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Un cupo rimbombo annunciò che la frana era giunta a valle, nel fondo del canyon. L’oscurità più completa li avvolgeva. I due prigionieri sentirono che intorno a loro si era formata una nube di polvere.

– Jupe! – gridò Pete. – Qui si soffoca: siamo in trappola!

– Un fazzoletto sulla bocca, Pete – consigliò Jupiter. – E vieni più indietro. Qui c’è spazio: l’aria non ci mancherà, per il momento, e neanche la luce, grazie alla lampada di Skinny.

– Ma perbacco! – scattò Pete. – È proprio a causa di Skinny che siamo finiti qui dentro. O te ne sei dimenticato?

– No, ma non abbiamo prove che sia stato lui a far cadere i sassi e ad attirarci quassù. E anche se fosse stato lui, potrebbe averlo fatto senza cattive intenzioni. Uno sbaglio, insomma! Jupiter aveva intanto accesa la torcia di Skinny e ne faceva girare il cono luminoso in su e in giù per rendersi conto del luogo in cui si trovavano.

In quel punto la caverna era alta un paio di metri circa e larga un po’ meno: in complesso era più ampia di quello che si poteva supporre vedendola dall’esterno. Nella parte posteriore, si restringeva sensibilmente fino a diventare poco più di una fessura assolutamente impraticabile.

L’ingresso era bloccato da un macigno che ne occupava più della metà. Per il resto si trattava di una specie di muro fatto di sassi più o meno grandi, ben incastrati insieme e amalgamati al terriccio che riempiva ogni più piccolo interstizio. L’esame di Jupiter durò un bel pezzo. Infine l’investigatore capo asserì gravemente:

– L’accesso è ostruito dall’esterno.

Pete non poté fare a meno di sentirsi irritato.

– Ma perbacco – esclamò. – Possibile che anche in un momento come questo, tu attacchi con le tue solite sentenze? Ti dico io cos’è accaduto. Chiaro e netto, te lo dico: siamo in trappola, non usciremo più!

– Perché dovrei dire una cosa simile? – fece l’altro senza scomporsi. – Non è ancora dimostrato che siamo in trappola e che non usciremo più. Non perderti d’animo e aiutami a spingere. Se riuscissimo a smuovere questo macigno…

Non ci riuscirono, anche spingendo con tutte le loro forze e fino a perdere il fiato.

Pete si rannicchiò in un angolo e si riposò brontolando.

– Non ce la faremo mai e poi mai – attaccò con voce cupa. –Verranno a cercarci, Worthington e Bob, ma non qui, al castello. Poi chiameranno la polizia e frugheranno la collina. Forse ci sarà da fare anche per i boy–scout. Noi grideremo e loro non ci sentiranno. Anche se passano a pochi passi da noi, chi vuoi che ci senta con tutta questa roba davanti? Passerà una settimana…

Pete interruppe le sue lamentele per chiedere:

– Cosa diavolo stai facendo?

Jupiter stava in ginocchio, verso il fondo, e puntava la lampada su una piccola area di terreno davanti a sé.

– Guardo – rispose. – Qui ci sono delle ceneri. Probabilmente qualcuno ha acceso il fuoco, durante un campeggio. E io ho trovato quello che mi serve. – L’investigatore capo si rialzò mostrando un bastone lungo circa un metro e di poco più di cinque centimetri di diametro.

– Lo hanno usato come spiedo, per arrostire qualcosa sul fuoco. La punta è tutta bruciacchiata, però a me va bene lo stesso. È una fortuna averlo trovato.

Pete guardò l’oggetto con aria dubbiosa.

– Ma cosa te ne vuoi fare? È troppo fragile per servire da leva. Chissà da quanto tempo è qui! Sarà tutto marcito. Non ci sposti neanche un sassolino, con quello!

– Non ci penso nemmeno – rispose Jupiter e tirò fuori il suo coltellino a serramanico, con otto lame più cacciavite e forbici. Era un oggetto al quale teneva moltissimo. Non se ne separava mai. Scelse la lama più larga e robusta, tagliò via la punta bruciacchiata e cominciò a rifarne un’altra.

Pete lo guardava senza chiedere spiegazioni. Per lunga esperienza sapeva che in certi casi era inutile far domande; Jupiter non avrebbe risposto. Parlava dopo, quando era il momento di verificare se le sue ipotesi, o le sue previsioni, erano esatte oppure no.

Appena rifatta la punta al bastone Jupiter cominciò ad ispezionare accuratamente quella specie di muro fatto di sassi e terriccio che bloccava l’ingresso alla caverna. Il raggio della grossa torcia di Skinny si spostava lentamente dall’alto in basso, da destra a sinistra soffermandosi qua e là con particolare insistenza. Infine Jupiter sembrò decidersi e cominciò l’esperimento su una zona d’angolo, un po’ più su di quel grosso macigno che si era rivelato inamovibile.

Il ragazzo inserì lentamente la punta del bastone nel terriccio, spinse un poco e trovò resistenza. Ritrasse quindi subito il bastone e ripeté il tentativo un po’ più in là. Stavolta sentì che il bastone affondava per parecchi centimetri, quasi senza sforzo: allora lo ritrasse di nuovo, ma non del tutto. Con infinita pazienza e manovrando molto lentamente cominciò a ruotare il bastone verso destra e poi verso sinistra alla ricerca di un probabile interstizio, tra un sasso e l’altro. Quando lo ebbe trovato spinse il bastone un po’ più a fondo, spostandolo in modo da allargare il varco ottenuto: poi ritirò il bastone di scatto. Dal foro improvvisamente libero venne giù una piccola pioggia di ghiaia e terriccio. Un tenue filo di luce colpì gli occhi dei due ragazzi. Jupiter tornò alla carica, qualche centimetro più a destra e poi più sotto e sopra e a sinistra. Pete lo osservava attentamente; ormai aveva capito che il suo compagno nonché investigatore capo aveva preso di mira una grossa pietra,, proprio vicino al margine superiore dell’uscita della caverna. Jupiter procedeva con metodo, nell’intenzione di isolare il sasso il più possibile. Appena incontrava un ostacolo ritirava in fretta il bastone, come se più di tutto gli premesse di non rompere il suo prezioso strumento. Dopo qualche tempo il pietrone, poco più grosso di un pallone da calcio, risultò completamente liberato dall’impasto di terra e ghiaia che lo circondava.

– Ecco fatto – esclamò il ragazzo. – Adesso dovrebbe funzionare come intendo io. Pete, spingi forte dal sotto in su e da sinistra a destra. No, non in avanti; da sinistra a destra, ecco… così. Spingi!

Pete eseguì quanto gli andava suggerendo l’amico. A tutta prima i suoi sforzi non servirono a nulla, poi il sasso cominciò a vacillare debolmente e infine, con un sobbalzo improvviso, rotolò fuori dalla grotta. Un’altra buona quantità di pietrisco e terriccio gli tenne dietro, liberando un foro sufficiente al passaggio di una persona.

– Sei un genio, Jupe! – gridò Pete al colmo dell’entusiasmo.

– Prego! – ribatté l’altro in tono leggermente distaccato. – Non dire che sono un genio. Io credo di essere semplicemente un individuo che tenta di mettere a profitto il più possibile le sue doti naturali. L’intelligenza, voglio dire.

– E va bene! – lo accontentò Pete che non vedeva l’ora di arrampicarsi su quella specie di barricata e strisciare fuori all’aperto. – Sta il fatto però che se ce la caviamo, stavolta è tutto merito tuo.

Ma quando furono davvero in salvo Pete ricominciò a lamentarsi.

– Ma guarda qui, che disastro! – Entrambi erano infatti coperti di polvere da capo a piedi.

– Ci fermeremo alla prima stazione di servizio – lo tranquillizzò Jupiter, che trovava rimedio a tutto. – Basterà una buona spazzolata, una lavatina alla faccia e alle mani e vedrai che ci presenteremo dal signor Jonathan Rex in perfetto ordine.

– Sei ancora dell’idea di andare da lui? – gli chiese Pete mentre si avviavano giù per la discesa, ora più che mai ingombra di pietre di ogni dimensione.

– Oh, sì – gli rispose Jupiter. – Per una visitina all’interno del castello, ormai è troppo tardi. Ma per un’intervista con il «Bisbiglio» c’è tutto il tempo che vogliamo.

Appena i due ragazzi arrivarono in vista della Rolls Royce capirono che Worthington era stato in ansia per loro. L’autista passeggiava in su e in giù nervosamente e quando li vide cominciò a salutarli da lontano con grandi esclamazioni di gioia.

– Finalmente. Cominciavo a stare in pensiero! – Poi notando gli abiti in disordine e tutto il sudiciume che avevano addosso chiese con affettuosa premura: – È successo qualcosa? Un incidente?

– Niente di serio, Worthington – gli rispose Jupiter. – Mi dica lei, piuttosto. Ha visto due ragazzi uscire dal Black Canyon, non più di una mezz’ora o al massimo quaranta minuti fa?

– Molto prima, direi. Anche loro mi hanno visto ma subito hanno scantonato da quella parte. Devono aver avuto una macchina nascosta dietro quei cespugli, perché subito dopo ho visto una spider blu che si allontanava a tutto gas.

Jupiter e Pete si scambiarono uno sguardo d’intesa. Skinny Norris girava sempre con una spider blu.

– Ero in ansia, signore – disse ancora l’autista mentre i due ragazzi stavano per salire in macchina. – Quando ho udito il rumore della frana, ho temuto che fosse accaduto il peggio e stavo per venire a controllare di persona, sebbene abbia l’ordine di non perdere mai di vista la Rolls Royce che mi è stata affidata. Ancora un minuto o due e sarei venuto.

Ma, Worthington – lo interruppe Jupiter accigliandosi un poco. – Mi sembra di capire che il rumore della frana lei lo ha sentito dopo la comparsa dei due ragazzi. O invece è stato prima?

– Dopo, signore. Dopo, senza dubbio. Jupiter non chiese altro.

– Winding Valley Road, 915 – disse e salì in macchina. Appena si fu seduto cominciò a tormentarsi il labbro inferiore. Pete lo guardava con la coda dell’occhio, facendo finta di niente: l’investigatore capo aveva messo in funzione il cervello.

Dopo qualche tempo, infatti, Jupiter mormorò:

Il mistero delle tracce di pneumatici si è risolto senza che ci dovessimo pensare. Skinny Norris ha scoperto la nostra nuova attività, ci ha ficcato il naso per bene, e poi è scappato. Però lo ha fatto prima che cominciassero a piover sassi. Chi c’era, allora, sulla collina? Chi ha provocato la frana?

– Il terzo uomo – rispose Pete. – Il signor X. Certo però che non era un fantasma.

– Poco ma sicuro – esclamò Jupiter di rimando. Poi vedendo una stazione di servizio ordinò all’autista di fermarsi.

– Una breve sosta, Worthington. Giusto il tempo di darci una ripulitina e ripartiremo subito.

Quando si furono rimessi in ordine i due ragazzi salirono di nuovo in macchina e ripresero la strada delle colline. Quando arrivarono all’imbocco della Winding Valley Road ebbero la sorpresa di trovarsi in un canyon eccezionalmente largo, quasi una ridente valle percorsa da un bel viale fiancheggiato da abitazioni di lusso.

La strada tuttavia cambiò subito d’aspetto: dopo una brusca curva le ville lussuose lasciarono il posto a piccoli bungalow senza nessuna pretesa di eleganza. Una curva dopo l’altra, la strada si faceva sempre più squallida e più stretta, le abitazioni sparirono del tutto e passando tra due pareti di roccia viva la Rolls Royce sbucò in uno spiazzo appena appena sufficiente a far girare la macchina.

Worthington si voltò a guardare Jupiter con aria interrogativa.

– La strada finisce qui, signore, e non vedo traccia del 915.

– Ecco là una cassetta delle lettere – gridò Pete che aveva la vista acutissima. – C’è anche il nome che cerchiamo: Jonathan Rex. La sua casa non dovrebbe essere lontana.

I due ragazzi balzarono fuori dell’auto e si diressero verso la cassetta delle lettere che era appesa al tronco di un alberello mezzo stecchito. Dietro un gruppo di cespugli si vedeva l’inizio di un sentiero molto ripido che puntava verso una specie di boschetto.

Jupiter e Pete percorsero il sentiero, girarono attorno al boschetto e si trovarono di fronte a un vecchio bungalow di stile spagnolo, con il tetto di tegole rosse, completamente addossato al fianco della collina. Accanto alla casa e sempre a ridosso della collina era sistemata un’enorme voliera piena di pappagallini variopinti.

Le bestiole svolazzavano qua e là spostandosi in continuazione dall’uno all’altro degli innumerevoli trespoli e producendo un baccano infernale. I due ragazzi si avvicinarono incuriositi e anche un po’ frastornati da tutti quegli strilli. Poi udirono un rumore di passi alle loro spalle e si voltarono di scatto. Sul sentiero era apparso un uomo completamente calvo, con gli occhi nascosti da grandi occhiali neri. Una cicatrice gli sfregiava il volto e la gola, e scendeva fin quasi sul petto. L’uomo parlò. La sua voce era davvero poco più di un bisbiglio: però si udiva perfettamente e il suo timbro era straordinariamente sinistro.

– Fermi là – disse. – Non un passo se vi preme la vita. Stringeva in pugno un «machete» dalla lama affilatissima, che brillava al sole.