Battesimi
Durante il terzo anno di superiori Naomi passò alle Commerciali; improvvisamente libera da latino, algebra e fisica, si trasferí al secondo piano della scuola dove, sotto lo spiovente del tetto, le macchine da scrivere ticchettavano tutto il giorno e le pareti esponevano massime in cornice adatte a preparare a una vita nel mondo del lavoro. Tempo ed energia sono il mio capitale: sprecarli è un errore madornale. L’effetto, dopo le aule dei piani di sotto con le lavagne coperte di parole straniere, formule astratte, immagini nebulose di naufragi, battaglie e inebrianti ma castigate avventure mitologiche, era quello di approdare dentro la luce fresca della normalità, del mondo reale e operativo. Un sollievo per i piú. A Naomi piacque.
A marzo dello stesso anno trovò impiego presso gli uffici del caseificio. Aveva chiuso con la scuola. Mi disse di passare a trovarla dopo le quattro. Lo feci, senza avere bene idea di che cosa aspettarmi. Pensavo che Naomi mi avrebbe accolta con una faccia buffa da dietro il banco. Avevo intenzione di sfoderare la mia vocetta da vecchia signora e dirle: «Esigo una spiegazione. Ieri ho comprato da voi una dozzina di uova e sono marce dalla prima all’ultima!»
L’ufficio si trovava in un ampliamento annesso alle facciate del vecchio caseificio. C’erano lampade al neon, schedari metallici e scrivanie nuove – il tipo di ambiente nel quale mi sentivo subito fuori posto –, e il brusio efficiente di macchine da scrivere e di una calcolatrice. Oltre a Naomi ci lavoravano altre due impiegate; piú tardi scoprii che si chiamavano Molly e Carla. Naomi aveva le unghie tinta corallo; si era fatta una discreta messinpiega; indossava una gonna scozzese verde e rosa e una maglia rosa. Nuove. Mi sorrise e agitò le dita sopra la macchina da scrivere in un gesto di saluto, e proseguí a battere a notevole velocità sostenendo frattanto una conversazione allegra, sconclusionata e incomprensibile con le colleghe. Dopo parecchi minuti di questa musica mi comunicò che si sarebbe liberata per le cinque. Dissi che dovevo tornare a casa. Sentivo gli sguardi di Molly e Carla fissi su di me, sull’inchiostro che mi macchiava le mani nude e arrossate, sul foulard di lana che non mi stava in testa, sui miei capelli in disordine, la mia pila di libri da scolaretta.
Le ragazze curate mi spaventavano a morte. Non volevo nemmeno avvicinarle, per paura di puzzare. Percepivo tra loro e me una differenza sostanziale, come se fossimo fatte di materiali diversi. Le loro mani fresche non sudavano e non si coprivano di macchie, i capelli restavano della foggia desiderata, non sudavano sotto le ascelle – neanche sapevano cosa volesse dire dover incollare i gomiti ai fianchi per nascondere le vergognose mezzelune scure sui vestiti – e mai e poi mai avevano sentito il piccolo fiotto di sangue in piú, quell’esubero che nessun Kotex avrebbe potuto trattenere, dare inizio all’inesorabile sgocciolio tra le gambe. Figuriamoci, il loro ciclo era immancabilmente discreto; la natura era al loro servizio e non le poteva tradire. Né d’altronde la mia rozzezza aveva speranza di potersi trasformare in tanta raffinatezza; troppo tardi ormai, il baratro della diversità era troppo profondo. E Naomi, invece? Era stata una come me; una volta aveva avuto un’epidemia di verruche sulle dita; aveva sofferto del piede d’atleta; ci imboscavamo insieme nei bagni femminili quando avevamo il ciclo negli stessi giorni, per paura di fare le capriole davanti al resto della classe, una alla volta; avevamo il terrore che scivolasse fuori qualcosa, che si vedesse del sangue, ma ci vergognavamo troppo per chiedere di essere giustificate. Cos’era questa mascherata, adesso, di smalto sulle unghie e maglioncino in tinta pastello?
Diventò subito grande amica di Molly e Carla. I suoi discorsi, quando veniva a casa da me o mi convocava da lei, si concentravano sulle loro diete, i trattamenti per la pelle, i lavaggi speciali per capelli, i vestiti, l’uso del diaframma (Molly era sposata da un anno e Carla lo sarebbe stata da giugno). Certe volte, mentre ero lí, arrivava da Naomi anche Carla; loro due non parlavano d’altro che di lavare: lavare le maglie, lavare la biancheria, lavarsi i capelli. Si dicevano: – Mi sono lavata il golf! – Ma dài? E come? A freddo o in acqua tiepida? – Tiepida, penso vada bene lo stesso. – E come hai fatto per il collo? – Io me ne stavo lí seduta a pensare che il mio maglioncino era lurido, che avevo i capelli grassi, il reggiseno sbiadito, con una spallina tenuta su da una spilla di sicurezza. A quel punto me ne dovevo andare, ma una volta a casa non mi ricucivo la spallina, né mi lavavo la maglia. Quando ci provavo, le maglie si infeltrivano, lo scollo si slabbrava; sapevo di non metterci l’impegno necessario, ma tendevo fatalisticamente a credere che si sarebbero infeltrite e slabbrate comunque. Magari i capelli me li lavavo e poi mettevo degli orrendi bigodini di metallo che mi impedivano di dormire; in effetti, ogni tanto, potevo passare ore davanti allo specchio a strapparmi dolorosamente le sopracciglia, guardarmi di profilo, ombreggiarmi la faccia di cipria chiara o scura per sottolineare i punti forti e ridurre al minimo i deboli, come suggerivano le riviste. Era la dedizione a lungo termine che non ero in grado di sostenere sebbene ogni cosa, dalla pubblicità, a Francis Scott Fitzgerald, a un’atroce canzonetta alla radio – the girl that I marry will have to be, as soft and pink as a nursery –, mi indicasse che dovevo, ma sul serio, provare a imparare. L’amore non è cosa per le non depilate.
Quanto al lavarsi i capelli: grossomodo in quel periodo mi era capitato tra le mani un articolo sul tema della differenza di base tra le abitudini mentali maschili e femminili, essenzialmente in relazione all’esperienza sessuale (dal titolo dell’articolo ci si sarebbe aspettati che dicesse molto di piú in materia di sesso di quanto non facesse). L’autore era un celebre psichiatra newyorkese, discepolo di Freud. Diceva che la differenza di forma mentis tra il maschio e la femmina era facilmente illustrata dai pensieri di un ragazzo e di una ragazza seduti su una panchina di un parco in una notte di luna piena. Il ragazzo guarda la luna e pensa all’immensità e al mistero dell’universo; la ragazza si dice «Mi devo lavare i capelli». La lettura di quelle righe mi lasciò furiosa e scandalizzata; dovetti mettere giú la rivista. Mi era chiaro che io non pensavo come la ragazza dell’articolo; fossi campata cent’anni la luna piena non mi avrebbe mai ricordato che dovevo lavarmi i capelli. Sapevo che, se l’avessi mostrato a mia madre, avrebbe detto: «Ah, che rabbia, la solita scemenza maschile: le donne sono senza cervello». Il che non mi convinceva; uno psichiatra newyorkese doveva pur capirci qualcosa. E le donne come mia madre erano di fatto una minoranza, a questo ci arrivavo da sola. Per giunta, io non volevo essere come mia madre, con la sua acidula verecondia, il suo candore. Io volevo piacere agli uomini, e in piú volevo pensare all’universo guardando la luna. Mi sentivo in trappola, incagliata: mi pareva dovesse esserci scelta là dove scelta non c’era. Non volevo leggere oltre ma ero attratta da quell’articolo come da bambina potevo esserlo stata da certe figure di mari in tempesta e immense balene, su un libro di fiabe; lo sguardo mi correva nervoso sulla pagina, bloccandosi su affermazioni come: Per una donna, ogni cosa è personale; nessuna idea riveste un interesse specifico se non può essere ricondotta alla sua esperienza privata; in un’opera d’arte la donna vede sempre riflessa la propria vita, o le sue fantasie. Alla fine mi decisi a portare la rivista alla spazzatura, la strappai a metà, la ficcai nel bidone e cercai di scordarmela. Da quel momento, se vedevo su un giornale articoli dal titolo Femminilità: un atteso ritorno! oppure quiz per adolescenti del tipo «Credi che il tuo problema sia cercare di comportarti come un ragazzo?», voltavo velocemente pagina, come se certi argomenti potessero mordermi. Non avevo mai valutato l’ipotesi di voler essere un maschio.
Tramite Molly e Carla, e tramite il suo nuovo status di lavoratrice, Naomi diventava parte di un giro di gente che né io né lei avevamo mai saputo esistesse, a Jubilee. Comprendeva le impiegate dei negozi, degli uffici e delle due banche oltre ad alcune donne sposate che avevano appena lasciato il lavoro. Se non erano sposate e non avevano un fidanzato, andavano a ballare insieme. E al bowling di Tupperton, insieme. Organizzavano le une per le altre feste di addio al nubilato e rinfreschi per la nascita di un bebè (questi ultimi erano una moda recente che non andava per niente a genio a certe vecchie signore del paese). I rapporti che intrattenevano fra loro, seppure animati da abbondanti doti di confidenze scabrose, rispettavano ogni genere di elaborata formalità in fatto di convenzioni e buone maniere. Non era come a scuola; niente pazzie, malignità, niente parolacce, ma sempre una complessa rete di ostilità indirette, sempre la crisi in agguato – una gravidanza, un aborto, un rifiuto – di cui tutte erano al corrente e tutte parlavano ma che proteggevano come un personale segreto, e tenevano al riparo dal resto del paese. Anche la cosa piú innocente, lusinghiera e comprensiva in bocca a loro poteva voler dire qualcos’altro. Si mostravano reciprocamente tolleranti di ciò che quasi tutti gli altri avrebbero giudicato uno sbandamento morale, e in compenso inflessibili in fatto di abiti e acconciature o di gente che non eliminava la crosta intorno al pane da tramezzini, alle feste.
Appena cominciò a prendere uno stipendio Naomi si mise a fare le stesse cose che facevano tutte quelle ragazze, prima del matrimonio. Per esempio, a girare per negozi facendosi mettere da parte articoli che avrebbe pagato un tanto al mese. Al negozio di casalinghi ordinò un’intera batteria di padelle e tegami, in gioielleria un servizio di posate d’argento, al negozio di Walker, una coperta, un completo di asciugamani e un paio di lenzuola di lino. Tutta roba che le sarebbe servita quando si fosse sposata e avesse messo su casa; che io sapessi era la prima volta che faceva progetti tanto specifici. – Prima o poi bisogna pur cominciare, – disse spazientita. – Come pensi di sposarti, con due piatti e un vecchio strofinaccio?
Il sabato pomeriggio voleva che la accompagnassi nei negozi mentre lei pagava, dava un’occhiata alle sue future proprietà, e chiacchierava spiegandomi che, come Molly, anche lei intendeva cucinare in pentole a pressione e che la qualità di un lenzuolo è data dal numero di fili di ordito per ogni centimetro quadrato. Io ero sconcertata e intimidita dalla sua nuova identità, cosí petulante e noiosa. Sembrava che fosse ormai miglia avanti a me. La sua destinazione a me non interessava, ma a lei si sarebbe detto di sí; le cose per lei erano in movimento, comunque. Potevo dire lo stesso delle mie?
Quello che avevo davvero voglia di fare il sabato pomeriggio era stare a casa ad ascoltare l’opera al Metropolitan. L’abitudine risaliva a quando avevamo Fern Dogherty a pensione da noi, e ad ascoltare erano lei e mia madre. Fern Dogherty aveva lasciato Jubilee per andare a lavorare a Windsor, e ci scriveva lettere vaghe, infrequenti e briose sul viaggio e la visita a un locale notturno di Detroit, una puntatina alle corse, sul fatto di aver cantato con l’Associazione amanti dell’operetta, su quanto si divertiva. Naomi di lei diceva: «Quella Fern Dogherty era una caricatura». Parlava dall’alto del suo nuovo punto di osservazione. Come tutte le altre ragazze, anche lei era proiettata verso il matrimonio; qualsiasi donna con qualche anno in piú che non si fosse sposata, in quanto perfetta vecchia zitella o modesta avventuriera come Fern, non poteva certo aspettarsi comprensione da parte loro. In che senso una caricatura, volli sapere io, molesta, ma Naomi si limitava a spalancare i suoi occhi chiari, luminosi e sporgenti e a ripetermi: «Era una caricatura, punto e basta», come se dispensasse perle di una saggezza assiomatica a fronte di farneticanti eresie.
Mia madre non si interessava piú all’opera come una volta. Conosceva i personaggi, le trame e sapeva riconoscere le arie piú celebri; non c’era altro da sapere. A volte usciva, continuava a fare i suoi giri di vendita dell’enciclopedia; chi aveva già acquistato l’opera completa andava convinto a prendere il supplemento annuale. Ma non stava bene. In principio le era toccata una serie di malanni strani: una verruca plantare, un’infezione agli occhi, un gonfiore alle ghiandole, tinniti, epistassi, un misterioso sfogo cutaneo a scaglie. Continuava ad andare dal dottore. Guariva da una cosa ma subito ne cominciava un’altra. Quello che davvero stava succedendo era un calo di energia, un ripiegamento sul quale nessuno avrebbe indagato. Non era un fenomeno costante. Di quando in quando le capitava ancora di scrivere una lettera al giornale; voleva studiare astronomia da autodidatta. Ma a volte si coricava sul letto e mi chiedeva di buttarle addosso un plaid. Non lo facevo mai con la dovuta attenzione e lei mi richiamava indietro e se lo faceva rincalzare intorno alle ginocchia o ai piedi. Poi, in un falsetto puerile e petulante, mi diceva: «Da’ un bacio alla mamma». E io le depositavo in fronte un bacio avaro, secco. Le si diradavano i capelli. La pelle esposta sulle tempie aveva un aspetto malato e sofferente, che non mi piaceva.
Preferivo comunque essere sola quando ascoltavo Lucia di Lammermoor, Carmen o La traviata. Certi passaggi musicali mi emozionavano tanto che non riuscivo a stare ferma e dovevo alzarmi e camminare in giro per la sala da pranzo, cantando nella testa insieme alle voci alla radio, mentre mi stringevo i gomiti in un abbraccio. Gli occhi mi si riempivano di lacrime. Dentro di me ribollivano fantasie nate sul momento. Mi inventavo un amante, circostanze burrascose, la gloria palpitante della nostra passione destinata al peggio. (Non mi passò mai per la mente che cosí facendo rispettavo in pieno quanto, secondo l’articolo, tenderebbero a fare le donne con le opere d’arte). Una voluttuosa resa. Non tanto a un uomo, quanto al fato, in realtà, alle tenebre, alla morte. Eppure, piú di ogni altra opera adoravo Carmen, alla fine. Et laissez-moi passer! Lo sibilavo tra i denti; fremevo, immaginavo l’altra resa, ancora piú incantevole, perfino piú sublime della resa al sesso – quella dell’eroe, del patriota, la resa di Carmen all’importanza estrema del gesto, dell’idea, dell’invenzione di sé.
L’opera mi metteva fame. Quando finiva andavo in cucina a farmi panini all’uovo fritto, montagne di cracker incollati insieme a furia di miele e burro di arachidi e un miscuglio segreto e nauseabondo a base di cacao, sciroppo di mais, zucchero di canna, cocco e noci tritate, da mangiare col cucchiaio. Ingozzarmi in quel modo, prima mi placava e poi mi deprimeva, come masturbarmi. (Masturbarsi. Naomi e io avevamo letto sui libri di sua madre che le contadine dell’Est europeo lo facevano usando le carote e le signore in Giappone con le palline vaginali, e che è possibile riconoscere i masturbatori abituali dallo sguardo spento e dal colorito bilioso, cosí ce ne andavamo in giro per Jubilee a caccia di sintomi, e reputavamo la pratica talmente astrusa e disgustosa e divertente… e anzi tutto ciò che scoprivamo sul sesso ne ingigantiva l’aspetto carnevalesco, facendone sempre piú una cosa ridicola e vomitevole o, come dicevamo noi, una cosa da ridere fino a vomitare. E adesso invece non avremmo mai neanche accennato all’argomento). A volte, dopo aver mangiato tanto, digiunavo per un giorno o due e tracannavo una dose abbondante di sali di Epsom in acqua tiepida, pensando che le calorie non ce l’avrebbero fatta ad avere il sopravvento se espellevo tutto quanto il piú in fretta possibile. Non diventai propriamente grassa, solo abbastanza ben piantata da adorare i romanzi nei quali le proporzioni generose dell’eroina venivano descritte come dolci e seducenti, e diffidare invece dei libri in cui le donne desiderabili erano sempre magre; per consolarmi mi ripetevo quei versi sulle «matrone dalle grandi membra lisce come il marmo». Quanto mi piaceva; matrona, mi piaceva, una parola sontuosa, in abito da sera; nessuna matrona avrebbe mai dovuto essere magra. Mi piaceva guardare la riproduzione delle Grandi bagnanti di Cézanne, nel supplemento artistico dell’enciclopedia, e poi guardarmi nuda allo specchio. Solo che il mio interno coscia tremolava; come fiocchi di latte insaccati in una pellicola trasparente.
Frattanto Naomi si guardava intorno, per valutare le opportunità.
Un certo Bert Matthews, scapolo, sui ventotto, ventinove anni, con una faccia seria e cordiale e una zazzera che pareva un colbacco di pelliccia portato indietro sullo scalpo rugoso, si presentava regolarmente agli uffici del caseificio. Faceva l’ispettore avicolo. Naomi mi raccontava, disgustata, le cose che diceva a Molly e a Carla. A Molly non faceva che chiedere se era già incinta, sgattaiolandole intorno per guardarle la pancia di profilo, a Carla invece dispensava consigli sulla sua imminente luna di miele. Chiamava Naomi «pan di burro». Per strada, le suonava il clacson e rallentava mentre lei si voltava dall’altra parte dicendo: «Oh, buon Dio, salvami da quell’idiota!» E intanto lanciava sguardi sognanti alla propria immagine riflessa nelle vetrine dei negozi.
Bert Matthews scommise con lei dieci dollari che non avrebbe avuto il permesso di incontrarlo alla sala da ballo Gay-la. Naomi era decisa ad andarci. Diceva che era per i dieci dollari, e per dargli una lezione. Che sua madre non le avrebbe dato il permesso di andare era vero, ma sua madre non c’era, si occupava di un malato fuori del paese, e del padre non era il caso di preoccuparsi. «Quello, – diceva sempre, – è arteriosclerotico». Sembrava le piacesse il tono clinico di quella parola. Il padre passava il tempo chiuso nella sua stanza con la Bibbia e altre pubblicazioni religiose, a riordinare profezie.
Naomi voleva che andassi con lei e rimanessi a dormire a casa sua, dicendo a mia madre che eravamo al Lyceum Theatre. La sentivo come un’imposizione, non tanto da parte di Naomi, ma perché detestavo sinceramente la sala da ballo Gay-la, mi faceva paura.
La Gay-la era sulla statale, poco fuori dell’abitato in direzione nord. Era ricoperta di finti tronchi d’albero color cioccolato e non aveva i vetri alle finestre, solo ante da tenere sprangate durante il giorno e da aprire quando si ballava. Ogni volta che ci passavamo davanti, mia madre diceva: «Ecco, da’ un’occhiata a Sodoma e Gomorra!» Si riferiva a un sermone pronunciato nella chiesa presbiteriana in cui alla sala da ballo, paragonata alle due città bibliche, era stato pronosticato lo stesso destino. Al tempo mia madre aveva sottolineato che il confronto non reggeva, perché Sodoma e Gomorra erano sotto accusa per pratiche in-naturali. (Quando glielo spiegò, Fern Dogherty commentò con misteriosa disinvoltura: «Sí, insomma, naturali, in-naturali; dipende, no?») Mia madre si trovava in una posizione imbarazzante; in linea di principio era costretta a mettere in ridicolo gli argomenti della Chiesa presbiteriana, e d’altra parte la sola vista della sala Gay-la procurava anche a lei la stessa orticaria, ne ero certa. E anch’io la vedevo come lei: come un posto malvagio e malfamato, con le finestre cieche, su quel prato crostoso e ingombro di rifiuti.
Nella pineta retrostante tutti dicevano che si trovassero guanti francesi sparsi ovunque come pelli di serpente.
Uscimmo a piedi sulla statale un venerdí sera, nei nostri vestiti a fiori dalle ampie gonne a ruota. Avevo fatto del mio meglio: mi ero lavata, depilata, deodorata, acconciata i capelli. Indossavo una sottogonna rigida e ruvida sulle cosce, e un bustino che in teoria doveva ridurre il girovita ma in realtà non faceva che strizzarlo espellendo da sotto una modesta protuberanza su cui ero costretta a stringere la cintura di plastica. Avevo la cinghia chiusa a sessanta centimetri, e sotto sudavo. Mi ero spalmata faccia e collo di un bello strato di fondotinta beige; la bocca era rossa, quasi altrettanto spessa di rossetto, come un fiore di glassa su una torta. Ai piedi avevo i sandali, che raccoglievano la ghiaia dal ciglio della strada. Naomi era in tacchi alti. Era giugno ormai, l’aria tiepida, dolce, ronzante e tremula di insetti, il cielo sotto i pini neri, color buccia di pesca; il mondo sarebbe stato anche piacevole, se non avessimo avuto l’incombenza di andare a ballare.
Naomi mi precedette nel parcheggio in terra battuta, improvvisato, e su per i gradini illuminati da un’unica lampadina gialla. Se aveva paura come me, non lo dava a vedere. Tenni gli occhi inchiodati sui tacchi sdegnosi, e sui muscoli energici delle sue gambe color biscotto al latte. Uomini e ragazzi ciondolavano qua e là sui gradini. Non vedevo le facce, e non guardai. Vedevo giusto le loro sigarette accese, le fibbie delle cinture e le bottiglie luccicare nel buio. Per superare le parole suadenti e disinvolte, di sicuro sprezzanti e straordinariamente scioccanti che dicevano, finsi di tapparmi le orecchie, come quando si trattiene il fiato. Che ne era stato della mia sicurezza, della fasulla sicurezza dei giorni andati, tra sbruffonate e senso di superiorità? Non ne restava neanche l’ombra; ripensavo con nostalgia quasi incredula alla mia sfacciataggine con Mr Chamberlain, per esempio.
Una vecchia grassona ci timbrò le mani con l’inchiostro viola.
Naomi si diresse subito verso Bert Matthews che stava in piedi accanto alla pista da ballo. – Beh, ma guarda chi si vede, non me l’aspettavo, – disse. – La tua mamma ti ha lasciato uscire?
Bert Matthews la portò a ballare. Si ballava su una piattaforma di legno alta mezzo metro circa da terra, alla cui balaustra era attorcigliato un filo di luci colorate che salivano anche intorno ai quattro pali d’angolo e proseguivano in diagonale sulle teste dei ballerini, facendo somigliare la pista a una nave illuminata a galla sul pavimento di terra e segatura. A parte quelle e la luce di una finestra aperta su una specie di cucina, da cui uscivano le ordinazioni di hot dog, hamburger, bibite frizzanti e caffè, il posto era al buio. La gente si radunava a grappoli indistinti, la segatura sotto le scarpe era umida e odorosa di bevande rovesciate. Mi si parò davanti un uomo che mi porgeva un bicchiere di carta. Pensai che mi avesse scambiata per un’altra e feci di no con la testa. Subito mi pentii di non averlo preso. Magari quello restava accanto a me e mi invitava in pista.
Dopo due balli Naomi ritornò portandosi appresso Bert Matthews e un altro tizio, sottile, volpigno, di carnagione e capelli rossi. Tirava avanti il collo, con il resto del corpo curvo come una virgola. Non mi chiese di ballare, ma quando attaccò la musica mi prese per mano e mi trascinò sulla pista. Con mio sgomento, si rivelò un ballerino esperto e fantasioso, non faceva che lanciarmi lontano e poi riprendermi, piroettare ovunque, schioccare le dita, e tutto questo senza un sorriso, anzi, con una faccia maledettamente seria, ostile. Oltre che stargli dietro nella danza, dovevo anche tentare di seguirlo nella conversazione, perché intanto chiacchierava, negli imprevedibili e fugaci momenti in cui il ballo ci portava abbastanza vicini l’una all’altro. Parlava con un accento olandese, che non era quello vero, però. In quel periodo degli immigrati olandesi si erano sistemati nella campagna intorno a Jubilee e capitava che, in zona, battute e modi di dire caratteristici fossero ripetuti con il loro accento cordiale e genuino. – Dammi un ballo sciolto, – disse, usando proprio una di quelle espressioni da canzonetta e lanciando occhiate al cielo, imploranti. Non capivo cosa intendesse; certo che lo lasciavo, o si lasciava, ballare sciolto quanto gli pareva, o no? Ogni cosa che diceva era cosí; sentivo le parole ma non afferravo il senso; forse stava scherzando, ma la faccia restava seria e imperturbabile. In compenso lanciava gli occhi al cielo in quel modo assurdo e mi chiamava «baby», con voce illanguidita e fredda, come se fossi completamente diversa da com’ero; l’unica cosa che mi venne in mente fu cercare di farmi un’idea della persona con cui credeva di ballare e poi fingere di essere proprio cosí: una creaturina spigliata, vivace, provocante. Ma qualsiasi cosa facessi, qualunque gesto o espressione mi inventassi nel tentativo di stargli al passo, sembrava arrivare troppo tardi; lui si era già spostato altrove.
Ballammo finché l’orchestra non si concesse una pausa. Ero contenta che fosse finita e contenta che fosse rimasto con me; avevo temuto che potesse rendersi conto di quanto non ero all’altezza e volteggiarsene via, con un’altra. Mi trascinò dalla pista verso la finestra della cucina dove fummo sospinti nella calca e alla fine riuscí a comprare due bicchieri di ginger ale.
– Bevine un po’, – mi ordinò, abbandonando l’accento olandese e assumendo un tono pratico e stanco. Bevvi qualche sorso del mio. – Di tutti e due, – fece lui. – Io non lo bevo, il ginger –. Ci spostavamo intanto. Ora riuscivo a distinguere qualche faccia e a riconoscere persone note alle quali sorridevo, con l’esitante orgoglio di essere lí, al traino di un uomo. Raggiungemmo Bert e Naomi; Bert estrasse una fiaschetta di whisky e disse: – Allora, caporale, posso fare qualcosa per voi? – Ne versò in tutti e due i bicchieri. Naomi mi rivolse un sorriso vitreo, da nuotatrice appena uscita dall’acqua. Avevo caldo, sete. Buttai giú il mio ginger al whisky in tre o quattro sorsate.
– Cristo buono, – disse Bert Matthews.
– Beve come un cammello, – disse Naomi, soddisfatta di me.
– Può fare a meno del ginger, – disse Bert, versando whisky nel mio bicchiere. Scolai anche quello, decisa ad accrescere il mio nuovo prestigio, tanto piú che il gusto non mi dispiaceva troppo. Bert cominciò a lagnarsi dicendo che non gli andava piú di ballare. Che aveva la schiena a pezzi. Il tizio che era con me e di cui allora o in seguito seppi che si chiamava Clive scoppiò in un’improvvisa risata crepitante come una raffica di mitra e sferrò fintando un pugno all’altezza della cinta di Bert.
– Com’è che hai la schiena a pezzi, eh? Com’è?
– Ero in branda, signore, – rispose Bert con una vocetta lamentosa, – questa arriva e mi si siede addosso, che ci potevo fare?
– Non dire porcherie, – disse raggiante Naomi.
– Quali porcherie? Cos’ho detto? Mi vuoi fare un massaggio, gioia? Massaggino alla schiena, N’omi?
– Me ne frego della tua stupida schiena, vatti a comprare una pomata.
– E poi tu me la spalmi, eh? – disse annusando tra i capelli di Naomi. – Me la spalmi bene bene?
Le luci multicolori si erano fatte indistinte e andavano su e giú come elastici tesi. Le facce della gente avevano subíto una lieve, orrenda dilatazione intorno alle guance; era come se le vedessi su una superficie liscia e convessa. Anche le teste sembravano grandi, sproporzionate rispetto ai corpi; me le immaginai – senza proprio vederle – staccate dal busto e fluttuanti, libere, su vassoi invisibili. Quello fu il picco della mia ubriachezza, in termini di alterazioni sensoriali. Mentre mi succedeva, Clive andò a comprare degli hot dog avvolti nei tovaglioli di carta e una confezione di ginger ale, e poi ce ne andammo e io montai sul sedile posteriore di un’auto con Clive. Mise un braccio attorno al mio girovita corazzato e cominciò a farmi il solletico in modo piuttosto maldestro. Viaggiavamo sulla statale a una velocità che pareva elevata, con Bert e Clive che cantavano a due voci in falsetto «I don’t care if the sun don’ shine, I git my lovin’ in the evenin’ ti-ime». I finestrini erano tutti abbassati, vento e stelle ci correvano accanto. Mi sentivo felice. Non ero piú responsabile di niente. Sono sbronza, pensai. Entrammo in Jubilee, vedevo gli edifici della via maestra e mi sembrava che avessero un messaggio per me, qualcosa che riguardava la natura provvisoria, giocosa e allegramente improbabile del mondo. Di Clive mi ero scordata. Si chinò e premette la faccia sulla mia per poi ficcarmi in bocca una lingua, che mi parve enorme, umida, fredda, floscia come uno strofinaccio per i piatti.
Ci eravamo fermati dietro l’hotel Brunswick.
– Io abito qui, – disse Bert. – Casa dolce casa.
– Noi non possiamo entrare, – disse Naomi. – Non lasciano portare ragazze in camera.
– Sta’ a vedere.
Passammo da una porta sul retro, su per qualche gradino, poi lungo un corridoio in fondo al quale brillava un contenitore sferico pieno di un liquido rosso, assolutamente bellissimo ai miei occhi nello stato in cui versavo. Entrammo in una camera da letto e ci sedemmo, sotto una luce improvvisamente forte, lontani gli uni dagli altri. Bert sedette, e poi si sdraiò, sopra il letto. Naomi, sulla sedia e io su un grosso cuscino strappato, entrambe con le gonne allargate per bene. Clive prese posto sul calorifero spento ma subito si rialzò per andare a sistemare una zanzariera alla finestra, poi ci versò altro whisky mescolando con il ginger che aveva comprato. Mangiammo gli hot dog. Sapevo che fermare la macchina ed entrare lí dentro era stato un errore. La mia felicità era agli sgoccioli e, sebbene bevessi nella speranza di recuperarla, l’unico effetto fu quello di farmi sentire gonfia, pesante, specie alle dita di mani e piedi.
Clive mi domandò secco: – Tu ci credi alla parità dei diritti per le donne?
– Sí –. Cercavo di recuperare lucidità, incoraggiata alla prospettiva di una discussione e sentendomi anche in dovere di farlo, in un certo senso.
– Credi anche alla pena di morte, per le donne?
– Non credo alla… pena di morte per nessuno. Ma se proprio deve esserci, allora sí, anche per le donne.
Rapido come un proiettile, Clive ribatté: – E che pene daresti alle donne?
Risi forte, senza allegria. Il senso di responsabilità stava tornando.
Da quel momento Bert e Clive partirono con le loro battute. Ciascuna iniziava con un discorsetto serio e andava avanti cosí per un po’, come fosse un aneddoto istruttivo e profondo, perciò bisognava stare sempre allerta per non ritrovarsi a bocca aperta da stupidi quando arrivava il momento di ridere. Personalmente avevo paura, se non ridevo subito, di sembrare troppo ingenua per capire la battuta, oppure troppo pronta a offendermi. In molte di quelle storielle, come nella prima, era necessario che io o Naomi stessimo al gioco, e il modo per farlo cosí da non sentirsi idioti come era appena successo a me era di rispondere in tono stanco e svogliato per quanto paziente, di seguire il racconto strizzando gli occhi e sfoderando il sorrisetto di chi sa cosa lo aspetta. Fra una battuta e l’altra Bert disse a Naomi: – Vieni qui sul letto con me.
– No, grazie. Sto benissimo qui –. Rifiutò di bere altro whisky e scosse la cenere nel bicchiere dell’albergo.
– Cos’hai contro i letti? Qui sí che si balla senza biglietto.
– E tu balla, allora.
Clive non stava fermo un secondo. Saltellava in giro per la stanza, sferrava pugni a vuoto, spiegava le varie battute, fintava affondi su Bert che era a letto, e finalmente anche Bert scattò in piedi e finsero di boxare, molleggiando sulle ginocchia, scambiandosi piccoli colpi ravvicinati, ridendo. Naomi e io dovemmo tirare indietro i piedi.
– Che due scemi, – disse Naomi.
Bert e Clive conclusero il numero cingendosi reciprocamente le spalle e rivolgendosi a noi in un gesto studiato, come da un palcoscenico.
– Da come sei vestito devi essere un cowboy, – disse Bert, e Clive di rimando: – Da come sei vestito devi essere un cowboy anche tu…
– Da come siamo vestiti, siamo tutti e due cowboy…
– Ehi, Bongo, – disse Bert con voce sinistra.
– Eh?
– Te che ti piace di piú? Il pollo o il maiale?
– Non so mica. Non so se piacio di piú il pollo o il maiale.
– Ehi, Bongo? Te ci sei stato con una donna?
– No-o.
– Allora pollo.
Scoppiammo a ridere, ma Naomi disse: – Questa però era nel Kinsmen’s Minstrel Show a Tupperton, l’ho già sentita.
– Devo andare in bagno, – dissi, e mi alzai. Dovevo essere ancora sbronza, tutto sommato. Di norma non avrei detto una cosa simile in presenza di uomini.
– Hai il mio permesso, – disse magnanimo Bert. – Va’ pure. Hai il permesso di lasciare la stanza. Sta in fondo all’ingresso, dopo la porta che dice… – Mi fissò intensamente prima di ficcarmi la faccia quasi dentro la scollatura… – Ah, ecco, lo vedo, dice… Signore.
Trovai il bagno e ci andai senza chiudermi dentro, ricordandomene solo dopo. Nel tragitto di ritorno verso la stanza vidi la sfera piena di liquido rosso, con dietro una luce, al fondo del corridoio. Mi avvicinai, superando la porta della stanza di Bert. Oltre la luce, c’era una porta che dava sulle scale antincendio; era aperta perché quella sera faceva caldo. Stavamo al secondo piano, l’ultimo, dell’albergo. Uscii e inciampai rischiando di cadere oltre la ringhiera, recuperai l’equilibrio, mi chinai e, con immensa fatica, mi tolsi i sandali che ritenevo responsabili di avermi fatta inciampare. Scesi le scale, tutte, fino alla fine. Restava un salto di un paio di metri, al fondo. Gettai prima le scarpe, congratulandomi con me stessa per averci pensato, poi mi sedetti sull’ultimo gradino, scivolai giú il piú possibile e finalmente saltai, atterrando sul duro nel vicolo fra l’albergo e la stazione radio. Mentre mi rimettevo le scarpe, non mi capacitavo di quello che avevo fatto: la mia intenzione era stata davvero di tornare in camera. Non sapevo dove potevo andare, adesso. In quel momento mi ero completamente scordata di casa nostra in River Street ed ero convinta che abitassimo su a Flats Road. Poi mi venne in mente la casa di Naomi; ragionandoci bene, pensavo di poterci arrivare.
Costeggiai l’hotel Brunswick andando a sbattere contro il muro di mattoni, emersi alle spalle dell’edificio, e proseguii lungo Diagonal Road – dapprima in direzione sbagliata, per cui dovetti tornare indietro – e attraversai la via senza guardare, per fortuna era tardi e non c’erano macchine. Non riuscivo a vedere l’ora sulla luna sfocata dell’orologio dell’ufficio postale. Dopo aver lasciato la strada decisi di proseguire sull’erba, passando sui prati davanti alle abitazioni, perché il marciapiede era duro. Mi tolsi di nuovo le scarpe. Mi ripromisi di divulgare la mia scoperta: camminare sul marciapiede faceva male, mentre l’erba era soffice. Come mai non c’era arrivato nessuno prima? Raggiunsi la casa di Naomi in Mason Street e, dimenticando che non avevamo chiuso a chiave la porta sul retro, salii i gradini e provai ad aprire quella di fronte ma non ci riuscii, perciò cominciai a bussare, prima educatamente, poi sempre piú forte. Pensavo che Naomi fosse in casa, prima o poi mi avrebbe sentita e mi avrebbe fatta entrare.
Non si accese nessuna luce, ma la porta in effetti si aprí. Il padre di Naomi in camicia da notte, con le gambe nude e i capelli bianchi, si stagliò nel buio dell’ingresso come un cadavere levatosi dal sepolcro. Dissi: – Naomi… – e a quel punto mi ricordai. Girai sui tacchi, ridiscesi i gradini e puntai su River Street, che nel frattempo mi era tornata in mente. Qui mi mostrai piú cauta. Mi coricai sul dondolo del portico e mi addormentai, sprofondando in vortici travolgenti di luce e buio, inettitudine fisica, miasmi di rutti all’hot dog.
Il padre di Naomi non tornò a letto. Rimase seduto al buio in cucina finché Naomi non tornò a casa, poi si sfilò la cinta dei pantaloni e la picchiò su braccia, gambe, mani, dovunque riuscisse a colpire. La fece inginocchiare a terra in cucina e giurare davanti a Dio che non avrebbe mai piú toccato un goccio di liquore.
Quanto a me, mi svegliai per la nausea alle prime ore del mattino, infreddolita, indolenzita, arrivai giusto in tempo fuori dal portico e vomitai in una macchia di bardana di fianco a casa. La porta sul retro era sempre stata aperta. Cacciai testa e capelli dentro l’acquaio di cucina, cercando di eliminare l’odore di whisky, e salii in camera senza intoppi. A mia madre, quando si svegliò, raccontai che ero stata male a casa di Naomi e che ero tornata nella notte. Rimasi tutto il giorno nel letto, con un mal di testa martellante, lo stomaco sottosopra, un’immensa debolezza e una sensazione a metà tra il fallimento e il sollievo. Mi sentivo salvata dalle mie cose infantili: la vecchia lampada di Rossella O’Hara, i fiori di metallo bianchi e azzurri che fermavano le tendine flosce a pois. Lessi La vita di Charlotte Brontë.
Dalla finestra vedevo una distesa di prati incolti oltre le rotaie della ferrovia; l’erba di giugno era alta, violacea. Vedevo uno scorcio di fiume, ancora abbastanza in piena, e di salici dalle foglie d’argento. Fantasticai su un’esistenza ottocentesca, fatta di studio, passeggiate, finezze, rettitudine, innocenza e serenità.
Naomi salí in camera mia e mi bisbigliò con ferocia: – Cristo, ti ucciderei per essertene andata cosí.
– Stavo male.
– Male un corno, accidenti. Ma chi ti credi di essere. Clive non è un cretino qualsiasi, sai? Ha un buon impiego. Fa il perito assicurativo. Con chi pensi di uscire? Con i ragazzi del liceo?
Poi mi mostrò i segni sulla pelle e mi raccontò di suo padre.
– Se fossi tornata a casa con me, magari si vergognava di fare una roba simile. Come diavolo ha fatto a sapere che ero uscita, comunque?
Non glielo dissi mai. E nemmeno lui. Forse non era sicuro, o forse pensava di aver avuto le traveggole. Naomi usciva di nuovo con Bert Matthews in capo al sabato successivo. Non le importava.
– Può darmele fino a farmi scoppiare le vene. Io voglio una vita normale.
Che cos’era una vita normale? Era la vita delle ragazze al caseificio, i rinfreschi per nozze e battesimi, la biancheria per la casa, le batterie di pentole, i servizi di posate, tutto il complicato regolamento della femminilità; e, all’estremo opposto, era la vita della sala da ballo Gay-la, era viaggiare di notte ubriachi per le strade nere, ascoltare le spiritosaggini degli uomini, rassegnarsi a loro e al tempo stesso contrastarli con cautela e riuscire ad acciuffarne uno, esatto, acciuffarli, perché un lato di quella esistenza non poteva sussistere senza l’altro e, accettandoli e abituandosi a entrambi, una ragazza si incamminava sulla via del matrimonio. Non c’era alternativa. E io non ce l’avrei fatta. No. Meglio Charlotte Brontë.
– Alzati, vestiti e vieni in centro con me. Vedrai che ti fa bene.
– Sto troppo male.
– Eddai, sei una bambina grande, ormai. Cosa pensi di fare, chiuderti in un buco per tutta la vita?
Da quel giorno la nostra amicizia si affievolí. Diventammo estranee l’una a casa dell’altra. L’inverno successivo ci capitava di incrociarci per strada, lei col suo cappottino nuovo bordato di pelliccia e io con la solita pila di libri, e Naomi mi aggiornava sulle vicende della sua vita. Di solito stava uscendo con qualcuno che non avevo mai sentito nominare, magari di Porterfield, Blue River o Tupperton. Bert Matthews se l’era lasciato subito alle spalle. La sua vocazione, venni a sapere, era quella di portare le ragazze fuori la prima volta; era a caccia solo di giovani inesperte anche se poi non le seccava né le metteva nei guai, nonostante tutte le sue chiacchiere. Clive aveva avuto, mi disse, un incidente d’auto e avevano dovuto amputargli una gamba sotto il ginocchio. – Sfido io, bevono come cammelli e guidano come dei pazzi, – disse Naomi. Parlava con una specie di fatalismo materno, orgoglioso perfino, quasi che bere come cammelli e guidare come pazzi fosse in un certo senso la cosa giusta, deplorevole ma necessaria. Dopo qualche tempo smise di ragguagliarmi. Ci incontravamo a Jubilee e non ci dicevamo altro che ciao. A me pareva che mi avesse di gran lunga superata sulla strada che, con uno stato d’animo tra il preoccupato e il confuso, ritenevo conducesse al mondo reale, non meno di quanto io avessi superato lei in ogni genere di conoscenza specifica astratta e superflua, vale a dire quella che si insegnava a scuola.
Prendevo ottimi voti, a scuola. Non ne avevo mai abbastanza. Non avevo ancora finito di incassarne una tornata da portarmi a casa che già cominciavo a preoccuparmi per la successiva. Sembravano veramente cose tangibili, i voti, pesanti come il ferro. Me li ammucchiavo intorno, mi ci barricavo dentro, e se per caso me ne sfuggiva uno, registravo un vuoto minaccioso.
Nell’atrio centrale del liceo, intorno all’albo d’onore degli ex studenti uccisi in combattimento nelle guerre del ’14-’18 o del ’39-’45, erano appese placche di legno, una per ciascuna classe di corso; sulle placche venivano affisse delle targhette metalliche con i nomi degli studenti piú meritevoli dell’anno che frattanto sparivano, risucchiati da impieghi e gravidanze. C’era anche il mio nome, sebbene non tutti gli anni. Certe volte Jerry Storey mi batteva. Il suo quoziente intellettivo era il piú alto mai riscontrato nel liceo di Jubilee, come pure in tutte le altre scuole superiori della contea del Wawanash. L’unica ragione per cui qualche volta lo superavo era che l’ossessione per le scienze lo rendeva insofferente e in qualche caso perfino disinteressato alle materie che con sufficienza definiva «mnemoniche» (francese e storia), nonché alla letteratura inglese, che addirittura pareva ritenere una specie di insulto personale.
Jerry Storey e io viaggiavamo in coppia. Chiacchieravamo nei corridoi. Mettemmo a punto poco per volta un campionario di battute, un vocabolario, una serie di argomenti che nessun altro condivideva. I nostri nomi comparivano insieme nel modestissimo giornalino scolastico ciclostilato e pressoché illeggibile. Tutti quanti sembravano unanimemente convinti che fossimo fatti l’uno per l’altra; ci chiamavano «La Banca dei Cervelli» oppure «I Campioni del Quiz», con una certa dose di indulgenza un po’ sprezzante che Jerry sapeva sopportare meglio di me. Ci avviliva essere appaiati come unici esemplari di una stravagante specie di animali in cattività, e ci irritava chiunque ci giudicasse simili, perché non pensavamo di esserlo. Personalmente ritenevo Jerry mille volte piú strambo e meno attraente di me, ed era chiaro che secondo lui annoverare il mio cervello e il suo nella stessa categoria rivelava una totale mancanza di cognizione in fatto di categorie, piú o meno come sostenere che Toscanini e il direttore della banda municipale avevano entrambi talento. Quello che possedevo io, mi diceva con franchezza quando discutevamo del futuro, era una memoria di prim’ordine, un certo dono per le lingue non insolito in una ragazza, facoltà logiche modeste, e una quasi totale inettitudine per il pensiero astratto. Il fatto di essere immensamente piú in gamba della maggioranza degli abitanti di Jubilee non doveva impedirmi di vedere, disse, che di lí a breve avrei incontrato i miei limiti nel mondo esterno intellettualmente competitivo. («Lo stesso vale per me, – aggiungeva severo. – Mi sforzo sempre di mantenere la corretta prospettiva. Faccio la mia figura al liceo di Jubilee, certo. Ma come me la caverei al Mit?» Riguardo al suo futuro era pieno di ambizioni grandiose, ma anche attento a esprimerle con ironia, e a circoscriverle di cauti ammonimenti).
Accoglievo il suo giudizio come un soldato riceve un ordine, perché non ci credevo. O meglio, sapevo che era vero al cento per cento, ma mi sentivo comunque abbastanza forte, in campi che a mio parere lui ignorava e che il suo metro di giudizio non poteva misurare. Le acrobazie ginniche della sua mente non suscitavano in me ammirazione, perché tendiamo ad ammirare capacità analoghe alle nostre, seppure di proporzioni maggiori. Il suo cervello mi faceva pensare a un tendone da circo ingombro di attrezzature indecifrabili sulle quali, in mia assenza, Jerry eseguiva numeri spericolati e noiosi. Facevo molta attenzione a non lasciargli intendere che la pensavo cosí. Lui era sincero quando esprimeva la sua opinione su di me, apparentemente; io non avevo la minima intenzione di fare altrettanto. Perché? Perché in lui sentivo la presenza di qualcosa che le donne percepiscono in un uomo, un punto delicato, turgido, tirannico, grottesco; non volevo di certo accollarmi le conseguenze di andare a rovistare là dentro: mi sosteneva un distacco, per non dire un disprezzo, che gli nascondevo. Pensavo di essere sensibile, buona d’animo, quasi; non mi sfiorava l’idea di essere invece superba.
Insieme andavamo al cinema. Andavamo ai balli della scuola e ballavamo male, con disagio e reciproca irritazione, mortificati dal ruolo di fidanzatini del liceo che avevamo in un certo senso reputato nostro dovere interpretare, finché non scoprimmo che l’unico modo per sopravvivere alla situazione era scherzarci su. La nostra salvezza era buttarla sul ridere e prenderci in giro da soli. Al meglio di noi stessi sapevamo essere partner allegri, affiatati, talvolta crudeli, anche, anziché una coppia di coniugi di anzianità quasi ventennale. Mi chiamava Melanzana, in tributo a un vestito orribile che avevo, di taffettà fra il color vino e il violaceo, rifatto su un vecchio abito smesso di Fern Dogherty. (All’improvviso eravamo piú poveri del solito, a causa del crollo di vendite di volpi argentate, dopo la guerra). Mentre mia madre me lo aggiustava avevo sperato che ne uscisse una cosa accettabile, che potesse perfino rivelare una lucentezza sensuale tendendo la stoffa sui miei fianchi generosi, come il vestito di Rita Hayworth nelle locandine di Gilda; la prima volta che lo indossai cercai di convincermi che fosse proprio cosí, ma mi bastarono la faccia eccessivamente sorpresa di Jerry e il commento pronunciato con la voce strozzata, «Una melanzana!», per scoprire la verità. Cercai subito di trovare la cosa altrettanto comica, e quasi quasi ci riuscii. Per strada improvvisammo ulteriori battute.
– Tra gli ospiti presenti al gala di mezz’inverno presso la Jubilee Armony ieri sera, Mr Jerry Storey, Terzo Rampollo della favolosa dinastia dei re del fertilizzante, e la sublime Miss Del Jordan, erede dell’impero della volpe argentata. Ecco una coppia che incanta ogni spettatore con l’incredibile, insuperabile maestria e stile nel ballo…
Molti dei film che andavamo a vedere raccontavano della guerra finita un anno prima che noi due incominciassimo le superiori. Dopo il cinema si andava da Haines’, il locale che preferivamo al Blue Owl, meta di quasi tutti gli altri ragazzi della scuola, per giocare a flipper e ascoltare il jukebox. Bevevamo caffè e fumavamo sigarette al mentolo. I tavoli erano separati da tramezzi alti di legno in cima ai quali si aprivano delle lunette di vetro color ambra. Mentre piegava e ripiegava il tovagliolo di carta in una serie di figure geometriche, lo attorcigliava stretto intorno a un cucchiaio o lo strappava in striscioline svolazzanti, Jerry parlava di guerra. Mi forní una descrizione della marcia della morte di Bataan, dei metodi di tortura impiegati nei campi di prigionia giapponesi, del bombardamento di Tokyo, della devastazione di Dresda; mi investiva di atrocità insuperabili, statistiche da lasciare senza fiato. Il tutto senza un moto di protesta, ma con un misurato entusiasmo, un curioso piacere indefesso. Poi mi diceva delle armi in fase di attuale sperimentazione da parte di russi e americani; ne parlava come se il loro potenziale distruttivo fosse inevitabile quanto stupefacente, e combatterlo, superfluo come ostacolare le forze stesse dell’universo.
– Senza contare le armi batteriologiche… potrebbero reintrodurre la peste bubbonica… stanno creando malattie per le quali non esiste antidoto, ce ne sono già scorte. E il gas nervino… e che dire della possibilità di controllare intere popolazioni con l’impiego di sostanze semistupefacenti…
Era sicuro che ci sarebbe stata un’altra guerra, che saremmo stati spazzati via in massa. Implacabile e festante dietro i suoi occhiali da cervellone, aspettava con ansia l’immensa catastrofe. Imminente, peraltro. Reagivo con il dovuto orrore ed esitante ragionevolezza femminile, che provocava in lui un’opposizione anche piú veemente, necessaria ad accrescere il mio orrore e a contrastare la mia ragionevolezza. Quest’ultima parte non era difficile. Jerry era in contatto con il mondo reale, sapeva com’era stato scisso l’atomo. L’unico mondo con cui ero in contatto personalmente era quello che, con l’aiuto di alcuni libri, mi ero costruita allo scopo di fornirmi stravaganze e nutrimento. Ciononostante non mollavo; mi annoiavo, mi irritavo, gli dicevo d’accordo, supponiamo che sia vero, allora perché ti alzi e vai a scuola, la mattina? Se è proprio vero, come fai a sperare di diventare un grande scienziato?
– Se il mondo sarà finito, se non c’è speranza, allora perché?
– C’è ancora tempo per il mio premio Nobel, – diceva lui, irriverente, per farmi ridere.
– Dieci anni?
– Venti al massimo. Le piú grandi scoperte decisive sono opera di uomini sotto i trentacinque.
Dopo affermazioni di questo genere, bofonchiava sempre qualcosa come: «Lo sai, no, che scherzo!» Si riferiva al premio Nobel, non alla guerra. Non riuscivamo a liberarci della credenza locale che vantarsi o nutrire eccessive speranze comportasse enormi pericoli soprannaturali. Eppure a legarci erano precisamente quelle speranze ambiziose, che al tempo stesso ciascuno dei due negava e riconosceva, metteva in ridicolo e rispettava nell’altro.
La domenica pomeriggio ci piaceva fare lunghe passeggiate partendo giusto dietro casa mia e costeggiando i binari. Ci spingevamo fino al cavalcavia sulla curva grande del Wawanash, e tornavamo indietro. Parlavamo di eutanasia, controllo programmato delle nascite, dell’eventuale esistenza di quello che chiamiamo anima, dell’eventuale possibilità umana di conoscere l’universo. Non ci trovavamo d’accordo su nulla. All’inizio passeggiavamo in autunno, poi d’inverno. Camminavamo sotto la neve, discutendo a testa bassa, le mani ficcate in tasca, con gli aghi di ghiaccio in faccia. Quando il dibattito ci sfiniva, tiravamo fuori le mani dalle tasche e provavamo a stare in equilibrio sulle rotaie, a braccia aperte. Jerry aveva gambe esili, lunghe, la testa piccola, capelli ricci, grandi occhi luminosi. Portava un berretto scozzese con i copriorecchie foderati di lana pelosa: ricordavo di averglielo visto addosso dalla prima media.
Mi ricordavo anche che l’avevo sempre preso in giro, come tutti del resto. Mi capitava ancora di vergognarmi al pensiero che qualcuno mi vedesse insieme a lui, qualcuno come Naomi. Ora però pensavo che ci fosse un lato ammirevole, una strana, ruvida grazia nel modo in cui Jerry aderiva al proprio personaggio, accettando il suo ruolo a Jubilee e la sua assurdità indispensabile e gratificante, con un fatalismo, un coraggio che perfino io non avrei mai e poi mai saputo rimediare. Era lo spirito con cui si presentava ai balli, mi pilotava a scatti sulla minacciosa, immensa distesa della pista, con cui faceva ondeggiare senza speranze la palla durante l’inesorabile torneo di baseball annuale, oppure marciava con la squadra dei cadetti. Si offriva in sacrificio, senza fingere di essere uno come gli altri e allo stesso tempo facendo tutto quello che uno come gli altri avrebbe fatto, pur consapevole che la sua prestazione non sarebbe mai stata adeguata, che la gente avrebbe riso. Non aveva alternative; era quel che sembrava. Io stessa, che avevo contorni tanto piú sfumati, che assorbivo tinte mimetiche dovunque mi fosse concesso trovarne, cominciai a capire che essere come Jerry poteva rivelarsi riposante.
Venne a casa mia a cena, contro la mia volontà. Detestavo l’idea di vederlo alle prese con mia madre. Temevo da parte di lei uno stato di eccitazione, che volesse strafare in qualche modo per via della reputazione delle doti mentali di Jerry. Infatti: cercò di farsi spiegare la relatività; annuiva, lo incoraggiava saltellandogli letteralmente attorno con i gridolini disinvolti di chi ha capito. A differenza del solito, le sue spiegazioni risultavano incoerenti. Io criticavo la cena, come facevo ogni volta che c’erano ospiti; la carne sembrava un po’ troppo cotta, le patate un po’ dure, i fagioli in scatola un po’ freddi. Mio padre e Owen erano arrivati da Flats Road, perché era domenica. Ormai Owen stava sempre a Flats Road, dove coltivava la sua zoticaggine. Mentre Jerry parlava, lui masticava rumorosamente e lanciava a mio padre occhiate cariche di disprezzo ignorante, rozzo, virile. Mio padre non rispondeva ai suoi sguardi ma parlava poco, forse imbarazzato dall’entusiasmo di mia madre che probabilmente considerava coprisse il fabbisogno di entrambi. Io ce l’avevo con tutti. Sapevo che per Owen, e anche per mio padre – il quale però non l’avrebbe mai dato a vedere, consapevole che era solo un modo come un altro di guardare alle cose –, Jerry era un fenomeno strano, escluso dalla comunità degli uomini; non importava che fosse un pozzo di scienza. Erano troppo stupidi, secondo me, per comprendere la sua forza. Per lui invece la mia famiglia rientrava nella massa di gente alla quale non vale neppure la pena di provare a spiegare; non comprendeva la loro forza. Dovunque mi girassi vedevo solo insufficiente rispetto reciproco.
– Mi fa ridere quando la gente crede di poter fare qualche domanda e capire le cose, senza avere idea della preparazione necessaria.
– Se ti fa ridere, ridi, – dissi io, acida. – E che buon pro ti faccia.
Ma mia madre si era infatuata di lui, e da quella sera non fece che aspettarlo, per sapere come la pensasse sulla vita in provetta, o sulle macchine che minacciavano di prendere il sopravvento sull’uomo. Potevo capire come il fiume frenetico di domande da parte sua lo lasciasse frastornato e depresso. Non era forse esattamente cosí che mi ero sentita quando Jerry aveva preso la copia di Angelo, guarda il passato dalla mia pila di libri, l’aveva aperta a caso e letto con voce monotona e perplessa: «Un sasso, una foglia, una porta – O Spettro perduto, e tormentato dal vento, torna…»? Glielo strappai di mano, come se fosse in pericolo. – Allora? Mi dici cosa vuol dire? – aveva chiesto comprensibilmente lui. – A me sembra solo stupido. Ma spiegamelo. Sono disposto ad ascoltare.
– È timidissimo, – sentenziò mia madre. – Un ragazzo geniale, ma deve imparare a vendersi meglio.
Cenare da lui fu meno difficile. Sua madre era vedova di un insegnante. Jerry, il loro unico figlio. Lei lavorava a scuola come segretaria, perciò già la conoscevo. Abitavano in una metà di casa bifamiliare su Diagonal Road. I tovaglioli erano stirati e ripiegati come fazzoletti in bisso di lino e ritirati in un cassetto profumato di limone. Per dolce mangiammo un budino Jell-O tricolore, una specie di moschea piena di frutta sciroppata. Dopo cena Jerry si ritirò in soggiorno a occuparsi del problema di scacchi che riceveva settimanalmente per posta (ecco un esempio di quello che intendo quando mi riferisco alla sua sorprendente, assoluta volontà di aderire a un modello) e chiuse la porta a vetri per evitare che le nostre chiacchiere potessero distrarlo. Io asciugai i piatti. La madre di Jerry mi intrattenne parlando del quoziente intellettivo del figlio. Lo nominava come se parlasse di un oggetto raro, chessò, un reperto archeologico, una cosa di immenso valore e un po’ inquietante che lei teneva incartata in un cassetto.
– Anche tu hai un quoziente bello alto, – mi rassicurò (aveva accesso a tutti i documenti, anzi era lei stessa a mantenerli in ordine, a scuola), – ma come saprai, quello di Jerry lo piazza nel venticinque per cento piú alto del piú alto uno per cento della popolazione. Non è strabiliante? E pensa la responsabilità che mi tocca, essendo sua madre!
Concordai.
– Passerà anni e anni all’università. Dovrà prendersi un dottorato. Certi proseguono addirittura anche dopo, con il post-dottorato, e chissà che altro mai. Aaaaanni.
Dal tono grave della sua voce pensai che si sarebbe soffermata anche sul capitolo spese.
– Perciò, non puoi permetterti guai, non so se mi spiego, – disse senza peli sulla lingua. – Jerry non ti potrebbe sposare. Non lo permetterei. Ne ho visti di casi analoghi, con ragazzi costretti a sacrificare una vita perché la ragazza era rimasta incinta, e non penso che sia giusto. Li abbiamo visti tutti e due, hai presente di chi parlo, sono ragazze della scuola. Matrimoni con la pistola alla tempia. Vanno di moda, qui a Jubilee. Ma io non sono d’accordo. Mai stata. Non credo che sia responsabilità del ragazzo né che dovrebbe sacrificare la carriera. Tu sí?
– No.
– Lo pensavo. Sei troppo intelligente. Ce l’hai un diaframma? – buttò lí all’improvviso.
– No, – dissi sbalordita.
– Beh, perché non te lo procuri? So bene come vanno le cose con voi ragazze, al giorno d’oggi. La verginità è roba del passato. Mi sta bene. Non importa se io approvo o non approvo, tanto le lancette dell’orologio non si possono spostare indietro, giusto? Tua madre doveva portarti da un medico e farti dare il necessario. Io farei cosí, se avessi una figlia.
Era molto piú bassa di me, una donnetta grassoccia ma che teneva al proprio aspetto, capelli spumosi, gialli come tulipani, con la ricrescita grigia. Portava sempre orecchini, spille e collane di plastica, in tinte cariche, coordinate. Fumava e permetteva a Jerry di fumare in casa; in effetti stavano sempre a battibeccare come vecchi coniugi su di chi fosse il pacchetto di sigarette. Me l’ero aspettata di ampie vedute, non quanto mia madre a livello intellettuale – chi poteva starle dietro, d’altronde? – ma di gran lunga piú moderna sulle cose di tutti i giorni. A questo, però, non ero pronta. Abbassai gli occhi sulla sua ricrescita grigia e, mentre lei parlava di mia madre che avrebbe dovuto farmi dotare di un diaframma, io pensai che mia madre era una donna impegnata nelle battaglie per il controllo delle nascite ma non avrebbe mai immaginato di dovermi fare dei discorsi, tanto ferma era la sua convinzione che al sesso nessuna donna – nel senso di nessuna donna in grado di ragionare – si sarebbe mai sottoposta se non costretta. In realtà preferivo quell’atteggiamento. Mi pareva piú consono a una madre, rispetto all’insensata approvazione e all’indecorosa efficienza della madre di Jerry. Mi sembrava piuttosto offensivo che una madre facesse riferimento a momenti di intimità che una ragazza poteva avere con suo figlio. Del resto, il pensiero di momenti di intimità con Jerry Storey risultava offensivo a priori. Il che non significa che non si verificassero, di tanto in tanto.
Come mai offensivo? Era una cosa strana. Appena smettevamo di parlare, aveva il sopravvento l’angoscia. Le nostre mani sudate si stringevano, mentre ciascuno dei due si domandava senza dubbio quanto dovesse resistere in quella posizione per non apparire scortese. I nostri corpi aderivano uno all’altro non involontariamente ma senza slancio, come sacchi di sabbia bagnata. Ci baciavamo a bocca aperta, come avevamo letto e sentito si poteva fare, ma restavamo freddi, con le lingue rigide e abuliche come pezzi di carne. Ogni volta che Jerry mi rivolgeva le sue attenzioni – quel genere di attenzioni intendo – diventavo irritabile, senza sapere perché. Alla fine, però, seppure di malumore, gli cedevo. Ciascuno rappresentava per l’altro il solo veicolo di scoperta sessuale utilizzabile.
La curiosità poteva portarci anche piuttosto lontano. Una sera d’inverno, nel soggiorno di sua madre – lei era fuori a una riunione dell’Ordine della Stella d’Oriente – Jerry mi chiese di spogliarmi nuda.
– Perché vuoi che lo faccia?
– Non pensi che sarebbe istruttivo? Non ho mai visto una donna vera, in carne e ossa, nuda.
L’idea aveva un suo fascino. L’espressione «donna nuda» mi lusingava segretamente, facendomi sentire sontuosa, una dispensatrice di tesori. Per giunta, ero convinta di essere piú bella di corpo che di faccia, e di stare meglio nuda che vestita; avevo sognato tante volte di potermi mostrare a qualcuno. E nutrivo la speranza – o, per essere piú precisa, ero curiosa riguardo alla possibilità – che, in uno stadio successivo della nostra relazione, i miei sentimenti per Jerry potessero cambiare, che sarei riuscita a desiderarlo. Non sapevo ormai tutto su come funziona il desiderio? Mi trovavo già nella classica situazione coniugale in cui si cerca di convogliare i suoi ciechi tormenti verso il corpo a portata di mano.
Non volevo farlo, in soggiorno. Dopo aver discusso e rimandato un po’, Jerry disse che potevamo salire in camera sua. Sulle scale, un pizzico di voglia la sentii, come se avessimo sette o otto anni e stessimo andando in un posto dove ci saremmo tirati giú le mutande. Mentre abbassava gli scuri della stanza, Jerry fece cadere la lampada dal tavolo e a quel punto ebbi quasi l’impulso di girare sui tacchi e tornare di sotto. Non c’è niente che ammazzi lo slancio come un moto di goffaggine, in momenti come quello, a meno di essere innamorati. Comunque, decisi di non farmi rovinare l’umore. Lo aiutai a tirar su la lampada e a rimettere a posto il paralume e non mi irritai neppure quando Jerry provò ad accendere per controllare che non si fosse rotta. Poi, dandogli le spalle, mi tolsi tutto quello che avevo addosso – lui per fortuna evitò di aiutarmi e di toccarmi – e mi coricai sul letto.
Mi sentivo assurda e stupefacente.
Si avvicinò al letto a guardarmi, facendo smorfie vagamente ridicole per lo stupore. Chissà se il mio corpo gli comunicava la stessa spudoratezza del suo a me… Chissà se avrebbe voluto trasformarmi in una ragazza rassicurante con una libido non complicata dalla vergogna, una ragazza che non desse risposte sarcastiche, non disponesse di un certo vocabolario, né del minimo interesse per l’idea di ordine universale, una ragazza pronta a vezzeggiarlo e basta, insomma… Ridacchiavamo tutti e due. Mi puntò un dito su un capezzolo come se fosse una spina e volesse capire quanto pungeva.
A volte ci parlavamo usando un linguaggio che si ispirava al fumetto Pogo.
– Ma te lo sai che sei proprio una gran bella ragassa?
– Ce l’ho tutte le cosine belle al posto giusto, secondo te?
– Ah, beh, devo prendere il mio libro e guardarci, per dirtelo.
– Non è che per caso questa terza tettina ti spiace, no?
– Perché, non ce l’hanno tutte le signorine, la terza tettina? Sai, è che la mamma mi fa uscire poco, di casa.
– Eh, pare proprio…
– Shh!
Udimmo la voce di sua madre da fuori: dava la buonanotte a qualcuno che l’aveva accompagnata a casa. La portiera dell’auto si chiuse. I casi erano due: o la riunione dell’Ordine era finita prima del solito, oppure avevamo passato piú tempo di quanto pensassimo a discutere, prima di salire.
Jerry mi trascinò giú dal letto e fuori dalla stanza mentre cercavo ancora di radunare i vestiti. – Nell’armadio, – gli sibilai. – Posso nascondermi… nell’armadio… vestirmi.
– Zitta, – mi supplicò, bisbigliando anche lui, furibondo e quasi con le lacrime agli occhi. – Zitta, sta’ zitta! – Era bianco come un cencio, tremava, ma era forte, per essere Jerry Storey. Io lottavo e mi tiravo indietro, protestavo, continuavo a cercare di convincerlo che dovevo rientrare in possesso dei miei vestiti e intanto lui mi trascinava giú per le scale di servizio. Aprí la porta della cantina nell’attimo in cui sua madre apriva quella di casa – sentii il suo giocondo: «C’è nessuno in caa…sa?» –, mi spinse dentro e richiuse col catenaccio.
Eccomi qui, sola, chiusa in un sotterraneo, nuda.
Jerry accese la luce affinché potessi orientarmi, e subito la rispense. Non fu una buona idea. La cantina pareva ancora piú nera. Mi sedetti adagio sul gradino; sentivo sotto le natiche nude una tavola di legno freddo e scheggiato. Cercai di farmi venire in mente un modo qualsiasi per tirarmi fuori di lí. Appena mi fossi abituata al buio forse potevo individuare le finestre e cercare di forzarne una, ma a cosa sarebbe servito, considerando che ero nuda? Magari riuscivo a rimediare una vecchia tenda logora o un pezzo di tela cerata da buttarmi addosso, ma come pensavo di entrare poi in casa mia, in quelle condizioni? Come pensavo di attraversare Jubilee, stradone compreso, poco oltre le dieci di sera?
Era possibile che Jerry venisse a liberarmi, quando sua madre si addormentava. In tal caso, quando arrivava, lo ammazzavo.
Li sentii parlare prima in soggiorno, poi in cucina. Jerry e sua madre. – Va a dormire presto perché spera che le venga la pelle bella? – disse lei, prima di scoppiare a ridere in modo malevolo, mi sembrò. Lui la chiamava per nome, Greta. Dio, quanto mi pareva artificioso e malato. Sentii un acciottolio di tazze e tegami. Cioccolata serale, panini all’uvetta tostati. Mentre io ero chiusa al freddo, nuda, in quel buco di cantina. Jerry e il suo quoziente intellettivo. Il suo gran cervello e la sua idiozia. Se sua madre era tanto moderna e sapeva che nessuna di noi ragazze di oggi era piú vergine, come mai me ne dovevo stare relegata là sotto? Quanto li odiavo. Pensai di mettermi a battere sulla porta. Gli sarebbe stato solo bene. Che voglia di dire a sua madre che pretendevo un matrimonio riparatore.
Gli occhi si abituarono al buio, almeno un po’, e quando udii un rumore come di vento seguito da un coperchio che si chiude, già stavo guardando nella direzione giusta e vidi qualcosa spuntare dal soffitto dello scantinato. Uno scivolo per la biancheria, da cui precipitò una cosa chiara che, con un tonfo attutito, atterrò sul pavimento. Scesi pianissimo le scale mettendo i piedi sul cemento gelido, pregando che fossero i miei vestiti, e non solo un mucchio di panni sporchi che la madre di Jerry aveva buttato giú per il bucato.
Erano la mia camicetta, la maglia, la gonna, mutande, calze e reggiseno, e perfino la giacca che avevo appeso nell’armadio dell’ingresso, tutti avviluppati intorno alle scarpe, per attutire il rumore. A parte il reggicalze, era arrivato tutto a destinazione. Ma senza quello non potevo mettermi le calze, perciò le arrotolai e me le infilai nel reggiseno. A quel punto, vedendoci ormai abbastanza bene, riconobbi i mastelli sopra i quali si distingueva una finestra, chiusa in basso con un gancio. Montai su un mastello, feci scattare il gancio e mi arrampicai fuori, nella neve. Qualcuno aveva acceso la radio in cucina, forse per coprire il rumore che facevo, o forse solo per ascoltare il notiziario delle dieci.
Corsi a casa a gambe nude nel freddo delle strade. Adesso ero furibonda, al pensiero di me spogliata su quel letto. Con nessuno a guardarmi, a parte Jerry che sghignazzava spaventato e mi parlava come un fumetto. Ecco a chi mi ero ridotta a offrirmi. Non avrei mai avuto un amante vero.
L’indomani a scuola Jerry venne a cercarmi, con un sacchetto di carta marrone.
– Scusi, sa, bella ragassa, – mormorò nella solita parlata comica, – mi sa che c’ho qui delle robine sue personali.
Il mio reggicalze, ovviamente. Smisi di odiarlo. Percorrendo la discesa di John Street dopo la scuola, trasformammo la serata precedente in una grandiosa scena comica, un numero frenetico e pazzoide da film muto.
– Io ti tiravo giú da quelle scale con tutta la forza e tu spingevi in senso opposto…
– Non capivo cosa volevi fare. Ho pensato che mi volessi buttare fuori in strada come l’adultera colta in flagrante…
– Dovevi vedere la tua faccia, quando ti ho spinta giú in cantina.
– Dovevi vedere la tua, quando hai sentito la voce di tua madre.
– Terribilmente intempestivo, maman, – disse Jerry, sfoderando l’accento britannico che usavamo per scherzo qualche volta, – ma si dà il caso che una giovane ospite di sesso femminile, e ignuda, si trovi nel mio letto. Ero sul punto di effettuare una ricogni…
– Non eri sul punto di effettuare un bel niente.
– Se lo dici tu.
Cosí lasciammo perdere e, stranamente, dopo quel disastro, riuscimmo a intenderci molto meglio di prima. Trattavamo il corpo dell’altro con un misto di diffidenza e intimità, senza avanzare piú alcuna pretesa. Niente piú interminabili struggenti abbracci, niente piú lingue in bocca. E poi, avevamo altro a cui pensare; ci arrivarono i moduli da compilare per gli esami della borsa di studio, i programmi dei corsi di svariate università, cominciammo a non veder l’ora che fosse finalmente giugno, quando avremmo affrontato gli scritti, con un misto di piacere e di terrore. Niente di quello che avevamo incontrato sul percorso della vita reggeva il confronto con l’importanza di quegli esami, spediti dal ministero dell’Istruzione, in buste sigillate: il preside della scuola avrebbe rotto il sigillo davanti ai nostri occhi. Dire che studiavamo non descrive lontanamente l’addestramento che ci autoinfliggemmo, al quale ci sottoponemmo come atleti. Non ambivamo solo a voti alti, a vincere la borsa ed entrare all’università; noi volevamo il massimo del massimo, la gloria, la gloria, il colmo dell’eccellenza scolastica, la sicurezza, finalmente.
Dopo cena mi chiudevo in soggiorno. Era quasi primavera, le sere si andavano allungando, accendevo le luci sempre piú tardi. Ma non badavo a niente, registravo solo, senza nemmeno saperlo, gli oggetti nella stanza che era diventata la mia cella, il mio santuario. Il disegno sbiadito del tappeto, color paglia lungo le cuciture, la vecchia radio non funzionante, simile a una lapide con le sue lancette che promettevano Roma, Amsterdam e Città del Messico, il divano verde muschio e i quadretti – quello dello Château de Chillon, che incombe cupo sulle acque iridate del lago, e l’altro della bimbetta sdraiata su due seggiole spaiate, in un chiarore roseo, con i genitori in lacrime nell’ombra e un dottore che la osserva calmo, ma senza ottimismo. Tutto questo che fissavo tanto spesso, ripetendo verbi, date, battaglie, specie vegetali, assumeva significato, potere ammonitorio, come se ciascuna di quelle sagome e di quelle strutture disegnasse in realtà il contorno delle relazioni e dei fatti di cui mi ero impadronita e che, una volta acquisiti, erano diventati belli, facili, disciplinati. Da quella stanza emergevo pallida, esausta, incapace di un solo pensiero come una monaca dopo ore e ore di preghiera, o come un’amante, forse, dopo un’estenuante dedizione, e mi incamminavo lungo la via maestra, fin da Haines’, dove Jerry e io eravamo d’accordo di incontrarci alle dieci. Sotto le lunette in vetro color ambra bevevamo caffè fumando sigarette, e parlavamo un po’, affiorando a poco a poco in superficie, capaci di comprendere e apprezzare l’aria sbattuta e irriducibile dell’altro.
Il mio bisogno d’amore si era inabissato, come un subdolo mal di denti.
Quella primavera ci sarebbe stato un grande raduno religioso nella sala del municipio. Mr Buchanan, il nostro insegnante di storia, si piazzò in cima alle scale del liceo, a distribuire distintivi con su scritto Vieni, Gesú ti aspetta. Era un anziano della Chiesa presbiteriana, non della battista, cioè di quella piú attiva e impegnata nell’allestimento del raduno; tutte le chiese, comunque, a eccezione della cattolica e forse dell’anglicana – talmente piccole da non fare alcuna differenza –, contribuivano all’iniziativa. Quel genere di raduni si andava riaffermando in tutto il paese.
– Non vorresti un distintivo, Del, – disse Mr Buchanan, non in tono di domanda ma con la solita inflessione ferale e monocorde. Alto, secco e magro come un chiodo, capelli spartiti in mezzo come un ciclista di inizio secolo – del resto gli anni per esserlo stato ce li aveva –, con una metà dello stomaco asportata per via delle ulcere, mi sorrideva con la velata ironia nervosa che destinava a certi personaggi storici (Parnell, per fare un esempio) che avevano raggiunto grandi cose per un certo periodo ma che avevano finito per strafare. Per il gusto di contrastarlo, perciò, mi sentii in dovere di rispondere: – Sí, certo, grazie mille.
– Hai intenzione di andarci? – chiese Jerry.
– Certamente.
– Perché?
– Per soddisfare una curiosità scientifica.
– Ci sono cose che non valgono nessun tipo di curiosità.
Il raduno si teneva nella sala al primo piano del palazzo municipale, dove una volta mettevamo in scena le operette della scuola. Era la prima settimana di maggio; era arrivato all’improvviso il caldo. Succedeva sempre cosí, subito dopo l’alluvione annuale. Prima delle otto la sala era già gremita. Lo stesso tipo di folla che si incontrava alla parata del 12 luglio, o alla fiera di Kinsmen: molte persone del paese, ma decisamente di piú dalla campagna. Macchine schizzate di fango erano allineate lungo tutta la via maestra e le strade laterali. C’erano uomini in pesanti completi neri, qualche signora col cappello. Altri, invece, in tuta da lavoro pulita, e donne in semplici abiti fantasia, scarpe comode e braccia nude, rosee e tonde come prosciutti, con in collo bebè fasciati nelle loro copertine. E vecchi, da sostenere o spingere sulle sedie a rotelle. Stanati da cucine di campagna, indossavano panni che parevano aver fatto la muffa. Mi domandavo se, guardandoli bene, si sarebbe potuto stabilire da quale zona del paese provenissero. Jerry e io, osservando dalle finestre del laboratorio di scienze i ragazzi che salivano sui tre autobus della scuola (sgargianti ferrivecchi che parevano pronti a inerpicarsi su una strada di montagna in Sudamerica, con polli vivi starnazzanti dai finestrini), facevamo spesso quel gioco, assumendo toni sofisticati e moralistici e mettendo su l’aria da sociologi.
– Quelli di Blue River sono tutti ben vestiti e sembrano persone perbene. Molti oriundi olandesi, grandi lavoratori, in quella zona. Gente che va dal dentista.
– Livello pressoché urbano.
– Da St-Augustine arriva gente piú modesta. Agricoltori. Grossi denti gialli. Si direbbe che esagerino con il porridge.
– Da Jericho Valley vengono gli idioti e i potenziali delinquenti. Quoziente intellettivo sempre sotto il cento. Strabismo, piede torto…
– Labbro leporino.
– Cifosi.
– Il problema è l’endogamia. Padri con figlie. Nonni con nipoti. Fratelli con sorelle. Madri coi padri…
– Madri coi padri?
– Oh, non sai quel che si inventano, da quelle parti; è terribile.
I posti a sedere erano tutti occupati. Mi misi in fondo in piedi, dietro l’ultima fila di sedie. C’era ancora gente che entrava, affollando i lati della sala e riempiendo lo spazio alle mie spalle. I ragazzi sedevano sui davanzali delle finestre. Queste ultime erano spalancate al massimo, ma faceva lo stesso molto caldo. Il sole basso picchiava sui muri vecchi, pieni di crepe e di chiazze, sull’intonaco e il legno delle rivestiture. Non mi ero mai resa conto che fosse tanto malconcia, quella sala.
Mr McLaughlin della Chiesa unita recitò la preghiera d’apertura. Suo figlio Dale era scappato di casa da molto tempo. E adesso, dov’era? Tosava erba in un campo da golf, secondo le ultime notizie. Mi sembrava di aver vissuto un’intera vita a Jubilee: gente che andava e veniva, si sposava, ricominciava da capo, mentre io continuavo con la scuola, e basta. C’era Naomi, con le ragazze del caseificio. Si erano fatte tutte i capelli allo stesso modo, raccolti con un fiocco in due piccole crocchie dietro le orecchie.
Quattro negri, due donne e due uomini, salirono sul palco, e tutti quanti allungarono il collo, in un silenzio ammirato. Molti dei presenti, me compresa, non avevano mai visto un negro, come d’altronde una giraffa, un grattacielo o un transatlantico. Uno di loro era sottile, nero-violaceo, asciutto, e aveva una voce possente che faceva paura: era il basso. Il tenore era grasso e giallo di carnagione, sorridente, benevolo. Le donne erano tutt’e due forti di girovita, color caffè, e fasciate in splendidi abiti verde smeraldo, blu elettrico. Il sudore colava sui loro colli e sui volti mentre cantavano. Durante la canzone il predicatore, riconoscibile dalla faccia che da settimane era incollata ai pali del telefono e appesa nelle vetrine dei negozi – anche se piú minuta, grigia e stanca di quel che suggeriva la foto –, avanzò dimesso sul palco e prese posto dietro il leggio, volgendosi verso i cantanti con un’espressione di quieta ammirazione, levando in alto il viso, come se, di fatto, il loro canto lo bagnasse di pioggia.
Un giovane, un ragazzo, dal lato opposto della sala continuava a guardarmi. Non mi pareva di averlo mai visto prima. Non molto alto, carnagione scura; faccia affilata, occhiaie profonde, guance appena incavate, espressione seria e inconsapevolmente arrogante. Alla fine del canto dei negri lasciò la postazione sotto le finestre e sparí tra la folla in fondo al locale. Subito pensai che sarebbe venuto a mettersi accanto a me. Poi pensai che era una stupidaggine, come un colpo di scena in un’opera lirica, o una di quelle atroci canzoni d’amore, molto commoventi.
Si alzarono tutti, scollando il cotone sgualcito dalle schiene sudate, e il primo inno attaccò.
Into a tent where a gypsy boy lay
Dying alone at the close of the day
News of Salvation we carried; said he
Nobody ever has told it to me –
Desideravo con tutte le mie forze che venisse. Mi concentrai al massimo in una specie di preghiera laica, convocandolo mentalmente accanto a me mentre mi dicevo adesso fa il giro da dietro, adesso va verso la porta, adesso scende le scale…
Un cambiamento nel volume delle voci alle mie spalle mi confermò che era lí. La gente si era fatta da parte, si era formato uno spazio che conteneva un corpo ma senza piú il canto. Sentii l’odore della sua camicia di cotone sottile, caldo, di pelle bruciata dal sole, sapone e olio per macchine. La mia spalla si sentí toccare dal suo braccio (era una vampa di fuoco, proprio come dicono) e, infine, lui prese posto in silenzio di fianco a me.
Fissavamo entrambi il palcoscenico. Il ministro battista aveva presentato il predicatore e questi aveva iniziato a parlare, col suo tono cordiale, disinvolto. Dopo un po’ appoggiai la mano sullo schienale della sedia che avevo di fronte. Ci stava seduta una bambina tutta chinata in avanti a tormentarsi una crosta sul ginocchio. Poggiò anche lui la mano sullo schienale a pochi centimetri dalla mia. A quel punto fu come se l’intero mio corpo col suo potenziale di vita e speranza si incanalasse in quell’unica mano.
Il predicatore, che era partito tanto bonariamente, da dietro il leggio cominciò a poco a poco a scaldarsi e a misurare su e giú il palcoscenico ricorrendo a toni sempre piú energici, sconfortati, dolenti. Emergeva di quando in quando dall’abisso della sua sofferenza, per ruggire come un leone direttamente rivolto al pubblico. Evocò l’immagine di un ponte sospeso di corda come quelli che, disse, aveva visto ai tempi in cui era missionario in Sudamerica. Il ponte, esile e ondeggiante, sovrastava un canyon vertiginoso pieno di fiamme. Era il Fiume di Fuoco, il Fiume di Fuoco giú in fondo, nel quale, tra guaiti, strepiti, bestemmie, annegava senza annegare mai una tormentata moltitudine i cui membri procedette a elencare: politici e banditi, giocatori d’azzardo e alcolisti, fornicatori e stelle del cinema e finanzieri e miscredenti. Ciascuno di noi, disse, aveva il suo personale ponte di corda, ondeggiante su un suo personale inferno, assicurato alle sponde del Paradiso sul lato opposto. Purtroppo il Paradiso era ciò che non ci era dato di scorgere né di sentire, talvolta nemmeno di immaginare, a causa del gran baccano e dei tormenti del pozzo in fiamme, e dei fumi del peccato sospinti ad avvolgerci da ogni lato. Come si chiamava quel ponte? Si chiamava Grazia del Signore. Proprio cosí, Grazia del Signore, ed era straordinariamente robusto; ogni nostro peccato, però, fosse esso di azione, parola, o pensiero, intaccava leggermente l’integrità della corda, la sfilacciava un po’ di piú…
E qualcuna delle vostre corde è lí lí per cedere! Qualcuna delle vostre corde ha quasi raggiunto un punto di non ritorno. Sono sfibrate a furia di peccati, divorate dal peccato, sono ridotte ormai a nient’altro che un filo! È soltanto un filo ciò che vi tiene fuori dall’Inferno! Voi tutti sapete, ciascuno di voi sa esattamente in quali condizioni versa il proprio ponte! Basta un altro piccolo morso al frutto di Satana, un altro giorno o una notte di peccato, ed è fatta, ma quando quella corda si spezza non ne avrete un’altra. In compenso un semplice filo è in grado di reggervi, se lo volete. Non crediate che Dio abbia esaurito tutti i miracoli ai tempi della Bibbia. No, vi garantisco dal profondo del cuore e della mia esperienza che ne sta compiendo anche qui e ora, in mezzo a noi. Aggrappatevi a Lui e reggetevi forte fino al Giorno del Giudizio, e non dovrete temere alcun Male!
Di norma avrei ascoltato con interesse un discorso del genere e osservato le reazioni della gente. Perlopiú, restavano calmi e soddisfatti, impassibili come se stessero sentendo una ninnananna. Mr McLaughlin, seduto sul palco, manteneva un’espressione soave e malinconica; quel genere di incitamento non faceva per lui. Il ministro battista sfoggiava un ampio sorriso, da impresario teatrale. I vecchi tra il pubblico intonavano i loro «Amen», ondeggiando dolcemente. Stelle del cinema, politici e fornicatori tra i dannati senza riscatto: alla gran parte dei presenti il pensiero giungeva come un balsamo. Adesso le luci erano accese; dalle finestre entrò qualche insetto, i primi della stagione. Si sentiva ogni tanto qualcuno scacciarli con uno schiaffetto veloce, castigato.
La mia attenzione tuttavia era distratta dalle nostre due mani sullo schienale. Spostò la sua leggermente. E io la mia. Ancora. Finché la pelle sfiorò appena la pelle, esplicitamente, si ritrasse, tornò alla carica, si fermò, premette. Eccoci. I mignoli si accarezzavano, il suo prese posizione sul mio. Un tentennamento, la mia mano si apre, il suo mignolo si avvicina al mio anulare, lo aggancia, e cosí via, per gradi di un’assoluta, ineluttabile formalità, un misto di reticenza e certezza. Poi la sua mano coprí infine la mia. Raggiunto questo traguardo, me la sollevò dalla sedia e la tenne cosí, in mezzo a noi. Mi sentivo beata di gratitudine, davvero come se avessi raggiunto un livello diverso di esistenza. Avevo la sensazione che non occorresse nient’altro, che non esistesse ulteriore possibile intimità.
L’ultimo inno.
I love to tell the story,
’Twill be my theme in Glory,
To tell the old, old story –
I negri ci conducevano, tutti tranne il piccoletto piú scuro, incitandoci, sospingendo in alto le voci con i gesti delle braccia. Cantando, la gente ondeggiava. Un afrore acre di sudore, come di cipolle, odore di cavallo, di sterco di maiale, la sensazione di essere afferrata, legata, trascinata via; stanca, con una felicità ferale che si alzava nell’aria a mo’ di nuvola. Avevo rifiutato i fogli del testo che Mr Buchanan e altri addetti della chiesa distribuivano in giro, ma ricordavo le parole a memoria e cantai. Avrei cantato qualunque cosa.
Quando l’inno finí, tuttavia, lui mi lasciò la mano e si spostò, unendosi a una folla che si dirigeva compatta verso la parte anteriore della sala, in risposta a un invito che li incoraggiava a prendere una decisione per Gesú, firmare un patto, o rinnovarlo, concludere la serata con l’ufficializzazione di un traguardo raggiunto. Non mi passò per la mente che intendesse fare una cosa simile. Pensai che fosse andato a cercare qualcuno. C’era una gran confusione e, nel giro di un attimo, lo persi di vista. Mi voltai e mi feci strada fuori della sala, giú per le scale, girandomi piú volte indietro per controllare se riuscivo a vederlo (ma pronta a fingere di aspettare qualcun altro, se l’avessi visto guardarmi). Mi attardai sulla via maestra, fermandomi davanti alle vetrine. Non venne.
Questo succedeva il venerdí sera. Per tutto il sabato e la domenica il pensiero di lui mi si piantò in testa come una rete da circo tesa sotto qualunque altra cosa di cui dovessi occuparmi sul momento. Non facevo che lasciare la presa e ruzzolarci dentro. Mi sforzavo di ricreare l’esatta consistenza della sua pelle a contatto con la mia, cercando di ricordare con precisione la diversa pressione di ogni dito. Mi spalancavo la mano tesa davanti e mi sorprendevo per quanto poco avesse da comunicarmi. Risultava generica come certi oggetti conservati nei musei dopo essere passati nelle mani di re. Tornavo ad analizzare quell’odore, separandone gli elementi noti da quelli ignoti. Lo rivedevo come mi era apparso al fondo della sala, anche perché da quando si era venuto a mettere al mio fianco non l’avevo piú visto, in realtà. La sua faccia scura, circospetta, chiusa. Quella sua faccia conteneva, ai miei occhi, il potenziale completo di crudeltà e dolcezza, superbia e remissività, violenza e riservatezza. Non vi trovai mai niente di piú di quanto avessi visto quella prima volta, perché avevo già visto tutto allora. Tutto quello che di lui avrei amato, senza mai saper comprendere né spiegare.
Non sapevo come si chiamava, da dove veniva e nemmeno se l’avrei mai piú incontrato.
Lunedí, dopo la scuola, passeggiavo sulla discesa di John Street con Jerry. Un clacson ci sorprese e, da un vecchio furgone incrostato di polvere, sbucò quella faccia. Immutata, anche nell’impatto, nonostante la luce del giorno.
– Quello dell’enciclopedia, – dissi a Jerry. – Deve darmi dei soldi per mia madre. Vado a parlargli. Tu va’ pure.
Frastornata dalla sua ricomparsa attesissima ma insperata, da quella robusta intrusione della dimensione leggendaria nel reale, montai sul furgone.
– Lo pensavo, che andassi ancora a scuola.
– Ho quasi finito, – mi precipitai a dire. – Sono all’ultimo anno.
– Meno male che ti ho vista. Devo tornare al deposito. Come mai non mi hai aspettato l’altra sera?
– Dov’eri andato? – chiesi, come se non l’avessi visto da me.
– Dovevo andare là davanti. C’era cosí tanta gente.
Mi resi conto che l’espressione «Dovevo andare là davanti» stava per «andare a firmare un patto, o farsi salvare dal predicatore». Era tipico di lui, non dirlo in modo piú esplicito di cosí. Non spiegava mai niente, a meno di non essere obbligato. Quello che gli cavai sul suo conto, quel primo pomeriggio sul furgone, ma anche in seguito, era un breve elenco di semplici fatti, elargiti solo in risposta a domande. Si chiamava Garnet French, abitava in una fattoria oltre Jericho Valley ma lavorava a Jubilee, al deposito di legname. Era stato quattro mesi in carcere, due anni prima, per aver preso parte a una tremenda rissa fuori della birreria di Porterfield, in cui un uomo aveva perso un occhio. In carcere gli aveva fatto visita un pastore battista che l’aveva convertito. Aveva lasciato la scuola dopo le medie, ma aveva potuto seguire un paio di corsi di liceo quando era in galera perché si era messo in mente di studiare teologia e fare il pastore battista pure lui. Parlava di quell’obiettivo con distacco ormai. Aveva ventitre anni.
Il primo posto dove mi invitò fu a un incontro dell’Associazione giovani battisti. O forse nemmeno un invito, disse soltanto: – D’accordo, allora passo a prenderti dopo cena –. Venne in macchina fino a casa mia e mi portò, confusa e ammutolita, nell’ultimo posto di Jubilee dove avrei mai sognato di trovarmi, fatta forse eccezione per il bordello.
Era questo che avrei fatto ogni lunedí sera per tutta la primavera e l’inizio dell’estate: starmene seduta in un banco a metà della chiesa battista, senza mai abituarmi all’idea, sempre stupefatta e isolata come un naufrago. Non mi domandò mai se volevo essere lí, che cosa ne pensavo quando c’ero, niente. Una volta in effetti disse: – È probabile che sarei finito dentro di nuovo, se non era per la Chiesa battista. Non so altro, ma mi basta.
– E perché?
– Perché avevo preso il vizio delle risse e del bere.
Dietro certi banchi della chiesa c’erano appiccicate delle vecchie gomme da masticare, nero-argentee e dure come il ferro. La chiesa aveva un odore acido, come di cucina pulita con acqua grigia di risciacquatura, e gli strofinacci appesi ad asciugare sulla stufa. All’Associazione giovani non erano tutti giovani. C’era una tizia di nome Caddie McQuaig che lavorava alla macelleria di Monk; ficcava pezzi di carne cruda nel tritacarne, tagliava ossa di bue con una sega, eternamente fasciata in un grembiule bianco sporco di sangue, grossa e gioviale come Dutch Monk in persona. Alle riunioni si presentava in abito di organza a fiori, mani lustre sull’armonium, collo rosso messo a nudo dalla sfumatura alta, espressione mite e concentrata. C’era una coppia di fratelli, Ivan e Orrin Walpole, bassi, viso scimmiesco, bravi nelle acrobazie ginniche. E poi una ragazza pettoruta, dalla faccia rubiconda, che aveva lavorato con Fern Dogherty all’ufficio postale; Fern la chiamava sempre Santa Betty. Qualche ragazza dell’emporio Chainway, con il loro colorito spento, da emporio Chainway, lo stipendio miserrimo, il livello sociale piú basso di tutte le commesse di Jubilee. Una di loro, non ricordavo piú quale, aveva avuto un bambino, si diceva.
Garnet era il presidente. Qualche volta conduceva una preghiera, attaccando con voce ferma, virile: «Padre Nostro, Signore del Cielo…» Il caldo precoce di maggio era rientrato, e una fredda pioggia primaverile scrosciava sui vetri delle finestre. Avevo la sensazione stranita e fiduciosa di trovarmi in un sogno dal quale presto mi sarei svegliata. A casa, sul tavolo del soggiorno, avevo lasciato i libri aperti e la poesia Andrea del Sarto che stavo leggendo prima di uscire e che ancora mi girava in testa:
Un comune grigiore inargenta ogni cosa,
in un solo imbrunire, tu ed io allo stesso modo…
Dopo quello che veniva definito il culto devozionale, si scendeva nello scantinato della chiesa dove c’era un tavolo da ping-pong. Si organizzavano partite. Caddie McQuaig e una delle commesse di Chainway scartavano i tramezzini preparati a casa e facevano la cioccolata calda su una piastra elettrica. Garnet insegnava a tutti come si gioca a ping-pong, incoraggiava le ragazze di Chainway che davano l’impressione di sapere a malapena tenere in mano la racchetta, scherzava con Caddie McQuaig che, appena scesa nello scantinato, tornava chiassosa come quando stava in macelleria.
– Mi fa paura vederti seduta su quello sgabellino, Caddie.
– Come, come? Che cos’è che ti fa paura?
– Vederti seduta sullo sgabellino dell’organo. Mi sembra troppo piccolo.
– Cos’è? Hai paura che mi sparisca da sotto? – La sua voce era forte, offesa, divertita; il viso, rosso come carne cruda.
– Ma… Caddie! Chi ha mai pensato una cosa simile? – disse Garnet, con aria mortificata, rincresciuta.
Io sorridevo a tutti ma ero gelosa, inorridita, non vedevo l’ora che finisse tutto quanto, che si lavassero le tazze della cioccolata, si spegnessero le luci in chiesa e Garnet mi scortasse fuori, al furgoncino. Poi viaggiavamo sulla strada fangosa che arrivava a casa di Pork Childs («Pork è un amico, se dovessi impantanarmi verrebbe a tirarmi fuori con una catena», disse Garnet, e il pensiero di trovarmi alla pari, socialmente parlando, con Pork Childs, che naturalmente era un battista, produceva in me quello sprofondamento del cuore che ormai conoscevo molto bene). A quel punto niente contava piú. Lo straniamento, l’eterno imbarazzo e la noia mortale della serata svanivano nella cabina del furgone, nell’odore dei vecchi sedili separati, e di mangime per polli, alla vista delle maniche arrotolate sugli avambracci di Garnet, e delle sue mani, sciolte e sapienti sullo sterzo. La pioggia nera sui finestrini chiusi ci proteggeva. Oppure, quando la pioggia cessava, abbassavamo i vetri per inalare l’aria rancida e molle in riva al fiume invisibile, l’odore di mentuccia calpestata dalle ruote del furgone, nel punto in cui accostavamo per fermarci. Ci infilavamo di muso tra gli arbusti, che graffiavano il cofano. Il furgone si bloccava con un ultimo piccolo sobbalzo che pareva un segnale di traguardo raggiunto, di permesso, con le luci che si insinuavano fioche dentro il buio fitto, poi uscivamo, e Garnet si voltava verso di me quasi con un singulto analogo, lo stesso sguardo serio e vacuo, e procedevamo, nell’aperta campagna dove la sicurezza era completa, senza muovere un solo passo che non ci inebriasse; nessuna delusione era possibile. Solo quando mi era capitato di star male, con la febbre, avevo provato una sensazione simile di galleggiamento, un misto di languore, vulnerabilità e potere assoluto. Ci stavamo per ora solo avvicinando al sesso, fra ricognizioni, ritirate e tentennamenti, e non certo perché avessimo paura o perché ci fossimo imposti una sorta di veto sull’«andare troppo in là» (una formula tanto esplicita, da quelle parti, e con Garnet, era pressoché inconcepibile) ma perché, come nel gioco delle mani sullo schienale della sedia, ci sentivamo in dovere di non precipitare le cose, di ricorrere a temporanee ritirate, schive e rispettose, di fronte a quell’immensa dose di piacere. La parola stessa, piacere, non era piú la stessa, per me; l’avevo sempre considerata modesta, destinata a indicare un blando abbandono; adesso mi pareva deflagrante, con quella prima consonante pronta a esplodere come un fuoco d’artificio e la successiva, dolce e umida come un bacio.
Dopo gli incontri al fiume, tornavo a casa e non riuscivo a dormire a volte fino all’alba, non per una tensione rimasta insoddisfatta, come si potrebbe credere, ma perché dovevo ricapitolare, non potevo lasciar scorrere inosservati gli immensi doni che avevo ricevuto, gli strabilianti premi inattesi: labbra posate sui miei polsi, o sull’incavo del gomito, le spalle, il seno, mani sopra la pancia, sulle cosce, tra le gambe. Doni. Una varietà di baci, lingue che si toccano, espressioni di supplica, di gratitudine. Audacia e rivelazione. La bocca serrata esplicitamente intorno a un capezzolo sembrava promettere innocenza, inermità, e non perché imitasse quella di un neonato ma perché non aveva paura del grottesco. Il sesso mi sembrava tutta una resa – non della donna all’uomo, ma della persona al corpo, un atto di purissima fede, di libertà di mantenersi umili. Stavo lí, a godermi queste riflessioni, queste scoperte, come sospesa in acque limpide, calde e dal moto inarrestabile, per tutta la notte.
Garnet mi portava anche alle partite di baseball, a volte dopo una pioggia troppo recente. Si svolgevano di sera, sul piazzale al fondo di Diagonal Road, o nei paesi vicini. Garnet giocava in prima base per la squadra di Jubilee. L’uniforme della squadra era rossa e grigia. I campi da baseball erano tutti circondati da tribune malridotte, e cintati da tavole dipinte con le pubblicità di bibite e sigarette. Le tribune restavano ogni volta semivuote. Ci venivano i vecchi, gli stessi eternamente seduti d’estate sulla panca lunga davanti all’albergo, a giocare a dama sulla scacchiera di cemento colorato alle spalle del cenotafio, quelli che ogni primavera andavano in spedizione a controllare la piena del Wawanash e stavano lí ad annuire e fare commenti, come se avessero voce in capitolo. I ragazzini sui dieci, undici anni si sistemavano sull’erba accanto al recinto, a fumare. Spesso, dopo lunghe giornate plumbee, saltava fuori il sole, che stendeva sul campo barre di placida luce dorata. Io andavo con le donne, vale a dire qualche fidanzata e giovane moglie, che strillava saltando sulle tribune. Non riuscivo a strillare come loro. Il baseball mi sconcertava quanto la chiesa battista, ma almeno non mi metteva a disagio. Mi piaceva interpretare quel rito maschile come un preludio al nostro.
Continuavo a studiare, le altre sere. Imparavo un mucchio di cose, non avevo dimenticato come si faceva. Ma mi perdevo in sogni a occhi aperti che duravano delle mezzore. Incontravo ancora Jerry da Haines’.
– Mi spieghi perché esci con quell’uomo di Neanderthal?
– In che senso, Neanderthal? È un Cro-Magnon, cosa credi! – rispondevo allegra, vergognandomi della slealtà.
Ma Jerry non aveva molto tempo da dedicarmi. Erano in ballo decisioni importanti per il suo futuro. – Se vado alla McGill… – diceva. – E d’altra parte, se invece vado a Toronto… – La borsa che probabilmente avrebbe vinto reclamava il suo impegno, e intanto gli toccava anche guardare avanti; quale ateneo gli dava migliori garanzie per accedere a un’università di eccellenza negli Stati Uniti? Mi mostravo interessata. Studiavo i programmi, confrontavo le alternative insieme a lui, rigirandomi in testa i dettagli struggenti del mio ultimo incontro con Garnet.
– Ci vai ancora all’università, spero.
– Perché non dovrei?
– Sarà meglio che tu faccia attenzione, in questo caso. Guarda che non faccio del sarcasmo. E non sono geloso. Penso solo al tuo bene.
Ci pensava anche mia madre. – Conosco la famiglia French. Stanno su, oltre Jericho Valley. Non credo ci sia una campagna piú povera e sperduta sulla faccia della terra –. Non le avevo detto niente dell’Associazione giovani battisti ma venne a saperlo lo stesso. – Non mi capacito, – disse. – Secondo me ti ha dato di volta il cervello.
Risposi: – Non posso andare dove mi pare?
– Hai perso la testa per un ragazzo. Tu, con la tua intelligenza. Hai intenzione di stabilirti a Jubilee per tutta la vita? Ti piace l’idea di sposare un operaio della segheria? Vuoi iscriverti al Volontariato battista femminile?
– No!
– Beh, cerco solo di aprirti gli occhi. Per il tuo bene.
Quando Garnet veniva in casa lo trattava cortesemente, gli faceva domande sul commercio di legname. Lui la chiamava ’Gnora, proprio come facevamo io e Jerry quando imitavamo la gente di campagna. «In realtà, ne so poco o niente, ’gnora», rispondeva, educato e sicuro di sé. Qualsiasi tentativo di costringerlo a questi discorsi generici, ogni sforzo di farlo ragionare in questo modo, per teorie e sistemi, suscitava in lui un’espressione vacua, leggermente indignata e altera. Detestava chiunque usasse un linguaggio forbito, o parlasse di cose che esulavano dalla loro vita. Detestava quelli che volevano trarre conclusioni a tutti i costi. Poiché era stato uno dei miei passatempi preferiti, come mai non detestava anche me? Forse gli nascondevo bene la mia vera natura. O, piú probabilmente, lui mi rimodellava a suo piacere, prendendo di me solo quello che gli andava a genio. Io con lui lo facevo. Adoravo il suo lato oscuro, insolito, quello che non conoscevo, non certo il battista redento; o meglio, vedevo il battista di cui andava tanto fiero come una maschera che indossava ma di cui poteva facilmente liberarsi. Cercai di farmi raccontare della rissa davanti alla birreria di Porterfield, e di quando era in galera. Mi concentravo sulla vita dei suoi istinti, non delle sue idee.
Cercai di fargli dire perché fosse venuto vicino a me, la sera del raduno religioso.
– Mi piacevi fisicamente.
Era il massimo che aveva da offrirmi, in fatto di dichiarazione d’amore.
Del resto niente che potessimo dire ci avrebbe mai uniti; le parole ci erano di ostacolo. Quello che sapevamo l’uno dell’altra si sarebbe appannato, a parole. Si trattava di una conoscenza che va sotto il nome di «puro sesso» o «attrazione fisica». Ero stupefatta, allora come adesso, quando pensavo al tono leggero per non dire sbrigativo con cui se ne parlava, quasi fosse una cosa in cui ci si imbatte facilmente, di continuo.
Mi portò a conoscere i suoi. Era una domenica pomeriggio. Gli esami cominciavano il lunedí. Dissi che avevo pensato di studiare e lui rispose: – Ma non puoi. Mamma ha già ammazzato due galline.
La persona che avrebbe potuto studiare in effetti era già perduta, relegata chissà dove. Non riuscivo a seguire il filo di nessun libro, a mettere una parola dopo l’altra, con Garnet nella stanza. Era tanto se riuscivo ancora a leggere i cartelli stradali, quando eravamo in macchina. Era l’esatto opposto di quando uscivo con Jerry e vedevo un mondo ricco e complesso ma cosí terribilmente privo di segreti; il mondo che vedevo con Garnet non era lontano da quello che pensavo osservassero gli animali, vale a dire un mondo senza nomi.
Avevo già percorso la strada di Jericho Valley, in macchina con mia madre. In certi punti era appena larga abbastanza per il furgone. Un roveto di rosa canina spazzolava la carrozzeria. Procedemmo per miglia nel fitto della vegetazione. Arrivammo a una ceppaia. Me la ricordavo, mi ricordavo di mia madre che diceva: «Una volta era tutto cosí, il paese. Da queste parti non hanno fatto grandi progressi dai tempi dei pionieri. Magari sono scansafatiche. O forse il terreno non vale la pena. O forse tutt’e due le cose messe insieme».
Rovine di una casa e un fienile bruciati.
– Ti piace casa nostra? – disse Garnet.
Quella vera era costruita in un avvallamento, circondato da alberi cosí alti che non si vedeva tutto l’edificio, ma solo un tetto a scandole marroni sbiadite e la veranda tinteggiata di giallo in tempi cosí remoti che ormai erano rimaste giusto delle strisce dipinte sul legno scheggiato. Mentre entravamo con l’auto nel cortile e sterzavamo di lato, si levò uno scompiglio improvviso di galline e due grossi cani arrivarono uggiolando a buttarsi con le zampe contro i finestrini aperti del furgone.
Due bambine, di circa nove e dieci anni, saltavano su una serie di reti da letto abbandonate in cortile da cosí tanto tempo da scolorire l’erba. Si bloccarono a fissarci. Garnet mi scortò oltre senza presentarmele. Non mi presentò a nessuno. Continuavano a sbucare membri della famiglia – non sapevo quali fossero i parenti stretti e quali invece zie, zii, cugini – che gli parlavano, lanciandomi sguardi di sottecchi. A volte scoprivo come si chiamavano ascoltandoli chiacchierare tra loro, e comunque nessuno fece mai il mio nome.
C’era una ragazza che mi pareva di aver visto a scuola. Era scalza, truccatissima e si ciondolava sdegnosa attorno a un palo della veranda. – Guarda Thelma! – disse Garnet. – Quando decide di mettersi il rossetto, ne consuma uno intero. Se un ragazzo la bacia, ci rimane attaccato. E non si scolla piú –. Thelma si gonfiò le guance incipriate e sbruffò rumorosamente.
Uscí di casa una donnetta grassa, dall’aria arrabbiata, con scarpe sportive ai piedi, senza lacci. Aveva le caviglie gonfie, perciò le gambe sembravano perfettamente cilindriche, come tubi da stufa. Fu la prima persona a rivolgermi la parola: – Tu sei la figlia della signora che vende enciclopedie. La conosco, tua mamma. Cercati un posto per sederti –. Scostò un bimbetto e un gatto dal dondolo e montò la guardia finché non mi fui accomodata. Lei sedette sul gradino e cominciò a strillare ordini e rimproveri a tutti quanti.
– Chiudi quelle galline sul retro! Prendimi un po’ di insalata, dei cipollini e qualche ravanello nell’orto. Lila! Phyllis! Piantatela di saltare! Non ce l’avete qualcosa di meglio da fare? Boyd, scendi da quel furgone! Tiralo giú da quel furgone! L’altro giorno è riuscito a ingranare la marcia ed è partito in cortile; per un pelo non prendeva in pieno la veranda.
Tirò fuori dalle tasche del grembiule un pacco di tabacco e delle cartine.
– Non sono una battista, mi piace farmi una sigaretta, ogni tanto. Tu sei battista?
– No, ci vado con Garnet.
– Garnet ha cominciato dopo che si era messo nei guai… lo sapevi, dei guai di Garnet, no?
– Sí.
– Ecco, comunque ci è entrato dopo e io non ho mai detto che non gli faccia bene, solo che hanno idee un po’ chiuse. Noi eravamo tutti, siamo, anzi, della Chiesa unita ma è un bel pezzo arrivarci in macchina e a volte io lavoro; la domenica è un giorno come tutti gli altri, in ospedale –. Disse che lavorava all’ospedale di Porterfield, come aiuto infermiera. – Tocca a me e Garnet mantenere la famiglia, – disse. – Non si campa in fattorie come questa –. Mi raccontò vari incidenti, un bambino avvelenato che era arrivato in ospedale poco tempo prima già nero e lustro come lucido da scarpe, di un tale che si era schiacciato una mano, di un ragazzo con un amo infilzato in un occhio. Mi disse di un braccio che penzolava dal gomito per un laccetto di pelle. Garnet intanto era sparito. Nell’angolo della veranda sedeva un uomo in tuta da lavoro, giallo e immenso come un Buddha, ma con un’espressione non altrettanto serafica. Continuava ad alzare le sopracciglia e a mostrare i denti in un ghigno che subito svaniva. In un primo tempo pensai che si trattasse di commenti sardonici sugli aneddoti riguardo all’ospedale; in seguito mi resi conto che era solo un tic nervoso.
Le bambine smisero di saltare sulle reti e vennero a ciondolare intorno alla madre, cosí potevano fornirle i dettagli che sennò magari le sfuggivano. I maschi cominciarono a darsele rotolandosi sulla terra dura, in silenzio, come due selvaggi, con le schiene nude scure e lisce come il rovescio di una corteccia d’albero. – Adesso vado a prendere le pentole dell’acqua bollente! – li ammoní la madre. – Vi scotenno vivi! – Una delle bambine disse: – A lei piacerebbe vedere il ruscello?
Lei ero io. Mi portarono al ruscello, un rivolo stento di acqua marrone fra pietre bianche e piatte. Mi mostrarono dove arrivava in primavera. Un anno aveva allagato la casa. Mi portarono al covone di fieno a guardare una nidiata di micini, rossi e neri, che non avevano neanche aperto gli occhi. Mi scortarono nella stalla vuota e mi indicarono che era tenuta su con travi e pali improvvisati. – Se dovesse mai capitare una burrasca di vento, la stalla viene giú di sicuro.
Percorsero tutto l’edificio saltellando sulle note di una canzoncina inventata: E la vecchia stalla cade giú, cade giú…
Mi accompagnarono in giro per la casa. Le camere erano grandi e strane, con soffitti alti e pochi mobili. C’era un letto di ottone in quello che pareva il salotto, e pile di abiti e trapunte ammucchiate negli angoli, per terra, come se la famiglia si fosse trasferita lí di recente. Molte finestre erano senza tende. Il sole filtrava nelle stanze vertiginose dagli alberi quasi fermi, chiazzando le pareti di tremule foglie d’ombra. Mi mostrarono i segni dell’alluvione, e certe foto che avevano ritagliato dalle riviste e appeso ai muri. Erano stelle del cinema, e signore in splendidi vestiti leggeri come l’aria che pubblicizzavano assorbenti igienici.
In cucina la madre puliva e lavava le verdure. – Allora, ti andrebbe di abitare qua? Sembra un brutto posto a chi abita in paese, ma a noi non manca mai da mangiare. L’aria è buona, almeno d’estate, e giú al ruscello fa un bel fresco. Fresco d’estate, riparato d’inverno. Non c’è casa in una posizione migliore, che io sappia.
Il linoleum era nero e pieno di gobbe; restavano giusto zone isolate del disegno originale sotto il tavolo e lungo le finestre dove era meno calpestato. Sentivo nel naso l’odore scialbo di pollo cotto.
Garnet aprí la porta a zanzariera, la sua sagoma scura si stagliò contro la luce del cortile. Indossava un paio di pantaloni da lavoro, e niente camicia.
– Devo farti vedere una cosa.
Uscimmo nel portico posteriore, con le sorelle al seguito, e mi disse di guardare in su. Inciso nel legno di una trave del portico c’era un elenco di nomi femminili, ciascuno con una X accanto. – Le fidanzate di Garnet! – esclamò una delle bambine, e scoppiarono tutte e due a ridere di cuore, mentre Garnet leggeva tutto serio: – Doris McIver! Suo padre era il padrone di una segheria, su, oltre Blue River. Ce l’ha ancora. Se l’avessi sposata, adesso sarei ricco!
– Bel modo di diventare ricchi! – disse sua madre, che ci aveva seguiti fino alla zanzariera.
– Dulie Fatherstone. Cattolica, lavorava alla caffetteria dell’hotel Brunswich.
– Se sposavi lei, adesso saresti povero, – commentò sua madre, ammiccante. – Lo sai, no, cosa vuole il papa dalle giovani cattoliche?
– Non ti sei fatta mancare niente neppure tu, mamma, anche senza il papa… Margaret Fraleigh. Capelli rossi.
– Non c’è da fidarsi di quei caratterini.
– Ma se era tranquilla come un pulcino. Thora Willoughby. Vendeva biglietti al Lyceum Theatre. Adesso sta a Brantford.
– Cosa vuol dire la X, ragazzo? Sta per quando hai smesso di uscirci insieme?
– Nossignora, non è per quello.
– E allora per che cosa?
– Segreto militare! – Garnet balzò sulla ringhiera del portico – mentre la madre cercava di impedirglielo, dicendo «Guarda che non lo regge, il tuo peso!» – e si mise a incidere qualcosa al fondo dell’elenco. Era il mio nome. Quando ebbe finito col nome, lo circondò di una cornice di stelle e ci tirò sotto una riga. – Credo di essere arrivato alla fine, – disse.
Staccò il coltello dal legno e saltò giú. – Baciala! – fecero sghignazzando le sorelle, e lui allora mi abbracciò. – La bacia sulla bocca. Guarda, Garnet la bacia sulla bocca! – Gli si strinsero intorno e Garnet le scacciava con una mano, senza smettere di baciarmi. Poi cominciò a farmi il solletico e io a lui; le sorelle presero le mie parti e, insieme, cercammo di incastrare Garnet sul pavimento del portico, ma lui riuscí a sfuggirci alla fine e a scappare verso la stalla. Io entrai in casa e domandai educatamente alla madre come potevo darle una mano in cucina. – Ti rovini il vestito, – disse, ma poi cedette e mi lasciò tagliare i ravanelli.
Per cena mangiammo pollo in umido, ben cotto e ammorbidito con una buona salsa, fagottini di pasta, patate («Peccato che sia troppo presto per le novelle»), focaccette tonde di farina bianca, fagioli e pomodori in conserva, svariati sottaceti fatti in casa, insalata di lattuga, ravanelli e cipollini, un dolce scuro alla melassa e confettura di more. C’erano dodici persone a tavola; le contò Phyllis. Da un lato sedevano tutti su lunghe assi appoggiate a due cavalletti, a formare una panca. Io occupavo una sedia verniciata presa a prestito dal soggiorno. L’omone giallo fu portato in casa dalla veranda e prese posto a capotavola; era il padre. Dalla stalla, insieme a Garnet, arrivò un uomo piú vecchio ma piú in gamba che raccontò di come non avesse chiuso occhio la notte prima per il mal di denti. – Meglio che non tocchi il pollo, allora, – gli disse Garnet, fingendo di preoccuparsi per lui. – Meglio che ti scaldiamo un po’ di latte e ti spediamo a letto! – Il vecchio mangiò di gusto, invece, spiegando che aveva provato a curarsi con l’olio di garofano caldo. – E magari anche qualcosa di piú forte, ci scommetto la mia fede d’oro! – disse la madre di Garnet. Ero seduta tra Lila e Phyllis, che intanto montavano per gioco una lite, rifiutando di passarsi le cose, nascondendo il burro sotto un piattino. Garnet e il vecchio raccontarono di un contadino olandese della concessione confinante che aveva sparato a un procione, scambiandolo per una belva feroce. Bevevamo tè. Zitta zitta Phyllis svitò il tappo del salino e rovesciò il sale nella zuccheriera, che passò al vecchio. La madre l’acchiappò appena in tempo. – Un giorno di questi io ti scuoio viva! – promise.
Inutile negarlo: ero felice in quella casa.
Pensai di dire a Garnet, sulla via del ritorno: «Mi piace proprio la tua famiglia», ma mi resi conto che per lui sarebbe stato un commento assurdo, non avendo mai considerato l’ipotesi che non mi piacesse, ora che ero venuta a farne parte. Pronunciare simili giudizi sarebbe apparso presuntuoso e sgarbato, ai suoi occhi.
Il furgone ci lasciò a piedi appena imboccammo la via maestra di Jubilee. Garnet scese a dare un’occhiata al motore e disse che secondo lui era la cinghia di trasmissione. Gli proposi di fermarsi a dormire da noi in soggiorno, ma capii che non gli andava affatto, per via di mia madre; sarebbe andato da un amico che lavorava al deposito con lui, disse.
Poiché il nostro arrivo a casa mia non era stato annunciato dal rumore del furgone, potemmo fare il giro di lato e buttarci contro il muro a baciarci e amoreggiare. Avevo sempre pensato che prima della completa unione dei nostri corpi ci sarebbe stata una sorta di preambolo speciale, un cerimoniale d’esordio, come il levarsi di un sipario sull’ultimo atto di una recita. Non ci fu niente del genere, invece. Quando capii che stava facendo sul serio avrei voluto sdraiarmi per terra, liberarmi delle mutande attorcigliate alle caviglie, avrei voluto sfilarmi la cintura del vestito perché il suo peso mi premeva dolorosamente la fibbia sulla pancia. Ma non ce ne fu il tempo. Allargai le gambe quanto piú possibile, compatibilmente con le mutande che mi allacciavano i piedi, e mi issai contro il muro di casa cercando di mantenermi in equilibrio. A differenza dei nostri precedenti scambi amorosi, questo richiedeva sforzo fisico e concentrazione. Per giunta mi faceva male, nonostante mi avesse già penetrata con le dita, in precedenza. Oltretutto, mi toccava pure reggergli i pantaloni, perché temevo che il bianco abbacinante delle natiche potesse tradirci e rivelare la nostra presenza a qualunque passante. Mi venne un dolore insopportabile sotto l’arco del piede. Proprio quando pensavo di dovergli chiedere di smettere, e aspettare, perché potessi almeno appoggiare il tallone a terra un istante, lui gemette schiacciandomi con violenza contro il muro, prima di crollarmi addosso, con il batticuore. Non ero in condizioni di equilibrio adatte a reggere il suo peso, perciò precipitammo entrambi, staccandoci chissà come uno dall’altra, nell’aiuola di peonie. Mi portai una mano sulla coscia bagnata e la ritirai scura. Sangue. Alla vista del sangue, la gloria dell’intero evento mi apparve inequivocabile.
Il mattino dopo andai a controllare le peonie schiacciate e, sí, per terra c’era una piccola chiazza di sangue ormai secco. Dovevo per forza farne parola con qualcuno. Dissi a mia madre: – C’è del sangue per terra, di fianco a casa.
– Sangue?
– Ho visto un gatto, ieri, che divorava un uccellino. Un gattone tigrato, non so da dove arrivasse.
– Bestiacce.
– Secondo me, dovresti venire a vederla.
– E perché? Ho di meglio da fare.
Quel giorno cominciammo gli scritti. Agli esami, oltre a me e Jerry, c’erano Murray Heal e George Klein, rispettivamente destinati alla carriera di dentista e di ingegnere, e June Gannett, il cui padre esigeva che prendesse un diploma di quint’anno per darle il permesso di sposare uno smunto impiegato della Bank of Commerce dall’aria poco raccomandabile. C’erano anche Beatrice e Marie, due ragazze che venivano dalla campagna e volevano iscriversi al magistero.
Il preside spezzò il sigillo davanti ai nostri occhi e noi controfirmammo il documento, garantendone l’integrità. Eravamo soli in tutta la scuola, perché tutte le altre classi inferiori erano già a casa per le vacanze estive. Le nostre voci e i nostri passi rimbombavano fortissimi nell’atrio. L’edificio era torrido, e odorava di vernice. I bidelli avevano sgomberato tutti i banchi da una classe per accatastarli in corridoio; stavano tinteggiando il pavimento.
Mi sentivo lontana mille miglia da tutto. Il primo scritto era Letteratura inglese. Cominciai il mio tema su L’Allegro e Il Penseroso. Capivo perfettamente la domanda ma per qualche ragione non potevo credere che fosse proprio cosí; mi pareva insensata, ambigua, sinistra come certe frasi che si sentono in sogno. Scrivevo lentamente. Di quando in quando mi fermavo, massaggiavo la fronte, mi sgranchivo le dita cercando di rimediare la sensazione di un’urgenza, ma non serviva a niente, non riuscivo ad accelerare neanche un po’. Arrivai alla fine ma non ebbi il tempo, l’energia e neanche la voglia di ricontrollare il testo. Sospettavo di aver saltato una parte della domanda, ma mi astenni volutamente dal riguardare il foglio dei quesiti per accertarmi se fosse proprio cosí.
Mi sentivo circonfusa d’importanza, di una maestosità fisica. Mi muovevo in modo languido, sottolineando un lieve, generico malessere. Mi tornava in mente di continuo la faccia di Garnet, sia nello sforzo estremo che nell’istante del trionfo, prima che crollassimo a terra. Che io potessi essere per qualcuno la fonte di tanto strazio e di un simile sollievo mi lasciava stupefatta.
Beatrice, una delle ragazze di campagna, era venuta con l’auto di famiglia, perché l’autobus della scuola non era piú in servizio. Mi invitò a bere una Coca-Cola con lei al drive-in aperto da poco – in un laboratorio di maniscalco ristrutturato e tinteggiato – nella zona meridionale del paese. Lo aveva chiesto a me perché voleva sapere come avevo risposto alle domande. Era una ragazza grande e grossa, piena di voglia di lavorare, che si metteva addosso dei camicioni di lana abbottonati davanti. Io e Naomi la prendevamo in giro perché d’inverno arrivava a scuola con la giacca piena di crini di cavallo bianchi.
– Tu come l’hai fatta, questa? – mi chiese, e lentamente lesse: Il gentiluomo inglese del diciottesimo secolo attribuiva grande valore all’eleganza formale e alla stabilità sociale. Discuti questo assunto, facendo riferimento a una composizione poetica del periodo.
Io intanto pensavo che se scendevo dalla macchina e proseguivo sul retro del piazzale di ghiaia dove avevamo posteggiato, mi sarei ritrovata sulla via che costeggiava il deposito di legname. Gli operai del deposito infatti parcheggiavano su quella strada. Se arrivavo fin là dal centro della via, avrei potuto scorgere il recinto posteriore, l’entrata, il tetto del capanno lungo e la cima di alcune cataste di legna. In paese c’erano ormai dei luminosi luoghi simbolici – il deposito, la chiesa battista, la stazione di servizio dove Garnet faceva benzina, il barbiere dove si tagliava i capelli, le case degli amici suoi – e, a collegare tutti questi posti, le strade che lui percorreva abitualmente, mi si disegnava in testa una rete di fili di luce.
Avevamo messo fine ai nostri dolcissimi palpeggiamenti iniziali, ai nostri giochi sotto la pioggia, nel furgone. Ormai facevamo l’amore sul serio. Lo facevamo sui sedili del furgone con la portiera aperta, sotto i cespugli, al buio nei prati. Cambiarono tante cose. Da principio ero insensibile, sopraffatta dall’importanza, dal nome e dall’idea di quel che facevamo. Poi ebbi un orgasmo. Sapevo che si chiamava cosí dal libro della madre di Naomi, e sapevo come doveva essere, avendo scoperto quegli spasimi da sola, qualche tempo prima, con una serie di amanti immaginari poco pazienti, per non dire smaniosi. Ma provarne uno in compagnia, per cosí dire, mi travolse; sembrava in realtà quasi una cosa troppo intima, quasi troppo privata, da trovare al cuore dell’atto d’amore. Ma presto venne a qualificarsi come il traguardo da raggiungere – non riuscivo a capacitarmi che ne avessimo potuto fare a meno, prima. Ci eravamo portati su un piano diverso, piú solido, meno miracoloso, dove il principio di causa ed effetto veniva accolto e l’amore si incanalava nel proprio corso.
Non ci scambiammo mai una sola parola, riguardo a tutto questo.
Fu la prima estate, quella, in cui io e mia madre restammo a Jubilee anziché tornare a Flats Road. Mia madre sostenne che non se la sentiva e che comunque loro stavano benone anche cosí, mio padre, Owen e lo zio Benny. Qualche volta andavo a piedi a trovarli. Bevevano birra al tavolo di cucina e pulivano le uova con la paglietta di ferro. L’allevamento di volpi era stato chiuso, per il calo vertiginoso dei prezzi delle pelli dopo la guerra. Niente piú volpi, niente piú recinti, mio padre si era dato al pollame. Mi sedevo e cercavo di pulire uova anch’io. Owen aveva mezza bottiglia di birra. Quando gliene chiesi un po’ mio padre disse: – No, tua madre non sarebbe contenta –. E lo zio Benny: – Non c’è niente di buono in una ragazza che beve birra.
L’avevo sentito dire anche da Garnet, con le stesse identiche parole.
Strofinavo il pavimento, lavavo i vetri, buttavo via il cibo ammuffito e foderavo gli armadietti di carta pulita, sfacchinando con aria risentita. Owen mi trattava male per dimostrarmi che era un uomo e allungava i piedi da padrone o li spostava di frazioni di centimetro quando gli dicevo: «Scostati! Devo pulire. Scostati!» A volte gli rifilavo un calcio, oppure lui mi faceva inciampare e allora finivamo per prenderci a calci e pugni. Lo zio Benny si divertiva e sghignazzava sussultando nel suo solito modo imbarazzato, ma mio padre ordinava a Owen di smetterla di picchiare una femmina, e lo metteva fuori di casa. Mio padre mi trattava gentilmente, mi faceva i complimenti per come pulivo, ma non scherzava mai con me, come con le ragazze che abitavano a Flats Road, la figlia dei Potter, per esempio, che aveva smesso di studiare dopo le medie per andare a lavorare in una fabbrica di guanti a Porterfield. Mi approvava ma era anche offeso da me. Forse pensava che il mio arrivismo rivelasse scarso amor proprio?
Mio padre dormiva sul divano in cucina, non di sopra come prima. Sullo scaffale dietro la sua testa, accanto alla radio e alla boccetta dell’inchiostro, c’erano tre libri: Outline of History di H. G. Wells, Robinson Crusoe e una raccolta di racconti di James Thurber. Leggeva e rileggeva sempre gli stessi libri, per addormentarsi. Non parlava mai di quelle letture.
Tornavo in paese nel tardo pomeriggio quando il sole, benché mancasse ancora piú di un’ora al tramonto, gettava un’ombra lunga sulla strada di ghiaia davanti a me. Osservavo quella strana sagoma allungata dalla testolina lontanissima e rotonda (un pomeriggio, non sapendo cosa fare, mi ero tagliata da sola i capelli) e mi pareva l’ombra di una misteriosa e nobile ragazza africana. Non guardavo mai le case di Flats Road, né le macchine che, passando, sollevavano la polvere; avevo occhi solo per la mia ombra leggera sulla ghiaia.
Rincasavo tardi la sera piena di dolori in zone impensabili del corpo – avevo sempre una fitta ad esempio in cima al petto e tra le scapole. Ero tutta bagnata e spaventata al pensiero del mio odore, e trovavo mia madre seduta nel letto, con la luce che le brillava tra i capelli e la pelle chiara del cuoio capelluto, la tazza di tè ormai freddo sul comodino, insieme alle altre tazze di quella stessa giornata o del giorno prima – certe volte restavano lí finché il latte dentro il tè inacidiva –, che mi leggeva l’ennesimo elenco dei corsi che si era fatta spedire da un’università.
– Senti cosa sceglierei io… – Garnet non le faceva piú paura: ormai stava sbiadendo nella luce chiara del mio futuro. – Sceglierei astronomia, e greco. Greco, ho sempre avuto il desiderio segreto di impararlo –. Astronomia, greco, lingue slave, filosofia dell’Illuminismo – me le lanciava addosso come palle mentre ascoltavo sulla porta. Parole del genere si rifiutavano di restarmi in mente. Dovevo pensare, invece, ai peli scuri e sottili degli avambracci di Garnet, talmente lisci e paralleli da sembrarmi pettinati, all’osso sporgente dei suoi polsi stretti, all’espressione calma e concentrata di quando stava alla guida del furgone, una faccia particolare che univa urgenza e senso pratico, la stessa con cui mi conduceva nel bosco o lungo il fiume in cerca di un posto dove poterci coricare. Certe volte non aspettavamo neppure che fosse completamente buio. Non avevo paura di essere scoperta, come non avevo paura di restare incinta. Tutto ciò che facevamo sembrava verificarsi al di là degli altri, e di qualsiasi banale conseguenza.
Parlavo tra me di me in terza persona. È innamorata. È appena tornata da un incontro col suo amante. Ha fatto l’amore con lui. Ha il suo sperma che le cola tra le gambe. Spesso all’improvviso avevo la sensazione di dover chiudere gli occhi e lasciarmi andare e dormire lí, dov’ero in quel momento.
Appena conclusa la sessione d’esame, Jerry Storey e sua madre erano partiti per un viaggio in macchina in giro per gli Stati Uniti. A scadenze irregolari mi capitava di ricevere cartoline da Washington D.C., Richmond, Virginia, il Mississippi, il parco di Yellowstone, con un breve messaggio in uno spensierato stampatello maiuscolo: PROCEDIAMO NELLA PATRIA DELLA LIBERTÀ FRA UNA TRUFFA E L’ALTRA DI ALBERGATORI, MECCANICI, ECC. VIVIAMO DI HAMBURGER E ORRIDA BIRRA AMERICANA. LEGGO DAS KAPITAL NEI RISTORANTI PER SBALORDIRE I NATIVI, MA NON OTTENGO ALCUNA REAZIONE.
Naomi stava per sposarsi. Mi telefonò per dirmelo, e convocarmi a casa sua. Mason Street non era cambiata, se si esclude il fatto che da Miss Farris ora stava una coppia di sposi che avevano tinteggiato di blu carta da zucchero.
– Salve, straniera, – disse Naomi in tono d’accusa, come se l’interrompersi della nostra amicizia fosse stata un’idea mia. – Esci con Garnet French, giusto?
– Come fai a saperlo?
– Pensavi che fosse un segreto? Sei diventata battista? Comunque, è già meglio di Jerry Storey.
– Tu con chi ti sposi?
– Tanto non lo conosci, – disse mesta Naomi. – Viene da Tupperton. Anzi, no, lui è originario di Barrie ma lavora su a Tupperton.
– Che cosa fa? – domandai, solo per essere gentile e mostrare interesse, ma Naomi mi guardò male.
– Beh, non è un genio o roba simile. Non ci è andato, lui, all’università. Lavora alla compagnia dei telefoni. Fa il guardafili. Si chiama Scott Geoghagen.
– Scott che?
– Geoghagen –. Me lo compitò. – Tanto vale abituarcisi, visto che fra poco mi chiamerò cosí anch’io. Naomi Geoghagen. Quattro mesi fa non l’avevo mai sentito. Stavo uscendo con uno tutto diverso quando l’ho conosciuto. Stuart Claymore. Si è comprato la Plymouth nuova, ora che non usciamo piú insieme. Dài, sali che ti faccio vedere la mia roba.
Andammo di sopra, passando davanti alla porta di suo padre.
– Come sta?
– Chi? Lui? Ha tanti di quei buchi in testa che gli uccelli ci fanno dentro il nido.
Comparve sua madre, in cima alla scala posteriore, e ci accompagnò in camera di Naomi.
– Abbiamo deciso di fare una cosa tranquilla, – disse. – A cosa servono i matrimoni in pompa magna? Solo a darsi delle arie.
– Mi devi fare da damigella, – disse Naomi. – Alla fine sei la mia amica storica.
– Quand’è?
– Una settimana da sabato prossimo, – disse sua madre. – Lo facciamo in giardino sotto un gazebo se il tempo regge. Ci facciamo prestare le sedie dalla chiesa unita, del rinfresco si occupa l’Associazione femminile, non che ci serva granché. Dovrai farti fare un vestito, cara. Quello di Naomi è blu polvere. Falle vedere il vestito, Naomi. Una tinta corallo per te sarebbe l’ideale.
Naomi mi mostrò l’abito, il completo da viaggio, la biancheria e la camicia da notte da sposa. Si rallegrò un poco, in quel momento. Poi aprí la cassapanca, un baule e una serie di cassetti e tirò fuori dall’armadio degli scatoloni e mi fece vedere tutte le cose che si era comprata per arredare e metter su casa. Intanto io ragionavo tristemente sul fatto che, come damigella, avrei dovuto organizzare un rinfresco tra amiche in suo onore, foderare una sedia con strisce di carta crespa rosa, tagliare via la crosta del pancarrè e decorare i tramezzini con rose di ravanelli e riccioli di carote. Aveva comprato delle federe bianche e le aveva ricamate a una a una, con ghirlande di fiori e cestini di frutta e bimbette incuffiettate con l’annaffiatoio in mano. – Bella Phippen ti darà un puntaspilli, – dissi, con un senso di nostalgia per i bei tempi in cui andavamo in biblioteca dopo la scuola.
A Naomi l’idea non dispiacque. – Spero che sia giallo o verde o arancione, perché sono i colori che ho scelto per gli addobbi –. Mi mostrò dei centrini di quei colori che aveva fatto all’uncinetto. Certi li aveva induriti in uno sciroppo di acqua e zucchero per farli stare su ai bordi, come cestini.
Sua madre era scesa di sotto. Naomi ripiegò ogni cosa, richiuse scatole e cassetti e mi disse: – Allora, cosa hai sentito dire di me?
– In che senso?
– Lo so. Questo paese è pieno di linguacce.
Si lasciò cadere di peso, scavando un buco nel letto col sedere. Me lo ricordavo, quel materasso; quando andavo a stare da lei la notte e ci rotolavamo in mezzo e ci svegliavamo dandoci calci e colpi per spostarci.
– Sono incinta, sai? Non fare quella faccia scema. Lo fanno tutte. Solo che non tutte hanno la sfortuna di restare incinte. Ma lo fanno tutte. Sta diventando come bere acqua fresca –. Senza staccare i piedi dal pavimento, si lasciò andare indietro sul letto, portò le mani sotto la testa e strizzò gli occhi per la luce. – Quel lampadario è pieno di moscerini.
– Lo so. L’ho fatto anch’io, – dissi.
Si rizzò a sedere. – Davvero? Con chi? Jerry Storey. No, non deve essere capace, quello. Garnet?
– Sí.
Tornò a mettersi giú. – Allora? Ti è piaciuto? – Il tono era sospettoso.
– Bello.
– Migliora man mano che si va avanti. La prima volta mi ha fatto malissimo. E non era nemmeno Scott. Si era messo un coso, sai, no? Che male! Avremmo dovuto mettere un po’ di vaselina. Ma dove la trovi la vaselina, in piena notte, nei boschi? E a te dove è successo la prima volta?
Le raccontai delle peonie, del sangue per terra, del gatto che aveva preso l’uccellino. Ci buttammo sul letto a pancia in giú e ci raccontammo tutti i dettagli scabrosi. Raccontai a Naomi anche di Mr Chamberlain, di come fosse la prima volta che ne vedevo uno, e di quello che ci aveva fatto, dopo tutto quel tempo. Ebbi il piacere di vederla battere il pugno sul letto ridendo e di sentirle dire: – Gesú, questa mi mancava! – Dopo un po’, si fece di nuovo triste e si alzò in piedi per guardarsi la pancia.
– Sei stata fortunata, fino adesso. Meglio che cominci a usare qualcosa. Devi fare attenzione. Comunque, niente è sicuro al cento per cento. Quei maledetti si rompono a volte. Appena ho scoperto di essere incinta ho preso il chinino, decotti di olmo rosso, ogni cavolo di purgante e giuggiole e sono stata a bagno nella senape finché non pensavo di essermi trasformata in un würstel. Macché, niente.
– Non hai chiesto a tua madre?
– L’idea del bagno di senape è stata sua. Non ne sa quanto vuole far credere, neanche lei.
– Non sei obbligata a sposarti. Potresti andare a Toronto…
– Sí, certo, per finire in un ospizio dell’Esercito della Salvezza. A rendere lode al Signore! – disse, con voce tremula, e aggiunse, un po’ in contraddizione con la storia della senape e del chinino: – In ogni caso, non me la sarei sentita di dare il mio bambino a degli estranei.
– D’accordo, ma se non ti vuoi sposare…
– Ehi, chi ha detto che non mi voglio sposare? Ho messo da parte tutta questa roba, tanto vale che mi sposi. Si diventa sempre tristi all’inizio della gravidanza, sono gli ormoni. E non ti dico la stitichezza, mondo boia.
Mi accompagnò fino al marciapiede. Se ne stava là a guardare la strada, con le mani sui fianchi e la pancia che premeva contro la vecchia gonna scozzese. Me la vedevo benissimo sposata, una giovane madre tiranna, esasperata e soddisfatta, fuori sulla via a cercare i suoi bambini, a chiamarli in casa per metterli a letto o far loro le trecce o per chissà quale altra incombenza. – Allora, ciao, ex vergine, – disse in tono affettuoso.
Quando fui a metà isolato, sotto il lampione, mi urlò: – Ehi, Del! – e mi corse incontro sgraziata, col fiato corto dal ridere, e quando arrivò vicino si portò le mani ai lati della bocca e in un sospiro gridato disse: – Mi raccomando, non ti fidare della marcia indietro!
– Certo che no!
– I bastardi non lo tirano mai fuori in tempo!
Poi ciascuna proseguí per la sua strada, girandoci a salutare due o tre volte, sbracciandoci in modo esagerato, come facevamo un tempo, per scherzo.
Garnet e io andavamo a Third Bridge a nuotare, dopo cena. Facevamo l’amore, prima, nell’erba alta, dopo qualche ricerca per trovare un posto senza cardi, poi scendevamo a fatica allacciati uno all’altra giú per un sentiero per una persona sola e ci fermavamo a baciarci di continuo. I baci cambiavano parecchio da prima a dopo; almeno quelli di Garnet, che andavano dal focoso al consolatorio, dal supplice al paternalistico. Come faceva in fretta a tornare indietro, dopo aver gridato a quel modo, con gli occhi rovesciati e quei sussulti e quel suo afflosciarmisi addosso come un gabbiano ferito! Certe volte aveva appena ripreso fiato e gli chiedevo a cosa pensava e lui diceva: «Stavo cercando di capire come aggiustare la marmitta…» Quella volta, però, disse: – A quando ci sposeremo.
Naomi ormai era sposata, e stava a Tupperton. L’estate era alla fine. Le bacche di sorbo maturavano. Il fiume era scarso d’acqua, dopo settimane quasi senza pioggia, e affioravano penisole verdissime di elodea cosí fitta che pareva di poterci camminare sopra.
Entravamo nel fiume affondando nel fango fino a raggiungere i ciottoli, sul fondo. Erano usciti i risultati degli esami, quella settimana. Ero passata. Non avevo vinto la borsa di studio. Non avevo preso un voto abbastanza alto in nessuna materia.
– Ti piacerebbe avere un bambino?
– Sí, – dissi. L’acqua, tiepida quasi quanto l’aria, mi sfiorava le natiche indolenzite. Ero sfinita dopo aver fatto l’amore, mi sentivo calda e pigra, come un grosso cavolo le cui foglie si aprissero e si adagiassero sulla terra, mentre calavo in acqua schiena, braccia e petto.
Da dove era uscita quella bugia? Non era una bugia.
– Prima devi entrare a far parte della chiesa, – disse lui timidamente. – Devi farti battezzare.
Sprofondai nell’acqua, a braccia divaricate. I mosconi eseguivano i loro tremuli voli orizzontali all’altezza dei miei occhi.
– Sai come si fa, nella nostra chiesa? Il battesimo?
– Come?
– Ti immergono direttamente nell’acqua. C’è una vasca dietro il pulpito, coperta. È lí che lo fanno. Ma è meglio quando si fa in un fiume, piú persone alla volta.
Si gettò sott’acqua e cercò di afferrarmi un piede.
– Quando lo vuoi fare? Magari questo mese.
Mi misi a dorso e battendo i piedi gli schizzai l’acqua in faccia.
– Bisognerà pur salvarti prima o poi.
Il fiume era fermo come uno stagno; a guardare non si capiva il verso della corrente. Conteneva il riflesso della sponda opposta, la zona di Fairmile, fitta di pini, abeti e cedri.
– Ma perché bisogna?
– Lo sai, no?
– Perché?
Mi raggiunse, mi prese per le spalle e mi spinse con dolcezza su e giú nell’acqua. – Dovrei battezzarti adesso e farla finita. Dovrei proprio battezzarti adesso.
Mi misi a ridere.
– Ma io non voglio. Non serve se io non voglio farmi battezzare –. Benché cedere sarebbe stato facilissimo, uno scherzo, non potevo. Lui continuava a dire: «Io ti battezzo!» e a tirarmi su e giú in modo sempre meno gentile, e io a rifiutare, ridendo e facendo di no con la testa. A poco a poco, nella lotta, la risata si spense e le espressioni tese e addolorate delle nostre facce si fecero piú dure.
– Ti credi superiore a queste cose, – disse lui, sottovoce.
– Non è vero!
– Ti credi superiore a tutto. E a tutti noi.
– Non è vero!
– E allora fatti battezzare! – Mi cacciò a forza sott’acqua, cogliendomi alla sprovvista. Saltai fuori sbruffando e soffiando dal naso.
– La prossima volta non ti faccio uscire cosí facile! Ti tengo sotto finché non mi dici di sí. Allora, di’ che ti farai battezzare o ti battezzo io, comunque.
Mi spinse di nuovo sotto, ma adesso me l’aspettavo. Trattenni il fiato e opposi resistenza. Lottai con forza e naturalezza, come fa chiunque, se viene tenuto sott’acqua, e senza pensare molto a chi lo stava facendo. Ma quando mi lasciò riemergere giusto il tempo per sentirgli dire: «Allora? Di’ che lo fai!», vidi la sua faccia grondante dell’acqua che gli avevo gettato addosso e rimasi stupefatta, non di aver lottato con Garnet ma che chiunque potesse essersi sbagliato cosí di grosso da supporre di potermi davvero dominare. Ero troppo sbalordita perfino per arrabbiarmi, mi dimenticai di avere paura, mi pareva impossibile che non capisse che tutto il potere che gli concedevo era per gioco, che lui stesso era per gioco – come l’intenzione di conservarlo circonfuso dell’aura del principe azzurro per sempre –, anche se solo cinque minuti prima avevo parlato di sposarlo. A me sembrava chiaro come il sole, e stavo per cominciare a dirgli cose che avrebbero chiarito tutto anche a lui, ma mi resi conto che lui già sapeva; sapeva, cioè, che piú o meno consapevolmente avevo ricambiato le sue proposte sincere con le mie risposte ingannevoli, accoppiando le sue intenzioni serie alla mia artificiosa ambiguità di attrice.
Ti credi superiore.
– Allora? Di’ che lo fai! – La sua faccia scura, adorabile ma piena di segreti, era alterata dall’ira, da un’indignazione inerme. Mi vergognavo di quell’offesa ma ero costretta a non mollare perché conteneva appunto le mie differenze, le mie riserve, la mia vita. Pensai a Garnet quando aveva preso a calci quel tale davanti alla birreria di Porterfield. Avevo creduto di volerne sapere di piú ma non era vero, non avevo mai saputo che farmene dei suoi segreti, della sua violenza, né di lui fuori dal contesto del nostro gioco irripetibile, incantato e, col senno di poi, probabilmente fatale.
Immaginate di sognare che siete saltati dentro un pozzo volontariamente e che, mentre ridete, la gente intorno comincia a lanciarvi addosso manciate d’erba soffice, ma quando vi ritrovate con occhi e bocca già ricoperti vi rendete conto che non si tratta affatto di un gioco, o se mai lo è stato, prevedeva di seppellirvi vivi. Lottai sott’acqua esattamente come fareste in un sogno del genere, con un senso di disperazione non immediatamente percepibile, ma costretto a farsi strada in mezzo a strati e strati di incredulità, per affiorare. Eppure pensai che mi potesse annegare. Lo pensai sul serio. Pensai che stavo lottando per la vita.
Quando mi lasciò riemergere cercò di mettermi nella posizione battesimale classica, piegandomi indietro dalla vita, e quello fu un errore. Mi diede modo di colpirlo al bassoventre – non nei testicoli, anche se non stavo certo a badare dove colpivo –, e i miei calci risultarono abbastanza forti da fargli perdere la presa e vacillare un po’ permettendo a me di divincolarmi. Non appena ebbi messo un metro d’acqua tra lui e me, l’orrore e l’insensatezza della nostra lotta divennero evidenti e irreparabili. Lui non mi venne appresso. Mi allontanai tranquillamente e uscii dall’acqua che in quel momento dell’anno non mi arrivava oltre l’ascella, in nessun punto. Tremavo, ansimando, a corto d’aria.
Mi rivestii subito al riparo del furgone, faticando a infilare le gambe nei pantaloncini, cercando di trattenere il respiro per darmi equilibrio, e allacciarmi i bottoni della camicetta.
Garnet mi chiamò.
– Ti do un passaggio a casa.
– Mi va di camminare.
– Vengo a prenderti lunedí sera.
Non risposi. Immaginai che fosse una frase di cortesia. Non sarebbe venuto. Se fossimo stati piú vecchi saremmo di sicuro andati oltre, avremmo mercanteggiato sul prezzo della riconciliazione, ci saremmo spiegati, giustificati, forse perfino perdonati per portarci questo episodio nel futuro, ma eravamo ancora abbastanza vicini all’infanzia da credere nell’assoluta importanza e insuperabilità di certe liti, nell’imperdonabilità di certi colpi. Avevamo visto l’uno dell’altra ciò che non potevamo tollerare, e non avevamo idea che la gente può vedere cose simili e andare avanti, che ci si può odiare e combattere e cercare di ammazzarsi, in vari modi, e poi amarsi un altro po’.
Mi avviai sul viottolo che portava alla strada e camminare mi tranquillizzò restituendomi le forze; non avevo piú le gambe deboli come poco prima. Arrivai a piedi fino alla Third Concession, che sboccava in Cemetery Road. Avevo circa tre miglia e mezzo di cammino davanti.
Tagliai per il cimitero. Era quasi buio. Agosto è lontano dall’inizio dell’estate quanto lo è aprile, un fatto che risulta difficile tener presente. Vidi un ragazzo e una ragazza – non li distinguevo bene – sdraiati sull’erba corta del mausoleo Mundy, sulle cui pareti di cemento scuro io e Naomi avevamo scritto una volta un epitaffio di nostra invenzione che ci sembrava malvagio e spassosissimo, e che non ricordavo per intero:
Molti dei Mundy giacciono qui,
per aver fatto nella zuppa la pipí…
Lanciai un’occhiata a quegli amanti sull’erba del cimitero senza la minima invidia o curiosità. Mentre proseguivo per Jubilee, riprendevo possesso del mondo. Alberi, case, strade, staccionate, mi si ripresentavano nelle loro forme sobrie e familiari. Una volta sganciato dalla vita dell’amore, spogliato dei suoi colori, il mondo recupera i propri insieme alla propria rilevanza naturale e indifferente. Il che in principio è un duro colpo, ma poi diventa un conforto inatteso. E io già sentivo la me stessa di un tempo – subdola, solitaria, ironica – ricominciare a respirare, sgranchirsi le gambe e prendere posto nel dolore ottuso della perdita, benché il mio corpo tutto intorno rimanesse ammaccato e confuso.
Mia madre era già a letto. Quando si era saputo che non avevo avuto la borsa, evenienza che lei non aveva mai considerato, le sue speranze di futuro, attraverso il riscatto dei figli, erano crollate. Dovette affrontare la possibilità che io e Owen non avremmo fatto niente di speciale, che non saremmo diventati niente, che fossimo mediocri, o peggio, contaminati dalla temuta superbia perversa della sacra famiglia di mio padre. Da una parte Owen, che se ne stava a Flats Road a storpiare verbi e sostantivi con la grammatica dello zio Benny, e a dire di voler lasciare la scuola. E dall’altra io, che uscivo con Garnet French, mi rifiutavo di parlarne e non vincevo la borsa di studio.
– Dovrai fare come ti pare, – disse amara.
Ma era cosí semplice saperlo? Me ne andai in cucina, accesi la luce e mi preparai una gran frittata di uova pomodori patate e cipolle, che mangiai con ingordigia e direttamente dal tegame, in piedi. Ero libera e non lo ero. Ero sollevata e affranta. E se non fossi mai tornata in me? Se mi fossi lasciata sdraiare nel Wawanash e battezzare?
Per molti anni tornai di quando in quando a valutare l’ipotesi, come se fosse ancora contemplabile – insieme all’ombra fronzuta e alle chiazze di umidità di casa sua, e alla bellezza del corpo del mio amante.
Il lunedí non venne. Aspettai, curiosa di vedere. Mi pettinai e attesi, come da copione, dietro le tende del soggiorno. Non sapevo che cosa avrei fatto se fosse venuto; il desiderio struggente di vedere il suo furgone, la sua faccia, si inghiottiva tutto il resto. Pensai di transitare davanti alla chiesa battista, per vedere se c’era il furgone. Se l’avessi fatto, se fosse stato lí, sarei potuta entrare, rigida come una sonnambula. Fino alla veranda in effetti mi spinsi. Piangevo, mi accorsi, frignando col ritmo monotono dei bambini quando vogliono solennizzare una ferita. Girai sui tacchi e tornai nell’ingresso a guardare nello specchio appannato la mia faccia storta e bagnata di lacrime. Senza che lo strazio diminuisse mi osservai; mi sbalordiva pensare che la persona che soffriva fossi io, perché non lo era affatto; io ero quella che guardava. Quella che guardava, quella che soffriva. Recitai allo specchio un verso di Tennyson che avevo letto nell’Opera completa di mia madre, un dono della sua vecchia insegnante, Miss Rush. Con sincerità e sarcasmo assoluti declamai: Egli non viene, diss’ella.
Da Mariana, una delle poesie piú insulse che abbia mai letto. Mi fece piangere piú forte. Senza smettere di guardarmi, tornai in cucina, feci una tazza di caffè e me la portai in sala da pranzo dove il giornale della città era rimasto sul tavolo. Mia madre aveva strappato il cruciverba e se l’era portato su a letto. Aprii alla pagina degli annunci e presi una matita per segnare ogni offerta di lavoro che sembrava accettabile. Mi costrinsi a capire quello che leggevo e, dopo qualche minuto, provai una lieve e giudiziosa gratitudine per le parole stampate, per quelle strane possibilità. Esistevano città; si cercavano centraliniste; il futuro poteva essere arredato anche senza amore e borse di studio. Ora finalmente senza fantasticherie e illusioni, al riparo dagli errori e dalle confusioni del passato, semplice e seria, con la mia piccola valigia pronta a montare su un autobus, come le ragazze nei film quando lasciano case, conventi, amanti, forse avrei dato inizio alla mia vita vera.
Garnet French, Garnet French, Garnet French.
Vita vera.