sopportarlo.

– Non abbiamo neanche idea della nostra fortuna, quaggiú.

E intanto andavano avanti e indietro con tazze di tè, bicchieroni di limonata, panini freschi imburrati, fette di crostata Martha Washington e di plumcake all’uvetta, dolcetti di frutta candita ricoperti di cocco a scaglie e deliziosi da mordicchiare.

Mary Agnes ascoltava sorridente. Ed era a me che sorrideva. Non si trattava di un’espressione ingenua bensí del sorriso di chi in modo deliberato, per non dire arbitrario, stabilisce di elargire a un bambino una cordialità che, per ragioni di consuetudine o di paura, non può essere estesa ad altri. Aveva capelli neri a caschetto, chiazze arrossate sul collo olivastro e sottile; portava gli occhiali. La zia Moira la vestiva come la liceale che non era mai stata, con gonne scozzesi a pieghe e abbondanti in vita e camicette bianche a manica lunga lavate e stirate con cura. Non usava trucco, niente cipria sulla morbida peluria scura agli angoli della bocca. A me si rivolgeva con il tono brusco, arrogante e mutevole di chi non solo ti prende in giro ma imita anche i modi dello scherzo, come se si ispirasse a quelle gioviali insolenze con cui certi bottegai parlano ai bambini.

– Perché fai cosí? – Mi aveva sorpreso a sbirciare dai piccoli riquadri di vetro colorato attorno alla porta d’ingresso. Accostò l’occhio al pannello rosso.

– Il cortile va a fuoco! – esclamò, ma ridendo di me come se l’avessi detto io.

Altre volte si nascondeva nell’ingresso buio, per saltarmi addosso, prendendomi alle spalle e tappandomi gli occhi con le mani. «Indovina chi è? Indovina!» Mi strizzava e mi faceva il solletico finché non strillavo. Aveva mani calde e asciutte, una stretta potente. Reagivo difendendomi il piú possibile ma non ero autorizzata a insultarla come avrei fatto con chiunque a scuola, né a sputarle addosso e a strapparle i capelli, per via della sua età – a rigor di termini era un’adulta – e della sua condizione protetta. La giudicavo una prepotente e ripetevo – sebbene non alla Jenkin’s Bend – che la detestavo. Allo stesso tempo tuttavia ero curiosa e anche un po’ compiaciuta nel constatare di poter essere tanto importante, in modo a me perfino incomprensibile, per qualcuno che decisamente non era importante per me. Mi faceva ruzzolare sul tappeto dell’ingresso tormentandomi di solletico alla pancia, come se fossi un cane, e ogni volta io ero sopraffatta non meno dallo stupore che dalla sua imprevedibile forza fisica e dal suo giocare sporco; ero stupefatta come devono esserlo le persone che si trovano aggredite e rapite quando scoprono di rivestire nell’assurdo mondo dei loro aggressori un ruolo assolutamente sganciato da tutto ciò che sanno di se stesse.

Sapevo anche una cosa, una cosa che era successa a Mary Agnes. Me l’aveva raccontata mia madre. Un giorno, anni prima, stava nel cortile della loro casa di Porterfield mentre zia Moira lavava i panni in cantina, e si erano presentati cinque ragazzi. Dopo averla convinta a seguirli per fare un giro, l’avevano portata sul piazzale del luna park dove l’avevano spogliata e mollata a prendere freddo nel fango, cosí si era buscata una bronchite e per poco non ci aveva lasciato la pelle. Per questo ora le toccava mettere la biancheria pesante anche d’estate.

A mio giudizio l’umiliazione – del resto mia madre mi aveva raccontato l’episodio per prospettarmi la probabilità dell’umiliazione cui andava incontro chi si lasciasse convincere a seguire i primi venuti – consisteva nel ritrovarsi senza niente addosso, nell’essere nudi. L’ipotesi di dovermi spogliare, il solo pensiero della mia nudità mi procurava una fitta di vergogna al bassoventre. Ogni volta che pensavo al dottore che mi abbassava le mutande e mi ficcava l’ago nel sedere per l’antivaiolosa, mi sentivo offesa, agitata, in preda a un’umiliazione insopportabile e quasi lasciva. Immaginavo il corpo nudo di Mary Agnes disteso sul piazzale, il suo sedere freddo e pustoloso in bella mostra – era quella la parte piú vergognosa e vulnerabile del corpo di chiunque –, e mi dicevo che se fosse capitato a me, di essere vista in quello stato, non avrei potuto continuare a vivere.

«Del, perché tu e Mary Agnes non andate a farvi un giro?»

«Andate un po’ giú al granaio a vedere se riuscite a trovare Robber».

Mi alzavo rassegnata all’obbedienza e, appena svoltato l’angolo del portico, prendevo a colpi di bastone il cannicciato in un mesto empito di furia. Non ci volevo andare, con Mary Agnes. Volevo restare lí a mangiare e a sentire altre storie su Porterfield, quella cittadina tetra e depravata piena di delinquenti e di poco di buono. Sentivo Mary Agnes starmi alle calcagna, con il suo passo greve e incespicante.

– Mary Agnes, stai lontana dal sole eh, se puoi. E non andate al fiume a giocare. Sei soggetta ai raffreddori tutto l’anno, tu!

Ci incamminavamo sulla strada costeggiando il fiume. Nella calura dei campi di stoppie secche, fra greti di ruscelli asciutti e viottoli bianchi di polvere, il Wawanash scavava un solco fresco. L’ombra era del fogliame lieve dei salici che filtravano la luce come dei setacci. Il fango lungo le sponde era secco ma non al punto da trasformarsi in polvere; somigliava piú alla glassa di un dolce, una crosta delicata in superficie ma morbida e fresca appena sotto, che era una goduria per i piedi nudi. Mi toglievo le scarpe e procedevo scalza. Mary Agnes strillava: – Quando torniamo glielo dico!

– E tu diglielo, se ne hai tanta voglia –. E aggiungevo carogna sottovoce.

Le mucche erano scese al fiume e avevano lasciato nel fango il segno degli zoccoli. Lasciavano anche le loro fatte belle tonde che una volta secche parevano oggetti d’artigianato, tipo coperchi d’argilla realizzati a mano. A bordo fiume, su entrambi i lati c’erano tappeti di foglie di ninfea e qua e là qualche fiore giallo talmente chiaro, placido e desiderabile che non potevo trattenermi dall’infilarmi l’orlo del vestito nelle mutande e poi avventurarmi in mezzo alle radici insidiose, nel fango nero che mi passava tra le dita dei piedi e intorbidava l’acqua inzaccherando di limo le foglie e i petali delle ninfee.

«Guarda che anneghi, sai? Anneghi», gridava Mary Agnes in preda a una rabbia eccitata, sebbene l’acqua mi arrivasse a stento alle ginocchia. Una volta a riva, i fiori parevano putridi e imbruttiti e cominciavano subito a morire. Io proseguivo senza badarci piú, strizzando forte i petali nel pugno.

Di colpo ci imbattemmo in una mucca morta, coricata con le zampe di dietro in acqua. Sul posteriore a chiazze bianche e marroni brulicava di mosconi neri che qua e là i raggi di sole trasformavano in un ricamo di perline.

Presi un bastone e glielo battei sul fianco. Le mosche si alzarono in volo circolare prima di tornare a posarsi. Vedevo il fianco della mucca come una cartina geografica. La parte marrone potevano essere gli oceani, il bianco, i continenti emersi. Seguii con il bastone quei contorni bizzarri, le coste curvilinee, cercando di tenere la punta esattamente sulla linea di demarcazione tra il marrone e il bianco. Poi risalii con il legno lungo il collo, seguendo un cordone di muscoli tesi – la vacca era morta con il collo proteso, come sforzandosi di arrivare all’acqua, sebbene ora giacesse nella direzione opposta –, e battei la bestia sul muso. Toccarle il muso mi faceva piú senso. Come pure guardarla nell’occhio.

L’occhio era spalancato, scuro, un globo liscio e cieco, lustro come seta con un lucore rossastro dentro, un riflesso di luce. Un’arancia ficcata in un calzino nero, di seta. In un angolo si ammucchiavano le mosche, a comporre un bellissimo monile iridescente. Avrei avuto tanta voglia di ficcare il bastone nell’occhio per vedere se avrebbe ceduto, tremolato, spappolandosi come un budino e mostrando la stessa consistenza fino in fondo, o se magari la pellicola in superficie si sarebbe spaccata liberando una massa di materia putrescente che sarebbe colata lungo il muso. Feci scorrere il bastone tutto intorno all’occhio, tirai il braccio indietro, ma niente, non fui capace di spingerlo dentro.

Mary Agnes non si avvicinava. – Lasciala stare, – mi rimproverò. – È una vecchia mucca morta. È sporca. Ti sporchi anche tu.

– Mucca muu-orta, – dissi io allungando il piacere di quella parola. – Mucca muu-orta, muuu-cca muu-orta.

– Dài, vieni via, – intimava Mary Agnes, ma aveva paura, secondo me, di avvicinarsi.

Che fosse morta, istigava alla dissacrazione. Avrei voluto infilzarla, pestarla, pisciarci sopra, punirla in ogni modo, mostrare tutto il mio disprezzo di fronte al suo essere morta. Batterla, farla a pezzi, sputarci sopra, dilaniarla, gettarla via! Ma aveva ancora un suo potere, sdraiata lí, con quella assurda carta geografica sul dorso, il collo teso, l’occhio lustro. Mai avevo guardato una mucca viva chiedendomi quello che mi chiedevo adesso: perché doveva esistere, una mucca? Perché quelle chiazze bianche fatte in quel modo preciso, per un’unica volta e poi mai piú, su nessun’altra mucca o creatura, con quella stessa e identica forma? Seguendo ancora una volta col bastone il contorno di un continente, premendo il legno nel tentativo di tracciare una linea definita, osservai la forma come mi era capitato di fare con i continenti veri o le isole sulle autentiche carte geografiche, come se la forma in sé fosse una rivelazione che trascendeva le parole, come se uno sforzo di buona volontà o di pazienza potesse rendermi capace di comprenderne il senso.

– Toccala se hai il coraggio, – dissi sprezzante a Mary Agnes. – Tocca una mucca morta.

Mary Agnes si avvicinò lentamente e, lasciandomi di stucco, si chinò con fatica per appoggiare la mano – l’intero palmo della mano aperta – giusto sopra l’occhio. Lo fece con gesti solenni, trattenuti, ma con una compostezza affettuosa che non era da lei. Immediatamente dopo, tuttavia, scattò in piedi e si portò la mano davanti al viso, il palmo rivolto verso di me, le dita divaricate cosí da farla sembrare una manona enorme e scura. Poi mi rise in faccia.

– Adesso hai fifa che ti tocchi, eh? – disse, ed era vero, ma io mi allontanai con tutta l’insolenza di cui ero capace.

All’epoca mi pareva spesso che nessun altro sapesse cosa davvero capitava e come era davvero una persona, a parte me. Ad esempio, la gente diceva «povera Mary Agnes», o lo sottintendeva abbassando il tono della voce, assumendone uno piú soave, protettivo, come se lei non custodisse segreti, non avesse un posto tutto suo, ma non era cosí, non era vero.

– Tuo zio Craig ci ha lasciato ieri sera.

La voce di mia madre, nel dirlo, suonava quasi schiva.

Ero alle prese con la mia colazione preferita e clandestina – grano soffiato annegato in un lago di sciroppo di canna – che consumavo sul battuto di cemento fuori dalla porta di casa nel sole del mattino. Ero tornata da due giorni dalla curva di Jenkin e quando lei aveva detto zio Craig me l’ero immaginato come l’ultima volta che l’avevo visto, in piedi sulla soglia, in gilè e maniche di camicia, a salutarmi con fare benevolo, e forse anche impaziente di vedermi andare via.

La formula mi confondeva. Ci ha lasciato. Sembrava una cosa che avesse voluto, che avesse scelto di fare. Come se avesse detto: «Ecco, adesso vi lascio». In tal senso la sua morte non poteva essere una condizione definitiva. Ma sapevo invece che lo era.

– È successo all’Orange di Blue River. Mentre giocava a carte.

Il tavolo da gioco, la bella Orange Hall. (Anche se il colore non c’entrava niente, lo sapevo, non piú di quanto Blue River volesse dire che il fiume era azzurro. Aveva a che fare con i membri dell’Ordine di Orange). Lo zio Craig era impegnato a dare le carte nel suo modo compunto, quasi a occhi chiusi. Indossava il gilè con il dietro di rasatello, e con penna e matite infilate nel taschino. Adesso?

– Un attacco di cuore.

Attacco di cuore. Dava l’idea di uno scoppio, come l’accendersi di fuochi d’artificio che sparino stecche di luce in tutte le direzioni, prima di lanciare una piccola sfera luminosa – vale a dire il cuore, o l’anima di zio Craig – in alto nell’aria dove si andava a spegnere precipitando. Che cosa aveva fatto, era scattato in piedi, aveva spalancato le braccia, urlato? Quanto tempo ci era voluto, aveva chiuso gli occhi, sapeva che cosa stava succedendo? La consueta assertività di mia madre pareva essersi appannata; la irritava il mio appetito freddo per i dettagli. La seguivo in giro per la casa insistente, agguerrita, ripetendo le domande. Volevo sapere. Non esiste difesa che non passi dalla conoscenza. Volevo inchiodare la morte, isolarla dietro un muro di fatti e circostanze specifiche, anziché lasciarla libera di aleggiare ignorata e potente, in attesa di insinuarsi dove le pareva.

Entro il giorno del funerale, però, le cose erano cambiate. Mia madre aveva recuperato fiducia in se stessa; io mi ero calmata. Non volevo piú sentir parlare né dello zio Craig, né della morte. Mia madre aveva tirato fuori dalla naftalina il mio abito scozzese Black Watch per spazzolarlo e appenderlo a prendere aria.

– Va benissimo d’estate, è piú fresca del cotone, questa lana leggera. Comunque non hai altro, di scuro. A me non importa. Dipendesse da me, potresti vestirti di rosso geranio. Se ci credessero davvero, al Vangelo, è cosí che si dovrebbero vestire. Si dovrebbe far festa e ballare – in fondo, passano la vita tra canti e giaculatorie a chiedere di lasciare questo mondo e mettersi in marcia verso il Paradiso. Appunto. Solo che le conosco le tue zie, si aspettano il lutto stretto, convenzionali dalla testa ai piedi.

Non la sorprese sentire che io non ci volevo andare.

– Nessuno ne ha voglia, – disse apertamente. – Mai. E invece si deve. Devi imparare ad affrontare certe cose, prima o poi.

Non mi piacque il modo in cui lo disse. La rapidità e il fervore della voce sembravano sguaiati, falsi. Non mi fidavo. Ogni volta che qualcuno ricorda a un altro come prima o poi dovrà affrontare una certa cosa, ogni volta che si viene sospinti in tono esperto verso un dolore, un’oscenità o una qualsiasi scoperta indesiderata in agguato sul nostro percorso, c’è sempre un filo di perfidia, un margine di giubilo freddo, e malcelato, nella voce di chi parla. Sí, anche in un genitore; soprattutto, in un genitore.

– Che cosa è la Morte? – proseguí mia madre con ferale allegria. – Che cosa vuol dire essere morti?

Prima di tutto, una persona cos’è? Perlopiú, acqua. Banalissima acqua. Niente di tanto speciale, sono le persone. Carbonio. Gli elementi di base. Come è che si dice? Manco i centesimi che ci vogliono a fare un dollaro. Tutto qui. È la combinazione delle parti a essere speciale. Assemblale in un certo modo e ci troviamo con un cuore, dei polmoni. Un fegato. Pancreas. Stomaco. Cervello. E tutte queste cose cosa sono? Una combinazione di elementi. Mettile insieme, combina le varie combinazioni e avrai una persona. Può uscirne zio Craig, o tuo padre, o io. Ma in realtà sono giusto combinazioni, parti assemblate una all’altra che funzionano in un certo modo, provvisoriamente. Poi succede che una delle parti cede, si rompe. Nel caso di zio Craig, è stato il cuore. E allora diciamo che zio Craig è morto. Che quella persona è morta. Ma è solo un modo di considerare la questione. Il modo umano, il nostro. Se solo non pensassimo sempre in termini di persone, ma di Natura, Natura in senso lato, inarrestabile, con certe parti che muoiono, anzi, non che muoiono, che cambiano, ecco la parola giusta, che si trasformano in qualche altra cosa, tutti gli elementi che componevano quella data persona che cambiano in qualcos’altro, tornano alla Natura e si ricompongono all’infinito in forma di uccelli, animali e fiori – ecco, allora lo zio Craig non dovrebbe essere per forza lo zio Craig. Potrebbe essere fiori!

– Soffro la macchina, – dissi. – Mi verrà da vomitare.

– Ma figurati –. Mia madre, in sottoveste, si massaggiava le braccia con acqua di colonia. Si infilò dalla testa il vestito in crêpe de Chine blu marina. – Vieni a chiudermi. Che vestito, da mettere, con questo caldo. Sento l’odore di tintoria. È il caldo che lo tira fuori. Voglio raccontarti un articolo che ho letto un paio di settimane fa. Si collega perfettamente con quello che dicevo adesso.

Entrò in camera e ne uscí con il cappello che si mise davanti allo specchio del mio piccolo cassettone, nascondendo frettolosamente i capelli davanti e lasciandone invece fuori alcune ciocche sul dietro. Era un cappellino a tamburello di un colore odioso, di gran moda durante la guerra: blu aviazione.

– La gente è fatta di tante parti, – riprese. – Ebbene, quando qualcuno muore – come diciamo noi –, soltanto una, o magari un paio di queste parti sono davvero consumate. Altre potrebbero funzionare ancora per trenta, quarant’anni. Prendi zio Craig, per esempio, è possibile che avesse reni in perfetta salute che potrebbero servire a una persona giovane con i reni malati. L’articolo diceva proprio che un giorno o l’altro sarà possibile utilizzarle, queste parti. Dài, adesso vieni giú.

La seguii in cucina. Cominciò a truccarsi davanti allo specchio scuro sopra l’acquaio. Per ragioni ignote teneva i cosmetici lassú, su una mensola di stagno appiccicoso, in mezzo a boccette di vecchie pillole scure, lamette da barba, polvere dentifricia e vaselina, tutto rigorosamente senza tappi e coperchi.

– Trapiantarle! Gli occhi, ad esempio. Sono già in grado di trapiantarli, gli occhi, cioè non completi, mi pare la cornea. È soltanto l’inizio, un giorno riusciranno a trapiantare cuori e polmoni e tutti gli organi indispensabili al corpo umano. Perfino il cervello – mi chiedo, sarà possibile con il cervello? Cosí queste parti non moriranno e continueranno a vivere in un’altra persona. Un’altra combinazione. E a quel punto non si potrà piú parlare di morte. Eredi della viva carne. Si intitolava cosí, l’articolo. Saremo tutti eredi gli uni del corpo degli altri, e tutti possibili donatori, anche. E la morte come la conosciamo oggi sparirà dalla faccia della terra!

Era entrato mio padre, col suo completo scuro.

– Cosa hai in mente, di discutere di queste idee con la gente che ci sarà al funerale?

Con la voce di chi torna alla realtà, mia madre rispose: – No.

– Ecco, perché la pensano diversamente, loro, e potrebbero starci molto male.

– Non voglio far star male nessuno, – esclamò mia madre. – Mai! Mi sembra un’idea stupenda. Che ha una sua bellezza speciale. Non è tanto meglio di Inferno e Paradiso? Io la gente non la capisco, non riesco a capacitarmi delle cose in cui credono gli altri. Davvero pensano che tuo zio Craig in questo preciso istante svolazzi nell’Eternità in camicia da notte immacolata? Oppure credono che sia stato messo sottoterra a marcire?

– Tutte e due le cose, – disse mio padre, e nel bel mezzo della cucina cinse mia madre in un abbraccio leggero e solenne, facendo attenzione a non turbarle il cappellino né la faccia appena tinta di rosa.

Certe volte desideravo proprio questo, vedere i miei confermare con uno sguardo o un abbraccio quel sentimento – non pensavo a una passione – che un tempo li aveva catturati e legati l’una all’altro. In quel momento, però, vedere mia madre farsi remissiva e confusa – questo infatti sapeva dire l’abbandono della sua schiena, mentre le sue parole non ci sarebbero riuscite mai – e mio padre toccarla in modo cosí gentile, comprensivo e dolente, di un dolore che poco aveva a che fare con lo zio Craig, mi spaventò, e avevo voglia di urlare che la smettessero e che tornassero subito ad abitare ciascuno la propria persona separata, irrevocabile, sola. Avevo paura che non si fermassero e mi facessero vedere qualcosa che avevo voglia di vedere non piú di quanto desiderassi vedere lo zio Craig morto.

Owen però non ci deve venire, – dissi cattiva, premendo la faccia dentro la rete floscia della zanzariera e vedendolo seduto in cortile nel suo vecchio carretto, a gambe nude, perso in un suo mondo nel quale fingeva di essere un’altra cosa, chissà, un arabo in carovana o un eschimese sulla sua slitta trainata dai cani.

L’affermazione li staccò l’uno dall’altra, e mia madre con un sospiro disse: – Owen è piccolo.

La casa era come in uno di quei rompicapi, quei labirinti su carta, con un puntino nero dentro un riquadro o uno spazio in cui bisogna trovare il modo di entrare o di uscire. Il puntino nero in questo caso era il corpo dello zio Craig e il mio compito non era come arrivarci ma come evitarlo, come non aprire neppure la piú sicura delle porte per paura di ciò che avrei potuto trovare disteso al di là.

I covoni di fieno c’erano ancora. La settimana prima, mentre ero lí, avevano tagliato l’erba fino ai gradini del portico e poi radunato il fieno in covoni ordinati a forma di alveare, piú alti di tutti noi. La sera, dopo aver gettato ombre lunghe e distese e poi essere diventati via via sempre piú compatti e grigi al calare del sole, i covoni costituivano un villaggio o addirittura, a guardare dietro l’angolo della casa, giú verso il resto del prato, un’intera città di capanne piene di segreti, identiche, violette. Uno però era crollato e adesso, morbido e sfatto, era rimasto lí per me, che ci potevo saltare dentro. Prendevo la rincorsa dai gradini e mi ci lanciavo dentro a braccia spalancate, atterrando nel fieno fresco, ancora tiepido, ancora molto odoroso di erba. Era pieno di fiori secchi – mimolo bianco e viola, linaria gialla, fiorellini azzurri di cui nessuno conosceva il nome. Mi riempivo faccia, braccia e gambe di graffi che, quando mi alzavo dal fieno, mi pungevano e bruciavano nella brezza tesa in arrivo dal fiume.

Anche zia Elspeth e zia Grace erano venute per gettarsi nel fieno, facendo svolazzare i grembiuli e ridendo di se stesse. Al loro turno avevano esitato per poi saltare senza il dovuto abbandono, atterrando sedute, in una postura contegnosa, a mani aperte come se rimbalzassero su un cuscino, oppure tenendosi a posto i capelli.

Poi erano tornate a sedersi nel portico, con catini pieni di fragole da mondare, per la confettura, e la zia Grace aveva detto trafelata ma con voce calma, ispirata:

– Se passava una macchina, non ti sentivi morire?

Zia Elspeth si era sfilata le forcine dai capelli e li aveva lasciati scendere sullo schienale della sedia. Raccolti, sembravano quasi tutti grigi, ma una volta sciolti mostravano ancora porzioni di un castano lucido e scuro, come pelliccia di visone. Con piccoli sbruffi compiaciuti, aveva scosso il capo passando le dita aperte nella capigliatura per ripulirsi dai residui di fieno volanti in aria e rimasti impigliati.

– Che sceme che siamo! – aveva detto.

In tutto questo, lo zio Craig dov’era? Di là a scrivere imperterrito a macchina, dietro finestre chiuse e tapparelle abbassate.

Il covone di fieno ammaccato era rimasto al suo posto. Ma ora gli uomini avanzavano sulle stoppie, tutti in completo scuro come corvi, e intanto parlavano. Alla porta socchiusa pendeva una corona di gigli bianchi. Mary Agnes arrivò sorridendo allegra e mi costrinse a rimanere immobile mentre lei mi legava e rilegava la fusciacca. Casa e cortile erano pieni di gente. Parenti di Toronto sedevano nel portico con aria benevola, ma deliberatamente isolati. Mi spedirono a parlare con loro e io evitai di guardare dentro le finestre, sempre per via del corpo dello zio. Ruth McQueen uscí con una cesta di vimini piena di rose e l’appoggiò alla ringhiera.

– Ci sono piú fiori di quanti ne vedrà mai questa casa, – disse, come se fosse un’affermazione di cui potevamo dolerci tutti quanti. – Ho pensato di portare queste qui fuori –. Era chiara di capelli, riservata, animata da uno zelo malinconico, già una vecchia signorina. Sapeva i nomi di tutti. Presentò me e mia madre a un tale e alla moglie, in arrivo dalla zona meridionale della contea. L’uomo indossava la giacca del completo sopra una tuta da lavoro.

– È stato lui a darci la licenza matrimoniale, – disse la donna, con sincero orgoglio.

Mia madre disse che doveva andare in cucina e io la seguii pensando che non potevano aver messo lo zio Craig proprio lí, nel posto dal quale veniva odore di caffè e roba da mangiare. C’erano uomini anche nell’ingresso, come tronchi d’albero intorno ai quali toccava trovarsi un passaggio. Entrambe le porte del soggiorno erano chiuse con due ceste di gladioli a montare la guardia.

Zia Moira, nerovestita come un grosso monumento a colonna, stava in piedi al tavolo di cucina a contare tazze da tè.

– Le ho già contate tre volte e ogni volta il numero è diverso, – disse, come se fosse una sfortuna particolare che poteva toccare solo a lei. – Oggi non mi funziona proprio, la testa. Non ce la faccio a stare ancora in piedi per tanto.

Zia Elspeth, in grembiule perfettamente stirato e inamidato a balze di batista bianca, baciò mia madre e me. – Eccovi, – disse, retrocedendo di un passo dal proprio bacio, con il sospiro di chi ha espletato un compito. – Grace è di sopra, a rinfrescarsi gli occhi. Non ci capacitiamo di quanta gente è venuta! Grace mi ha detto, ci deve essere mezza contea, e io le ho risposto, in che senso, mezza? non mi stupirei se ci fossero tutti, invece. Peccato per Helen, però. Ha mandato un copricassa di gigli.

– Comunque sia, queste dovrebbero bastare, – disse in tono pratico guardando le tazzine. – Ci sono tutte quelle del servizio buono, piú quelle di cucina e quelle che abbiamo chiesto in prestito in chiesa.

– Fate come al funerale di Poole, – sussurrò una signora accanto al tavolo. – Lei ha ritirato le tazze belle, messe via, sottochiave, e ha usato quelle della parrocchia. Ha detto che non intendeva rischiare il suo servizio di porcellana.

Zia Elspeth roteò gli occhi arrossati in segno di apprezzamento, un’espressione tipica in lei, questa volta moderata dalla circostanza.

– Da mangiare ce n’è, in ogni caso. Secondo me basterebbe per sfamare i cinquemila dei pani e dei pesci.

Lo pensavo anch’io. Dovunque guardassi, c’era roba da mangiare. Un arrosto freddo di maiale, grossi polli arrosto lustri che parevano verniciati, tortino di patate gratinate, gelatina di pomodoro, insalata di patate, insalata di cetrioli e barbabietole, un roseo prosciutto cotto, muffin, panini semidolci, forme di pane, pane alle noci, plumcake alle banane, panfrutto, torta al cioccolato con strati di farcia alla vaniglia, meringate al limone, crostate di mele e frutti di bosco, ciotole di frutta sciroppata, dieci o dodici tipi di sottaceti e salse piccanti. Mostarda di scorzette di cocomero. Lo zio Craig ne andava matto. Diceva sempre che avrebbe volentieri mangiato solo quelle, con pane e burro, per pranzo.

– Appena quanto basta, – disse tetra zia Moira. – Ai funerali la gente ha sempre fame.

Ci fu trambusto nell’ingresso; era arrivata zia Grace, gli uomini le facevano largo, e lei ringraziava, docile e riconoscente come se fosse una sposa. Il pastore la seguiva a ruota. Si rivolse alle donne in cucina con misurata cordialità.

– Ebbene, signore! Complimenti, di sicuro non ve ne siete state con le mani in mano. Il lavoro è un’offerta appropriata, un’offerta appropriata in tempo di dolore.

La zia Grace si chinò a baciarmi. C’era un vago olezzo acre sotto l’acqua di colonia, un ammonimento. – Vuoi vedere tuo zio Craig? – mi bisbigliò, affettuosa e arzilla come se promettesse una ricompensa. – È in soggiorno. Vedessi come sta bene, sotto i gigli che ha mandato zia Helen.

Eccoci. Una signora le disse qualcosa e io me la svignai. Riattraversai l’ingresso. Le porte del soggiorno erano ancora chiuse. In fondo alle scale, accanto alla porta di casa, mio padre e un tale che non conoscevo andavano su e giú, si voltavano, prendevano con discrezione le misure a spanne.

– Questo punto non sarà facile. Proprio qui.

– Dobbiamo levare la porta dai cardini?

– Troppo tardi. Non vogliamo creare confusione. Potrebbe turbare le signore, vederci levare la porta. Se torniamo un po’ indietro da qui…

Nel corridoio laterale, da basso, due anziani signori conversavano. Mi infilai tra loro.

– Non è certo come al funerale di Jimmy Poole, ti ricordi? Era inverno, la terra dura come roccia. Impossibile scalfirla, con qualsiasi attrezzo.

– Toccò aspettare piú di due mesi, che arrivasse il disgelo.

– A quel punto dovevano essercene tre o quattro in coda. Allora. C’era Jimmy Poole, poi…

– Lui di sicuro. Poi Mrs Fraleigh, se non sbaglio, la vecchia.

– No, aspetta, lei è morta prima del gelo, non deve aver avuto problemi.

Passai la porta in fondo al corridoio laterale e mi trovai nella parte vecchia della casa. La chiamavano la dispensa: da fuori sembrava un capanno di tronchi annesso al fianco del grosso edificio in mattoni. Le finestre erano piccole, quadrate e un po’ storte come in una casa di bambole dall’aria non precisamente affidabile. Non entrava quasi luce, per via dei rottami accatastati alla meglio dovunque, perfino davanti ai vetri: la zangola e la macchina per lavare ancora azionata a mano, vecchie reti smontate, bauli, vasche, falci, una carrozzina ingombrante come un galeone, e collassata su un fianco, come ubriaca. Era la stanza in cui zia Grace si rifiutava di mettere piede; doveva andarci sempre zia Elspeth se avevano bisogno di prendere qualcosa. Si piazzava sulla porta e, annusando con fare temerario, diceva: «Che postaccio. L’aria qua dentro sembra quella di un sarcofago».

Come mi piacque quella parola la prima volta che la sentii. Non sapevo di preciso che cosa volesse dire, il suono mi faceva venire in mente il grembo materno e ci immaginavo chiusi in una specie di uovo di marmo, pieno di una luce azzurra che non necessariamente proveniva dall’esterno.

Seduta sulla zangola c’era Mary Agnes, e non sembrava stupita.

– Che ci fai tu qui? – disse sottovoce. – Va a finire che ti perdi.

Non le risposi. Senza voltarmi, feci un giro per la stanza. Mi ero sempre chiesta, ripensandoci, se conteneva qualcosa quella carrozzina. Infatti: un mucchio di vecchi numeri del «Family Herald». Sentii la voce di mia madre chiamare il mio nome. Sembrava un po’ in ansia, involontariamente rispettosa. Io non fiatai e nemmeno Mary Agnes. Chissà che cosa era venuta a fare là dentro. Aveva scovato un paio di stivaletti da donna fuori moda, allacciati davanti e foderati di pelliccia, e se li teneva stretti. Si passava la pelliccia sotto il mento.

– È pelo di coniglio.

Venne avanti e mi mise gli stivaletti in faccia.

– Coniglio?

– Non li voglio.

– Vieni a vedere zio Craig.

– No.

– Ma non l’hai ancora visto.

No.

Stava là con uno stivaletto in ciascuna mano, a bloccarmi il passaggio, poi disse ancora con voce subdola, suadente: – Dài, vieni a vedere zio Craig.

– Non voglio.

Lasciò andare gli stivaletti e mi appoggiò una mano sul braccio, premendo forte con le dita. Provai a liberarmi, e lei mi afferrò con l’altra, tirandomi verso la porta. Per essere una creatura tanto impacciata che aveva rischiato tre volte di morire di bronchite, aveva una forza incredibile. Spostò la mano fino a stringermi prima il polso e poi le dita in una morsa d’acciaio. La voce era ancora soave, invece, mite e gongolante.

– Vieni, vieni a vedere zio Craig.

Chinai la testa e mi ficcai il suo braccio peloso in bocca, appena sotto l’altezza del gomito, e affondai i denti mordendo fortissimo fino a lacerare la pelle e, in uno stato di libertà assoluta, pensando di aver fatto la cosa peggiore della mia vita passata e futura, sentii il gusto del sangue di Mary Agnes Oliphant.

Non fui costretta ad andare al funerale. Nessuno mi avrebbe obbligata a guardare lo zio Craig. Mi sistemarono nel suo studio, sul divano di pelle dove lui si appisolava e dove le coppie aspettavano la licenza matrimoniale. Avevo una coperta sulle ginocchia, nonostante la giornata torrida, e una tazza di tè accanto. Mi avevano anche dato una fetta di torta margherita, ma me l’ero mangiata immediatamente.

Mentre mordevo Mary Agnes pensai che mi stavo allontanando a morsi da tutto quanto. Pensai che mi stavo estromettendo, mi trasferivo in un posto dove nessun castigo sarebbe bastato mai, dove nessuno avrebbe osato chiedermi di guardare un morto, o qualsiasi altra cosa, mai piú. Pensai che mi avrebbero odiata tutti, e in quel frangente l’odio mi risultava talmente desiderabile, come il dono di un paio di ali.

Purtroppo no, invece; la libertà non si ottiene cosí facilmente. Anche se zia Moira, che avrebbe poi sempre raccontato di avermi dovuta strappare dal braccio di Mary Agnes con il sangue alla bocca (falso: l’avevo già lasciata e Mary Agnes, una volta sgonfiata del suo potere diabolico, se ne stava lí accucciata, sbigottita e frignante), effettivamente mi afferrò per le spalle e mi scosse tenendomi la faccia a pochi centimetri dal suo petto imbustato, mentre il suo intero corpo premeva sibilando sopra di me come un monumento sul punto di esplodere.

– Cane rabbioso! Sono i cani rabbiosi che mordono cosí! I tuoi genitori dovrebbero farti rinchiudere!

Zia Elspeth stese un fazzoletto sul braccio di Mary Agnes. Intanto zia Grace e altre signore se la contendevano per vezzeggiarla.

– Adesso la devo portare dal dottore. Dovrà darle dei punti. Devo farla vaccinare. Chi mi dice che quella bambina non sia malata. Esistono i bambini con la rabbia.

– Moira, cara, Moira cara. No. Le ha sí e no forato la pelle. Fa male un momento, poi passa. Basterà una pulita, un cerotto, e andrà tutto a posto –. Entrambe le zie a quel punto trasferirono l’attenzione da Mary Agnes alla loro sorella, sorreggendola e rabbonendola una per parte, come se cercassero di tenere insieme i pezzi finché il pericolo di esplosione non fosse superato. – Le passa subito, cara, le passa subito.

– Colpa mia, tutta colpa mia, – intervenne chiara e pericolosa la voce di mia madre. – Non avrei mai dovuto portare qui la bambina, oggi. È troppo sottosopra. È una barbarie obbligare una bambina cosí piccola a partecipare a un funerale –. Imprevedibile, inaffidabile e tuttavia meritevole della mia gratitudine proprio quando meno me l’aspettavo, mi offriva comprensione, salvezza, ora che, a rigor di termini, non mi serviva piú.

Un effetto però lo ottenne – anche se a volte le era sufficiente utilizzare parole come barbarie per suscitare un baratro di silenzio, e costernazione intorno a sé. Quel giorno in particolare trovò benevolenza, parecchie signore pronte ad accogliere la sua spiegazione dell’accaduto e a espanderla.

– Non doveva neanche capire quel che si faceva.

– Era fuori di sé per la tensione.

– A me una volta è capitato di svenire a un funerale, prima di sposarmi.

Ruth McQueen mi cinse le spalle e mi domandò se volevo un’aspirina.

E cosí, mentre Mary Agnes veniva consolata, pulita e medicata, e zia Moira tranquillizzata (alla fine fu lei a prendere quell’aspirina, nonché altre pillole speciali – per il cuore – che uscirono dalla sua borsetta), anch’io a mia volta venivo accudita, condotta in quella stanza e fatta distendere sul divano, coperta, come se non stessi bene, e rifocillata con torta e tè caldo.

Il mio comportamento non aveva rovinato il funerale. La porta era chiusa, non vedevo, ma sentivo le voci cantare, dapprima senza coesione e poi con crescente energia, pathos, trasporto.

A thousand ages in Thy sight

Are as an evening gone

Short as the watch that ends the night

Before the rising sun.

La casa era piena di gente tutta ammassata, persone mescolate alla rinfusa come vecchi pastelli da temperare, calde, remissive, disponibili al canto. E io ero in mezzo a loro, pur trovandomi chiusa altrove, da sola. Per il resto della vita la maggior parte dei presenti avrebbe ricordato che al funerale dello zio Craig io avevo morso Mary Agnes Oliphant a un braccio. E insieme a questo si sarebbero ricordati di me come della bambina isterica, bizzarra, o male allevata, o come di un caso limite. Ma non mi avrebbero comunque estromessa. No. Sarei rimasta isterica, bizzarra, male allevata e membro della famiglia, il che è un altro paio di maniche.

Essere perdonati genera una vergogna specifica. Sentivo caldo, e non solo per via della coperta. Mi sentivo compressa, soffocata, come se non fosse aria quella in cui dovevo muovermi e parlare in questo mondo bensí una sostanza fitta come cotone. La vergogna era fisica ma superava di gran lunga quella sessuale, la mia precedente vergogna di mostrarmi nuda; adesso era come se non solo il corpo ma tutti gli organi interni – stomaco, cuore, fegato, polmoni – fossero esposti in tutta la loro inerme nudità. La sensazione piú vicina che avessi mai provato in vita mia era quella di quando mi facevano il solletico oltre i limiti del sopportabile: una sensazione orrenda e voluttuosa di impotenza, denudamento, rivelazione involontaria di sé. E la vergogna si espanse, irradiata da me, alla casa intera, coprendo tutto e tutti, anche Mary Agnes, anche lo zio Craig nella sua attuale condizione di corpo sgomberato, di vuoto a perdere. Essere fatti di carne coincideva con l’umiliazione. Ero in preda a una visione in un certo senso opposta a quella ineffabile di ordine e di luce che può toccare a un mistico; una visione non meno ineffabile di turbamento e oscenità, dell’impotenza assoluta che si rivelava come la piú indecente delle esperienze possibili. Ma come l’altro tipo di visione, anche questa non poteva essere tollerata per piú di un paio di secondi, perché cedeva sotto il peso della propria intensità e, una volta svanita, non poteva essere ricostruita e neppure creduta fino in fondo mai piú. Quando attaccarono l’ultimo inno al funerale io ero tornata me stessa, appena un po’ indebolita come è normale per chiunque sia reduce dall’aver affondato i denti in un braccio umano, i Padri della Confederazione che mi stavano dinanzi avevano recuperato indumenti e dignità, e mi ero bevuta fino in fondo la tazza di tè, sperimentandone il sapore inedito, importante, adulto.

Mi alzai e aprii piano la porta. Le due che davano in soggiorno erano aperte. Le persone si spostavano lentamente, allontanando da me le schiene curve, come per l’afflizione.

Jesus call us, o’er the tumult,

Of our life’s tempestuous sea –

Entrai inosservata nella stanza e mi infilai nella coda, davanti a una signora gentile e accaldata che non sapeva chi fossi e, chinandosi, mi bisbigliò incoraggiante: – Sei arrivata ancora in tempo per l’Ultimo Sguardo.

Le tapparelle erano tutte abbassate, per non far entrare il sole del pomeriggio; la stanza era caldissima, ombrosa, trafitta da fasci di luce errabonda, come un fienile in una giornata rovente. C’era odore di gigli, candidi e cerei, ma anche di cantina. Fui sospinta avanti con gli altri finché non raggiunsi l’angolo della bara sistemata davanti al camino – lo splendido caminetto mai utilizzato, con le piastrelle lustre come smeraldi. L’interno della cassa era foderato di raso bianco, raccolto in un panneggio pieghettato come il piú sfarzoso degli abiti. La metà inferiore dello zio Craig era nascosta sotto un coperchio di legno lucidato; la metà superiore – dalla vita alle spalle – coperta di gigli. Sullo sfondo di tutto quel bianco la sua faccia era color rame, sdegnosa. Non sembrava addormentato; non assomigliava per niente all’uomo che andavo a svegliare nel suo ufficio la domenica pomeriggio. Le palpebre chiudevano troppo leggere gli occhi, solchi e pieghe del viso si erano fatte troppo superficiali. Lui stesso risultava cancellato; quel volto era come una sottile maschera di pelle, laccata, e deposta sulla faccia vera – o forse sopra niente, ma pronta a spaccarsi sotto la pressione di un dito. L’impulso in effetti lo provai ma a un livello lontano, lontanissimo dall’attuabilità, come uno potrebbe sentirsi attratto da un cavo dell’alta tensione. Ecco cos’era lo zio Craig sotto i suoi gigli, sul suo cuscino di raso: un terribile, silenzioso e imperturbabile conduttore di elettricità che poteva scatenarsi da un istante all’altro e incendiare la stanza, la realtà tutta, per lasciarci nel buio. Mi allontanai con un ronzio alle orecchie, ma sollevata, contenta di averlo fatto dopotutto e di essere sopravvissuta, e mi feci strada attraverso la stanza affollata di persone e canti, verso mia madre, che se ne stava per conto suo seduta alla finestra – mentre mio padre era con gli uomini che avrebbero portato la bara – senza cantare, a mordersi le labbra con un’espressione irragionevolmente piena di speranza.

Dopo questo, zia Elspeth e zia Grace vendettero la casa alla curva di Jenkin e la terra e le vacche e si trasferirono a Jubilee. Dissero di aver scelto Jubilee, anziché Blue River dove avevano piú conoscenze, o Porterfield dove stava zia Moira, perché volevano essere d’aiuto, per quanto possibile, a mio padre e alla sua famiglia. E in effetti si installarono nella loro casa in collina, a nord del paese, come zelanti, sebbene meste e attonite, custodi, preoccupate del nostro benessere, incerte sulle nostre vite. Rammendavano i calzini di mio padre che lui prese l’abitudine di consegnare a domicilio; continuavano a tenere l’orto e ci preparavano conserve varie; per noi riparavano abiti, lavoravano a maglia, cuocevano in forno. Andavo a trovarle una o due volte la settimana, al principio abbastanza volentieri, anche se in parte dipendeva dalla qualità del cibo; ai tempi del liceo invece divenni sempre piú restia a quelle visite. Ogni volta che arrivavo dicevano: «Si può sapere perché hai lasciato passare tanto tempo? Sei un’estranea ormai!» Erano lí ad aspettarmi come se non avessero fatto altro per tutta la settimana, sedute nell’ombra del loro piccolo portico a veranda se il tempo era bello; da lí potevano vedere fuori mentre i passanti non vedevano loro.

Cosa potevo mai dire? Casa loro diventò una specie di minuscolo paese a parte, con le sue usanze ricercate, la sua lingua di un’eleganza complicata e ridicola, un paese in cui le notizie in arrivo dal mondo esterno non erano precisamente censurate ma difficilissime se non impossibili da riportare.

In bagno, sopra il water, era appeso il loro monito ricamato a punto croce:

Chi cambia l’aria prima di uscire

da chi vien dopo si farà benedire

Sotto il ricamo c’era una confezione di fiammiferi. Mi sentivo sempre in imbarazzo, smascherata, mentre lo leggevo, ma il fiammifero lo accendevo ogni volta.

Le zie raccontavano gli stessi aneddoti, facevano gli stessi scherzi che ormai si erano come inariditi, quasi sbriciolati per l’uso; con gli anni ogni parola, ogni espressione del viso, ogni gesto delle mani vennero a sembrare imparati tanto tempo prima, ricordati a memoria, e ciascuna delle loro due persone parve essersi costruita con tremenda cura; e piú loro due invecchiavano piú la costruzione risultava fragile e stupefacente e sovrumana. Ecco che ne fu delle zie quando cessarono di avere la compagnia di un uomo, da sfamare e riverire, e quando vennero allontanate dal posto dove la loro artificiosità poteva esprimersi liberamente. Zia Elspeth a poco a poco diventava sorda e zia Grace soffriva di artrite alle mani, sicché alla fine dovette rinunciare a tutti i lavori di cucito tranne i piú grossolani, ma non dovettero mai subire danni, mortificazioni o cambiamenti ridicoli; grazie al loro sforzo continuo, a un senso del dovere indistruttibile, seppero mantenere i propri contorni intatti.

Si erano portate appresso il manoscritto di zio Craig e di quando in quando parlavano di mostrarlo a qualcuno, a Mr Buchanan magari, l’insegnante di storia del liceo, o a Mr Fouks dell’«Herald-Advance». Ma non volevano dare l’idea di chiedere un favore. Di chi potevi fidarti, poi? Certa gente poteva impadronirsene per poi pubblicarlo a nome suo.

Un pomeriggio ci portarono una latta rossa e oro con l’effigie della regina Alessandra, piena di biscotti di avena farciti con polpa di datteri, e anche una grossa scatola nera di metallo a tenuta stagna, chiusa con un lucchetto.

– È il libro dello zio Craig.

– Quasi mille pagine.

– Piú lungo di Via col vento!

– L’ha battuto a macchina perfettamente, senza un errore.

– L’ultima pagina l’ha scritta il pomeriggio del giorno in cui è morto.

– Tiralo fuori, – suggerirono. – Dagli un’occhiata –. Proprio come quando mi offrivano i loro biscotti.

Lo sfogliai velocemente fino all’ultima pagina.

– Leggine un pezzo, – dissero. – Ti dovrebbe interessare. Non hai sempre avuto voti alti di storia?

Nel corso della primavera, estate e primo autunno di quell’anno l’attività edilizia fu molto intensa nei Comuni di Fairmile, Morris e Grantly. Sull’angolo tra Concession Five e River Sideroad, a Fairmile, fu eretta una chiesa metodista a beneficio di una congregazione già vasta e crescente nella zona. L’edificio divenne noto come Chiesa in Mattoni Bianchi; disgraziatamente sopravvisse solo fino al 1924, anno in cui fu distrutta da un incendio di origini ignote. Il capanno annesso, sebbene in legno, fu risparmiato. All’angolo opposto, Mr Alex Hedley fece costruire e aprí un Emporio ma morí per un colpo apoplettico due mesi soltanto dopo l’inaugurazione; l’attività fu rilevata e portata avanti dai figli Edward e Thomas. Poco oltre, sulla Concession Five, c’era una bottega di maniscalco il cui titolare aveva nome O’Donnell. L’incrocio era noto come Incrocio Hedley o della Chiesa. Attualmente non rimane altro, nell’area, che l’edificio dell’emporio, in cui abita una famiglia, in affitto.

Mentre leggevo queste righe le zie mi dicevano, con una garbata esitazione dovuta allo stupore, che il manoscritto era mio.

– Come pure tutti i suoi vecchi schedari e i suoi giornali, andrà tutto a te, quando noi due… non ci saremo piú, o anche prima, magari, che bisogno c’è di aspettare tanto?… sempre che tu sia pronta, s’intende.

– Perché la nostra speranza… è che prima o poi tu possa finire il lavoro.

– Una volta pensavamo di passare tutto a Owen, che è il maschio…

– Ma sei tu quella col bernoccolo per la scrittura.

Sarebbe stato un lavoro impegnativo, dissero, e sapevano di chiedermi tanto, ma erano convinte che l’avrei trovato piú facile se mi fossi tenuta a casa il manoscritto leggendone un passo ogni tanto, per imparare a conoscere lo stile di zio Craig.

– Aveva un dono lui. Sapeva metterci dentro tutto e fare in modo che si leggesse bene lo stesso.

– Magari riesci a copiarlo.

Si rivolgevano a una persona convinta che il solo dovere di uno scrittore fosse quello di produrre un capolavoro.

Quando uscii mi portai via la scatola, tenendola faticosamente sotto il braccio. Zia Elspeth e zia Grace stettero sulla porta a guardarmi cortesemente andare via e io mi sentii come un bastimento carico delle loro speranze, che presto sarebbe sprofondato oltre la linea dell’orizzonte. A casa, feci sparire la scatola sotto il letto; non avevo nessuna voglia di parlarne con mia madre. Qualche giorno dopo pensai che la scatola fosse un posto adatto a nascondere le poche poesie e i frammenti di romanzo che avevo scritto; mi piaceva l’idea di tenerli chiusi dove nessuno poteva scovarli e dove sarebbero stati al sicuro in caso di incendio. Sollevai il materasso e li tirai fuori. Era lí che li avevo tenuti fino ad allora, ripiegati fra le due pagine di un’edizione di Cime tempestose piú ampia che spessa.

Non mi andava di ritirare il manoscritto di zio Craig insieme alle cose che avevo scritto io. Mi sembrava cosí morto, cosí pesante, inutile e noioso che temevo potesse far morire anche le cose mie, e portarmi sfortuna. Lo misi in cantina dentro una scatola di cartone.

L’ultima primavera che passai a Jubilee, mentre studiavo per gli esami di fine corso, la cantina fu allagata di acqua alta fino a dieci centimetri. Mia madre mi chiese di andare a darle una mano, perciò scendemmo, aprimmo la porta sul retro e spazzammo l’acqua fredda, con quell’odore di marcio, fino allo scarico esterno. Trovai la scatola con dentro il manoscritto, me ne ero completamente dimenticata. Era un blocco fradicio di carta.

Non controllai l’entità del danno, né se si potesse pensare di recuperarlo. Mi era sempre sembrato un errore da cima a fondo.

Alle zie Elspeth e Grace pensai, invece. (In quel periodo zia Grace era ricoverata all’ospedale di Jubilee, convalescente, credevamo, dalla frattura di un femore, e zia Elspeth andava a trovarla tutti i giorni, le si sedeva accanto e diceva alle infermiere – che volevano un gran bene a tutte e due – «Ma non è incredibile che cosa si inventa certa gente pur di starsene a letto a farsi servire e riverire?») Pensai a quando avevano seguito con lo sguardo il manoscritto uscire da casa loro nella scatola chiusa col lucchetto e provai rimorso, quel genere di fragile rimorso che è l’altra faccia della medaglia di una soddisfazione incontaminata e crudele.