Principessa Ida

Adesso mia madre si era messa a vendere enciclopedie. Zia Elspeth e zia Grace lo definivano «andare per strada».

«Va molto per strada tua madre, in questo periodo?», mi chiedevano, e io dicevo di no, che non viaggiava piú tanto, ma sapevo che sapevano che mentivo. «Non le resterà tanto tempo per stirare, – aggiungevano a volte in tono compassionevole, scrutando la manica della mia camicetta. – Non le resterà tanto tempo per stirare, se deve andare sempre per strada».

Sentivo il peso delle stravaganze di mia madre, il suo lato assurdo e imbarazzante – le zie me lo rivelavano un poco per volta – calarmi addosso gravando sulle mie spalle da codarda. Certo che avrei voluto ripudiarla, guadagnarmi strisciando l’approvazione dovuta a un’orfana, alla vittima di un abbandono, in camicetta stazzonata. Allo stesso tempo volevo proteggere lei. Non avrebbe mai capito quanto le servisse essere difesa dalle sconcertanti spiritosaggini e il delicato senso del decoro di due vecchie signorine. Portavano vestiti scuri di cotone dai colletti in batista bianca sempre freschi e perfettamente stirati e inamidati, spille di porcellana con decori floreali. In casa loro c’era una pendola che suonava sottovoce anche i quarti d’ora; e c’erano felci ben annaffiate, violette d’Africa, centrini da tavolo all’uncinetto, tendoni con le frange e, aleggiante su ogni cosa, l’odore lindo e colpevolizzante di cera e di limone.

– È passata ieri a prendere gli scones che ti avevamo fatto. Come sono venuti, ci domandavamo, erano soffici? Ci ha raccontato che era rimasta bloccata chissà dove, sulla strada per Jericho. Ferma sulla strada, e da sola! Povera Ada! Dovevi vedere com’era sporca di fango, ci scappava da ridere.

– Ci è toccato fregare tutto il linoleum dell’ingresso, – disse zia Grace con un filo di imbarazzo nella voce, come se fosse una cosa che non le andava tanto di farmi sapere.

Da una simile prospettiva, in effetti, mia madre sembrava una selvaggia.

Guidava la nostra Chevrolet del ’37 su tutte le statali e le strade minori della contea del Wawanash, su carrozzabili di ghiaia, di terra battuta, su tratturi per vacche, se pensava che potessero portarla a procurarsi dei clienti. Teneva sempre un cric e una pala nel portabagagli, insieme a un paio di assi per facilitare l’uscita da eventuali buche di fango. Guidava tutto il tempo con l’aria di chi non si sarebbe stupita di vedere la terra spalancarsi all’improvviso a pochi metri dalle ruote della sua auto; pestava disperata sul clacson a ogni svolta cieca in aperta campagna; era eternamente preoccupata che i ponti di legno non reggessero e non permetteva a niente e nessuno di stringerla verso le insidiose e pericolanti corsie laterali.

Era ancora tempo di guerra. I contadini finalmente si arricchivano, lucrando sui maiali, come su barbabietole o granturco. Potendo, avrebbero evitato di spendere i loro soldi in enciclopedie. Avevano in mente frigoriferi, automobili. Ma quei prodotti non erano ancora disponibili, e in compenso c’era mia madre, decisa a trascinarsi la sua valigia di libri, a guadagnarsi l’ingresso nelle loro cucine o nei soggiorni freddi, funerei e maleodoranti, a sparare le sue cartucce, con cautela ma anche con ottimismo, in nome del Sapere. Un bene poco entusiasmante di cui la maggioranza della popolazione adulta può deliberatamente fare a meno. Ma che nessuno può negare sia una gran bella cosa per i figli. Mia madre contava appunto su questo.

E se la felicità a questo mondo consiste nel credere in quello che hai da vendere, beh, allora mia madre era felice. Il sapere era tutt’altro che poco entusiasmante per lei; era una cosa bellissima. Anche in quella fase della vita le dava pura gioia scoprire dove si trova il mare di Celebes, o Palazzo Pitti, saper nominare le mogli di Enrico VIII nell’ordine corretto, essere informata sul sistema sociale delle formiche o sui metodi di macelleria sacrificale in uso presso gli aztechi, come di ingegneria idraulica a Cnosso. Si scordava il resto, quando parlava di queste cose; le raccontava a tutti. «Certo che tua madre ne sa, eh, di cose», commentavano zia Elspeth e zia Grace serene, senza invidia, e mi rendevo conto che per alcune persone, forse per la maggior parte, il sapere era giusto una bizzarria, un’escrescenza anomala, tipo le verruche.

Personalmente condividevo invece l’appetito di mia madre, era piú forte di me. Adoravo i volumi dell’enciclopedia, il loro peso (di mistero, di notizie strabilianti) quando mi si aprivano in grembo; mi piacevano il pacato verde scuro della rilegatura, i caratteri d’oro spigolosi e sfuggenti dei dorsi. Ad apertura di pagina potevano mostrarmi l’acquaforte di una battaglia in corso nella brughiera con magari un castello sullo sfondo, oppure nel porto di Costantinopoli. Spargimenti di sangue, annegamenti, teste mozzate, cavalli in agonia, il tutto tratteggiato con lirismo decorativo, e straordinaria mancanza di realismo. Ne ricavavo l’impressione che in tempi storici il clima avesse sempre una qualità drammatica, nefasta; che il paesaggio si accigliasse, il mare irradiasse corruschi bagliori metallici in varie sfumature di grigio. Ecco Charlotte Corday in cammino verso la ghigliottina, ecco Maria Stuarda diretta al patibolo, e l’arcivescovo Laud nell’atto di elargire la propria benedizione a Strafford attraverso le sbarre della sua cella di prigioniero: nessuno dubitava che avessero precisamente quell’aspetto, in tonaca nera, le mani levate in alto, i volti esangui, eroici, composti. Naturalmente l’enciclopedia aveva anche altre immagini da offrire: coleotteri, diverse varietà di carbone, schemi grafici dell’interno di un motore, fotografie di Amsterdam o di Bucarest scattate in giornate nebbiose, intorno agli anni Venti (come si deduceva dalle linee alte e squadrate delle piccole vetture). Io preferivo la storia.

In modo inizialmente casuale e in seguito sempre piú sistematico imparavo cose dall’enciclopedia. Avevo una memoria fenomenale. Imparare elenchi di fatti era per me una sfida irresistibile, come provare a percorrere un isolato intero saltellando su un piede solo.

Mia madre si mise in testa che potevo esserle utile al lavoro.

– Anche mia figlia ha cominciato a leggere questi volumi e sono strabiliata da quello che impara. I bambini hanno carta moschicida al posto del cervello; qualunque cosa sentano ci resta attaccata. Del, di’ un po’, come si chiamano i presidenti degli Stati Uniti da George Washington a oggi; sei capace? – Oppure: i nomi dei paesi del Sudamerica e rispettive capitali. O quello dei piú importanti esploratori, da dove venivano e dove viaggiavano. Date comprese, grazie. E io snocciolavo di tutto, seduta in casa di estranei. Mettevo su un’aria concentrata, seria, competitiva, ma era quasi tutta scena. Sotto sotto provavo un commovente compiacimento. Sapevo di sapere. E chi poteva non amare una bambina che sa dove si trova Quito?

Qualcuno ci riusciva benissimo, in realtà. Ma da dove colsi il primo indizio in tal senso? Forse alzando la testa e vedendo Owen che, incapace, per quanto ne sapesse il mondo, di nominare due date di seguito, o due capitali o presidenti morti che fossero, se ne stava placidamente appartato ad arrotolarsi un lungo filo masticato di gomma intorno al dito. Ma poté anche essere per le facce rivolte altrove dei bambini di campagna, con i loro subdoli, complicati imbarazzi. Sta di fatto che un bel giorno non volli piú farlo. La decisione fu di natura fisica; l’umiliazione mi procurava un formicolio ai nervi e alla bocca dello stomaco. Feci per dire: «Non li so…» ma era troppo il disagio, troppa la vergogna, per propinare con quella bugia.

– George Washington, John Adams, Thomas Jefferson…

Mia madre disse brusca: – Non ti senti bene?

Temeva che stessi per vomitare. Owen e io eravamo entrambi vomitatori professionisti, imprevedibili. Annuii e scivolai dalla sedia per correre a nascondermi in macchina, tenendomi lo stomaco. Quando mi raggiunse, mia madre aveva capito che il problema era un altro.

– Cominci a vergognarti, – disse in tono pratico. – Credevo ti piacesse –. Il formicolio riprese. Era proprio quello il guaio, che mi fosse piaciuto, ed era indelicata lei a ricordarmelo. – Timidezza e vergogna, – sentenziò mia madre con una certa solennità, – due lussi che non mi sono mai potuta permettere –. Avviò il motore. – Ma ti posso dire che nella famiglia di tuo padre c’è gente che non aprirebbe bocca in pubblico neanche per dire che gli va a fuoco la casa.

Da quel momento, ogni volta che mi si chiedeva – con nonchalance – «Ti va qualche domanda, oggi?», io scivolavo sul sedile scuotendo la testa e stringendomi lo stomaco, a indicare la possibilità di un repentino ripresentarsi del mio malessere. Mia madre si dovette rassegnare; ormai quando l’accompagnavo in giro il sabato, viaggiavo come Owen, libera e inutile come un pacco postale anziché socia d’impresa. – Hai deciso di nascondere agli altri il tuo talento, non è un problema mio, – disse. – Fa’ pure come ti pare.

Qualche speranza di avventura condivisa da Owen la nutrivo ancora, almeno su un piano piú concreto. Entrambi speravamo di comprarci sacchetti di certe caramelle giallo scuro, tagliate a pezzi irregolari, dure come cemento, che si scioglievano quasi istantaneamente sulla lingua; si trovavano in un unico negozio speciale in aperta campagna, un posto che odorava di cavalli ed esponeva finimenti e briglie. Speravamo come minimo di fermarci a fare benzina a una stazione di servizio dove vendevano bibite gassate. Io speravo che ci si spingesse fino a Porterfield o a Blue River, località che derivavano la loro malia semplicemente dal non essere posti a noi noti e dove noi fossimo noti, dal non essere, insomma, Jubilee. Camminando per le strade di quelle cittadine, indossavo la mia anonimità come una coccarda, come una coda di pavone. Purtroppo, da una certa ora del pomeriggio, le mie speranze venivano meno, o se ne realizzava qualcuna, il che lascia sempre e comunque un vuoto. Veniva meno un po’ di slancio anche in mia madre intanto, una parte di quelle sconsiderate energie che l’avevano spinta fin lí. L’approssimarsi del buio, il getto d’aria fredda che saliva da un foro sul fondo della macchina, il ronzio stanco del motore, l’indifferenza della campagna attorno ci riconciliavano gli uni agli altri mettendoci addosso la nostalgia di casa. Percorrevamo una zona del paese che non sapevamo di amare, né piatta né ondulata, ma irregolare, priva di un ritmo estetico riconoscibile; colline basse, canaloni pieni di boscaglia, acquitrini, pascoli, foresta. Olmi altissimi, lontani fra loro, ciascuno fiero della propria forma distinta, alberi già condannati a morte ma noi ancora lo ignoravamo. Le chiome si aprivano come mezzi ventagli, qualche volta ricordavano delle arpe.

Jubilee era visibile da un’altura a circa tre miglia di distanza, sulla statale n. 4. Da quel punto fino all’abitato si dispiegava la piana del fiume, ogni anno alluvionata, e l’ansa nascosta del Wawanash attraversata dal ponte dipinto d’argento e sospeso nella luce del crepuscolo come una gabbia. La statale n. 4 era anche lo stradone di Jubilee. Vedevamo le due torri dell’ufficio postale e del municipio, una di fronte all’altra; il municipio dalla cupola esotica che custodiva la campana leggendaria (suonata per annunciare l’inizio e la fine delle guerre, o l’inondazione totale) e l’ufficio postale con la torre dell’orologio, squadrata, pratica, necessaria. Il paese si stendeva pressoché simmetrico sui due lati dello stradone. La sua forma, che all’ora del nostro rientro era di norma segnalata dalle luci, risultava somigliare grossomodo a quella di un pipistrello con un’ala appena sollevata che comprendeva, a un’estremità, il serbatoio dell’acqua, indistinto e non illuminato.

Mia madre non lasciava mai passare quella vista senza un commento. «Ecco Jubilee», poteva limitarsi a dire, oppure: «Rimirate laggiú la metropoli», o perfino citare vagamente una poesia che parlava di fare il proprio ingresso dalla stessa porta dalla quale si era usciti. E da quelle parole, ora scontate ora ironiche o davvero riconoscenti, a me pareva che Jubilee derivasse la sua esistenza. Come se, senza la complicità, senza l’approvazione di mia madre, lampioni e marciapiedi, la fortezza eretta nella campagna a distesa, il disegno esplicito e segreto della città – al tempo stesso mistero e rifugio – non ci sarebbero stati.

Su tutte le nostre spedizioni, su ogni nostro ritorno, sul mondo in senso lato, mia madre esercitava un’arcana e tremenda autorità senza la quale non si poteva fare nulla, non ancora.

Affittò una casa in paese, dove abitavamo da settembre a giugno per tornare a quella in fondo a Flats Road solo in estate. Mio padre arrivava all’ora di cena e si fermava a dormire fino alle prime nevicate; dopodiché, se ce la faceva, veniva per la sera del sabato e parte della domenica.

La casa in affitto era al fondo di River Street, non lontano dalla stazione ferroviaria. Era il genere di edificio che sembra piú grande di quanto non sia; tetto alto e spiovente – legno per il primo piano, mattoni per il pianterreno –, un bovindo molto sporgente in sala da pranzo e portici con veranda davanti e dietro; in quello sul davanti c’era un inutile e di fatto inaccessibile balconcino incassato nel tetto. Tutte le parti in legno della casa erano tinteggiate di grigio, probabilmente perché il grigio non ha bisogno di ritocchi altrettanto frequenti del bianco. Nella stagione calda le finestre del pianterreno montavano tendoni a righe molto scoloriti; allora, fra il grigio sbiadito degli esterni e le verande sghembe, il posto mi faceva pensare a una spiaggia, a sole ed erba alta piegata dal vento.

Era una casa di città invece: ogni dettaglio suggeriva un genere di comodità e di gestione del tempo impensabili a Flats Road. Certe volte ricordavo la nostra casa vecchia, dalla facciata semplice, pallida, con il battuto in cemento fuori dalla porta di cucina, e provavo una nostalgia vagamente colpevole, commossa, come può capitare per un vecchio nonno alla buona che ormai sei troppo grande per trovare divertente. Mi mancava la vicinanza al fiume e alla palude, mi mancava l’anarchia dell’inverno, con le bufere che ci muravano in casa come dentro un’arca. E d’altra parte amavo l’ordine, la completezza, l’organizzazione complessa della vita di una piccola città, che solo venendo da fuori era possibile cogliere. Tornando da scuola, nei pomeriggi d’inverno, avevo la percezione dell’intero paese intorno a me, con le sue strade dai nomi come River Street, Mason Street, John Street, Victoria Street, Huron Street e, bizzarramente, Khartoum Street; con gli abiti da sera trasparenti e dai colori chiari come crochi nella vetrina del Negozio di confezioni per signora Krall; la banda della Missione battista raccolta nello scantinato della chiesa a cantare There’s a New Name Written Down in Glory, And it’s Mine, Mine, Mine! Con i canarini in gabbia nel negozio di Selrite e i libri nella biblioteca, e la posta all’ufficio postale e le foto di Olivia de Havilland ed Errol Flynn in costume da pirati appese fuori dal Lyceum Theatre – con tutte queste cose, questi svaghi e questi rituali, tanto fragili quanto luminosi, tutti tessuti insieme in una piccola città. In città c’erano soldati in licenza, con l’uniforme color cachi che conferiva loro un’aura di anonima brutalità, come l’odore di bruciato; c’erano le ragazze bellissime, radiose che tutti conoscevano per nome – Margaret Bond, Dorothy Guest, Pat Mundy – e che al contrario non conoscevano il nome di nessuno, tranne quando decidevano il contrario; io le guardavo percorrere la discesa dalla scuola, con gli stivaletti di velluto bordati di pelliccia. Si muovevano a piccoli grappoli, irradiando una luce da lanterna accesa che le rendeva cieche al resto del mondo. Sebbene una di loro un giorno – Pat Mundy – mi avesse sorriso di sfuggita, alimentando i miei sogni a occhi aperti su di lei, che mi salvava da un annegamento, diventava infermiera e si prendeva cura di me, rischiando la sua stessa vita, per cullarmi fra le braccia di velluto quando la difterite stava per uccidermi.

Se era mercoledí pomeriggio la pensionante di mia madre, Fern Dogherty, stava in casa a bere tè, fumare e chiacchierare con mia madre in sala da pranzo. Il vociare di Fern era sommesso, il suo sproloquio, lamentoso come la sua risata, si distingueva bene dai commenti piú secchi e laconici di mia madre. Si raccontavano di persone del posto, di se stesse; la loro conversazione era un fiume che non conosceva siccità. Era l’azione, il fermento della vita cui ancora non avevo accesso. Mi piazzavo davanti allo specchio incassato della credenza su misura e contemplavo il riflesso della stanza – il perlinato alle pareti scuro come le travi, il lampadario d’ottone simile a un alberello schematico cresciuto alla rovescia, con cinque rami rigidamente curvi che terminavano in altrettanti fiori di vetro. Sistemando il loro riflesso in un punto preciso dello specchio ero in grado di stiracchiare le immagini di mia madre e Fern Dogherty come due elastici, tremolanti e nervose, e riuscivo anche a far cascare la mia faccia orribilmente da una parte, come se avessi avuto un ictus.

Dissi a mia madre: – Come mai non hai portato quel quadro?

– Che quadro? Quale?

– Quello sopra il sofà.

Perché stavo pensando – di quando in quando non potevo farne a meno –, stavo pensando alla nostra cucina in campagna, dove mio padre e lo zio Benny forse proprio in quel momento si friggevano due patate per cena dentro una padella non lavata (perché sprecare tutto quel buon grasso?), tra muffole e sciarpe fumanti ad asciugare sulla stufa. Il nostro cane Major – che non aveva accesso in casa durante il regno di mia madre – dormiva sul linoleum sporco davanti alla porta. Giornali distesi sulla tavola al posto della tovaglia, coperte piene di peli di cane sul sofà, fucili, scarpe da neve e mastelli appesi alle pareti. Cuccia comoda e odorosa da uomini soli. Sopra il divano in effetti c’era un quadro dipinto da mia madre ai tempi del suo matrimonio, quando doveva esserci il sole, svago e amore. Mostrava un viottolo di pietra e un fiume tra le montagne, e un gregge condotto al pascolo da una bambina con lo scialletto rosso. Pecore e montagne si assomigliavano, informi, soffici e violette. Molti anni prima avevo creduto che quella bambina fosse proprio mia madre, nella mesta campagna della sua prima infanzia. Poi venni a sapere che aveva copiato la scenetta di un numero del «National Geographic».

– Quello? Vorresti averlo qui?

In realtà, no. Come succedeva spesso nella nostra conversazione, cercavo solo di manipolarla, di ottenere la risposta, o la rivelazione, che mi stava piú a cuore. Volevo dicesse di averlo lasciato lí per mio padre. Ricordavo di averle sentito dire, una volta, che l’aveva dipinto per lui, perché gli era tanto piaciuta quell’immagine.

– Non mi va che sia appeso dove possono vederlo gli altri, – disse. – Non sono una pittrice. L’ho solo dipinto perché non avevo niente da fare.

Diede una festa tra donne, alla quale invitò Mrs Coutts, a volte chiamata Mrs Coutts dell’avvocato, Mrs Best, il cui marito era il direttore della Bank of Commerce, svariate altre signore che salutava appena per strada, e qualche vicina, colleghe di Fern Dogherty dell’ufficio postale e, naturalmente, zia Elspeth e zia Grace. (Chiese loro di cucinare tartine di pollo alla panna, crostatine al limone e schiacciata di avena ai datteri, e le zie eseguirono). La festa era organizzata nel dettaglio. Appena le signore entravano in casa dovevano provare a indovinare il numero di fagioli contenuti in un barattolo di vetro, e scrivere la cifra su un pezzo di carta. La serata proseguí con altri indovinelli e giochi a quiz preparati con l’aiuto dell’enciclopedia, sciarade che non funzionarono a dovere perché a molte fra le signore non ci fu verso di far capire come procedere, ammesso di vincere la timidezza, e infine un gioco con carta e matita in cui si scrive il nome di un uomo, si ripiega e si passa, poi un verbo, e si ripiega ancora, un nome di donna, e cosí via, e alla fine il foglio viene tutto aperto e letto ad alta voce. In gonna di lana rosa e bolero, io distribuivo noccioline con aria giuliva.

Zia Elspeth e zia Grace si davano da fare in cucina, sorridenti e offese. Mia madre indossava un vestito rosso semitrasparente cosparso di viole del pensiero nere e azzurre, come ricamate. – Credevamo che avesse gli scarafaggi sul vestito, – mi bisbigliò zia Elspeth. – Ci siamo rimaste! – Dopo quello, la festa mi sembrò in effetti meno riuscita di quanto avessi creduto; notai che certe signore non partecipavano a nessun gioco, che mia madre era tutta accaldata in faccia per l’emozione e aveva nella voce una tale frenesia organizzativa che, quando si mise al piano, e Fern Dogherty – che aveva preso lezioni di canto – intonò «Dove andrò senza il mio ben!», le signore si erano irrigidite applaudendo con un certo distacco, come se la giudicassero una cosa al limite del cattivo gusto.

In effetti, per tutto l’anno a venire zia Elspeth e zia Grace di quando in quando mi avrebbero detto: «E come sta la vostra pensionante? Come se la passa senza, senza il suo ben?» Io spiegavo che si trattava di un’aria da un’opera, e loro esclamavano: «Oh, ma davvero? E noi che per tutto questo tempo siamo state in pensiero per lei!»

Mia madre aveva sperato che la sua festa incoraggiasse altre signore a organizzarne di simili, ma non accadde, o comunque noi non ne sapemmo nulla; le signore continuarono a invitare a casa per il bridge che, secondo mia madre, era un passatempo stupido e snob. Poco per volta, rinunciò alla vita sociale. Di Mrs Coutts diceva che era una cretina: durante un gioco a quiz non sapeva neppure bene chi fosse Giulio Cesare – pensava fosse greco – e per di piú faceva errori di grammatica dicendo cose tipo «a secondo del caso» e «malgrado che», come succede spesso a gente che pensa di essere raffinata.

Si iscrisse al gruppo di lettura dei classici che si incontrava ogni secondo giovedí dei mesi invernali nelle sale consiliari del municipio. C’erano altre cinque persone nel gruppo, compreso un medico in pensione, il dottor Comber, un uomo molto fragile, galante e, col senno di poi, tirannico. Aveva capelli serici, bianchissimi, e portava il foulard di seta al collo. La moglie abitava a Jubilee da piú di trent’anni e ancora non sapeva come si chiamasse quasi nessuno, né dove fossero le strade. Era ungherese. Aveva un nome stupendo che spiattellava agli altri ogni tanto, come fosse un pesce su un vassoio, con ogni scaglia di sillaba argentina intatta, anche se non serviva a niente, perché in tutta Jubilee nessuno lo sapeva pronunciare né ricordare. In principio mia madre restò incantata da quella coppia, che aveva sempre desiderato conoscere. Fu entusiasta di essere invitata a casa loro dove guardò le foto della luna di miele in Grecia e bevve vino rosso per non offenderli – sebbene fosse astemia – e ascoltò il racconto di episodi tragici o divertenti che erano capitati a loro due a Jubilee, in quanto atei e intellettuali. La sua ammirazione resistette indenne all’Antigone, si raffreddò un tantino con l’Amleto per farsi poi sempre meno convinta con La Repubblica e Das Kapital. Sembrava che nessuno potesse avere un’opinione, a parte i Comber, i Comber erano piú colti, erano stati in Grecia, avevano ascoltato conferenze tenute da H. G. Wells, avevano ragione, sempre. Mrs Comber e mia madre si trovarono in disaccordo su qualcosa e Mrs Comber sottolineò il fatto che mia madre non aveva frequentato l’università ma solo – qui mia madre imitava il suo accento – un liceo nella campagna sperduta. Mia madre ripassò certe storie che le avevano raccontato e decise che soffrivano di mania di persecuzione («Che sarebbe?», chiese Fern, perché certe espressioni cominciavano solo allora a diventare di moda) e forse non erano del tutto a posto di cervello. Per giunta, in casa loro aveva sentito un odore sgradevole di cui al tempo non ci aveva detto niente e il water, che aveva dovuto utilizzare dopo aver bevuto il vino rosso, era orribile, schifosamente giallo. A cosa serve leggere Platone se poi non pulisci il water?, domandava mia madre, riconvertitasi ai valori di Jubilee.

Non partecipò piú al gruppo di lettura, l’anno dopo. Si iscrisse a un corso per corrispondenza intitolato Grandi pensatori della storia dell’Università dell’Ontario occidentale, e si mise a scrivere lettere ai giornali.

Mia madre non si era scrollata di dosso niente. Dentro la personalità che noi conoscevamo e che poteva a volte risultare un po’ appannata, o distratta, conservava gli aspetti fiduciosi ed energici della ragazza di un tempo; in qualunque momento potevano affiorare scene del passato, come diapositive proiettate sullo schermo affollato e caotico del presente.

Al principio, ma al principio proprio di ogni cosa, c’era stata quella casa. Si ergeva al fondo di un viottolo lungo, recinta di filo spinato, con una finestra di rete metallica floscia per lato, in mezzo a campi in cui le rocce – vestigia dello Scudo precambriano – sporgevano dal terreno come ossa dalla carne. La casa che non avevo mai visto in fotografia – forse non ne era stata scattata neanche una – e che non avevo mai sentito mia madre descrivere se non in modo pratico e nervoso («Era una vecchia casa di legno, mai nemmeno tinteggiata»), ma che avevo stampata in mente come se l’avessi vista su un giornale: la piú nuda, cupa e verticale di tutte le vecchie case di legno, semplicissima e riconoscibile ma per certi versi tremenda, come se racchiudesse il male, come il luogo in cui sia stato commesso un assassinio.

E mia madre, allora solo una bambina di nome Addie Morrison, alta e magra per come me la immaginavo io, coi capelli tagliati cortissimi perché sua madre voleva proteggerla dalle tentazioni della vanità, se ne veniva a piedi da scuola su per il lungo viottolo poco rassicurante, facendosi ciondolare sulla gamba il secchiello dello strutto che aveva contenuto il suo pranzo. Non sembrava fosse eternamente novembre, con la terra durissima, le pozzanghere scheggiate di ghiaccio e i fili d’erba secca che sbucavano dalla rete metallica? Sí, e con la foresta che incombeva spettrale da vicino, spazzata da venti sgangherati e indiscreti che sollevavano i rami degli alberi a uno a uno. Mia madre entrava in casa e trovava il fuoco spento, la stufa fredda, il grasso incrostato su piatti e tegami della cena degli uomini.

Nessuna traccia di suo padre né dei suoi fratelli, che erano piú grandi e avevano già chiuso con la scuola. Non si fermavano mai in casa. La bambina attraversava il soggiorno e si dirigeva in camera da letto dei suoi dove, molto spesso, trovava sua madre inginocchiata, china sul letto, a pregare. Ancora meglio della faccia di sua madre, continuo a immaginarmi quella schiena curva, le spallucce strette in un golfino grigio o marrone indossato su una vestaglia sporca o su un vestito da casa, i capelli sottili tirati sulla nuca a partire dalla scriminatura in mezzo, il cuoio capelluto di un bianco malsano. Come marmo, come un pezzo di sapone.

– Era una fanatica religiosa, – dice mia madre di questa donna genuflessa che, in altre occasioni, veniva sorpresa sdraiata a piangere – per motivi che mia madre non specifica – con un panno umido appoggiato sulla fronte. Una volta, ormai nella fase terminale del suo delirante cristianesimo, si era avviata alla stalla dove aveva cercato di nascondere nel fieno un vitellino destinato al macello. La voce di mia madre mentre racconta queste cose è indurita dalla certezza di essere stata imbrogliata, e conserva intatti i suoi sentimenti di perdita e di rabbia.

– Tu lo sai che cosa ha fatto? Te l’ho raccontato, vero? Ti ho raccontato dei soldi? – Fa un respiro lungo, prima di attaccare: – Sí. Comunque. Aveva ereditato dei soldi. Certi suoi parenti ne avevano, stavano nello stato di New York. Si ritrova con duecentocinquanta dollari, non una grossa cifra, ma al tempo valeva piú di oggi e, come ben sai, noi eravamo poveri. Tu credi che la miseria sia questa. Beh, questo è niente a paragone di quanto eravamo poveri noi. La cerata sul tavolo era talmente consumata che si vedeva il legno nudo in trasparenza. Andava a brandelli. Era uno straccio, non una tela cerata. Le rare volte che avevo ai piedi un paio di scarpe erano da maschio, ereditate da un fratello. Sul nostro terreno non cresceva manco la beccagallina. Una volta per Natale ho ricevuto un paio di mutandoni blu. E sta’ sicura che ero contenta. Sapevo cosa vuol dire avere freddo.

Comunque. Mia madre prende i soldi e ordina uno scatolone di Bibbie. Sono arrivate per corriere espresso. Del tipo piú caro, sai, quelle con le cartine della Terra Santa, le pagine con il bordo dorato e le parole di Gesú Cristo stampate in rosso. Beati i poveri in ispirito. Cosa ci sarà poi di tanto speciale a essere poveri di spirito? Si è spesa fino all’ultimo centesimo.

Come se non bastasse, a noi toccava andare in giro a consegnarle. Le aveva comprate per distribuirle ai pagani. Se non ricordo male, i miei fratelli ne avevano nascosta qualche copia nel granaio. Anzi, ne sono sicura. Ma io ero troppo scema per farmi venire un’idea del genere. A otto anni andavo in giro per la campagna in scarpe da uomo e senza un paio di guanti, a regalare Bibbie.

L’unico vantaggio è che mi ha vaccinato contro la religione per la vita.

Una volta aveva mangiato cetrioli bevendo latte perché aveva sentito che l’abbinata risultava velenosa e lei voleva morire. Ma era piú curiosa che depressa. Si coricò sperando di svegliarsi in quel paradiso di cui aveva tanto sentito parlare e invece quando riaprí gli occhi era il mattino dopo. Anche questo influenzò la sua fede. Non lo disse a nessuno, al tempo.

Il fratello maggiore a volte le portava delle caramelle, dal paese. Si radeva al tavolo di cucina, con uno specchio poggiato alla lampada. Era vanitoso, secondo lei, portava i baffi e riceveva lettere da ragazze alle quali non rispondeva mai, ma che in compenso lasciava in giro cosí tutti potevano leggerle. Sembra che mia madre ce l’avesse con lui per questo. «Non mi faccio nessuna illusione su di lui, – diceva, – anche se non credo sia poi tanto diverso dagli altri, in linea di massima». Adesso stava a New Westminster e lavorava su un traghetto. L’altro fratello abitava negli Stati Uniti. A Natale mandavano un biglietto di auguri, e lei ricambiava. Mai una lettera, né loro, né lei.

Dei due era il minore quello che detestava. Cosa le aveva fatto? Le sue risposte non erano mai del tutto soddisfacenti. Era cattivo, borioso, crudele. Un ciccione crudele. Dava i petardi da mangiare ai gatti. Una volta aveva catturato un rospo e poi l’aveva fatto a pezzi. Aveva annegato il micino di mia madre, di nome Misty, nell’abbeveratoio delle mucche, anche se si era rifiutato di ammetterlo. E aveva fatto prigioniera mia madre per legarla nella stalla e tormentarla. Tormentarla? Torturarla, anzi.

Con cosa? Mia madre non voleva saperne di andare oltre, oltre quella parola, torturare, che sputava fuori come un grumo di sangue. E cosí a me non restava che immaginarla legata nella stalla come al palo della tortura, mentre il fratello, un grasso pellerossa, le saltellava intorno strepitando. Eppure in fondo se l’era cavata, senza perdere lo scalpo, senza bruciacchiare. Niente che spiegasse veramente, a quel punto della storia, la sua faccia cupa, quel suo modo di dire mi torturava. Non avevo ancora imparato a riconoscere l’aria buia che la invadeva in prossimità dell’argomento sesso.

Sua madre morí. Era andata a farsi operare ma aveva grosse masse in entrambi i seni e morí, diceva sempre mia madre, lí sul tavolo, il tavolo operatorio. Da giovane ricordo che me la immaginavo morta, distesa su un tavolo qualunque, fra le tazze, le marmellate, la salsa rossa.

«Tu hai pianto?», chiedevo io speranzosa, e mia madre rispondeva sí, certo che aveva pianto. Ma non si soffermava su quella scena. Stavano per succedere fatti importanti. Di lí a poco finí le medie, aveva superato gli esami di ammissione e avrebbe voluto iscriversi al liceo, in centro. Ma suo padre disse di no, che lei doveva rimanere a casa a occuparsi della famiglia finché non si sposava. («Ma chi avrei mai potuto sposare, benedetto Iddio? – esclamava sempre con rabbia mia madre a quel punto del racconto, – relegata lassú, alla fine del mondo, dove nascevano tutti strabici a furia di imparentarsi fra loro?») Dopo due anni passati a casa, disperata, a studiare qualcosa per conto suo su vecchi manuali di scuola di sua madre (era stata maestra, a suo tempo, prima che matrimonio e religione la travolgessero), sfidò suo padre e si fece a piedi le nove miglia fino al paese, nascondendosi fra gli arbusti al ciglio della strada appena sentiva arrivare un cavallo per paura che potessero essere loro, venuti a prenderla sul vecchio carretto per riportarla a casa. Bussò alla porta di un pensionato che conosceva grazie alla vendita delle uova e chiese vitto e alloggio in cambio di lavoro in cucina e servizio a tavola. La donna che gestiva la pensione la accolse – era una brava vecchia, un po’ burbera, che tutti chiamavano Nonna Seeley – e la tenne lontana dal padre finché fu necessario, e le regalò perfino un vestito scozzese di lana ruvida troppo lungo che lei si mise per andare a scuola il primo giorno quando si presentò dinanzi a una classe di allieve tutte piú giovani di lei di due anni e lesse in latino pronunciandolo come faceva da sola quand’era a casa. Va da sé che scoppiarono tutte a ridere.

E mia madre non poteva fare a meno, non poté mai fare a meno, di emozionarsi e commuoversi, a quel ricordo; la vecchia se stessa, la ragazza di allora la meravigliava moltissimo. Oh, se potessimo scegliere un attimo del nostro tempo, il momento in cui essere giudicati, nella nostra assoluta nudità, fra lo strazio e l’estasi, beh, quello sarebbe stato il momento, per lei. Piú tardi sarebbero venuti il compromesso e l’errore, forse; ma in quell’istante c’era solo ineffabile inviolabilità.

Comunque, al pensionato, ha inizio un capitolo nuovo della vita. In piedi fin dalle ore buie del mattino a pulire verdure, metterle a bagno nell’acqua fredda fino al pranzo di mezzogiorno. Lavare vasi da notte, asciugarli e cospargerli di talco. Niente wc, in paese. «Ho svuotato vasi da notte per pagarmi gli studi!», diceva, senza preoccuparsi di chi la ascoltava. Ma a usarli era un mucchio di bella gente. Impiegati di banca. Il telegrafista della Canadian National Railway. La maestra, Miss Rush. Miss Rush insegnò a mia madre a cucire, le regalò della bellissima lana merino per un vestito e una sciarpa gialla con le frange («Chissà dove è andata a finire?», si domandava mia madre in tono molto afflitto), e dell’acqua di colonia. Mia madre adorava Miss Rush; le rifaceva la stanza e raccoglieva tutti i capelli di lei che trovava sul suo tavolino o nel pettine, e quando ne ebbe abbastanza ne fece una treccina legata a un nastro da mettersi al collo. Ecco quanto l’adorava. Miss Rush le insegnò a leggere la musica e a suonare al pianoforte che nonna Seeley teneva in soggiorno canzoni che avrebbe saputo ancora oggi, anche se ormai non suonava quasi piú. Drink to Me Only with Thine Eyes e The Harp that Once through Tara’s Halls e Bonny Mary of Argyle.

E poi che ne era stato di Miss Rush, con tutta la sua bellezza e i ricami e il pianoforte? Si era sposata, piuttosto tardi, ed era morta dando alla luce un figlio. Anche il bambino era morto e gliel’avevano messo tra le braccia, come un bambolotto di cera, con una vestina lunga; mia madre lo aveva visto.

Le storie del passato come questa, gira, gira, arrivavano alla morte; me l’aspettavo.

Nonna Seeley, ad esempio, fu trovata morta nel suo letto un mattino d’estate quando mia madre aveva appena finito il quart’anno di superiori e nonna Seeley le aveva promesso di darle i soldi per iscriversi al magistero, un prestito da restituire quando fosse poi diventata maestra. C’era da qualche parte un pezzo di carta sul quale l’aveva lasciato scritto, ma non si riuscí mai a trovarlo. O meglio, secondo mia madre trovato era stato trovato, dal nipote di nonna Seeley e da sua moglie, che si erano presi la casa e i soldi; dovevano averlo distrutto. Il mondo è pieno di gente cosí.

Perciò mia madre dovette andare a lavorare; fu assunta in un grande negozio a Owen Sound dove presto divenne la responsabile del reparto tessuti e aguglierie. Si fidanzò con un giovanotto che rimase un’ombra – non certo un malvagio a tinte fosche come il fratello, o come il nipote di nonna Seeley, ma neppure un personaggio radioso e amabile, non una Miss Rush, insomma. Per motivi ignoti, fu costretta a rompere il fidanzamento («Non era il tipo di persona che avevo creduto che fosse»). Piú tardi, in un dopo non meglio specificato, conobbe mio padre, che a quanto pare era invece il tipo di persona che aveva creduto che fosse, perché lo sposò, pur avendo giurato a se stessa che non avrebbe mai sposato un contadino (un allevatore di volpi in effetti che, per un certo periodo, aveva sperato di potersi arricchire; ma faceva forse qualche differenza?) e nonostante la famiglia di lui avesse già cominciato a fare commenti poco benevoli sul suo conto.

– Ma tu ti eri innamorata, – le ricordavo decisa, nervosa, volendo sancirlo una volta per tutte. – Tu ti eri innamorata, no?

– Beh, sí, certo.

– Come mai ti eri innamorata?

– Tuo padre è sempre stato un galantuomo.

Tutto qui? A quel punto sentivo una specie di sproporzione, anche se avrei fatto fatica a dire che cosa mancasse, o non funzionasse. Al principio della sua storia c’erano schiavitú e sofferenza, seguite da audacia, sprezzo del pericolo, fuga. Lotte, disillusioni, ancora lotte, fate-madrine e malfattori. Ora, come in ogni storia esemplare e rassicurante, mi aspettavo un’esplosione di gloria, la ricompensa con la R maiuscola. Il matrimonio con mio padre? Speravo fosse proprio quello, speravo che non mi avrebbe lasciato dubbi, al riguardo.

Quando ero piú piccola, laggiú al fondo di Flats Road, la guardavo attraversare il cortile per rovesciare l’acqua dei piatti, tenendo alta la bacinella, come una sacerdotessa; incedeva senza fretta, solenne, e gettava l’acqua oltre la recinzione con un gesto grandioso. Allora, la immaginavo potente, come un sovrano, appagata, anche. Potere ne aveva ancora, sebbene non quanto pensasse. Ma appagata non lo era per niente. Altro che sacerdotessa. Le gorgogliava sonoramente la pancia e lei ci rideva su, oppure ignorava il senso di quei messaggi che imbarazzavano mortalmente me. I capelli ora le crescevano a chiazze e indisciplinati fra il castano e il grigio; se si faceva la permanente, le diventavano crespi. Possibile che tutte le sue storie in fin dei conti dovessero concludersi con lei com’era adesso, semplicemente mia madre, a Jubilee?

Un giorno venne alla mia scuola, in rappresentanza della casa editrice dell’enciclopedia, a promuovere un premio per il miglior componimento sul tema «perché acquistare Victory Bonds». Doveva sponsorizzare i buoni dello stato anche nelle scuole di Porterfield, Blue River e Stirling; fu una settimana gloriosa per lei. Indossava un orrendo tailleur blu marina tutt’altro che femminile, chiuso a vita con un solo bottone, e un cappello di feltro amaranto, il migliore che avesse, sul quale però, con mia disperazione, mi pareva di scorgere un velo di polvere. Tenne un breve discorso. Io incollai lo sguardo sul maglioncino della ragazza davanti a me – era celeste, lavorato ai ferri a noccioline di lana sporgenti – come se l’aggrapparmi a inezie della realtà mi potesse salvare dall’annegamento per umiliazione. Era cosí diversa, tutto qui, cosí fiduciosa, ingenua, frizzante, col suo cappellino amaranto, le sue battute spiritose, la convinzione di essere un successo. Per pochi centesimi si gettava a capofitto nella sua biografia scolastica, con le nove miglia a piedi fino al paese e i vasi da notte. Chi poteva avere una madre cosí? Le altre mi lanciavano occhiate furtive di gongolante commiserazione. All’improvviso ogni cosa di lei mi era intollerabile: il tono della voce, i piccoli gesti sconsiderati (in ogni momento rischiava di far cadere il calamaio dalla cattedra della preside) ma, soprattutto, il suo candore, l’incapacità di accorgersi quando la gente rideva, e l’idea di poterla fare franca.

Detestavo che lei vendesse enciclopedie, tenesse discorsi e si mettesse quel cappello. Detestavo che scrivesse lettere ai giornali. Lettere sui problemi della comunità locale o lettere in cui promuoveva l’istruzione e i diritti delle donne e si schierava contro la religione obbligatoria nelle scuole; venivano pubblicate a suo nome sull’«Herald-Advance» di Jubilee. Altre uscivano su una pagina del giornale metropolitano destinata alla corrispondenza femminile, e per quelle utilizzava il nom de plume Principessa Ida, preso in prestito dal personaggio di Tennyson che lei ammirava. Erano piene di lunghe descrizioni decorative della campagna da cui era fuggita (Questa mattina una strabiliante galaverna d’argento invita lo sguardo su ogni ramoscello, ogni cavo del telefono, e rende il mondo un autentico paese delle fiabe…) e contenevano perfino riferimenti a Owen e a me (mia figlia, la cui infanzia ha i minuti contati, dimentica il decoro scoperto da poco e torna a scorrazzare nella neve), cosa che mi faceva rabbrividire di vergogna fino alla radice dei denti. Persone che non erano solo zia Elspeth e zia Grace mi dicevano: «Ho visto la lettera di tua madre sul giornale», e io sentivo tutto il loro sdegno, la silenziosa, invidiabile, immensa superiorità, di persone che per tutta la vita potevano restare quiete, senza bisogno di fare o dire qualcosa di memorabile.

Dentro di me non ero tanto diversa da mia madre, ma lo nascondevo sapendo a quali rischi ci si esponeva.

Il secondo inverno che passammo a Jubilee ricevemmo visite. Era un sabato pomeriggio e io sgomberavo il nostro marciapiede. Vidi una grossa auto infilare il muso in mezzo ai mucchi di neve senza fare rumore, come un pesce impertinente. La targa era americana. Capitava che la gente arrivasse fino al fondo di River Street – non essendo segnata in nessun punto come via cieca – e, all’altezza di casa nostra, cominciasse a chiedersi come uscirne.

Scese dall’auto un estraneo. Indossava un cappotto, cappello di feltro grigio, sciarpa di seta, in pieno inverno. Era alto, massiccio; una faccia triste, avvizzita, fiera. Mi tese le braccia in un gesto allarmante.

– Andiamo, vieni a salutarmi! Io so come ti chiami, ma scommetto che tu invece non sai chi sono.

Mi si avvicinò – io mi ero bloccata con la pala in mano – e mi baciò sulla guancia. Un odore virile fra il dolciastro e l’acre: lozione dopobarba, acidità di stomaco, camicia fresca di bucato, piú un qualche spaventoso fetore segreto. – La tua mamma si chiama Addie Morrison, per caso? Eh?

Nessuno chiamava piú mia madre Addie. La faceva sembrare diversa: piú paffuta, piú semplice, piú sciatta.

– La tua mamma è Addie, tu sei Della e io sono tuo zio Bill Morrison. Capito chi sono? Ehi, ma io ti ho dato un bacio e tu no. Funziona cosí da queste parti?

Nel frattempo, da casa, usciva mia madre con un velo di rossetto frettolosamente steso sulle labbra.

– Allora, Bill. Non sei uno che crede sia meglio avvisare, direi. Non fa niente, ci fa piacere vederti –. Pronunciò queste parole con una certa risolutezza, come se esponesse una tesi.

Era proprio suo fratello, dunque, l’americano, il mio zio di sangue.

Si voltò verso l’auto con un cenno. – Puoi anche scendere adesso. Non ti morde nessuno.

Si aprí la portiera dalla parte del passeggero e una signorina alta uscí lentamente, per via di una difficoltà data dal cappello. Alto da un lato della testa e basso dall’altro, era reso anche piú ingombrante da un piumaggio verde, verticale. La donna indossava un sette ottavi di volpe argentata su un abito verde e scarpe in tinta a tacco alto, senza galosce.

– Quella è tua zia Nile, – disse zio Bill rivolgendosi a me come se lei non ci sentisse o non capisse l’inglese, come se fosse un dettaglio eccezionale del paesaggio che occorreva illustrare. – Non l’avevi mai vista. Avevi già visto me, ma eri troppo piccola per poterti ricordare. Lei, non l’avevi mai vista. Perfino io non l’avevo mai vista fino all’estate scorsa. L’altra volta ero sposato con tua zia Callie e adesso con zia Nile. L’ho conosciuta ad agosto, e l’ho sposata a settembre.

Il marciapiede non era ancora ben sgombro. Zia Nile inciampò sui tacchi alti e gnaulò, sentendo la neve che le entrava in una scarpa. Frignava come un bambino sconsolato e disse a zio Bill: «Per poco non mi sono slogata una caviglia», come se intorno non ci fosse nessun altro.

– Non è lontano, – la incoraggiò lui, e le prese il braccio per sostenerla lungo il resto del tragitto sul marciapiede, su per i gradini e nel portico, come una signora cinese (avevo appena finito di leggere La buona terra, preso in prestito alla biblioteca civica) per la quale camminare sia un’attività innaturale e poco frequente. Mia madre e io li seguimmo senza aver salutato Nile, perciò nella penombra dell’ingresso mia madre esclamò: – Comunque, benvenuta! – e zio Bill aiutò Nile a sfilarsi la pelliccia e mi disse: – Ecco, tu prendi questa e appendila da qualche parte. Mi raccomando, mettila da sola, non vicino ai giacconi da stalla! – Accarezzandone il pelo, mia madre disse a Nile: – Dovresti andare giú alla fattoria, cosí ne vedi qualcuna viva, di queste –. Il tono era scanzonato, innaturale.

– Intende di volpi, – disse a Nile lo zio Bill. – Come quella della tua pelliccia –. E a noi: – Non credo abbia mai saputo che la pelliccia viene dagli animali vivi. Deve aver pensato che la producessero direttamente in negozio! – Frattanto Nile aveva l’aria sconcertata e infelice di una persona che non abbia mai sentito parlare di paesi stranieri e si ritrovi improvvisamente strappata da casa e depositata chissà dove, circondata da gente che parla una lingua inimmaginabile. Non pareva che l’adattabilità fosse precisamente il suo forte. Perché mai, dopotutto? Avrebbe soltanto messo in crisi la sua perfezione. Era perfetta, Nile, e piú giovane di quanto avessi creduto al principio, poteva avere sui ventidue, ventitre anni. Aveva una pelle immacolata, come una tazza di porcellana rosa; la bocca sembrava ritagliata nel velluto bordeaux e poi incollata al suo posto. Aveva un profumo di celestiale dolcezza e le unghie – lo notai fra l’incantato e l’incredulo, quasi con un filo di perplessità, come se avesse voluto un po’ strafare – erano dipinte di verde, in abbinamento al vestito.

– È un capo bellissimo, – disse mia madre, in tono piú serio.

Zio Bill la guardò con rincrescimento. – Tuo marito non farà mai i soldi in questo ramo, Addie; è tutto in mano agli ebrei. Allora, esiste una cosa chiamata tazza di caffè in questa casa? Giusto per riscaldare un po’ me e la mia mogliettina?

Il problema era che non esisteva, in effetti. Mia madre e Fern Dogherty bevevano tè, in quanto piú economico, e Postum al mattino. Ci guidò tutti quanti in camera da pranzo dove Nile sedette e lei disse: – Non vi andrebbe un bel tè bollente, invece? Purtroppo ho finito il caffè.

Lo zio Bill la prese bene. Tè, no, grazie, disse, ma se aveva finito il caffè poteva andare lui a comprarlo. – Un alimentari in paese ce l’avete? – mi chiese. – Dovete averne uno se non due. Il paese è grande, nelle strade ci sono perfino i lampioni, li ho visti. Tu e io adesso ci mettiamo in macchina e andiamo a fare la spesa, intanto che le due cognate fanno conoscenza.

Veleggiai al suo seguito e a bordo della grossa vettura color panna e cioccolato, odorosa di pulito, percorremmo River Street, Mason Street e tutta la Main Street di Jubilee. Parcheggiammo davanti all’alimentari Red Front, dietro una slitta trainata da cani.

– E questo sarebbe un negozio di alimentari?

Non mi volli sbilanciare. E se dicevo di sí e poi si scopriva che non aveva nessuna delle cose che voleva lui?

– La tua mamma viene sempre a comprare qui?

– Qualche volta.

– Allora mi sa che dobbiamo farcelo bastare.

Dalla prospettiva di quella macchina vedevo la slitta coi cani carica di sacchi di mangime, l’alimentari Red Front e l’intera strada in modo diverso. Jubilee non sembrava piú unica e inalterabile come avevo sempre pensato, ma un posto dimesso, quasi provvisorio; inadeguato.

Il negozio era appena stato trasformato in un self-service, il primo per noi. I corridoi risultavano troppo stretti per i carrelli, ma c’erano dei cestini da portare al braccio. Zio Bill voleva il carrello. Domandò se non c’erano altri negozi in paese che ce l’avessero, ma gli dissi di no. Stabilito questo, prese ad andare su e giú per i corridoi elencando i prodotti ad alta voce. Si comportava come se nel negozio non ci fosse nessuno, come se gli articoli prendessero vita solo quando li nominava e il negozio stesso non fosse reale e avesse assunto forma e consistenza nel momento in cui lui aveva detto di averne bisogno.

Comprò caffè, frutta sciroppata, verdura in scatola, formaggio, datteri e fichi secchi e preparati per budino e pasta precotta e cioccolata calda istantanea e ostriche e sardine in scatola. – Questo ti piace? – continuava a chiedere. – Questa qui, sí? L’uva passa? I cornflakes? Il gelato? Dove lo tengono, il gelato? Che gusto ti piace? Cioccolato? È il tuo preferito, il cioccolato? – Alla fine non volevo piú posare lo sguardo su nessun prodotto, per paura che decidesse di comprarlo.

Si fermò davanti alla vetrinetta metallica che esponeva i contenitori di caramelle sfuse. – Scommetto che i dolci ti piacciono. Che cosa vuoi? Liquirizia? Gelatine di frutta? Croccantino alle arachidi? Facciamo un misto, prendiamo tutti e tre. Ma ti verrà sete, con tutte quelle noccioline. Meglio che prendiamo qualche bibita.

E non era tutto. – Ce l’avete una pasticceria, in paese? – disse, cosí lo portai da McArter dove comprò due dozzine di butter tart e altrettante brioche con glassa e noci, piú una torta al cocco alta una spanna. Era esattamente come nella storia per piccoli che avevo a casa, dove una bambina ottiene di poter esprimere un desiderio per ogni giorno della settimana e tutti quanti, ovviamente, la rendono solo infelice. Uno dei desideri è di avere tutto quello che abbia mai voluto mangiare. Io andavo sempre a cercare quel passaggio e leggevo le descrizioni piú volte per puro piacere, ignorando i castighi successivi, inflitti da forze soprannaturali sempre allerta sui peccati di gola. Ora però mi rendevo conto che il troppo poteva davvero stroppiare. Perfino Owen avrebbe alla fine potuto deprimersi di tanta idiota abbondanza che mandava a rotoli l’intero sistema di ricompense a base di prelibatezze.

– Sei come una fata-padrino, – dissi a zio Bill. Volevo che il mio commento suonasse maturo, leggermente ironico; inoltre, avrei voluto che l’espressione iperbolica sapesse esprimere la gratitudine che non ero certa di provare a sufficienza. Lui però la prese come una semplicissima bambinata, da riferire a mia madre appena tornammo a casa.

– Dice che sono una fata-padrino, ma a me è toccato pagare sull’unghia!

– Comunque, non so cosa potrei farmene di tutta questa roba, Bill. Dovete portarvene via un po’.

– Non siamo certo venuti fin qui dall’Ohio per fare la spesa. Mettila via. A noi non serve. Per quanto mi riguarda, se a fine pasto ho il mio gelato al cioccolato, che ci sia il resto o che non ci sia non m’interessa. Mai perso il debole per i dolci. Ho perso peso, in compenso, sai? Una dozzina di chili, dall’estate scorsa.

– Non mi sembri ancora un caso da segnalare alla Croce Rossa.

Mia madre tolse la tovaglia con le macchie di tè e ketchup del giorno prima e apparecchiò con un’altra pulita, quella che lei chiamava a ricamo Madeira, il suo miglior regalo di nozze.

– Sai che ero uno scricciolo, una volta? Un neonato pelle e ossa. A due anni sono quasi morto di polmonite. È stata la mamma a salvarmi, imboccandomi. Sono stato fermo per molto tempo e cosí sono ingrassato.

– Mamma, – disse, assaporando l’appellativo con una certa tristezza. – Non era una specie di santa in terra? A Nile dico sempre che avrebbe dovuto conoscerla.

Mia madre rivolse a Nile un’occhiata stupita (che avessero fatto davvero conoscenza le due cognate?) ma non specificò se riteneva che sarebbe stata una buona idea.

Chiesi a Nile: – Vuoi il piatto coi fiori o quello con gli uccelli? – Volevo solo farla parlare.

– Non importa, – mormorò lei, fissandosi le unghie verdi come se fossero talismani in grado di farle tollerare un posto cosí.

A mia madre invece importava. – Apparecchia coi piatti uguali, non siamo poi cosí poveri da non avere un servizio completo, no?

– Ti vesti di verde Nilo perché ti chiami Nile? – le chiesi ancora, per sollecitarla. – Quel colore lí è verde Nilo? – La giudicavo un’idiota, eppure mi piaceva da matti, le ero grata per ogni parola che aveva la grazia di farsi sfuggire di bocca come un sassolino incolore. Rappresentava il culmine della perfetta artificiosità ornamentale del femminile, una qualità di cui non conoscevo neppure l’esistenza; vedendo lei mi rendevo conto che non sarei mai stata bella.

– È pura coincidenza se mi chiamo Nile –. (Non escludo che avesse detto conincidenza). – Era il mio colore preferito quando nemmeno sapevo che c’era un color verde Nilo.

– Io non sapevo che ci fosse lo smalto verde Nilo, invece.

– Bisogna ordinarlo apposta.

– Mamma sperava che rimanessimo in campagna, dove ci aveva cresciuti, – disse zio Bill, seguendo il filo dei suoi pensieri.

– Non lo augurerei a nessuno di vivere in un posto cosí. Manco la beccagallina ci cresceva.

– L’aspetto economico non è sempre l’unica cosa, Addie. C’è anche la vicinanza con la natura. Senza tutto questo correre di qua e di là, affannarsi, farsi del male da soli. Dimenticando la fede cristiana. Mamma la trovava una buona vita.

– Cosa c’è di tanto buono nella natura? La natura è giusto un ciclo continuo di prede e predatori. È solo spreco e crudeltà, magari non dal punto di vista della natura ma dal nostro di esseri umani, sí. La legge di Natura è la crudeltà.

– Non mi riferivo a questo, Addie. Non parlavo di animali selvaggi e roba simile. Pensavo alla vita che facevamo a casa, senza troppe comodità, d’accordo, però era una vita semplice, avevamo un lavoro, aria buona e un bell’esempio spirituale nella mamma. È morta giovane, Addie. Ha sofferto.

– Sotto anestesia, – disse mia madre. – Perciò a rigor di logica spero che sia morta senza soffrire.

A cena raccontò allo zio Bill delle enciclopedie che vendeva.

– Ne ho vendute tre l’autunno scorso, – cosí disse, anche se in effetti una l’aveva venduta e su altre due situazioni abbastanza promettenti stava ancora lavorando. – In questo momento ci sono soldi nelle campagne. È per via della guerra.

– Non ci si arricchisce col porta a porta in campagna, – disse zio Bill, chino sul piatto a mangiare con lena, come fanno i vecchi. Sembrava un vecchio a guardarlo. – Cosa hai detto che vendi?

– Enciclopedie. Libri. Sono un gran prodotto. Avrei dato un occhio della testa per avere libri cosí in giro per casa quando ero bambina –. Doveva essere almeno la cinquantesima volta che la sentivo fare quel commento.

– Tu sei andata a scuola. Io ne ho fatto a meno. Ma questo non mi ha fermato. Scordati di vendere libri ai contadini. Hanno troppo senso pratico. Sono tirati coi loro soldi. Non è con queste cose che ci si arricchisce. È con la proprietà immobiliare. I soldi si fanno con l’immobiliare e con gli investimenti finanziari, se uno se ne intende un po’ –. E attaccò un lungo racconto, tutto una premessa e un distinguo sui dettagli, riguardo alla compravendita di case. Acquisti, vendite, acquisti, edilizia, dicerie, minacce, rischi, garanzie. Nile non ascoltava per niente ma sospingeva il mais in scatola ai lati del piatto, infilzandolo con la forchetta un chicco per volta – passatempo puerile che neppure a Owen sarebbe stato concesso. Owen, intanto, non apriva bocca e mangiava in silenzio con il chewing-gum appiccicato sull’unghia del pollice: mia madre non se n’era accorta. Fern Dogherty non c’era; era andata a trovare sua madre all’ospedale della contea. Mia madre ascoltava il fratello con un’espressione a metà fra la disapprovazione e l’astuzia partecipe.

Suo fratello! Era questo il problema, il fatto indigesto. L’attuale zio Bill era fratello di mia madre, il ciccione terribile, tanto dotato a livello di perfidia, di astuzia, tanto ingegnoso, pronto, temibile. Continuavo a guardarlo cercando di far saltar fuori dall’uomo ingiallito il bambino di allora. Ma non lo trovavo. Era sparito, come una piccola serpe maculata, un tempo velenosa e scattante, morta soffocata dentro un sacco di farina.

– Te li ricordi i bruchi, come salivano sulla pianta pappagallo?

– I bruchi? – esclamò incredula mia madre. Si alzò per andare a prendere una spazzolina di ottone con paletta abbinata, un altro regalo di nozze. Prese a raccogliere le briciole dalla tovaglia.

– Salgono sulla pianta pappagallo in autunno. Cercano il latte, sai, quel succo della pianta… Se lo bevono tutto e, quando sono belli grassi e pieni di sonno, si imbozzolano. Comunque, una volta ne aveva trovato uno e ce l’ha portato in casa…

– Ma chi?

– Mamma, Addie. Chi altro si sarebbe mai preso il disturbo? Era un bel po’ prima che arrivassi tu. Lo porta in casa e lo sistema sopra la porta dove io non potevo arrivare. Non avevo intenzioni cattive ma ero un bambino come tutti gli altri. Il bruco è rimasto nel bozzolo per tutto l’inverno. Mi ero scordato che fosse lí. Poi la domenica di Pasqua, eravamo tutti insieme dopo pranzo – era Pasqua ma fuori c’era una bufera di neve – e mamma dice: «Guardate!» Guardate, ci fa, e cosí abbiamo guardato in su, sopra la porta, e abbiamo visto quel coso che cominciava a muoversi. Assottigliava il bozzolo, lo tirava e lo lavorava da dentro, poi si stancava, si fermava e poi riprendeva. Ci sarà voluta mezzora, quaranta minuti, ma noi non abbiamo mai smesso di guardare. E abbiamo visto uscire la farfalla. Era come se il bozzolo alla fine si fosse afflosciato, come uno straccio. La farfalla era gialla, piccola e maculata. Aveva le ali ancora incollate. Ci ha messo un po’ per liberarle. Pulirne una, con pazienza, distenderla. Pulire l’altra. Distendere anche quella, tentare un minuscolo volo. Mamma ha commentato: «Guardate bene. E non ve lo scordate. È quello che avete visto il giorno di Pasqua». Non scordatelo mai. Non l’ho mai scordato, infatti.

– Che ne è stato dopo? – chiese indifferente mia madre.

– Quello non me lo ricordo. Tanto non deve essere durata, in quel clima. Ma era bella da vedere – mentre si preparava un’ala, poi l’altra. Provare a volare. La primissima volta che usava le ali –. E rise, come se chiedesse un po’ scusa, per la prima e ultima volta in tutta la visita. Poi però sembrò stanco, vagamente deluso, e si appoggiò le mani sullo stomaco da cui provenivano giustificati e discreti borboglii digestivi.

Tutto questo era successo nella stessa casa. La stessa casa dove mia madre trovava il fuoco eternamente spento e sua madre genuflessa a pregare, e dove si era mangiata cetrioli e latte sperando di andarsene in paradiso.

Lo zio Bill e Nile rimasero tutta la notte, dormendo sul divano del soggiorno che si tirava fuori e diventava un letto. Le lunghe, profumate, smaltate membra di Nile si coricarono cosí vicine alle carni cascanti di mio zio, cosí vicine al suo odore. Non immaginavo che dovessero fare nient’altro, perché ero convinta che la smania sudata del sesso fosse roba da bambini, che col decoro dell’età adulta si superava, fatta eccezione per quegli improbabili e inevitabili incontri destinati al concepimento di un figlio.

Domenica mattina, appena ebbero fatto colazione, se ne andarono e non li rivedemmo mai piú.

Qualche giorno dopo di punto in bianco mia madre mi disse: – Tuo zio Bill sta morendo.

Era quasi ora di cena; aveva messo a cuocere delle salsicce. Fern non era ancora tornata dal lavoro. Owen era appena rientrato dall’allenamento di hockey e scaraventava pattini e mazza nel ripostiglio sul retro. Mia madre le salsicce le cuoceva finché non diventavano dure, lustre e scurissime da fuori; non le avevo mai mangiate se non cosí.

– Sta morendo. Domenica mattina era qui seduto quando sono scesa per mettere l’acqua sul fuoco e me l’ha detto. Ha un tumore.

Continuava a far rotolare le salsicce con la forchetta e si era strappata un cruciverba mezzo risolto dal giornale per metterselo accanto alla stufa. Pensai allo zio Bill che andava in paese a comprare butter tart e torta gelato al cioccolato e poi tornare a casa a mangiare. Ma come ci riusciva?

– L’appetito non gli è mai mancato, – disse mia madre, come seguendo la stessa linea di pensiero, – e neanche la prospettiva della morte glielo ha rovinato, a quanto pare. Chi lo sa? Forse, se avesse mangiato di meno, sarebbe diventato vecchio.

– Nile lo sa?

– Cosa vuoi che importi che cosa sa? L’ha sposato per garantirsi i piedi al caldo. Se la caverà benone.

– Lo detesti ancora?

– Ma figurati se lo detesto, – mi liquidò mia madre senza convinzione. Guardai la sedia dove era stato seduto. Avevo paura di essere contagiata, non dal cancro, ma dalla morte stessa.

– Mi ha detto che mi ha lasciato trecento dollari nel testamento.

A quel punto che altro fare, se non venire a patti con la vita pratica?

– Come pensi di spenderli?

– Mi verrà di certo in mente qualcosa, a suo tempo.

La porta si aprí, era Fern che rientrava.

– Potrei sempre ordinare uno scatolone di Bibbie.

L’attimo prima che da un lato arrivasse Fern e dall’altro Owen, qualcosa calò nella stanza come un colpo d’ala, l’abbassarsi di una mannaia, una sensazione di dolore acutissima, ma fulminea, isolata, evanescente.

– C’è questo dio egizio di quattro lettere, – disse mia madre, concentrandosi sul cruciverba, – lo so che la so, ma non mi viene in mente manco a morire.

– Isis.

– Isis è una dea, mi stupisco di te.

Poco tempo dopo la neve cominciò a sciogliersi; il Wawanash esondò portandosi via cartelli stradali, paletti delle recinzioni e pollai; poi rientrò negli argini. Le strade tornarono piú o meno praticabili e mia madre riprese a viaggiare di pomeriggio. Una delle zie di mio padre – non importa mai quale delle due – disse: – Ora dovrà rinunciare a scrivere lettere ai giornali.