6.
Il risolutore

Tra le due guerre, alle pendici di un mondo fatto di guglie e di torrioni di calcare nel massiccio della Grigna, a Lecco, si raccoglie un gruppo di giovani alla ricerca di luoghi d’incanto dove sfuggire a una giovinezza piena di ristrettezze. Tra questi si distingue la figura di un ragazzo di origini friulane, nato il 2 gennaio 1909 a Savorgnano, una frazione di San Vito sul Tagliamento, allettato a diciassette anni da un amico che si trovava già lì con la promessa di più lauti guadagni. È Riccardo Cassin. A pochi giorni dal suo arrivo è invitato a prender parte a una scampagnata sul monte Resegone. E sarà proprio questa montagna così cara al Manzoni, a fargli esplodere la passione per le cime. Da qui il passo verso la Grigna è breve. Ogni fine settimana si reca in quella splendida palestra di roccia dove, più per istinto e voglia di mettersi in gioco che per affinato gesto atletico, si cimenta con le prime salite incontrando gli amici con i quali condividerà alcune tra le sue più straordinarie imprese. Sono Mario Dell’Oro detto Boga, Pino Comi, Augusto Corti, Gino Esposito, Ugo Tizzoni e Vittorio Panzeri. All’inizio si riuniscono intorno al circolo sportivo Nuova Italia fondato, nello spirito dell’epoca, con l’intento di plasmare i nuovi atleti. Poi, nel 1929, Cassin e compagni costituiscono al suo interno una sezione di alpinismo, il Gruppo Rocciatori, giovani pieni di ambizioni con mille progetti nuovi.

Solo più tardi, nel 1933, Cassin incontrerà il suo storico compagno di cordata Vittorio Ratti, quasi per caso su un campo da sci: «La nostra amicizia si fa più profonda man mano che il suo interesse per l’alpinismo diventa più vivo; gradatamente il fascino delle montagne si impadronisce di lui. Partecipa alla Scuola di Roccia [...] dove ben presto mette in evidenza le sue particolari attitudini di arrampicatore», ricorda Cassin. Ratti ha 16 anni, 6 meno di lui. Nato in Russia nel 1916, figlio di una famiglia lecchese emigrata per motivi di lavoro che rientra allo scoppio della Rivoluzione d’ottobre, è un ragazzo esuberante, allegro e sempre pronto allo scherzo. Già impegnato con successo in gare di slalom, grazie alle sue indiscutibili doti fisiche unite a velocità di reazione e capacità di valutare il rischio, si segnala subito tra i migliori allievi della scuola di arrampicata del Gruppo Rocciatori. Dopo un’intera stagione legati alla stessa corda sulle guglie della Grigna Meridionale, i loro discorsi cadono spesso su altre vette, su gruppi montuosi più lontani. I due cominciano a sognare le pareti delle Dolomiti e delle Alpi Occidentali. Ma i tempi non sono ancora maturi.

Il primo “sesto grado” in Grigna

Nell’arco di tre anni, tra il 1931 e il 1933, i ragazzi di Lecco realizzano nel gruppo delle Grigne diverse salite e prime ascensioni. Per festeggiare le loro conquiste, nello zaino non hanno lo champagne come Mummery sul Grépon (1881), bensì pane, formaggio e acqua. Sono degli autodidatti. La loro tecnica di arrampicata cresce con una continua sperimentazione sul campo. In Cassin il ricordo di queste prime ascensioni rimane indelebile: «Con l’esercizio attento e continuo, il progredire della nostra tecnica è graduale e costante [...] facciamo nostri, dopo averli provati, vari e sempre nuovi accorgimenti, arricchendo il bagaglio di esperienze».

Di questi anni è l’incontro decisivo di Cassin con Mary Varale, moglie del giornalista sportivo Vittorio, che lavora per «La Stampa» e in seguito per la «Gazzetta dello Sport». Appassionata e capace, Mary è un’assidua frequentatrice delle palestre naturali della Grigna Meridionale. Aveva incontrato Emilio Comici in Dolomiti e con lui e Renato Zanutti nel 1933 aveva salito in prima ascensione lo spigolo sud-est della Piccola di Lavaredo, che l’aveva consacrata al successo. È proprio con lei che Cassin e compagni cominciano a confrontare le proprie capacità con le gradazioni alpinistiche già in uso nelle Dolomiti, imparano la discesa in corda doppia, più sicura delle loro calate “alla marinara”, e conoscono le scarpette con suola di pezza, innovative quanto ad aderenza rispetto alle loro pedule, le sole calze o i piedi nudi ai quali spesso si affidavano. Sempre più spesso, in Grigna Riccardo si vede con il Boga, suo compagno di quegli anni, e la Varale. Con loro realizza una serie di successi coronati dalla prima apertura della via Mary sulla Guglia Angelina. La curiosità per le Dolomiti cresce e incalzano le domande. È così che, un pomeriggio qualunque, la Varale si sente chiedere: «Ma perché non porti Comici qui da noi?». Lo scalatore triestino era famoso per il suo stile perfetto, aveva già aperto vie di grande respiro, anzi era considerato “lo stilista per eccellenza”. Nel 1933 comparve davvero, accompagnato da Mary. Cassin lo ricorda con queste parole: «Una fortuna rara per noi [...] vederlo arrampicare, ascoltarne i consigli».

A quel tempo, in Grigna il sesto grado era qualcosa di cui si era sentito parlare nei rifugi o letto sulle riviste, e l’arrampicata in artificiale un “sentito dire”. Alle prese con “progressione a forbice”, staffe e prusik, Comici si esibisce su due vie esemplari: quella sulla Est della Torre (quarto grado) e la via dei Diedri sul Nibbio, con cui firma il primo sesto grado in Grigna, mostrando a Cassin e compagni quello che l’alpinismo delle Alpi Orientali aveva imparato dagli scalatori tedeschi del Kaisergebirge. Tecniche a loro sconosciute che si avvalgono di ausili “artificiali” per superare difficoltà elevate e passaggi “impossibili” con un notevole risparmio di energia fisica. È stato anche grazie a queste innovazioni che Solleder e Lettenbauer avevano aperto la loro via diretta sulla parete nord-ovest della Civetta nel 1925, inaugurando l’epoca d’oro del sesto grado. Cassin, punto nell’orgoglio proprio sulle pareti di casa, non si trattiene e sbotta: «Cribbio, avevamo un problema così bello sotto il naso e non lo avevamo mai visto! Bisogna fare qualcosa». Da risoluto uomo d’azione qual era, progetta la rivincita. Attacca la parete del Nibbio e apre un nuovo itinerario con difficoltà di quinto grado e un passaggio di sesto. Per curiosa coincidenza, su quella stessa parete anche Ratti realizzerà una sua prima nel 1935, anno in cui la cordata Cassin-Ratti si affermerà come un team formidabile.

Finalmente in Dolomiti

La stagione del 1933 si chiude con l’invito di Comici ad andare in Dolomiti, invito che i lecchesi non si lasciano sfuggire. La signora Varale li incita: «[...] nelle Dolomiti, farete il V come niente, e anche il VI. [...] Passerete dove vorrete».

Cassin nel 1932 era già stato nella zona del Brenta e al Catinaccio, per un primo folgorante assaggio che non gli aveva certo esaurito gli entusiasmi, semmai aveva accresciuto in lui la spasmodica voglia di tornare a mettere le mani su quella roccia. Quando ci torna nel 1933, questa volta il suo gruppo si accampa al lago di Misurina, sotto le Tre Cime di Lavaredo. L’esperienza però non soddisfa le aspettative a causa del cattivo tempo che li forza a giorni di inattività. Si ripresentano ancora nel 1934, stessa destinazione per una «stagione Lavaredo», come chiosa Georges Livanos nel suo Cassin. C’era una volta il sesto grado. In poco meno di una settimana, Cassin realizza una nuova via sulla Piccolissima con Gigi Vitali e Luigi Pozzi, una delle prime ripetizioni della via Comici-Varale-Zanutti sullo Spigolo Giallo della Piccola solo con Vitali, e la prima ripetizione della via Comici-Dimai sulla Nord della Cima Grande, con Boga e Vitali.

Anno di grazia 1935

Queste prime esperienze dolomitiche sono solo il preludio di quello che sarà il vero anno di grazia, il 1935, nella cui estate la cordata Cassin-Ratti ottiene un primo trionfo scalando lo spigolo sud-est della Torre Trieste (gruppo della Civetta). Due antefatti hanno un’importanza cruciale per questa salita: l’incidente di Cassin sulla Comici-Benedetti in Civetta e il fortuito incontro con Gervasutti all’uscita da quella stessa via che, nell’ultimo tratto, portano a termine lungo una variante diversa. Mentre attendono che il Gruppo Rocciatori arrivi con gli allievi più giovani, Cassin, in cordata col Boga, cade e si ritrova penzoloni nell’abisso dopo aver battuto la testa contro la roccia. Qui realizza che è il chiodo ad averlo trattenuto e non il suo compagno. Se l’amicizia con il Boga non viene meno, un po’ di fiducia forse sì. Nel frattempo, sulla vetta, durante quella gelida notte di bivacco, Comici rivelava a Cassin l’esistenza di un “problema” insoluto sullo spigolo sud-est della Torre Trieste. La sfida attira Cassin che questa volta propone a Ratti di affrontarla insieme.

Vittorio ha 19 anni, «un giovane atleta, ma serio e preparato, abituato a valutare il pericolo con serenità dopo averlo valutato: è sempre allegro e di animo nobile. Con lui ho fatto quest’anno tutti gli allenamenti e lo considero un elemento sicuro», questo il giudizio che ha del giovane compagno alla vigilia della partenza. Capocordata è Cassin, Ratti segue e «recupera i chiodi secondo la nostra abitudine, stando appeso alla fune e salendo poi a forza di braccia». Per Vittorio, sulla Trieste, è il primo bivacco della vita e il caso vuole che nella rientranza che si scelgono ci siano dei mughi, «lana da materasso», che debitamente sistemati si prestano a un giaciglio più confortevole della roccia. La via richiede ben due bivacchi, nonostante ciò la cordata è affiatata e il buon umore non viene meno. Per passare la notte, i due si divertono a riconoscere le cime. «Ma sei sicuro?», chiede Cassin, e la risposta arriva pronta «No, però a te che cosa cambia se io vedo il Catinaccio?». La mattina, di nuovo strapiombi, camini, fessure, difficoltà costanti tra il V+ e il VI, ma dopo 50 ore in parete, di cui 28 di arrampicata effettiva con l’uso di 60 chiodi, alle tre del pomeriggio i due si abbracciano in vetta. La felicità è alle stelle e le reazioni del mondo alpinistico sono entusiastiche. Nel suo celebre racconto in Dove la parete strapiomba, Cassin ricorda il complimento di un alpinista rimasto anonimo: «Su quei settecento metri a picco avete scritto una poesia».

«E se si andasse?»

È dal giornale che Cassin apprende la notizia che alle cime di Lavaredo sono tutti in fermento. Da qualche giorno due tedeschi del Kaisergebirge, Hintermeier e Meindl, sono accampati alla base dell’inviolata parete nord della Cima Ovest con l’intenzione di salirla. Ne hanno saggiato alcuni tiri, ma sono stati fermati dal maltempo. Questa prima è da tempo nelle aspirazioni di Cassin, che l’aveva osservata con attenzione durante la salita sulla Nord della Grande. Corre da Ratti: «E se si andasse?». La reazione è immediata «Eccome, che si va! Ha fatto brutto tutta la settimana. I tedeschi saranno rimasti nella loro tenda». L’immenso strapiombo che sporge di una trentina di metri dalla verticale aveva già respinto ben 27 tentativi di altri scalatori. Lo stesso Comici vi aveva segnato il “punto limite”, fermandosi prima del cosiddetto “traversone”, considerato il passaggio chiave perché una volta superato, da lì indietro non si torna! Come passare inosservati dai tedeschi? Quatti quatti, i lecchesi approfittano di un gran nebbione per una prima ricognizione. L’attacco vero è programmato per la mattina successiva. La strategia e la conduzione della salita sono affidate a Cassin, che individuerà le soste e dove bivaccare. Sarà Cassin il capocordata ostinato e tenace che terrà duro finché non avrà superato il passaggio senza mai farsi dare il cambio, qualsiasi sia il livello e la durata delle difficoltà. Mentre Ratti è l’eterno secondo. Solo di nome, però, come saprà dimostrare qualche anno dopo sulla parete nord-ovest della Cima Su Alto (gruppo Civetta, 1939) e sulla Ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey (1938). Gli accordi sono chiari, Ratti gode della piena stima del primo, dovrà attendere la soluzione del passaggio, contenere i morsi della fame e sopportare la sete. Dove l’altro apre lui segue e passa. L’intesa è fortissima. Grazie alla fiducia nelle capacità tecniche e nella tenuta psicologica del compagno, ci sono gli ingredienti fondamentali per una cordata ben affiatata.

Anche sulla Ovest è così. Cassin dà prova della sua ostinazione sulle difficoltà che gli si oppongono fin dal primo momento. Impiega 7 ore per un tiro, mentre Ratti aspetta in verticale sulle staffe e manovra le corde. Ci vogliono 4 ore solo per piantare il chiodo della salvezza, quello che lo terrà per ben tre cadute. Il tempo vola veloce. Si fermano prima del “traversone”. Quella sera infuria il temporale e il bivacco è precario. Come si appisolano, seppure ancorati alla roccia con moschettoni e corde, scivolano nel vuoto svegliandosi di soprassalto. Intanto i tedeschi si erano accorti della sfida, provano a raggiungerli, ma dopo un primo tentativo di recupero sul tempo, desistono.

Secondo giorno, ore 9: i rocciatori lecchesi si trovano di fronte a loro gli 80 metri del “traversone”. In 6 ore Cassin supera i primi 17 metri. La sensazione – come racconterà poi – è quella di «un ragno appeso a un architrave». Si fa sera quando finalmente il “traversone” è alle loro spalle. Il secondo bivacco è forse peggiore del primo, imperversa una tremenda bufera di neve e grandine. Il colatoio che scende dalla vetta continua a scaricare acqua e neve sui due alpinisti. Una scivolata nell’ultima parte del colatoio avrebbe potuto trasformarsi in un incidente mortale, ma la cima verrà raggiunta alle ore 15 del terzo giorno: 500 metri di dislivello in 50 ore, di cui 27 di arrampicata effettiva, con 60 chiodi di cui 25 rimangono in parete. Antonio Berti nella sua Guida delle Dolomiti Orientali suggella l’impresa con queste parole: «due bivacchi, due bufere, la gloria alpinistica».

La levigata lavagna in val Bondasca

Cassin aveva già scorto il Badile dal versante svizzero anni addietro. La sua parete nord-est era un problema ancora insoluto, un’impressionante lavagna di granito alta 900 metri disegnata da placche levigate e strapiombi. Affrontare una parete del genere richiedeva un coraggio e un’audacia formidabili. Cassin decide di optare per la sicurezza a scapito della velocità e la cordata si allarga accogliendo Gino Esposito. Variabili del loro successo saranno l’intuito visionario del loro capocordata e la loro preparazione tecnica e fisica unita alla scelta di attrezzatura alpinistica e indumenti che si rivelano adeguati a quel tipo di impresa. Quando arrivano, al rifugio Sciora scoprono che due comaschi, Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi, hanno le loro stesse intenzioni e da una settimana sono in attesa del momento propizio per attaccare. Le due cordate decidono di partire lo stesso giorno, con un vantaggio di tre ore per i comaschi. Cassin azzecca l’attacco e procede rapido sulle prime lunghezze, superandoli. All’alba del secondo giorno, dopo un bivacco tranquillo, seppure scomodo, le condizioni di Molteni e Valsecchi, già provati dallo sforzo, peggiorano. Dietro loro richiesta, il giorno successivo i lecchesi accettano di legarsi insieme per quella che diventerà una prima ascensione condotta in condizioni estreme, terminata con la drammatica morte per sfinimento dei due comaschi una volta raggiunta la vetta. Avversità e incidenti accrescono le difficoltà. Il secondo giorno un enorme masso precipita rischiando di schiacciare Cassin che si sposta appena in tempo. La cordata, raggelata per il «freddo terrore», stenta a riaversi. Ma Cassin riprende con sicurezza e intuito la ricerca dei passaggi superando tetti e aggirando ostacoli. Intanto le condizioni del tempo peggiorano fino a scatenare una violenta bufera di grandine e neve. «Quando arriveremo in vetta?», si chiede Cassin, «Quali e quante difficoltà ci attendono? Saremo in grado di superarle [...]? Questi assilli ci perseguitano, più li cacciamo più ritornano, ma non li manifestiamo, cerchiamo anzi [...] di mostrarci allegri per rincuorare Molteni e Valsecchi». La sera del secondo bivacco Esposito addirittura canta, pur di tenere alto il morale del gruppo, senza però riuscire a contrastare lo schianto dei tuoni e il rumore dell’acqua che scende a scrosci. Una breve schiarita illumina l’alba del terzo giorno, è un attimo di speranza, ma presto riprende a piovere, con neve e vento che abbassano la temperatura: «La situazione diventa disperata, la volontà spasmodica [...] cominciano le prime slavinette; un bivacco in queste condizioni sarebbe fatale per tutti. I due comaschi moralmente e fisicamente non esistono più».

Calzati i ramponi per affrontare l’ultimo tratto, Cassin sale da primo metro dopo metro e conduce tutti in vetta alle 16 del 16 luglio. È un’amara vittoria, rattristata dalla morte durante la discesa di Molteni e Valsecchi. I tre sopravvissuti, Cassin, Ratti ed Esposito, sono costretti a trascorrere una terza notte tra le intemperie prima di poter scendere alla Capanna Gianetti, sul versante italiano della val Masino, e dare l’allarme.

Il capolavoro di Riccardo

Quando Pierre Allain si ritirò dallo sperone Walker, quel fatidico primo agosto 1938, non immaginava certo che di lì a pochi giorni ci sarebbe stata la fine della gara. E tanto meno poteva pensare che i conquistatori non erano mai stati nel gruppo del Monte Bianco.

È uno strano gioco l’alpinismo. Allain, e con lui tanti altri, come Giusto Gervasutti, per otto anni avevano fatto la corte alle Jorasses; ed ora il primo venuto se le prende senza complimenti. Tipico metodo Cassin. Così aveva fatto sulla Cima Ovest di Lavaredo per la terribile parete nord; così allo spigolo sud-est della Torre Trieste, così alla Nord-est del Pizzo Badile. Veni, vidi, vici. Grande capacità, risoluzione sbrigativa in ogni problema, risultato. Questo il segreto di un uomo che ha sempre mantenuto i criteri di prudenza, ma che ha saputo spingere i limiti della sua audacia a valori sensazionali. In più, compagni di prim’ordine. Ratti, Esposito e Tizzoni non erano semplici secondi di cordata; erano uomini capaci di andare in testa ogni momento, ma che in Cassin riconoscevano il capo indiscutibile.

Una cartolina è l’unica guida che Cassin possiede. Una cartolina, con su disegnato l’ipotetico itinerario, che gli era stata inviata dall’amico giornalista Vittorio Varale. «Ecco la parete che dovresti fare!».

Quando un alpinista non è mai stato in un gruppo di montagne, non s’interessa che superficialmente dei problemi che ci sono. Figuriamoci poi Cassin, con così poco tempo libero a disposizione, sempre preso dal lavoro. Subito non è lo sperone la sua meta: è l’Eiger che fa più “problema”. L’anno prima sulla terribile parete erano morti Bortolo Sandri e Mario Menti, pagando di persona e al massimo dei prezzi l’irrealizzabilità del loro sogno. I tre, Cassin, Esposito e Tizzoni, si avviano verso Grindelwald. Heckmair, Vörg, Kasparek, Harrer sono in parete, in piena bufera. Ma vincono, e i nostri tornano in Italia: le bruttissime condizioni impedirebbero anche la prima ripetizione.

Ma ora il tempo è bello sulle Alpi, e a Lecco Cassin e compagni mordono il freno. Alle 13 del 30 luglio partono; non c’è Esposito, per il momento trattenuto da impegni. Alle 23.30 sono a Courmayeur, dopo un faticoso viaggio in treno. Vogliono un portatore che indichi loro la strada, ma la tariffa è troppo alta. Così rinunciano anche a quest’aiuto e vanno a piedi ad Entrèves. Dopo aver ottenuto qualche informazione, salgono al Pavillon, dormono tre ore, e alle otto del mattino sono al rifugio Torino. Qui, con fare noncurante, chiedono a Leone Bron, il custode, come si fa ad arrivare al rifugio Leschaux. Bron pensa: «Ma cosa vogliono questi due novellini? Cosa se ne fanno di sapere dov’è il Leschaux?». E, ad alta voce: «Scendete il ghiacciaio fino oltre il rifugio Requin, poi prendete a destra in piano. Dopo un po’ vedrete il rifugio sulla sinistra. E state attenti ai crepacci». Le cose non sono molto ben chiare nella testa di Cassin, ma qualcosa succederà. Così, dopo aver perso un mucchio di tempo nella seraccata sopra il Requin, quell’anno assai sconvolta, i due entrano nel rifugio, sudati e sbuffanti; qui si ripete la scena con il custode, Jules Burnet, ex guida. «Scusi, dove sono le “Gran Gioras”?». «C’est par là», è la laconica risposta, accompagnata da un gesto alquanto vago. Pur non essendo l’indicazione molto precisa, arrivano lo stesso a destinazione, e finalmente vedono la parete. Non si erano molto impressionati prima, al Colle del Gigante, di fronte ai “colossi” del Monte Bianco; e anche qui, di fronte al “muraglione”, Cassin pensa: «È percorribile». La sorte dello sperone è segnata. Quando mai s’è sbagliato Cassin? Dove ha dovuto tornare indietro? Mai, finora. Per lui è percorribile, e quindi si può star sicuri che lo percorrerà.

È il 31, e alla sera arriveranno su Allain e Leininger, ignari della visita dei lecchesi. Lo sperone è subito ridotto da Cassin in termini pratici: 1200 metri, trenta ore di arrampicata prevedibili, e circa trenta chiodi da portarsi dietro. Con un bivacco si esce in vetta senz’altro, però ci vuole un terzo di cordata, per distribuire meglio i pesi. Lasciano lì nascosto il materiale, tornano al Requin, risalgono al Torino, dove arrivano alle 18. Bron stenta a credere che sono stati al Leschaux. Il mattino dopo scendono a Courmayeur (Allain intanto è in parete), telefonano a Esposito. Il 2 sera questi arriva, con il materiale richiesto. In treno ha incontrato un tedesco che gli ha fatto vedere una bella foto della parete. Nessuno dei due dice che la parete è nei suoi progetti; si presenteranno poi, a impresa compiuta: «Gino Esposito». «Ludwig Steinauer! Bravo, italiano! Lui non dire niente a me in treno, ma io dire bravo lo stesso!». Le chiacchiere con il tedesco convincono Esposito e gli altri che il problema è veramente internazionale. Più duro che Eigerwand, aveva detto Steinauer. La nuova dimensione non spaventa i tre lecchesi.

Non era leggerezza, era fredda determinazione. Elemento chiave di ogni riuscita in montagna. Non si può esitare quando i tempi sono maturi, come ha fatto Allain. L’abilità consiste nell’intuire quando non sono più concesse titubanze. Cassin al Leschaux non ha cincischiato. Il 4 mattina, dopo tutto il movimento dei giorni precedenti, è pronto ad attaccare. Ancora s’insiste sulla loro scarsa preparazione (questa volta culturale); prima di partire, lasciano scritto sul libro del rifugio: «4 agosto 1938 ore 1 partiamo per la Valcher». In Dolomiti Cassin era l’asso del momento, insieme ai Vinatzer, Comici, Soldà, Carlesso, Andrich, Tissi. In granito la Nord-est del Badile, la più grande conquista nelle Alpi Centrali, in tre giorni. Ma il Badile, per il quale Antonio Berti avrebbe potuto ripetere: «Due bivacchi, due bufere, la gloria alpinistica», come aveva detto per la Cima Ovest di Lavaredo, per Cassin ed Esposito è un doloroso ricordo: la morte di Molteni e Valsecchi in discesa, l’ultimo tremendo bivacco.

A Cassin è stato rimproverato di aver attaccato le Jorasses senza esperienza di alta montagna, con leggerezza. Invece lui e i suoi compagni per tutto l’inverno si sono allenati in Grigna, bivaccando per esperimento. Aguzzando l’ingegno hanno costruito un martello con una becca da un lato, in modo da sostituire egregiamente la piccozza. Quanto alle bufere, Cassin aveva già dimostrato di non temerle sulla Ovest di Lavaredo e sul Badile. E non si dica che quelle erano di minore intensità.

Cassin ha saputo guidare la sua cordata dalla base alla vetta senza esitazioni, senza provare a destra e a sinistra. Passaggi come il Pendolo e le Placche Nere esigono, nella prima ascensione, un fiuto eccezionale. Basti pensare che tutte le cordate, anche oggi, sono sempre perplesse alla base delle placche nere, perché non si capisce dove si possa passare. E oggi ci sono i chiodi, a mostrare la via.

Cassin ha commesso un solo errore, che è stato fatto passare per abilità. Il primo risalto è stato da lui superato direttamente, senza usufruire del diedro Allain, superato pochi giorni prima dal francese, e perdendo quindi un mucchio di tempo. Naturalmente la sua soluzione è più diretta. Ma è illogica. Chi dice che la sua soluzione è più elegante parte dal criterio che più una via è diretta e difficile più è bella. Altri considerano più elegante, perché più aderente agli schemi tradizionali, il diedro Allain, che sfrutta il punto più debole della parete. Questione di gusti, ma il non essersi accorto che a sinistra c’era un passaggio più conveniente, forse non è da Cassin, genio delle traversate e degli accorgimenti.

All’alba sono alla crepaccia terminale, che superano senza alcuna difficoltà, come consumati ed esperti ghiacciatori. Un canalino roccioso, sulla sinistra del filo dello sperone, li porta a un intaglio. Seguono passaggi su roccia e ghiaccio, e i tre calzano i ramponi. Cassin è legato con due corde da cinquanta metri, in fondo alle quali, ai due capi, sono Esposito e Tizzoni. D’un tratto, la scoperta deprimente: «Qui ci sono delle tracce di gradini!», esclama Cassin. Guarda meglio, non dovrebbero essere più vecchie di due o tre giorni. Il dubbio s’insinua anche in Esposito e Tizzoni: qualcuno magari sta uscendo in vetta? Cercando di non pensare alla possibile fregatura, Cassin prosegue e, lungo il pendio di ghiaccio, arrivano alla base del primo risalto. Qui non ci sono terrazzini o altre soste. La verticalità della roccia s’interrompe, per dare spazio al ghiaccio. Su un piccolo gradino scavato si vedono altre tracce: un fiammifero spento, della carta argentata. «Ma di chi saranno? Vediamo se ci sono chiodi». In alto non si vede niente. Allain infatti aveva proseguito su neve e ghiaccio a sinistra, e non aveva superato il risalto per il filo. L’impazienza di Cassin, non impressionato dall’ambiente, lo spinge all’attacco subito, come in Grignetta. Senza affanno o paura, Cassin cerca con pazienza di progredire alla svelta non trascurando l’assicurazione. Due tiri di corda accademici, su un granito saldissimo; alla fine, una traversata a sinistra sotto un tetto. Proprio a metà Cassin deve fermarsi. «Non hai più corda!», gli urlano i compagni. La sosta è fatta sui chiodi, l’accademia continua, come in una dimostrazione da palestra. Il diedro è finito, e comincia una fessura obliqua a destra, con il labbro inferiore molto arrotondato. Il passaggio è brutto, lo si vede. Cassin s’incastra a metà, e cerca di salire come un rettile, senza poter piantare chiodi. I compagni lo seguono attentamente con lo sguardo, pronti a trattenere il capocordata se cadesse. Più volte è lì per scivolare, ma riesce a stare dentro all’infernale fessura che butta in fuori. Dodici metri di sesto grado senza proteggersi. Alla fine c’è una fessura, dove Cassin affannosamente pianta un chiodo, e può fermarsi a respirare un po’. Di sotto gli amici stanno a guardare, unici testimoni della prima prodezza sullo sperone. Qualche metro ancora, più facile, fino a un comodo pianerottolo. Hanno già raggiunto in altezza il punto massimo di Allain, molto spostato sulla sinistra. Sono quindi a un quinto dell’intera salita. L’ostacolo appena superato è il primo di una lunga serie, su questo non s’illudono. Alcune placche, e poi una solcatura ghiacciata sul filo dello sperone. Le pareti sono alte una decina di metri e tutte corazzate e lucide di ghiaccio. Di nuovo mettono i ramponi, e con due tiri di corda escono dall’imbuto, ancora sulla cresta dello sperone. Finalmente arrivano a una strettissima cengia che li porta a destra, sotto un lungo diedro di circa 75 metri. Alla base c’è un discreto posto da bivacco e decidono di fermarsi lì.

Il tempo è bello, i progressi fatti sono confortanti. Purtroppo le violente scariche di sassi nel canalone tra Walker e Whymper non li lasceranno dormire. Mentre Cassin e Tizzoni assicurano il materiale ai chiodi e preparano il sito per una notte il più possibile confortevole, Esposito prepara da bere con il fornello a spirito. Dopo il magro pasto l’allegria è viva: «La sapete quella della moglie che faceva le corna al marito?». Tizzoni inaugura una lunga serie di barzellette. «Il nostro primo bivacco non ha una storia speciale», racconterà Cassin.

Così come sono andate le cose, tranquille e regolari, perché affannarsi a illustrare pensieri e sensazioni delle notti alla «bella stella?». E poi non c’era Tizzoni che faceva ridere? Solo uomini così potevano aver ragione della Walker; a che servono le paure razionalizzate e i contorsionismi introspettivi? C’è una nuvoletta là sulla Verte? Non c’è da preoccuparsi, mica è detto che venga brutto. Gervasutti, Allain, Charlet sarebbero forse tornati indietro, con l’esperienza di ciò che significa quella nuvoletta. Loro no, sono ignari dei preavvisi meteorologici; è questa la loro forza, la loro superiorità sugli “occidentali”. Non è incoscienza, perché sanno di poter resistere alle prove.

Al mattino del 5 si sgranchiscono i muscoli e buttano nello stomaco un po’ di tè caldo.

Il diedro è vinto a poco a poco: a metà occorre fare piramide. Cassin fa venire Esposito e gli sale sulle spalle. Affannosamente il capocordata cerca di piantare un chiodo e sotto Esposito brontola; alla fine ci riesce, e ci si appende subito con tutto il peso. «Hai la grazia d’un elefante!», è il commento di chi ha sopportato per dieci minuti un’ottantina di chili sulle spalle, in una posizione non precisamente equilibrata. Ora un’altra sporgenza sbarra la salita. Due chiodi risolvono l’ostacolo, e finalmente tutti si trovano in cima al diedro. In quel momento Gervasutti e Arthur Ottoz attaccano a loro volta, verso le 11 di mattina. Hanno visto con disappunto i tre in parete e partono per la rincorsa. Come all’Eiger, i tedeschi raggiungono gli austriaci e si legano insieme. Qui come sarà?

Ancora una volta il grande “Gerva” è stato preceduto; nel 1935 da Rudolf Peters e Martin Meier sullo sperone della Croz, e ora da Cassin. Sente che le Jorasses gli sfuggono ancora. Tizzoni li vede dall’alto, li chiama, quelli rispondono, ma le loro voci non arrivano fin lassù.

La salita prosegue su ghiaccio. Due tiri di corda, un incidente: il martello sfugge di mano a Cassin e gli rimbalza sul naso; il sangue sgorga subito, arrossando la neve. Ma non è niente di grave. Un camino ghiacciato porta sotto un enorme tetto: non si vede dove si potrà passare, tutto è liscio, invincibile, repulsivo. Gli enormi muri della Torre Grigia sono impossibili. Il camino di ghiaccio è superato, una placca sulla destra pare offrire una possibilità; la placca è espostissima ed è superata con difficoltà. La traversata continua, poi è impossibile andare oltre, quindi il problema rimane. La posizione in cui si trova Cassin non può dar luogo a esitazioni. Dopo uno sguardo circolare, pianta due chiodi, non eccellenti, recupera un compagno; insieme, in un equilibrio malsicuro, con le punte dei piedi su appoggi obliqui, attaccano la corda ai chiodi e Cassin scende nel vuoto. Dopo dieci metri, spostato sulla destra di qualche metro, c’è uno spuntoncino. Con movimento pendolare, Cassin lo raggiunge. L’oscillazione non è molto ampia, ma con cinquecento metri sotto, penzolare nell’aria richiede grandi doti di equilibrio. Anche i compagni lo seguono, sapendo che ormai la ritirata è preclusa. Di nuovo si intravvede la possibilità di un’altra tragedia, come successe ad Andreas Hinterstoisser e compagni sull’Eiger, nel 1936. Ritirarono la corda, che era servita per superare una traversata. Salirono verso l’alto; ma le difficoltà terribili della parete e l’improvviso maltempo li costrinsero a tornare. Non era possibile ripetere la stessa manovra di traversata in senso inverso, così continuarono a calarsi verso il basso, e morirono tutti e quattro, uno dopo l’altro. Ma è difficile che i lecchesi pensino a questo episodio; uno strapiombo bagnato, molto impegnativo, e sono sotto le placche nere. Cassin continua, l’arrampicata diventa confusa. Non più passaggi chiari e netti come nel diedro di 75 metri, il pendolo, la fessura slabbrata. Ora è un’insalata di fessure, placche e strapiombi, su cui si può perdere molto tempo, senza guadagnare un solo metro.

Chiodi, staffe, piramidi con Esposito, passaggi in libera allo stremo, in lotta con il tempo, perché diventa buio. A un certo punto, una piccola fessura strapiombante, il segno di una decisa sciabolata. Sembra assolutamente insormontabile. Cassin prova a destra e a sinistra, ma occorre affrontarla direttamente. Attacca con il corpo arcuato in strapiombo, le mani aggrappate alla fessura. Guai se non tenessero. I piedi che non trovano nulla su cui appoggiarsi, tutto il peso del corpo affidato alle mani. E quando anche questo passaggio è superato ci sono ancora altre placche, fessure, lastroni.

«Spicciati! – urla dal basso Tizzoni, innervosito perché è troppo tempo che sta fermo e ha freddo. – Spicciati, ché altrimenti stiamo tutta la notte così!». «Dammi le ali e vedrai che faccio più presto!», gli risponde Cassin.

La ricerca di un posto per bivaccare si fa spasmodica. Sì, perché nel frattempo il cielo si è coperto, e tutto lascia prevedere una notte d’inferno. Non vogliono passare la notte appesi a un chiodo. Alle 22 Cassin arriva a un terrazzo decente, veramente provvidenziale. La cima della Torre Grigia non è molto lontana. Al buio pesto i compagni arrivano su, Tizzoni con il cappellaccio pieno di neve per fare il tè. Il cielo brontola, Gervasutti e Ottoz stanno bivaccando alla base dello sperone: hanno visto la mala parata e sono scesi. Nella notte la bufera non si scatena, anzi al mattino in più punti il cielo è sereno.

«Oggi bisogna per forza uscire».

Il filo dello sperone è ripreso dopo le placche grigie, quaranta metri di buon quinto grado. Parecchi tiri veloci, perché non molto difficili. Anche il nevaio triangolare non offre grandi difficoltà, e i tre si introducono nel canale della Torre Rossa. Scariche di ghiaccio provengono dall’alto, e le difficoltà qui tornano estreme. Chiodi che non tengono, appigli che si staccano. Urge togliersi al più presto di lì, incomincia a nevicare.

Sulla destra scoprono un’uscita: una lama staccata permette il passaggio verso un altro diedro-camino, meno pericoloso. La lama, in condizioni normali, non è difficile. Cassin deve farla tutta sulle mani, perché la neve copre già tutto. Continua la salita dentro l’ultimo colatoio, rabbiosamente si avvicinano alla vetta. Sulla cresta terminale si scatena un nubifragio con fortissime scariche elettriche. Mezz’ora senza potersi muovere; poi la furia cessa un poco. Ma ora su ogni appiglio c’è una crosta gelata, e la marcia è rallentata ancor più. Ancora riprende a nevicare, e in piena tormenta portano a termine la scalata, in vetta alla Punta Walker. «Supponiamo siano le 15 di sabato 6 agosto. Abbiamo vinto». Con queste parole si chiude il racconto della salita nella relazione Cassin. Al lettori può interessare che siano state le 15, o le 16, o le 14?

Cassin scrive il racconto della sua salita. Arrivato al momento della vittoria, tutto quello che sa dire è l’ora, come se gliel’avessero chiesta, per favore. Sappiamo che non era il tipo da perdersi in ragionamenti complicati, ma l’ora!? Forse, sentendo l’importanza di ciò che aveva fatto assieme ai suoi amici, gli pareva che affibbiare a quel particolare evento la data e l’ora, lo rendesse storico.

Ogni cosa importante ha la sua classificazione nel tempo, basta pensare alle battaglie e ai trattati di pace sui libri di storia. Nome e data. Senza, nulla ha importanza. Il «supponiamo» non indica tanto che non avessero orologio, ma che non si capiva assolutamente niente lassù in cima, e che la posizione era proprio insostenibile.

La discesa è problematica. Nessuno dei tre la conosce e non si vede niente. Alla cieca vanno giù e si trovano sopra la crepaccia terminale del “plateau” duecento metri sotto la vetta. Non riescono a superarla, così risalgono in vetta, riscendono qualche metro sul versante nord, e lì si preparano al bivacco. Quindici ore fermi, con un vento che minaccia di strapparli dagli ancoraggi. Piedi gelati, gambe intirizzite, stanchezza di tre giorni di salita continua. Alle 7 possono scendere, traversano alla Punta Whymper e giù, verso i Rochers du Reposoir. Incontrano dei tedeschi che offrono loro qualcosa da mangiare. Da tre giorni la stampa parla di loro; continuano a scendere, arrivano al rifugio Boccalatte, dove vengono accolti con urla: «Arrivano, è Cassin!!!».

Tutti si precipitano fuori e accolgono i vincitori, con un fuoco di fila di domande e di complimenti. Il giornalista Guido Tonella, l’unico a essere presente alla conclusione della storica impresa, corre loro incontro con lo spumante in mano, e con le calze a contatto con la neve. Nella fretta di stappare, si è dimenticato gli scarponi!

La seconda guerra mondiale è alle porte. «Durante il periodo bellico, [...] non mi sento di svolgere attività alpinistica fuori casa e di pensare ad aprire nuove vie», scrive Cassin nel 1940. Entra nel Comitato di Liberazione e dirige il Gruppo Rocciatori con l’incarico di mantenere i rapporti con i partigiani in montagna. Al suo fianco ci sono gli amici di sempre. Ratti è tra questi, ma non faranno più cordata insieme. Vittorio muore combattendo tra le brigate partigiane per una raffica di mitra nemica sotto gli occhi di Riccardo a Lecco, in uno degli ultimi scontri della guerra di liberazione.

Cassin continuerà con altri le sue sfide che lo vedranno, tra la fine degli anni Cinquanta e la metà dei Settanta, a capo di spedizioni vittoriose anche sulle montagne extraeuropee, diventando un’icona dell’alpinismo. Morirà centenario il 6 agosto 2009.