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Jupiter si sprofondò nella lettura degli appunti lasciatigli da Bob Andrews. Letto un foglio, lo passava a Pete che invece di leggere continuava a giurare e spergiurare che al Castello del Terrore lui non ci avrebbe messo piede, mai e poi mai. Ma all’ora stabilita si presentò, puntualissimo, all’appuntamento. Aveva indossato, come i suoi compagni, roba di poco conto e non aveva dimenticato i «ferri del mestiere». Per lui, consistevano in un registratore portatile, frutto di uno scambio con un compagno di scuola al quale piaceva la sua collezione di francobolli.

Jupiter aveva portato la macchina fotografica, completa di lampeggiatore elettronico. Bob, invece, arrivò armato unicamente di un notes per appunti e di alcune matite. I tre ragazzi non avevano incontrato difficoltà nell’ottenere il permesso di restar fuori fino a tardi. Da quando c’era in ballo la Rolls Royce di Jupiter tutto sembrava più facile: i genitori erano diventati più indulgenti e tante preoccupazioni erano sparite: merito della presenza di Worthington, naturalmente! Appena fu buio la macchina placcata d’oro venne a fermarsi, con i fari accesi, davanti al grande cancello della «Bottega del ricupero». I tre ragazzi salirono nell’auto, accomodandosi sul sedile posteriore, e Jupiter passò subito la carta topografica all’autista spiegando dove voleva essere portato.

– Benissimo, signore! – fu la solita risposta di Worthington che studiò un attimo la carta e quindi avviò il motore.

Mentre filavano via veloci per la strada tutta curve e tornanti, Jupiter ripeté e completò le istruzioni già date.

– Stanotte ci faremo una prima idea del posto. Resteremo al castello per un’oretta al massimo. Però ti raccomando, Pete, al minimo fruscio o rumore sospetto metti subito in moto il registratore. Dobbiamo documentare tutto. Io ho la mia macchina fotografica, chissà che non serva a qualcosa.

– Il mio registratore servirà solo a documentare un certo rumore di denti sbattuti per la paura; e saranno i nostri denti! –borbottò Pete, ma Jupiter finse di non averlo neanche sentito. Continuò rivolgendosi a Bob:

– Tu ci aspetterai in macchina e preparati a buttar giù appunti su tutto. E anche qualche nota sui dintorni del castello.

– Ah, per me va benissimo – rispose Bob e guardando fuori del finestrino, aggiunse: – Qui c’è poco da vedere, comunque. È nero come nella gola di un lupo! Siamo già nel Black Canyon?

– Più nero di così non potrebbe essere – esclamò Pete. – Chi gli ha dato il nome di Black Canyon ha scelto giusto!

In quel canyon non esistevano abitazioni private, né edifici di altro genere e tanto meno illuminazione pubblica. La strada si faceva sempre più stretta e tortuosa. A un certo punto la Rolls Royce si fermò.

– Pare che ci sia un ostacolo – disse Jupiter sporgendosi dal finestrino. Qualcosa infatti sbarrava il passaggio, e non erano ancora le sbarre di ferro messe dalla banca per segnare l’ingresso della ex–proprietà Terrill.

– È caduta una frana, là sopra – osservò Jupiter. – Non è raro da queste parti, soprattutto quando i fianchi delle colline sono così privi di vegetazione.

– Non possiamo proseguire, signore – annunciò Worthington.

– Vedo però dalla carta che il canyon finisce quasi subito. Dopo quella curva dovrebbe esserci il castello. Non saranno più di cento metri.

– Grazie, Worthington – rispose Jupiter. – Andremo fin là a piedi. Vieni, Pete, scendiamo.

– Torneremo tra un’ora! – gridarono poi mentre Worthington provvedeva a far manovra per voltare la macchina.

Dopo qualche minuto i due erano già in vista dell’obiettivo.

– Perbacco – borbottò Pete. – È davvero terrificante! Jupiter evitò di rispondergli, forse perché non c’era niente da aggiungere: l’osservazione di Pete era proprio calzante. In

fondo al canyon si intravvedeva il profilo di una costruzione molto massiccia, completamente avvolta nelle tenebre. Una torre rotonda lanciava la sua alta cuspide contro il cielo stellato.

– Forse era meglio venirci con la luce del giorno – borbottò ancora Pete. – E poi, se entravamo dall’altra parte del canyon, la macchina poteva restare ad aspettarci proprio sotto il muro di cinta. Torniamo domani!

Jupiter fece cenno di no.

– Di giorno i fantasmi non si fanno vedere, Pete! Circolano solo di notte.

– E i funzionari della banca, te li sei dimenticati? – ribatté l’altro, prontamente. – Quelli erano venuti di giorno, lo sai. Io sono già mezzo morto di paura!

– In quanto a paura non scherzo neanch’io, sta’ tranquillo! –confessò l’investigatore capo senza vergogna. – Mi sembra di avere il cuore in gola.

– E allora andiamo via subito! – esclamò Pete pieno di speranza. – Torniamo al nostro quartier generale e stendiamo un bel piano per domani.

– Il mio piano è già fatto, Pete. Staremo al castello per un’ora, tanto per cominciare. E ci staremo proprio stanotte.

Così dicendo si tirò su ben dritto e accese la torcia elettrica che aveva sganciato dalla cintura. Dovette però avanzare molto lentamente perché il terreno era cosparso di sassi, di spuntoni rocciosi e di detriti di ogni genere.

Pete gli si mise alle calcagna senza cessare di lamentarsi.

– Se sapevo che fare l’investigatore significava anche questo, ci rinunciavo subito, prima di cominciare!

– Ti sentirai meglio dopo – lo consolò Jupiter. – Pensa alla soddisfazione che ci aspetta quando avremo risolto il mistero.

– E se davvero ci troviamo gli spiriti? – Pete non sembrava troppo convinto dalle parole dell’amico. – Se troviamo il fantasma azzurro?

– Gli facciamo la fotografia! – esclamò Jupiter battendo la mano aperta sulla macchina fotografica che gli pendeva dalla spalla. Sarebbe un colpo sensazionale!

– E se invece fosse il fantasma a farci prendere un colpo, a tutti e due? – ribatté Pete, sarcastico. Il suo compagno lo zittì bruscamente.

– Ssss…c’è qualcuno!

Pete si fermò di botto, sudando freddo. Jupiter mise mano alla macchina fotografica.

Attesero, avvolti nel buio, tendendo l’orecchio. Qualcuno si avvicinava davvero. Era sulla collina, proprio sopra le loro teste: dei passi furtivi, un rumore di pietre smosse… Poi ci fu un lampo improvviso e accecante.

Pete vide due occhi di fuoco che si precipitavano verso di lui, qualcosa di morbido gli sfiorò il capo, volteggiò un attimo, ricadde sul sentiero e scattò via fulmineo.

– Un coniglio selvatico! – mormorò Jupiter in tono deluso. – Il lampo del flash gli ha fatto paura, poveretto.

– Ah sì? – sbottò Pete tirandosi su in piedi. – Siamo noi che abbiamo fatto paura a lui, poverino? Credi che mi sia divertito, io, vedendomelo piombare addosso?

– Immagino di no – gli rispose Jupiter senza scomporsi. Poi, con il tono sentenzioso che usava spesso, aggiunse: – Avrai sperimentato una normale sensazione di paura, cioè il naturale effetto che i rumori e i movimenti improvvisi producono, specie nel buio, sul sistema nervoso degli individui facilmente impressionabili.

Pete stava per rispondergli per le rime, ma Jupiter non gliene diede il tempo. Lo prese per un braccio e cominciò a trascinarlo con sé.

– Dai, muoviti! Non abbiamo più bisogno di far piano. I fantasmi, se ci sono, hanno visto il lampo e forse sono scappati via come il coniglio!

– Possiamo cantare? Se cantassimo qualcosa, magari una marcetta, mi metterebbe coraggio! – Pete faceva davvero fatica a muovere le gambe.

– Non esagerare, adesso! – lo rimproverò Jupiter. – Non siamo qui per registrare le tue cantatine, o sbaglio? Sentiremo ben altra musica: urla di terrore, catene smosse, gemiti sotterranei… Nelle case abitate da fantasmi capita proprio così.

Pete non aveva la minima voglia di ascoltare un simile concerto: gli tornavano in mente tutte le storie terrificanti che si sentono raccontare sull’argomento, e le gambe gli tremavano davvero. Tuttavia di convincere Jupiter a tornare indietro non c’era neanche da pensarci. Pete sapeva benissimo che quando il suo amico aveva preso una decisione, nessuno lo smuoveva più: più facile spostare una montagna. Finalmente arrivarono al muro di cinta, che appariva più diroccato del resto dell’edificio. Entrarono nel gran cortile e Jupiter andò a piantarsi proprio nel mezzo, guardandosi intorno.

– Ci siamo, dunque…

La gran torre rotonda che avevano scorta da lontano si mostrava ora in tutta la sua imponenza, affiancata da una seconda torre, più bassa e dalla linea più massiccia. Sui muri del castello risaltavano i buchi neri delle finestre: qua e là, un vetro ancora intatto rifletteva il luccichio delle stelle. Improvvisamente Pete si sentì sfiorare da qualcosa di morbido.

– Aiuto! – gridò Pete scorgendo le numerose ali nere che volteggiavano sopra le loro teste. – Ci sono i pipistrelli!

– Ebbene? Non ti mangiano di sicuro – gli fece osservare Jupiter. – I pipistrelli si nutrono di insetti e non di fifoni!

– Va bene, va bene – brontolò Pete. – Io sarò anche un fifone, ma questi potrebbero aver voglia di cambiar dieta. Perché correre dei rischi inutili? Mandiamoli via!

– Piantala! Ecco il portone d’ingresso. Non dobbiamo far altro che entrare e restar dentro per un’oretta. Tutto qui. Coraggio!

– Non è il coraggio che mi manca – riprese a lagnarsi Pete. –Sono le mie gambe che non vogliono saperne di andare avanti! Jupiter si provò di nuovo a rincuorarlo un poco:

– Anche le mie farebbero volentieri altrettanto, Pete. Però io le ho abituate a prendere ordini soltanto da me.

Comprendendo che non c’era altro da fare Pete si ricordò di essere il secondo investigatore: era suo preciso dovere assistere Jupiter in tutto e per tutto, investigare con lui e seguirlo. Jupiter aveva già salito i pochi gradini che portavano a una specie di terrazza lunga, stretta e ben piastrellata, che fronteggiava il pianterreno del castello. Afferrò la pesante maniglia di bronzo e stava per spingere il portone istoriato quando Pete lo fermò dicendo:

– Ascolta. Non senti niente? Io sì…

Il ragazzo stavolta aveva ragione: nell’aria si sentiva qualcosa come una vibrazione sonora che poteva anche essere l’eco di una musica molto lontana. Tesero entrambi l’orecchio, ma ormai il silenzio era tornato. Si udiva soltanto il canto di un grillo solitario e ogni tanto il breve brontolio di qualche sasso che rotolava lungo il pendio delle colline.

– Uno scherzo dell’immaginazione – decretò Jupiter, ma la sua voce suonava poco convinta. – Forse, fuori del canyon c’è qualche televisione o una radio che trasmette musica. Il suono si incanala fin qui. Un effetto acustico, insomma.

– Un effetto acustico, eh? – ripete Pete sempre più perplesso.

– E se invece troviamo il fantasma che ci fa una sonatina sull’organo?

– E allora andiamo ad ascoltare il concerto. Non vai la pena di perderlo, restando qui fuori! – rispose Jupiter ridendo e spinse il portone. Questo si aprì lentamente, con un cigolio così acuto e prolungato che Pete sentì svanire una buona metà del coraggio che era riuscito a mettere insieme. Prima di perderlo del tutto fece uno sforzo eroico ed entrò.

Appena oltrepassata la soglia del castello i due ragazzi furono investiti da un soffio di aria umida e che sapeva di chiuso e di muffito. Avanzarono fianco a fianco proiettando tutt’intorno il fascio luminoso delle torce elettriche. Erano entrati in un vasto androne fiancheggiato da archi che probabilmente si aprivano su altre stanze. Jupiter decise che era meglio andar dritti: giunsero così in una vasta sala che doveva avere il soffitto altissimo, fuori della portata delle loro lampade. Anche le pareti sparivano nell’ombra.

– Eccoci, Pete – disse Jupiter fermandosi. – Stiamo qui, cerchiamo di controllare le nostre sensazioni e tra un’oretta andremo via.

– Via… – sussurrò una voce cupa, lontana eppure misteriosamente vicina al loro orecchio. – Via!