12
– Ma corpo di un cane – brontolò Pete. – La capisci tu questa faccenda, Bob? Si discute, si discute, e poi va a finire che facciamo sempre come vuole lui!
– Stavolta, per lo meno, è andata così – rispose Bob fissando la mole scura del castello che si ergeva davanti a loro nella luce del tardo pomeriggio. Il profilo delle due torri si stagliava netto contro il cielo azzurro. Le finestre incorniciate di vite selvatica sembravano occhiaie vuote: dove qualche vetro era rimasto intatto si intravvedeva un riflesso di luce che forse era ancora più impressionante del nero assoluto. Bob rabbrividì leggermente.
– Decidiamoci ad entrare prima che venga buio.
Pete guardò con rimpianto dietro di sé il canyon vuoto e, oltre la curva, l’automobile che li aspettava, con Worthington pronto a riportarli indietro.
– Credi che Skinny ci segua? – chiese Bob e Pete si affrettò a rassicurarlo.
– No, no, guardavo così. Quel bel tipo di Norris non ci torna al Castello del Terrore: ne ha avuto abbastanza, lui!
– E noi dobbiamo dimostrare di esser più coraggiosi – sospirò Bob. – Andiamo!
Attraversarono il cortile, la terrazza piastrellata e raggiunsero il grande portone di legno istoriato. Era chiuso!
– Strano! – notò Pete. – Sono sicurissimo che Skinny lo aveva lasciato aperto l’altro giorno. Che sia venuto qualcuno?
– Macché, sarà stato il vento! – rispose Bob girando la grossa maniglia di bronzo. Il portone si aprì facilmente e sempre con il lungo cigolio della volta precedente. Però Pete sussultò lo stesso, e anche Bob.
– Cerchiamo di non esser nervosi – disse quest’ultimo con un fil di voce. – Non è che un cardine arrugginito!
– Ma chi è nervoso? – ribatté Pete e si fece avanti per primo. Nell’atrio d’ingresso vide le arcate che aveva già notato la prima volta. Attraverso ognuna di esse si entrava in una stanza. I due ragazzi diedero un’occhiata sia a quelle di destra che di sinistra. Bob scattò qualche foto sebbene quei locali gli sembrassero di poca importanza: erano pieni di mobili antichi molto tetri e imponenti. In uno di essi, che evidentemente era la sala da pranzo, c’era anche un grandissimo caminetto, oltre ad un enorme tavolo circondato da seggioloni con lo schienale imbottito. Entrarono poi nella Sala degli Echi. La trovarono invasa da un gran fiotto di luce proveniente da un’unica grandissima finestra che si apriva a metà altezza della scala ricurva. Eppure, per fotografare le parti più lontane dalla scala Bob fu costretto a usare lo stesso il lampo elettronico.
– Sembra un museo, vero? – osservò Pete.
– Proprio così – rispose l’altro. – C’è lo stesso odore di cose vecchie, polverose e morte.
– Morte!
– Oh… c’è davvero l’eco!
– Eco! – La parola risuonò puntualmente all’orecchio dei due ragazzi. Pete spinse il compagno verso la parete.
– Meglio non restare nel centro della sala – disse. – Così evitiamo di sentirlo!
Di solito Bob, nei posti dove c’era l’eco, si divertiva a combinare una specie di botta e risposta con se stesso. Ma stavolta ebbe l’impressione che era meglio lasciar perdere i giochetti.
– Dov’è il quadro che ti guardava con l’occhio «vivo»?
Pete gli indicò il ritratto di pirata, il primo accanto alla scala. Si avvicinarono entrambi fissando bene quel volto quasi per metà coperto dalla benda nera.
– Un occhio vivissimo – affermò Pete. – Ti assicuro che mi guardava davvero: si muoveva! Un attimo dopo era come tutto il resto del quadro.
Diamoci un’occhiata – propose Bob. – Prendi quel seggiolone e monta su, forse ci arrivi.
Pete prese il seggiolone, ma per quanto si alzasse in punta di piedi il quadro risultava sempre troppo alto.
Non ci arrivo – disse. – Forse si vede meglio da quel punto là, sulla scala, che è abbastanza vicino.
– Hai ragione, non avevo notato – disse Bob e subito si mosse verso la grande scala ricurva. Ma al primo passo sentì con orrore che qualcuno lo trascinava all’indietro, tirandolo per la cinghia della macchina fotografica. Nello stesso tempo, con la coda dell’occhio, si accorse che una grande ombra nera sbucava dal muro, alle sue spalle. Il ragazzo gettò un urlo altissimo e fece per slanciarsi in avanti, verso l’uscita della sala. Finì lungo disteso per terra, giusto in tempo per vedere che la grande ombra nera gli veniva dietro con la precisa intenzione di colpirlo. Con un urlo più disperato del precedente, cercò di salvarsi rotolando su un fianco, il più lontano possibile dalla figura minacciosa…
Un attimo più tardi una vera spada piombò sul pavimento, al–l’incirca dove si era trovato Bob qualche istante prima. E l’ombra nera crollò al suolo… con un orribile rumor di ferraglia. Bob sussultò nuovamente per qualcosa che rotolava vicino alla sua testa: un’altra testa, staccata dal tronco e chiusa in un elmo lucente. La risata fragorosa di Pete gli schiarì immediatamente le idee.
L’elmo era vuoto, naturalmente, e così pure l’armatura medievale. La cinghia della macchina fotografica si era semplicemente impigliata in un gancio dell’armatura che era caduta in avanti, seguendo Bob nel suo assurdo tentativo di fuga. Bob si tirò su con una certa fatica, per via della gamba fasciata, e con un certo imbarazzo per la figura fatta. Si preoccupò subito di verificare le condizioni della macchina fotografica: non le era successo nulla e così ne approfittò per scattare immediatamente una foto a Pete che se la rideva ancora come un matto e sempre in piedi sul seggiolone.
– Ecco fatto. Presenteremo a Jupiter il ritratto del «fantasma che ride».
– Mi dispiace, Bob – gli disse Pete asciugandosi gli occhi – ma come vedi piango dal gran ridere. Spero che non ti sia fatto nulla… eri così buffo con quel cavaliere arrugginito che ti veniva dietro!
– Non è poi tanto in cattivo stato – notò Bob. – Solo qualche macchietta di ruggine qua e là. Aspetta che fotografiamo anche lui! Era in quella nicchia…
Fu allora che Bob si accorse di una porticina ben dissimulata nel muro, là dove prima stava l’armatura medievale.
– Ehi, Pete, vieni un po’ a vedere cosa ho scoperto. Una porta segreta!
– Non mi sembra segreta del tutto, dal momento che c’è scritto su «sala di proiezione». – Pete aveva dovuto avvicinarsi molto e socchiudere fortemente gli occhi per decifrare le parole incise su una placchetta d’ottone infissa alla porticina.
– Mio papà mi aveva detto anche questo – disse poi. – Una volta tutti i divi di Hollywood usavano proiettare i loro film per gli amici intimi.
– Diamo un’occhiata, Vuoi? – propose Pete mettendosi a spingere la porticina che si aprì a fatica, come se dall’altra parte ci fosse qualcuno che faceva forza in senso contrario.
Un soffio di aria fredda e umida investì i due ragazzi.
– Qui è buio come nella gola di un lupo – borbottò Pete accendendo la torcia elettrica che portava sempre con sé. – E c’è anche odor di rinchiuso!
La sala, molto ampia e assolutamente priva di finestre, era tappezzata di velluto rosso, e così pure un centinaio di poltroncine disposte su parecchie file come in un cinematografo vero e proprio. Alla luce dei lampi elettronici i due ragazzi notarono che la tappezzeria dei muri e delle poltrone cadeva a brandelli. Anche dalla parete, che una volta ospitava lo schermo, pendevano ora lunghe strisce di stoffa grigia di polvere. Sulla parete di fondo, opposta allo schermo, un organo a canne si ergeva fin quasi al soffitto, tra grandi festoni di ragnatele.
– Non c’è niente: andiamo via – mormorò Pete sottovoce. Il buon umore di pochi minuti prima sembrava sparito del tutto. Anche Bob si sentiva a disagio. Gli pareva che l’aria di quella stanza diventasse irrespirabile ogni minuto di più. Tornarono nella Sala degli Echi e Pete propose:
– Andiamo a dare un’occhiata lassù – e indicò la loggia che coronava circa metà della sala. Dalla finestra sulla scala si vedevano soltanto le pareti scoscese del Black Canyon.
– Avremo luce ancora per un paio d’ore – assicurò Bob. – C’è tempo per una bella occhiatina al tuo pirata. Da qui si vede benissimo. Ed è assolutamente normale.
Sporgendosi un poco dalla ringhiera dello scalone Bob riuscì a scattare una foto del dipinto,
– Già! – esclamò Pete. – È normale. Ma come mi spieghi che mi guardava? Quello era un occhio vivo, eccome!
– Forse dipende dal fatto che ha meno polvere degli altri. Anche se, per la verità, nessuno di questi quadri è polveroso come la roba che c’è là dentro – concluse Bob indicando la sala di proiezione. Continuarono a salire e giunti al loggiato si accorsero che all’inizio e alla fine di questo c’erano altre due rampe di scale.
– Interessante – osservò Bob. – Questo loggiato corrisponde al primo piano del castello. Salendo da una di queste scale si arriva al secondo. Chissà da che parte bisogna passare per arrivare al primo? Forse da una qualche altra porta nella Sala degli Echi. È proprio costruito in modo strano, eh?
Scelsero a caso una delle due scale. Dopo un po’ si accorsero che si trasformava in una scala a chiocciola, dentro a una torre rotonda, con finestrelle a feritoia come nei castelli antichi. Queste però avevano il vetro, anche se coperto da un fitto strato di polvere.
Aprendo una di quelle finestre scoprirono di trovarsi nella più piccola delle due torri che si vedevano dall’esterno, quella piantata proprio sul tetto. Lo sguardo poteva spaziare tino al più lontano orizzonte. Ma non si vedevano che colline e ancora colline.
– Guarda! Un’antenna della televisione – esclamò Pete sorpreso.
– Il Black Canyon non è poi così isolato come sembra! Molto vicino al castello spuntava infatti la parte superiore di un’antenna televisiva.
– Hanno dovuto metterla quasi in cima alla collina! – osservò Bob, sorpreso anche lui. – Evidentemente c’è un canyon vicinissimo a questo e vi abita gente.
– È incredibile quanti ce ne sono da queste parti, di canyon! –disse Pete. – Se però le colline non fossero così ripide…
–…si potrebbe facilmente passare dall’uno all’altro – esclamò Bob completando il pensiero del compagno. – Ma per salire di qui e scendere dall’altra parte ci vorrebbero le zampe di una capra, caro mio!
– Be’, qui non c’è nulla d’interessante – concluse Pete. – Torniamo giù. – I due ragazzi scesero per la scala a chiocciola, ritornarono sul loggiato della Sala degli Echi e salirono per la rampa che iniziava all’estremità opposta.
Questa era una scala più breve dell’altra e diritta. Conduceva a un largo corridoio dove si aprivano diverse porte.
– Entriamo qui — propose Pete vedendo che c’era una stanza con enormi scaffali che andavano dal pavimento al soffitto ed erano pieni di libri. – È la biblioteca. Qui è stato trovato il famoso biglietto con la maledizione al castello.
La stanza conteneva anche; molti quadri che però non erano ritratti di Stephen Terrill, ma scene tolte dai suoi film. Tra i vari personaggi di ogni singola scena era facile individuare l’attore, perché egli vi faceva sempre la parte del protagonista: come stregone, pirata o vampiro. Ma, a parte questo, egli risultava ogni volta assolutamente irriconoscibile.
– L’uomo dai mille volti – ricordò Bob mentre assieme a Pete passava in rassegna tutti quei dipinti. – Sai che mi piacerebbe vedere qualcuno dei film di Stephen Terrill? Peccato che non siano più in circolazione!
Poi, fermandosi davanti a un oggetto oblungo, alto circa due metri e appoggiato contro una parete, esclamò:
– Toh! guarda qui: un sarcofago egiziano! È come quelli che si vedono in certi musei.
Sul coperchio del sarcofago c’era una placchetta dorata con su incisa la seguente iscrizione:
Hugh Wilson a Stephen Terrill
affida
la cosa che gli è più cara.
In testamento
e
a ringraziamento
per la sua arte insuperabile.
– Accidenti! Qui ci dev’essere qualcosa di gran valore! – esclamò Pete. – Se è un’eredità…
– Ma cosa vuoi che ci sia? – fece Bob. – Ci sarà una mummia!
– Guardiamo! – propose Pete tutto eccitato.
Il coperchio non aveva né chiave né lucchetto. Sembrava molto pesante ma con un certo sforzo i due ragazzi riuscirono a sollevarlo quasi del tutto. Poi Pete lo mollò di colpo, fece un salto indietro e gridò:
– Hai visto cosa c’è dentro?
–Sì – balbettò Bob. – Uno scheletro!
– Con tutti i denti in mostra… come se ridesse!
– Questa è bella! – esclamò Bob che si era subito ripreso dal primo momento di sorpresa. – Ecco cos’era la cosa più «cara» al signor Hugh Wilson! Il suo scheletro… e lo ha lasciato in eredità a Stephen Terrill! Ma forse è uno scherzo. Dai, tira su il coperchio che gli faccio una fotografia. Vedrai che Jupiter la gradirà moltissimo.
Pete non voleva saperne ma finì per acconsentire perché Bob gli fece presente che uno scheletro è solo un mucchietto di ossa calcinate. Eppoi, finché si trattava di tener su il coperchio, non era necessario che lui guardasse dentro al sarcofago! Infatti, appena Bob ebbe finito, Pete rimise giù tutto voltando gli occhi da un’altra parte e si allontanò in fretta. Gironzolando per la vasta biblioteca capitò davanti a una finestra e fu sorpreso di vedere che il sole era già tramontato dietro le colline.
– Ehi, sbrighiamoci! – esclamò. – Si sta facendo buio!
– Impossibile – ribatté Bob. – Manca più di un’ora al calar del sole! – e continuò tranquillamente ad armeggiare intorno alla macchina fotografica per cambiare il rullino.
– Ma vieni a vedere, caspita! – insistette Pete. – Vuol dire che il sole oggi ha sbagliato orario!
Bob si avvicinò alla finestra e dovette constatare che nel Black Canyon stavano scendendo le prime ombre della sera.
– Sulla torre sembrava più chiaro, per via dell’altezza – disse.
– Bisognava tenerne conto. Non c’è più tempo per esplorare il castello.
– Andiamo, andiamo – cominciò a sollecitarlo Pete. – Se c’è un luogo antipatico, col buio, è proprio questo.
Usciti nel corridoio ebbero un’altra sorpresa: le scale per scendere al piano di sotto erano due, assolutamente uguali ed essi non riuscirono a stabilire quale avevano percorso per arrivare fin là.
– Forse la più vicina alla biblioteca – suggerì Pete e cominciarono a scendere. Pete andava avanti con una certa fretta e Bob gli teneva dietro zoppicando un poco. Arrivarono a un pianerottolo che non avevano mai visto prima e la scala continuava a scendere.
– Abbiamo sbagliato strada – osservò Bob. – Torniamo indietro. Qui è sempre più buio.
– Tutte le scale portano al pianterreno – dichiarò Pete: si era trovato davanti una porta, l’aveva aperta e aveva davanti a sé un’altra sfilza di gradini. – Dobbiamo scendere, sì o no? E allora scendiamo!
Un colpo alle loro spalle li avvertì che la porta si era chiusa. Ora i due ragazzi si trovavano nel buio più completo.
– Torniamo su – insistette Bob. – Non riesco neanche a vederti. Questo buio non mi piace.
– Non mi piace, non mi piace – borbottò Pete cercando a tentoni la mano del compagno. – Smettila se no diventiamo nervosi. Non piace neanche a me il buio. Torniamo su.
La porta non si apriva. La maniglia sembrava bloccata.
– Forse è scattata una molla che si aziona dall’altra parte –concluse Bob vedendo l’inutilità dei loro sforzi per riaprire la porta. – Non ci resta che rassegnarci e scendere per di qua: chissà dove finisce questa scala!
Ricominciarono a scendere, piano piano, nel buio più completo finché Pete si ricordò della torcia elettrica.
– Dimenticavo… – esclamò, subito rasserenato e cominciò a tastarsi la cintura dei calzoni. – Ce l’ho sempre con me, la torcia… Ma dove può essere? Ah! L’ho lasciata in biblioteca. È là che l’ho usata per far luce a quel bel sarcofago! E la tua?
– La mia non funziona – rispose Bob avvilito. – Ha preso un brutto colpo, quando sono caduto.
– Dammi qua, proviamo a scuoterla, qualche volta vanno a posto da sole.
Bob sentì che l’amico gli staccava la lampada dalla cintura con gesti nervosi, poi che la scuoteva ritmicamente, e infine vide splendere nel buio un filo di luce, poco più forte di un cerino.
– Qualcosa che non va nel collegamento con la pila – dichiarò Pete. – Ma è meglio di niente. Almeno si vede dove siamo. Erano arrivati in una saletta quadrata e con una porta in ognuna delle due pareti opposte.
– Quale sarà la porta buona? – chiese a se stesso Pete. – Qui dovremmo essere al pianterreno, ormai.
Il ragazzo si interruppe bruscamente. Afferrò il braccio di Bob e sussurrò:
– Senti? Senti anche tu?
Il braccio di Bob si irrigidì di colpo. Evidentemente sentiva anche lui: una musica strana, molto vicina eppure così flebile che sembrava lontanissima. Musica d’organo!
Bob capì, in quel momento, cosa aveva inteso dire Jupiter con la frase «nervosismo crescente che diventa angoscia». Era esattamente la sensazione che lo invadeva mentre la musica continuava. Lontanissima, sotterranea eppure stranamente vicina, aveva una intonazione lamentosa, come un gemito acuto e incessante…
– Viene di là! – sussurrò Pete indicando una delle due porte.
– E noi andiamo per di là! – sussurrò Bob indicando la porta opposta.
– Eh, caro mio! – ribatté Pete. – Quella chissà dove conduce. Nella sala di proiezione c’è la porticina che dà nella Sala degli Echi e quindi via dritto all’uscita. Qualsiasi cosa, ma non restare più dentro al castello! Vieni.
Pete gli afferrò la mano e Bob fu costretto a seguirlo. In verità si sentiva molto vicino al desiderio di far dietro–front e fuggire, non importa dove, alla cieca.
Dopo quella porta ce n’era un’altra in fondo a una specie di corridoio. La musica si sentiva sempre più vicina. Capirono di trovarsi nella sala di proiezione quando la flebile luce della torcia illuminò il velluto a brandelli delle poltroncine. Eppoi c’era l’organo!
Vicino all’organo stava qualcosa, sospeso a mezz’aria: una specie di splendore azzurrino, una forma indistinta, una nuvola palpitante…
E mentre quel «qualcosa» palpitava, il vecchio organo in disuso continuava ad emettere i suoi strani suoni lamentosi.
– Il Fantasma Azzurro – balbettò Bob. Fu il momento in cui l’angoscia si tramutò in terrore folle, come aveva previsto Jupiter!
I due ragazzi si lanciarono di corsa verso il fondo della sala di proiezione, infilarono la porta per la Sala degli Echi e sempre senza dire una parola raggiunsero il grande portone che fortunatamente avevano lasciato aperto.
Erano fuori del castello, ma non smisero di correre. Bob si era perfino dimenticato di avere una gamba fasciata, e quella’ gli si piegò in malo modo. Il ragazzo perse l’equilibrio, incespico e cadde lungo disteso sui gradini della terrazza, immediatamente fuori del portone d’ingresso.
Pete non se ne accorse e continuò a correre all’impazzata. In un angolo della terrazza c’era un mucchio di foglie secche, ammassate là probabilmente dal vento, in tanti anni di abbandono. Urlando dal dolore Bob si trascinò fino a quell’angolo e si rannicchiò tra le foglie come un topo in un buco del muro. Il cuore gli batteva forte, a colpi sordi, ma il ragazzo sentiva anche un altro rumore. Volle smetterla di urlare per ascoltar meglio. Strinse i denti e trattenne il fiato… Arrivava qualcuno. Era il Fantasma Azzurro, senza dubbio. Veniva in cerca di lui… Con il cuore che gli andava come uno stantuffo, Bob riuscì a distinguere un rumore di passi felpati: forse il fantasma era già sulla terrazza e scivolava leggero, adesso… Ecco il suo respiro: pesante, affannoso e sempre più vicino. Il ragazzo affondò la testa nel mucchio di foglie secche e attese. Una pausa di silenzio. Ma il fantasma era ancora là, lui lo sentiva. Poi «qualcuno» lo afferrò per una spalla. Bob gettò un urlo disperato che risuonò a lungo per le colline circostanti.