17

Worthington e Bob erano in ansia. Da più di un’ora aspettavano il ritorno di Jupiter e di Pete. Ogni cinque minuti Bob metteva la testa fuori del finestrino e gettava un’occhiata nel Black Canyon, ma non si vedeva nessuno. Buio d’inferno e basta! Ogni dieci minuti o poco più l’autista faceva un giretto d’ispezione: con risultato negativo, ogni volta!

– Signor Bob – disse alla fine Worthington. – Io vado a cercarli. Se la sente di aspettarmi qui?

– Ma lei non può abbandonare la macchina. È scritto sul contratto – gli fece osservare Bob.

– Il signor Jupiter e il suo amico sono più importanti della Rolls Royce. Io vado.

Così dicendo la figura alta e magra dell’autista inglese si chinò ad aprire il baule della macchina per tirarne fuori una grande torcia elettrica da usarsi in casi di emergenza.

– Vengo anch’io, Worthington! – dichiarò Bob ponendosi al suo fianco. – Si tratta dei miei più cari amici.

– Benissimo, signore – rispose l’autista. – Andremo insieme, allora – e tornò al baule della Rolls Royce. Questa volta ne tirò fuori un grosso martello che, all’occorrenza, avrebbe funzionato come arma da difesa.

Si avviarono per il Black Canyon. Bob non ce l’avrebbe mai fatta, con la sua gamba fasciata, a tener dietro a quell’inglese lungo e allampanato che sembrava un trampoliere. Worthington, rendendosi conto che il ragazzo era in difficoltà, lo sollevò quasi di peso oltre il gruppo di macigni che sbarravano il sentiero; poi lo tenne sottobraccio, pronto a sorreggerlo nei punti più pericolosi.

Ben presto i due arrivarono in vista del castello, poi al muro di cinta e al gran portone d’ingresso. Si accorsero della maniglia mancante e quando la trovarono per terra scoprirono immediatamente che Jupiter non era riuscito ad aprire il portone.

– Se di qui non è entrato… – mormorò Worthington. – Cerchiamo un altro ingresso. Ci dev’essere di sicuro! Perlustrarono le porte–finestre che si aprivano sulla terrazza, lungo la facciata principale del castello.

– Che sia questa? – chiese Bob fermandosi davanti a quella che Jupiter aveva lasciata socchiusa. Poi il ragazzo vide i punti interrogativi sugli stipiti.

– Ecco il marchio di Jupiter – esclamò tutto eccitato. – Vuol dire che è passato di qua. È un segnale convenuto tra noi! Entriamo, Worthington, e ne troveremo certamente degli altri. Nella sala da pranzo, tuttavia, sembrava che anche quella traccia fosse scomparsa. Worthington fece girare la luce della sua grossa torcia per tutta la stanza soffermandosi in modo particolare sulle porte.

– Non vedo nessun segno: come mai?

.Fu allora che Bob vide il simbolo dell’agenzia vagamente disegnato sullo specchio.

– Ma non è possibile! – esclamò Worthington perplesso. – Non saranno mica passati attraverso il vetro?

– Eppure questo è un punto interrogativo – insistette Bob. – Io anzi ne vedo due… ecco il terzo!

– Vediamo un po’! – Worthington si manteneva incredulo. Poi si avvicinò, spinse leggermente il grande specchio e quello si aprì senza fatica, come era accaduto con Jupiter.

– Un passaggio segreto! Venga, signor Bob, venga.

Se fosse stato solo e nonostante il grande affetto che lo legava agli amici, Bob non si sarebbe mai arrischiato in quel budello stretto e nero come la pece. Ma con la guida di Worthington era tutta un’altra cosa.

Sulla porta che chiudeva il fondo del corridoio ritrovarono il segno di gesso bianco. Entrarono nella sala di proiezione e la torcia di Worthington percorse lentamente tutta la stanza soffermandosi soprattutto negli angoli. La stanza era assolutamente vuota.

– Se la faccenda dei punti interrogativi funziona davvero come mi ha spiegato lei, signor Bob, bisogna credere che i suoi amici sono entrati qui dentro e si sono poi volatilizzati nell’aria. Non aveva ancora finito di pronunciare queste parole che Bob gli indicò qualcosa che mandava una flebile luce, all’altro capo della sala, sotto una poltrona.

– È la torcia di Pete – esclamò il ragazzo, perplesso. – Come mai Pete ha lasciato qui la sua torcia nuova? Worthington si fece scuro in volto: non era possibile che Pete avesse dimenticato di raccogliere la sua lampada.

– Deve essergli sfuggita di mano e qualcosa di molto grave gli ha impedito di andare a riprendersela! – mormorò quasi a se stesso. – Ed è accaduto qui, in questa stanza…

La lampada di Worthington continuò a girare in qua e in là finché l’autista credette di vedere una larga zona del pavimento che appariva più pulita del resto: come se ci fosse stato sopra un oggetto molto grande, portato via da poco tempo.

– Signor Bob, guardi qui: non le sembra che ci sia meno polvere che dalle altre parti?

– Ma certo! – confermò Bob. – Ed ecco il simbolo di Jupiter!

Il ragazzo aveva ragione: poco più in là si distingueva uno scarabocchio bianco che poteva anche essere un punto interrogativo, disegnato un po’ rozzamente, alla cieca. L’uomo cominciò a sospettare la verità, ma preferì tacere per non allarmare il suo giovane compagno. Continuò a cercare altri indizi sul pavimento polveroso e trovò una serie di orme che lo guidarono a una porticina dietro allo schermo.

La porticina dava in una stanza lunga e stretta con un’altra porta in fondo e una rampa di scale sulla destra. Worthington stava chiedendosi se era meglio proseguire dritti o scendere in cantina quando gli parve di intravvedere il marchio di Jupiter sul primo gradino della scala.

– Per di qua – esclamò e illuminò il punto interrogativo perché lo vedesse bene anche Bob. – Il signor Jones è pieno di risorse. Ci ha indicato perfettamente la strada.

Al primo pianerottolo trovarono un altro punto interrogativo.

– Anche questo è segnato per terra! – esclamò Bob perplesso.

– Ma le sembra naturale, Worthington, questo fatto? Una persona che traccia un segno camminando, dovrebbe tenere il gesso più o meno all’altezza dei propri occhi, non le pare?

– Dovrebbe esser così, signor Bob. Non ci resta che pensare a tutt’altra possibilità.

– Che cosa è accaduto, Worthington? Che cosa?

– Forse il signor Jupiter non camminava – rispose l’autista.

– Qualcuno lo ha trasportato, deponendolo a terra di tanto in tanto: e lui ne ha approfittato per tracciare il segno con il gesso.

Erano arrivati al termine della scala. Davanti a loro si aprivano tre corridoi che puntavano in direzioni diverse, ma erano tutti e tre ugualmente bui e silenziosi. Il segno di Jupiter non si vedeva da nessuna parte.

– Chi può averlo trasportato qui sotto, Worthington? Questa non mi sembra una cantina, ma piuttosto un sotterraneo.

– Esattamente, signor Bob. È del tutto simile a quello che c’era in un vecchio castello inglese, dove ho lavorato io, tanti anni fa. Direi di spegnere la torcia, signore. Al buio è più facile sentire anche i minimi rumori.

Worthington e Bob tesero l’orecchio per qualche istante, avvolti dal buio umido e malsano del sotterraneo. Non udirono assolutamente nulla, poi a un tratto ci fu un rumore strano come di due pietre sfregate l’una sull’altra. In fondo al corridoio centrale apparve un filo di luce che poi si fece più ampio e intenso e rivelò una figura femminile con una lanterna in mano. Fu un attimo. All’apparire del filo di luce Worthington aveva gridato:

– Signor Jones, è laggiù?

La donna con la lanterna sparì immediatamente. E di nuovo si sentì quel rumore di pietra contro pietra.

– Inseguiamola! – gridò l’autista e infilò di corsa il corridoio dimenticandosi che Bob non poteva tenergli dietro con altrettanta velocità. Quando il ragazzo lo raggiunse, egli stava tempestando sulla parete di fondo del corridoio stesso.

– È sparita nel muro, l’ho vista benissimo. Potrei giurarlo! –Worthington aveva perduto l’aria impassibile che lo contraddistingueva solitamente.

– Qui ci vogliono le maniere forti – gridò sfilandosi dalla cintura dei calzoni il grosso martello che provvidenzialmente si era portato dietro. Ai primi colpi ben assestati l’intonaco cominciò a saltare via, mettendo a nudo uno strato di cemento che era piuttosto sottile, ma tenuto su da una intelaiatura metallica.

– Anche questa è una porta segreta. Il rumore che abbiamo sentito poco fa veniva da questa porta che si apre chissà come! Non essendoci tempo per cercare il sistema di apertura, Worthington si ingegnò di liberare dal cemento un certo numero delle sbarre di sostegno, le impugnò saldamente e prese a scrollare la porta, tirando avanti e indietro con tutte le sue forze. Dopo un buon numero di violenti strattoni la porta cedette rivelando un altro corridoio, dove però non v’era traccia né di intonaco né di mattoni.

– Una galleria scavata nella roccia viva! – esclamò l’uomo prendendo per mano il ragazzo. – Andiamo: questa è la via segreta per raggiungere l’interno del castello senza passare per il Black Canyon. Chiunque abbia catturato quei ragazzi certamente è passato di qui.

Dopo pochi metri il tunnel segreto si restrinse bruscamente. Anche il soffitto a volta si abbassò tanto che Worthington dovette quasi piegarsi in due per non battere la testa. Fu in quel momento che Worthington sbatté la spalla contro la parete di roccia, e la torcia gli sfuggì di mano e cadde a terra spegnendosi. Bob fu svelto a buttarsi carponi per cercare di recuperarla subito, ma si accorse ugualmente che nella galleria stava succedendo qualcosa di strano.

L’aria, fino a quel momento fredda e immobile, si muoveva come agitata da qualcosa che veniva verso di loro due facendo un rumore strano, indubbiamente molto simile a uno strillo breve, ma penetrante e ripetuto di continuo. Poi il movimento e gli strilli si moltiplicarono: in un batter d’occhio sembrò che venissero da tutte le direzioni possibili.

– Pipistrelli! Ci sono i pipistrelli! – gridò Bob con disgusto.

– Calma, ragazzo. Non perdiamo la testa. Bisogna trovare la lampada. – La voce di Worthington aveva un tono secco e molto sbrigativo.

Bob si coprì il capo con le mani per difendersi da tutte quelle «cose» con le ali che gli vorticavano intorno, nel buio. Una di esse gli si impigliò tra i capelli e il ragazzo la cacciò via con un grido di orrore.

– Sono enormi, Worthington, sono grossi come piccioni. Sono dei pipistrelli–vampiro!

– Credo proprio di no, signor Bob – gli rispose ridendo Worthington che aveva ritrovato la torcia e ora ne dirigeva il cono luminoso di qua e di là. Nel tunnel segreto c’erano decine e decine di uccelli dal piumaggio variopinto. Si avventavano sulla lampada di Worthington aumentando l’intensità dei loro strilli acutissimi.

– È meglio andarcene – disse l’uomo. – Questa galleria è troppo bassa e stretta perché vi abbiano trasportato il signor Jupiter e il signor Pete. Avrebbero dovuto trascinarli: ma non ci sono punti interrogativi qui, da nessuna parte.

Rifecero in fretta i pochi metri che li separavano dalla porta segreta e la richiusero per non essere inseguiti da quel nugolo di uccelli assordanti.

Si trovarono di nuovo ai piedi della scala con i tre corridoi silenziosi, umidi, pieni di polvere muffita e di ragnatele. Di Jupiter e di Pete nessuna traccia.

– Eppure dovrebbero essere qui… Sono qui! Worthington e Bob avevano udito una voce, lontana e soffocata: era la voce di Jupiter che chiamava aiuto. Subito dopo e molto più forte udirono anche quella di Pete.

Le grida venivano dal corridoio centrale che Worthington aveva infilato di corsa, nel tentativo di raggiungere la donna con la lanterna. La fretta del momento e poi il rumore del suo stesso martello sulla porta di cemento gli avevano impedito di sentire il richiamo dei due prigionieri. Non s’era neanche accorto che nel corridoio c’era una porticina. Era quella della stanzetta simile a una cella, dove giacevano i due ragazzi strettamente legati nelle reti di nailon bianco.

– Finalmente… è un bel po’ che gridiamo! – esclamò Jupiter mentre Bob e Worthington si affrettavano a slegare lui e il suo compagno di sventura. – Temevamo che non arrivaste più! L’autista spiegò brevemente il motivo del loro ritardo, che tuttavia li aveva condotti sulle tracce della donna con la lanterna e alla scoperta del tunnel segreto.

– La donna era certamente Zelda – mormorò Jupiter. – E non mi sembra improbabile che tornasse da noi per un gesto di pietà…

– Bisogna denunciarla subito alla polizia – lo interruppe Worthington. – Io speravo di raggiungerla in fondo al tunnel, ma questo era pieno di uccelli…

– Uccelli? – Jupiter, ormai libero, era scattato in piedi. Appariva tutto eccitato. – Che genere di uccelli erano, Worthington?

– A me sembravano aquile! – gli rispose Bob, che poi si volse a Pete consegnandogli la lampada ritrovata nella sala di proiezione.

– Ecco qua, Pete. Non mi ricordavo d’avercela. L’ho ficcata in tasca e non me ne sono mai servito, neanche nel tunnel pieno di uccelli!

– Ma Worthington aveva una lampada, quindi li avete visti –esclamò Jupiter con una certa impazienza. – Che tipo di uccelli erano?

– Secondo me erano pappagalli, signor Jones – rispose l’autista. Jupiter non ebbe un attimo di esitazione. Staccò dalla cintura dei calzoni la torcia elettrica, provò se funzionava e quindi si lanciò fuori della cella, gridando:

– Andiamo, andiamo, presto!

– Cosa gli ha preso, adesso? – chiese Pete e istintivamente si mise a corrergli dietro, imitato dagli altri due.

– Avrà scoperto un indizio importante – osservò Bob che veniva buon ultimo e zoppicava penosamente.

Jupiter invece, nonostante la caviglia ancora dolorante, era già arrivato alla porta che Worthington aveva mezzo scardinata poco prima. Con un paio di scossoni era riuscito ad aprirla e la sua lampada si vedeva ormai molto in fondo, nella galleria invasa dai pappagalli.

Worthington, Pete e Bob si inoltrarono nel tunnel segreto, incuranti degli uccelli che volteggiavano intorno a loro sbattendo le ali un po’ dappertutto, come impazziti. Non solo l’autista ma anche i due ragazzi e Jupiter che li precedeva di un bel po’, erano costretti a camminare curvi in avanti: la galleria si faceva sempre più stretta e più bassa.

Nel suo ultimo tratto, il tunnel segreto tornava ad essere più ampio e più alto, com’era stato all’inizio. E finiva con una porta, di legno però. La porta si aprì con un semplice giro di maniglia. Jupiter la spalancò con gesto sicuro:

– I parrocchetti australiani del signor Jonathan Rex! – esclamò entrando nella grande voliera, sistemata a ridosso della collina, poco lontano dal bungalow di «Bisbiglio». – Black Canyon e la Winding Valley Road non sono così lontane come sembrano. In realtà finiscono a poche centinaia di metri di distanza.

I due ragazzi e l’autista erano entrati nella grande gabbia, immediatamente dopo di Jupiter. Altri pappagalli volteggiavano intorno alle loro teste.

– Come si fa a uscire di qui? La voliera sarà chiusa dall’esterno – disse Bob che mal sopportava la presenza di tutti quegli uccelli, anche se non erano pipistrelli–vampiro.

– È facile – gli dimostrò subito Jupiter infilando le dita nelle maglie della rete metallica, vicino alla porta. – Qui c’è un saliscendi, basta farlo scattare all’insù.

Le finestre del bungalow di Jonathan Rex erano illuminate.

– Facciamo piano, spegniamo le torce… dobbiamo prenderlo di sorpresa – raccomandò Jupiter. Tutti si avvicinarono e attraverso le finestre aperte videro due uomini, tranquillamente seduti davanti a un tavolo, intenti a giocare a carte come due pacifici cittadini qualsiasi.

Jupiter trovò il campanello vicino alla porta d’ingresso, appoggiò con impeto il dito sul pulsante e ve lo tenne a lungo. Immediatamente la porta si aprì e apparve Jonathan Rex in persona. Bob, che non l’aveva mai visto, restò impressionato da quella testa completamente calva, gli occhi lampeggianti e minacciosi e l’orribile cicatrice che gli deturpava il volto.

– Cosa c’è? – chiese l’uomo con voce bassissima e minacciosa.

– Vogliamo parlarle – rispose Jupiter.

– A quest’ora? Mi seccate, ragazzi… filate!

Jonathan Rex stava per chiuder la porta in faccia ai quattro visitatori quando intervenne Worthington.

– In tal caso saremo costretti a chiedere l’intervento immediato della polizia – affermò l’autista con voce calmissima.

– Oh… no, no. Fortunatamente sono ancora alzato. Avanti, avanti…

Jonathan Rex si tirò da parte per lasciarli entrare nella stanza che Jupiter e Pete conoscevano già. Al tavolo, e ancora con le carte da gioco in mano, stava seduto un ometto dall’aspetto assolutamente inoffensivo.

– Charles Grant, un mio amico – disse il padron di casa indicando il suo compagno. E poi: – Charles, questi sono quei ragazzi che vogliono fare gli investigatori: te ne ho parlato, ricordi?

L’ometto che Jonathan Rex aveva presentato come Charles Grant fece un cenno con la testa, ma non aprì bocca. Il padrone di casa si rivolse subito ai nuovi venuti, fissando in viso Jupiter.

– Ebbene, ragazzi, finito di investigare? Avete scoperto qualcosa? Ci sono i fantasmi al castello?

– Abbiamo scoperto il segreto del Castello del Terrore e dei suoi fantasmi – rispose Jupiter ricambiando lo sguardo fermo di Jonathan Rex. – I fantasmi ci hanno catturati, rinchiusi in una cella sotterranea e poi sono venuti a farsi la loro partita a carte. I fantasmi e i contrabbandieri siete voi due! Pete cadde dalle nuvole: ma Jupiter non lo sapeva benissimo anche lui che i contrabbandieri erano due arabi e un cinese?

– È un’accusa grave, giovanotto. Ci vogliono delle prove — sibilò Jonathan Rex facendo un passo verso Jupiter. Ma poi si fermò limitandosi a guardarlo con occhi fiammeggianti. Dietro al ragazzo c’era Worthington, che aveva messo mano al martello.

– Le prove ci sono. Eccole là! – e Jupiter indicò le scarpe di Jonathan Rex e quelle del suo amico Charles Grant.

Su queste e su quelle apparivano, ancora abbastanza visibili, due punti interrogativi fatti col gessetto bianco.