11.
Il rischio è il mio destino
È con grande piacere che il polacco Jerzy Jurek Kukuczka nel 1986 riceve dall’anziano Karl M. Herrligkoffer l’invito a partecipare a una spedizione internazionale al Broad Peak e al K2. Finalmente può riprovare a risolvere il grande problema della parete sud, da lui già affrontato nel 1982, in stile alpino con Wojciech Kurtyka. Altri polacchi, diretti da Janusz Majer, vogliono salire la Magic Line4 e lui non è tra di loro.
Il gruppo di Herrligkoffer si rivela non omogeneo, le aspirazioni dei singoli sono troppo diverse: in ogni caso nessuno vuole veramente tentare qualcosa di nuovo. Quelli che mettono tenda al campo base del K2 sono solo sei, assieme alla folla di alpinisti che si assiepa alle falde del gigante, gli altri polacchi, e poi italiani, francesi, americani, inglesi, austriaci e coreani. Assieme al suo compagno Tadeusz Piotrowski, sono il tedesco Toni Freudig e gli svizzeri Beda Fuster, Rolf Zemp e Diego Wellig, quest’ultimo compagno di Hans Kammerlander in tante scalate. Il resto del gruppo tenta il Broad Peak.
Herrligkoffer non ha il permesso per lo sperone Abruzzi, quindi proibisce espressamente loro di tentare per quella via. Il 9 giugno iniziano a salire al centro della parete per un evidente sperone nevoso e giungono a 6000 metri. Lì fissano il campo 1. Fuster e Zemp non hanno davvero voglia d’impegnarsi in quella parete mostruosa e già il mattino dopo se ne tornano al campo base, decisi a salire per lo sperone Abruzzi, anche senza permesso. Cosa che poi infatti faranno il 5 luglio. Gli altri quattro sistemano corde fisse per altri 200 metri, quindi anche Wellig decide di abbandonare. L’itinerario dimostra di essere esattamente quello che sembra dal basso, una pazzesca avventura in un ambiente impressionante, dove tutto pare essere appeso e instabile, dove ogni sguardo cade su minacce e formazioni ostili.
In particolare è temibile un canalone battuto da valanghe ove o si passa di gran corsa e senza sapere come andrà a finire, oppure si torna subito indietro. Chi ha visto da vicino quel luogo può ben dire di aver compreso dove l’alpinismo può portare. Reinhold Messner, che nel 1979 era salito poco sotto assieme a Friedl Mutschlechner, l’aveva definita una «via suicida». E ad oggi, passati 34 anni, nessuno ha mai neppure tentato una ripetizione...
Il 19 giugno sono in tre a partire dal campo base, ognuno con 25 chili addosso. Piantano il campo 2 sotto il primo grande seracco, a 6400 metri, e il giorno dopo lo riforniscono di viveri e di corde. Hanno notato che a lato del seracco una ripida cresta dà speranze di prosecuzione. Così il 21 fissano altri 500 metri di corde, ma dopo quel lavoro massacrante Freudig decide di scendere. Kukuczka e Piotrowski, dopo qualche esitazione, vogliono continuare. I due sono una cordata molto affiatata. Tadeusz è anche lui uomo di grande esperienza: il 13 febbraio 1973 con Andrzej Zawada era stato in cima al Noshaq (Hindukush), il primo Settemila ad essere salito d’inverno.
I due polacchi partono il 22 con il materiale da bivacco e cibo per due giorni. A mezzogiorno sono alla fine delle fisse, all’inizio dei giganteschi pendii che caratterizzano il fianco destro della grande nervatura. Kukuczka ricorda che grande pena fosse lo sprofondare nella neve nella calura del pomeriggio. Bivaccano a 6950 metri e poi ancora a 7400 metri. Il 24 si accorgono che il tempo cambia, lasciano tutto lassù e scendono al campo base in quella stessa bufera fatale ai coniugi Maurice e Liliane Barrard.
Il 3 luglio in un solo sforzo raggiungono il campo 2 e il 4 il luogo a 7400 metri dove hanno lasciato il materiale. Gli ultimi mille metri in una tirata li hanno stancati, ma la notte in bivacco riesce comunque a riposarli. Il 5 salgono su nevai che portano all’enorme couloir che hanno battezzato la “mazza da hockey”. Dopo il secondo bivacco (7800 metri) percorrono l’intero couloir fino ad una barriera terminale inaspettata di un centinaio di metri. Terzo bivacco a 8200 metri, sotto un ostacolo che per tutta la notte non smette di tormentarli. Eppure bisogna passare di lì, i più difficili sembrano i primi 30 metri... Il 7 si preparano, con la convinzione che quello deve essere il giorno: ma ben presto le difficoltà fino al V+ ridimensionano le loro ambizioni. Salire sul V+ richiede concentrazione già a bassa quota: a 8200 metri è uno sforzo di volontà e di equilibrio sovrumano. Hanno con loro solo 4 chiodi e una corda da 30 metri: ne hanno per tutto il giorno, ribivaccando poi nello stesso posto. Sono nei pressi del punto massimo raggiunto nel 1939 da Fritz Wiessner e Pasang Dawa Lama, provenienti dallo sperone Abruzzi. Il gas è finito, al mattino dopo si sciolgono un po’ di neve con la candela! Prendono la drastica decisione di lasciare lì la tenda, i materassini, il cibo e perfino i sacchi-piuma. Solo i sacchi da bivacco e le macchine fotografiche portano con loro. Sfruttando la corda fissata il giorno prima, e ormai su difficoltà inferiori, per un ultimo canale di neve a mezzogiorno sono a 8350 metri, ricongiunti alla via normale. Qui però la neve è inconsistente e li rallenta ancora. Verso le 18 Kukuczka nota sotto un seracco una bustina di minestra francese: che sia roba dell’ultimo bivacco dei Barrard? Se è davvero così, allora sono ancora a 8300 metri, dunque ben distanti dalla cima... avendo sbagliato tutti i conti...
È solo la speranza che quel dubbio sia erroneo che spinge Jerzy a continuare. Entrambi sono in uno stato di spossatezza tale che non riescono a distinguere neppure se sono a 8300 o a 8600 metri.
Alle 18.25 Jerzy è in vetta, dove fa a tempo ad appendere alla piccozza, assieme alla bandiera, due strisce di stoffa che il figlio gli aveva dato prima della partenza: ed ecco arrivare anche Piotrowski. Dopo alcune foto, in fretta e furia i due iniziano la discesa. Il tempo sta cambiando. A 8350 metri arriva il buio, Kukuczka accende la lampada frontale ma questa smette subito di funzionare. Sono costretti a un’altra gelida notte, senza tendina e con il solo sacco da bivacco. Non chiudono occhio, tremando per ore interminabili. Il mattino dopo iniziano una discesa su un terreno a loro sconosciuto, con scarsa visibilità. Sono costretti a fare delle corde doppie e riescono a calarsi solo di 400 metri fino alla Spalla. Ormai su terreno facile, sono però costretti dall’oscurità a fermarsi per un altro doloroso bivacco, nell’assillante timore di non farcela. Da due giorni non bevono una goccia d’acqua e a quella quota non bere significa avere scarse possibilità di sopravvivere. È una tortura terribile, la peggiore. Al mattino del 10 luglio il cielo si è un po’ schiarito, ma sembra un miglioramento passeggero. Kukuczka scendendo vede le tende coreane del campo 3, capisce di essere sulla via giusta. Lo raggiunge Piotrowski, circa alle 10, più o meno nel punto dove morì Art Gilkey. Incontrata una placca di ghiaccio, Kukuczka chiede la corda: Piotrowski risponde d’averla dimenticata all’ultimo bivacco. Jerzy scende lo stesso, avverte Tadeusz di passare un po’ più a sinistra. D’improvviso a questi si sfila un rampone, forse per i cinturini male allacciati, e nel tentativo d’arresto con l’altro piede, anche l’altro rampone si stacca. Piotrowski cade senza più controllo addosso all’amico che fa un tentativo di bloccarlo ma riesce appena a conservare il proprio equilibrio. Scompare alla vista, oltre un bordo di ghiaccio. Kukuczka impiega nello shock più di cinque ore per scendere gli ultimi 200 metri che lo separano dalle tende coreane. Ha la strana illusione di trovare lì il compagno vivo. C’è una radio, ma non funziona. Trova modo di bere e mangiare qualcosa. Quindi cade in un sonno profondo e vi rimane fino al pomeriggio dell’11. Ha dormito 20 ore! Alle 16 inizia la discesa e incontra due coreani che stanno salendo dal campo 2, dove Kukuczka arriva la sera. Da lì finalmente può parlare con Majer, che però già sapeva da un contatto radio con i due coreani della vittoria e della tragedia. Il 12, finalmente, arriva al campo base, dove ha le attenzioni di tutti. Ma con in fondo al cuore un enorme velo di tristezza, quel dolore che non si attenua neppure con il rumore dell’elicottero che quattro giorni dopo lo porta a Skardu.
Jerzy Jurek Kukuczka
Era nato a Katowice (Polonia) il 24 marzo 1948. Dal 1979 al 1989 si dedicò esclusivamente all’Himalaya, dieci anni di vita agli Ottomila, che terminò di scalare il 18 settembre 1987, con la prima discesa con gli sci dallo Shisha Pangma. Era così il secondo uomo ad aver salito i quattordici giganti della Terra, e principalmente per nuove vie (5 in stile alpino, 4 prime invernali, inclusa la solitaria al Makalu), utilizzando l’ossigeno solo per l’Everest, salito per l’inviolato pilastro sud con Andrzej Czok. Il 4 ottobre 1979 il Lhotse, nel maggio 1980 l’Everest, nell’ottobre 1981 il Makalu, solitaria per nuova via. Nel luglio 1982 il Broad Peak in solitaria. Nel luglio 1983 salì per nuove vie il Gasherbrum II e il Gasherbrum I (con Kurtyka). Nell’ottobre 1984 traversò le tre cime del Broad Peak. Nel 1985 fece le prime invernali del Dhaulagiri, il 21 gennaio con Andrzej Czok, e del Cho Oyu, il 15 febbraio; e poi a luglio il Nanga Parbat per il pilastro sud-ovest. Nel 1986 era reduce dalla prima invernale del Kangchenjunga, 11 gennaio (con Krzysztof Wielicki). Lo attendevano a novembre il Manaslu e il 3 febbraio 1987 l’Annapurna, prima invernale con Artur Hajzer.
Il 18 settembre 1987 è divenuto il secondo uomo, dopo Reinhold Messner, a scalare tutte le quattordici vette che superano gli 8000 metri sul livello del mare e quello ad aver compiuto l’impresa nell’arco di tempo più breve (otto anni, dal 1979 al 1987). Durante la sua vita non raggiunse mai un adeguato riconoscimento mediatico a livello internazionale, nonostante avesse compiuto l’impresa nella metà del tempo impiegato da Messner (e in alcuni casi lungo vie di difficoltà maggiore).
È morto tentando di scalare la parete sud del Lhotse in Nepal, il 24 ottobre 1989, a 8250 metri di altezza. Una corda usata che aveva comprato in un mercato di Katmandu si è rotta di colpo durante la salita. Nulla poté il compagno Ryszard Pawłowski.
Wojciech Kurtyka, il suo compagno di tante imprese, scrisse:
Jurek è stato l’alpinista più somigliante a un rinoceronte, dal punto di vista psicologico, che io abbia mai incontrato, ineguagliabile nella sopportazione della sofferenza e nella capacità di ignorare il pericolo. Al contempo possedeva le qualità più caratteristiche di tutti quelli nati sotto il segno dell’Ariete, un’incontrollabile e cieca spinta interiore ad andare avanti. Questo tipo di caratteri quando incontra un ostacolo gli si avventa contro fino a che o lo distrugge o ne viene distrutto. La conoscenza di queste due componenti “bestiali” del carattere di Kukuczka consente di spiegare i suoi successi, gli eventi tragici che lo colpirono e infine anche la sua morte.
La salita visionaria di Kurtyka e Schauer
Ivo Ferrari ebbe a scrivere: «Tra i “viaggi” alpinistici e mentali che più hanno colpito la mia lettura, sicuramente Vicino alla morte, vicino al piacere di Robert Schauer è ai primi posti: una via senza Cima, aperta in stile formidabile, due Uomini sperduti con la loro capacità, due “visionari” [...] Un lungo passo tra i passi lenti dell’alta quota».
Davvero un’impresa che ha fatto sognare, alla pari di poche altre, come il Tirich Mir di Guido Machetto e Gianni Calcagno, il Changabang di Joe Tasker e Pete Boardman, la parete sud dell’Annapurna di Nil Bohigas ed Enric Lucas, il Nanga Parbat per la Rupal di Steve House e Vincent Anderson... Avrete capito che questo libro vuole testimoniare la grandiosità di coloro che sono stati ispirati da vere e proprie visioni: ma non dispongo di spazio adeguato per tutti.
Di certo Wojciech Vojtek Kurtyka e Robert Schauer hanno vissuto un’esperienza simile, hanno messo piede nel regno della morte e ne sono tornati indietro; è accaduto nel 1985, in Karakorum, durante una spedizione alla parete ovest del Gasherbrum IV 7925 m.
Molti erano stati i precedenti tentativi di scalare il “Muro lucente”, ma tutti erano falliti a causa delle difficoltà tecniche in alta quota e dell’immenso dislivello (quasi 3000 metri), fattori che richiedono un prolungato periodo di bel tempo, ben oltre quello normalmente disponibile.
L’austriaco e il polacco volevano salire in stile alpino, perciò concordavano sulla necessità, in assenza di portatori, di scalare la parete d’un fiato, anziché salire, poi ridiscendere e poi salire ancora, piantando chiodi e mettendo corde fisse, come si fa normalmente su montagne di quelle dimensioni. Sapevano che per uscirne vivi dovevano chiamare a raccolta ogni briciola di volontà e di abilità. Purtroppo la prima metà del percorso richiese molto più tempo del previsto, con il risultato che restarono senza cibo e combustibile. Tuttavia la vetta sembrava ancora alla loro portata, finché i piani non vennero mandati definitivamente all’aria da una violenta tempesta. A quel punto, già esausti, scavarono una buca nella neve a 7700 metri dove rimasero bloccati per due giorni. Trascorsero 72 ore mangiando e bevendo quasi nulla: nella “zona della morte” quelle privazioni conducono rapidamente all’apatia.
In quello stato era necessario un grande sforzo per distinguere i problemi reali dai fantasmi dell’immaginazione. Schauer racconta d’essere stato convinto che la cordata era composta da tre persone, e che la causa della loro lentezza era proprio quel terzo alpinista inesistente. Credeva anche che quello gli impedisse di dormire: li tormentava scrollando il telo da bivacco e li ostacolava in ogni operazione.
Con la tempesta di neve cominciarono a cadere slavine a intervalli regolari. Rannicchiati nella loro buca non avevano nulla da temere: le valanghe erano di lieve entità, non avendo modo la neve di accumularsi vista la ripidezza della parete. Ma avevano la sensazione che il terzo alpinista cercasse di buttarli fuori. In realtà si sentivano comunque schiacciati, la sensazione di claustrofobia li faceva impazzire.
Racconta Schauer:
All’improvviso mi librai come un gracchio. Percepivo tutte le sensazioni del volo in maniera estremamente intensa: il vento in faccia, il freddo pungente, l’assenza di peso. Potevo guardare giù e vedermi imbozzolato nel sacco-piuma, minuscolo puntino sulla parete gigantesca. Com’era stupido rimanere laggiù, pesanti e goffi, quando in cielo si poteva andare in tutte le direzioni. Ero euforico, non avevo nessuna voglia di tornare nel mio sacco-piuma gelido in quell’orribile buca. Allo stesso tempo ero cosciente della necessità di scendere dalla montagna sano e salvo. Ne avevamo parlato a lungo, tormentandoci in cerca di una soluzione.
La situazione era già insostenibile al momento dell’inizio della tempesta. Se questa fosse durata altri giorni? Quanto potevano resistere ancora senza cibo né acqua? A quelle quote il corpo ha bisogno di 5 o 6 litri al giorno per contrastare la disidratazione e preservare il buon funzionamento degli organi. Si sentivano così deboli che il minimo gesto richiedeva tutta la loro forza di volontà. Vojtek se ne uscì con l’idea di calarsi giù: un piano suicida, con sei chiodi e due corde in tutto. Non sarebbero mai riusciti ad arrivare in fondo, senza contare il pericolo delle valanghe, di certo più grave nella parte bassa della parete. Schauer realizzò che sia lui che il compagno stavano perdendo il senso della realtà; sì, anche Vojtek, di solito così pragmatico. Pur malconci, sembrava loro che la decisione di uscire dalla parete verso l’alto fosse l’unica a dare qualche chance di sopravvivenza, anche se l’obiettivo del raggiungimento della vetta era da tempo distante dai loro pensieri. Sapevano che proseguire significava poter trovare una via di discesa, sia pure con un’infinita serie di incognite.
Comunque erano condannati ad aspettare, sia perché ormai molto deboli, sia per la tempesta che impediva qualunque mossa. A certe quote non c’è modo di recuperare le energie perse, per quanto si stia immobili. Oltre i 6000 metri il corpo non fa che indebolirsi, si nutre delle sue riserve di grasso, inizia a digerire se stesso. Secondo gli scienziati questo processo scatena in noi una serie di sensazioni molto piacevoli. In quella attesa forzata, le visioni si susseguivano, con vere e proprie fissazioni su determinati temi. Dopo aver abbandonato le sembianze del corvo, Schauer si ritrovò nel mezzo di una calca di persone; da tutta quella gente s’irradiava un confortevole senso di calore e sicurezza. Vide segnali stradali e luci che gli indicavano la direzione da seguire. Poi si trovò in un supermercato a rimpinzarsi di salsicce buonissime e altre squisitezze, come in un film accelerato. Tutte quelle immagini non facevano che alimentare la loro inquietante sensazione di benessere, ma il lumino di coscienza ridotto al minimo li avvertiva della pericolosità di quelle illusioni. Gli sembrava di non avere nulla da temere: come mai non venivano colti dal panico neppure negli sporadici lampi di lucidità? Si consolavano giudicando quell’euforia interiore un espediente che il proprio essere stava adottando per infondere energia, per convincerli che stavano facendo la cosa giusta, per generare attività e movimento. Avevano ben chiara la novità di un fenomeno simile: da dove veniva quell’energia, dato che in corpo ne restava così poca? Sapevano che altri alpinisti avevano vissuto esperienze simili. Hermann Buhl aveva scalato il Nanga Parbat in solitaria in una specie di trance. A 8000 metri aveva avuto l’impressione di camminare attraverso un frutteto in fiore, e si era convinto che ci fosse un altro alpinista con lui. E sapevano di altri esempi del genere. L’incubo durò due giorni. Quando il sole tornò finalmente a scaldare la parete, ci vollero ore prima che un po’ di tepore penetrasse anche nei loro corpi intirizziti. A quel punto lottarono per sfuggire alle creazioni del loro mondo onirico. Era venuto il momento di muoversi, ed è difficile prendere decisioni e agire finché realtà e fantasia si confondono.
Avevano la gola infiammata da giorni, e il riempirsi la bocca di neve peggiorava solo le cose: avrebbero dovuto bere di più prima. Cercare di rimediare adesso era come versare una goccia d’acqua su una pietra rovente. Lentamente riacquistarono la capacità di muoversi. Ora era chiaro a entrambi che l’unica possibilità di salvezza era continuare a salire. Avrebbero dovuto farsi strada verso la vetta nella neve alta. Nonostante la pendenza moderata, procedevano lenti come lumache.
Nel tardo pomeriggio del 20 luglio 1985 uscirono finalmente dalla parete. Una piccola breccia nella cresta indicava la via di discesa. Non ci fu bisogno di parole. Non avevano nessuna voglia di fare qualche metro in più fino alla cima, situata a una distanza che solo a chi non era lì in quel momento può apparire piccola.
Trovarono a naso l’unica discesa possibile tra alte balze di roccia e barriere di ghiaccio, una linea in mezzo alla levigatezza disperante della cresta nord-ovest, arrampicando e scendendo anche con qualche corda doppia, su ancoraggi creati con l’ansia di risparmiare i pochi chiodi che avevano. Eppure continuavano a pensare che non ci fosse nulla da temere. Dopo un’altra notte, un altro giorno e un’altra notte di fatica, misero piede sulla superficie piatta del ghiacciaio. Gli sembrava di fluttuare a mezzo metro da terra. La realtà aveva assunto le sembianze di irrealtà e gli ci vollero giorni prima che le sensazioni e i pensieri tornassero normali e abbandonassero quello stato di “assenza”.
Dopo l’avventura sul “Muro lucente” entrambi pensarono di abbandonare l’alpinismo a quei livelli. Ma gli orrori tendono a svanire e può sempre arrivare qualcosa di nuovo ad attivare l’attenzione di soggetti predisposti: non si finisce mai.
Quella scalata, in una situazione così estrema, aveva suscitato in loro una marea di emozioni e intuizioni. Trascorso un po’ di tempo, torna il desiderio di ripetere esperienze del genere se non si è riconosciuto in tempo di essere già stati al proprio limite. E infatti, secondo Schauer
C’è qualcosa che affascina nel forzare i limiti: scoprire chi sei e di che cosa sei capace ai margini estremi dell’esistenza. Molti alpinisti dicono di avere sperimentato fenomeni di ampliamento della coscienza trovandosi in pericolo di morte. Uscire vivi da esperienze come queste è quasi una forma di piacere. Questa alterazione della coscienza ottenuta con metodi assolutamente naturali può essere davvero esaltante. Ti senti irresistibilmente spinto ad arrampicare ancora, magari in condizioni ancora più proibitive.
Wojciech Kurtyka
Nasce il 25 luglio 1947 a Skrzynka (Kłodzko), Polonia. Laureato in ingegneria elettronica, nel 1974 si trasferisce a Cracovia. Ottimo arrampicatore in falesia e anche in free solo, è come alpinista che s’impone all’attenzione mondiale, specialmente per essere uno dei precursori dello stile alpino sulle grandi montagne dell’Himalaya e del Karakorum.
Nei Tatra polacchi ha al suo attivo parecchie prime ascensioni in libera, nonché molte prime invernali. L’exploit che gli dà fama è la prima invernale della Troll Wall in Norvegia nel 1973 (Direttissima dei Francesi, con gli amici Marek Kęsicki, Ryszard Kowalewski e Tadeusz Piotrowski). Ma già nel 1972 aveva compiuto un’impresa davvero importante (è lui stesso a dirlo), la prima ascensione della parete nord-ovest dell’Akher Chogh 7025 m (Hindukush), in puro stile alpino con i compagni Jacek Rusiecki, Marek Kowalczyk e Piotr Jasiński. Nel 1973, con Jerzy Kukuczka e Marek Łukaszewski, apre una via nuova sulla parete nord del Petit Dru (voie Petit Jean), poi nel 1975 sempre con gli stessi apre la via dei Polacchi sulla parete nord della Punta Elena delle Grandes Jorasses.
Partecipa a due grosse spedizioni polacche: nel 1974 tenta la salita invernale del Lhotse, raggiungendo quota 8250 metri, e nel 1976 s’impegna nel tentativo alla cresta nord-est del K2. Questa spedizione raggiunge quota 8400 metri circa e sono gli americani di James Whittaker che due anni dopo completano la salita passando per il Collo di Bottiglia della spedizione italiana, quindi senza percorrere integralmente l’ultimo tratto di cresta nord-est, che ad oggi è ancora inviolato. Queste esperienze lo convincono della superiorità delle spedizioni leggere, con il minimo di equipaggiamento e di supporto anche sulle pareti più alte e difficili.
Eccolo infatti nel 1977 con la nuova via sulla parete nord-est del Kohe Bandaka 6868 m (Hindukush afghano), con Alex MacIntyre e John Porter; con gli stessi e con l’aggiunta del polacco Krzysztof Żurek, nel 1978 apre la diretta alla parete sud del Changabang. Nel 1980 è con René Ghilini, Ludwik Wilczyński e ancora MacIntyre su una nuova via alla parete est del Dhaulagiri (senza vetta). In seguito è protagonista di due importanti tentativi, la parete nord-ovest del Makalu (1981, con MacIntyre e Kukuczka) e l’invernale al Cho Oyu (1982, con Reinhold Messner). Nell’estate del 1982 sale con Kukuczka il Broad Peak; nel 1983 apre con Kukuczka due nuove vie ai Gasherbrum I e II. Nel 1984 è ancora con Kukuczka per traversare in stile alpino tutte e tre le vette del Broad Peak.
La salita alla parete ovest del Gasherbrum IV compiuta con Schauer nel 1985 è stata selezionata dalla rivista americana «Climbing» come una delle dieci più impressionanti imprese del XX secolo.
Nel 1988 sale con Erhard Loretan la difficilissima parete est della Nameless Tower di Trango 6239 m (Baltoro, Karakorum); tra il 1987 e il 2000 tenta quattro volte la parete ovest del K2; nel 1990 gli riesce una via nuova sulla parete sud-ovest del Cho Oyu, con Loretan e Jean Troillet e, ancora in quell’anno e con gli stessi, una via nuova sulla parete sud dello Shisha Pangma. Nel 1993 e 1997 tenta due volte la Mazeno Ridge al Nanga Parbat. Nel 2001 tenta lo sperone nord del Latok I con Taeko e Yasushi Yamanoi.
Nel 2016 Kurtyka riceve il Piolet d’Or alla carriera.
Robert Schauer
Hans-Robert Schauer nasce a Graz (Austria) il 27 agosto 1953. Afflitto da una grave forma di tubercolosi, non ha un’infanzia semplice e impiega anni per riacquistare piena salute. Nel 1982 interrompe gli studi di medicina per poter percorrere la sua strada di professionista del film di montagna. Cinque sono gli Ottomila al suo attivo (l’Everest due volte, il Gasherbrum I, il Nanga Parbat, il Makalu e il Broad Peak). Con la sua esperienza di filmmaker (sono una dozzina i suoi film), Schauer è il fondatore nel 1986 dell’International Mountain and Adventure Film Festival di Graz: manifestazione di più giorni che dirige ogni anno fino alla sua ventiduesima edizione nel 2010.
È del 1974 la sua prima spedizione nella zona dell’Hispar Muztagh, dove sale con i compagni la vetta del Pumari Chhish; l’anno dopo è la volta del Gasherbrum I. Nel 1976, un altro successo: riesce a salire sul Nanga Parbat per una via nuova (la via Shell) con Hanns Schell, Hilmar Sturm e Siegfried Gimpel. Nel 1977 sale al Nun-Kun 7077 m (Himalaya indiano) e nel 1978 sale una prima volta sull’Everest, membro di una spedizione austriaca diretta da Wolfgang Nairz, la stessa cui si aggregano Reinhold Messner e Peter Habeler per la loro riuscita sulla montagna più alta del mondo senza ossigeno. Ci risale nel 1996, con il team di David Breashears, allo scopo di girare con una telecamera Imax due minuti dell’immenso panorama dalla vetta.
Nel 1979 Schauer è con la spedizione internazionale diretta da Reinhold Messner al K2. Inizialmente l’obiettivo è la salita della cosiddetta Magic Line, ma la spedizione è troppo leggera e ripiega sulla salita della seconda montagna del mondo senza ossigeno e senza portatori. Il successo arride a Messner e a Michl Dacher: pochi giorni dopo Schauer, Friedl Mutschlechner ed io ritentiamo ma, dopo una brutta notte al campo 4, a 8000 metri, decidiamo di ripiegare in mezzo a una violenta tempesta. Ricordo bene come Schauer osservasse da Concordia la grandiosa parete ovest del Gasherbrum IV.
Nel 1981 sale senza ossigeno sul Makalu. Nell’aprile 1983, nel tentativo di salire con lui l’Annapurna II, il suo compagno Klaus Schlamberger precipita e muore. Il tentativo si arresta a 7450 metri. Nel 1984 sale il Broad Peak, ma ha anche il compito di filmare la salita per la ZDF. Nell’inverno seguente sale la parete nord dell’Eiger come allenamento per il Gasherbrum IV.
Dopo la grande impresa, nel 1987 si accorda con l’ITN londinese per filmare il tentativo britannico alla cresta nord-est dell’Everest. La spedizione non ha successo e Schauer arriva fino a 8000 metri.
Nel 2000 continua la collaborazione con Breashears, questa volta per la produzione di Kilimanjaro: to the Roof of Africa.
Nel 2004, è ancora con Breashears, per la realizzazione di Remnants of Everest, un film ispirato al 1996, l’anno tragico del libro di Jon Krakauer, Aria sottile.
4 La Magic Line, così battezzata da Messner nel 1979, è la cresta sud-sud-ovest del K2, di particolare eleganza e, allora, ancora inviolata.