3.
La ricerca di noi stessi
Nel secondo dopoguerra si era reduci da un periodo in cui ci avevano fatto credere d’essere una grande e potente nazione nel panorama mondiale. Di certo lo eravamo dal punto di vista alpinistico, senza bisogno di citare i vari Comici, Cassin, Gervasutti e gli altri dell’epoca d’oro. Ma non andavamo oltre: cultura, arte e pensiero vivacchiavano nell’angusto cortile di libertà che il regime ci aveva lasciato. Guerra e guerra civile avevano dato un duro colpo a quella presunzione di grandezza.
C’era un bisogno incredibile di ritrovarsi come società, come Paese, a dispetto della nostra connaturata litigiosità. Il referendum monarchia-repubblica, le prime libere elezioni dopo tanto tempo, la Costituzione ri-fondarono la nostra Italia, al di là degli odi e delle guerre. Ma in quel quadro di grandi eventi c’era anche bisogno che Bartali e Coppi vincessero: quando nel 1954 riuscimmo a salire sulla montagna più difficile del mondo, il K2, la nostra fu anche una vittoria sui precedenti tentativi americani, densi di storia e anche di tragedia. Ero un bambino di otto anni quando ai primi di agosto si seppe del grande successo: e io ricordo molto bene che alla notizia le campane di tutto il Paese suonarono a festa, in quel momento irripetibile di gioia popolare. Una cosa del genere è ricapitata quando ci riuscì di vincere il campionato del mondo di calcio, nel 1982 e nel 2006, e non in altre occasioni.
Ce n’era davvero bisogno. Necessitavamo di un sogno-simbolo che ci restituisse quella dignità che sentivamo di aver quasi perduta. Il K2 non fu episodio isolato, e non voglio qui ricordare gli altri successi extraeuropei. Ciò che importa, è osservare che in quegli anni cominciarono a crearsi i primi miti alpinistici, individui che incarnavano le aspirazioni eroiche di tutti. I nostri più grandi alpinisti, come Cesare Maestri e Walter Bonatti, oppure il nascente René Desmaison, l’irraggiungibile Hermann Buhl, il riservato Joe Brown, attiravano su di loro l’attenzione di tanta gente, di quello che oggi si chiama “pubblico”. Negli anni Trenta il pubblico non c’era: c’era una nazione che plaudiva alle grandi imprese con elargizione di medaglie e riconoscimento: il rapporto alpinisti-gente non era mediato dai giornali e dalla radio (presto anche dalla televisione). In genere, cioè, chi applaudiva erano gli appassionati, la maggioranza ignorava cosa stesse succedendo sulle montagne. Negli anni Cinquanta, invece, giornali, radio e tv facevano a gara ad accaparrarsi lettori, ascoltatori e spettatori. Così nacque il “pubblico”, che è qualcosa di diverso dall’opinione pubblica. Quando nel 1961 ci fu la grande tragedia del Pilone Centrale del Frêney (quattro alpinisti morti su sette) ci fu un’attenzione morbosa al disastro in pieno svolgimento, che non poté che creare ulteriore curiosità malata ogni qual volta si riparlava di alpinismo ad alto livello. I mesi seguenti furono costellati di interviste, polemiche, insinuazioni.
Proviamo a tralasciare l’eco mediatica per scoprire cosa davvero la gente sentisse nei confronti di quei personaggi. Nel 1965 il più importante di loro, Bonatti, subito dopo il tripudio di una magnifica “prima” invernale e solitaria sulla Nord del Cervino, interruppe definitivamente la sua carriera per dedicarsi ad altro. Questa decisione provocò le reazioni più varie: ad alcuni dispiacque fortemente, qualcuno ne rimase deluso. Io ero un ragazzo di 19 anni e anch’io mi domandavo come mai un uomo di 35 anni, quindi nel pieno delle sue forze, mollasse così repentinamente e si distaccasse dal suo pubblico. Allora non ero in grado di capire, oggi sì. La pressione che i mezzi di comunicazione esercitavano su questi personaggi era tale da risultare a un certo punto insostenibile, un pressing di cui occorreva sapersi liberare. L’abbandono di Bonatti era la fotografia di come qualcosa non funzionasse bene. Ciò che non andava era il pensare che quello fosse l’alpinismo. Perché invece l’alpinismo è altra cosa. A mio modesto parere è uno dei modi per trovare noi stessi.
Ma cosa vuol dire “trovare noi stessi”? C’è gente che “si trova” andando magari a lavorare a 12 anni, c’è gente che lo fa lottando nella sofferenza della miseria o di tragedie familiari. Se il periodo è di pace, come quello di cui stiamo parlando, coloro che hanno la fortuna di nascere nella media borghesia o nell’agiatezza hanno particolarmente bisogno di trovare se stessi. In tempo di guerra c’è la pazzesca convinzione che andando a fare il volontario un giovane si realizzi, in tempo di pace no. Così ci si volge alla montagna e ai suoi pericoli, al mondo selvaggio che ci appare come una continua sfida. Sfida che accettiamo di buon grado (è ovvio, ce la siamo posta noi), per realizzare imprese sempre più impegnative, fino a che anche gli altri si accorgono di noi, fino a casi come quello di Bonatti e di Maestri, in cui ci si accorge che è un pubblico intero a volere la sfida che inizialmente era solo nostra. A quel punto l’individuo deve chiedersi: “È questo ciò che ho sempre voluto?”. E deve rispondersi, a modo suo. Bonatti rispose così: ed ebbe certamente ragione a farlo.
La ricerca di se stessi è difficile, faticosa, un’impresa a volte disperata. Osteggiata dalla vita quotidiana, dal lavoro, dai tanti problemi che ci angustiano giorno e notte. Innamorarsi di qualcuno da una parte può essere utile alla ricerca, dall’altra può essere un abbandono definitivo. Nel momento in cui mi sembra di trovare l’anima gemella, può essere che di me stesso m’importi molto meno. Ma siamo differenti e ognuno reagisce in maniera diversa. La ricerca di se stessi passa attraverso un insegnamento simile a quello che Bonatti ci ha dato. Sostanzialmente ci ha detto che quella strada, oltre ad essere estremamente pericolosa, porta sì alla fama e alla gloria, ma ci fa dimenticare chi siamo veramente, con le nostre debolezze. Inizialmente abbiamo un’idea più chiara di quali sono le nostre paure, è il pubblico che ce le vuol far dimenticare mettendoci su un piedistallo. Questo non è stato vero solo per Walter Bonatti.
Quindi la ricerca di se stessi è davvero impegnativa, per me è durata tutti questi anni. Negli anni Sessanta c’era il cosiddetto post-bonattismo, io credo d’esserne stato intriso. Avevamo l’esempio di questo grande maestro e cercavamo di emularlo, magari ogni tanto di superarlo, se si poteva. Non è importante sapere ora se ci siamo o non ci siamo riusciti, sarà la storia a giudicarlo. È invece importante osservare quanto imponente fosse questa figura, che poi pian piano è stata soppiantata da altre. Basta fare il nome di un Reinhold Messner o di un Renato Casarotto, ma anche di altri più settoriali come Lorenzo Massarotto o Enzo Cozzolino. I nomi che si possono fare sono molti. Questi personaggi hanno proiettato l’alpinismo in una dimensione che non poteva più essere contenuta dalle interviste dei giornali, o da radio e tv. Che il giornalismo non potesse più seguire l’alpinismo a quei livelli lo dimostrano tanti fatti, uno semplicissimo: Messner, che aveva fatto cose per quei tempi fuori dal mondo, fu glorificato dai giornali solo quando portò sul tavolo il misero numero di 14, tutti e 14 gli Ottomila saliti. Questo risultato del 1986, pur sensazionale, di fronte alle imprese precedenti dello stesso Messner fa la parte di un venticello nei confronti di una bufera! È ridicolo che solo allora si sia scatenata la stampa di tutto il mondo, inneggiando al nuovo Bonatti con più di una dozzina d’anni di ritardo. Tutto ciò significa solo che l’alpinismo era andato oltre quella che può essere la comprensione media.
Renato Casarotto ha continuato per una decina d’anni a realizzare imprese tali che persino noi alpinisti non riuscivamo a comprendere fino in fondo. E ancora oggi, a più di trent’anni dalla sua morte, non è ancora del tutto chiara a livello mondiale la reale portata di quanto Casarotto ha fatto. Era avanti di cinquant’anni, non di trenta, potete credermi.
Non dico questo per celebrare Casarotto o altri: non dimentichiamo il tema, la ricerca di noi stessi. Che passa anche attraverso gli esempi che abbiamo davanti. Avendo a che fare con questi miti, cosa vogliamo davvero noi?
Perché vogliamo essere i primi in qualcosa, vogliamo conquistare? E perché, con questi obiettivi, non ci scoraggiano le difficoltà e i pericoli intrinsechi all’impresa? Trovo curioso che non si riesca mai a dare una risposta convincente. Persino a noi stessi sembra che questa risposta sia sempre oltre, più in là.
Beh, in questi ultimi tempi, invecchiando, forse qualche rispostina me la sto dando. Anche la comunità alpinistica, nel suo insieme, ha conosciuto periodi di sbornia di onnipotenza, come quando si diceva no limits. Era o è forse vero? No, i limiti ci sono e ci saranno sempre. Potremo spostarli di un poco, non eliminarli. È un’illusione quella di poterne fare a meno o di superarli.
Ma la cosa più curiosa è che mentre si afferma la non-dipendenza dai limiti, e mentre l’appassionato medio è letteralmente spinto a fare sempre di più, ecco che un altro must culturale si impone ogni anno di più: la ricerca ossessiva della sicurezza che ormai ha intriso di sé ogni attività umana, anche quelle che, come l’alpinismo, per principio dovrebbero esserne esentate.
Quelli della mia età, ma anche quelli un po’ più giovani, si ricordano perfettamente che abbiamo passato l’infanzia ad arrampicarci sugli alberi, giocando a impegnarci in cose assurde che i bambini di oggi non possono fare più perché sono guardati a vista. Sono sorvegliati mediante il cellulare, e non parliamo poi di quelli che vivono nelle città. Scuola, dopo-scuola, casa dell’amico, quello è il loro piccolo mondo. La sicurezza è l’ossessione della nostra società, in cui le assicurazioni spadroneggiano, in cui la magistratura tiranneggia con la ricerca del responsabile ad ogni costo. Se succede qualcosa, deve esserci per forza un colpevole.
Di questo passo non solo l’alpinismo stesso sarà ucciso, ma anche il CAI e tutto ciò che si basa sull’azione di “volontari”. Siamo purtroppo a questo punto, dobbiamo riconoscere questo grave rischio.
Ma torniamo al concetto di “limite”. Dimentichiamoci un momento del non-senso insito nel concetto di no limits: i limiti li abbiamo eccome. Ci sono dunque dei “paletti”. Nel momento in cui io mi districo in mezzo a questi paletti, faccio delle scelte. Personali, certo. Scelte che si concretizzano anche dopo mesi o anni. Ma arrivo a decisioni mie personali che tengono conto di questi paletti. Nel momento in cui io scelgo è come fossi miracolato, perché è esattamente in quell’attimo che divento responsabile (non nel senso giuridico del termine, cioè colpevole, bensì nel senso dell’aver assunto la responsabilità di un progetto). Parliamo di crescita umana: il bambinello non c’è più, c’è un uomo che ha fatto delle scelte responsabili. Non stiamo più parlando del bambino che diceva “io faccio quello che voglio”, siamo in presenza dell’individuo maturo che ha fatto le proprie scelte e dunque ha pienamente accettato i suoi limiti. Questa è espressione di libertà, perché la vera libertà esiste solo in presenza di vincoli. Tramite i limiti hai scelto, dunque tramite i limiti sei libero, condizione non ancora vera nel periodo in cui non hai ancora scelto. Dunque dall’accettazione del limite si va alla responsabilità e da qui alla libertà. Ma rimane ancora una parola da situare in questa catena: sicurezza.
Dipende da quale sicurezza stiamo considerando. Quella che ti danno il GPS o lo smartphone, nonché le abilità tecniche di cui sei dotato o che ti hanno trasmesso e l’esperienza degli anni della tua attività? Certo, oggi tutto questo fa sicurezza, un pacchetto globale. Ma permettetemi di considerare almeno tre componenti della sicurezza: saper usare le attrezzature che compriamo, l’esperienza che ci deriva dalla pratica e dall’allenamento, e infine la sicurezza interiore, quella istintuale. Ammetterete che oggi la maggior parte di noi è convinta di agire in sicurezza soprattutto se privilegia le prime due componenti, quelle che per me fanno la sicurezza “esterna”. Questa è data dalla tecnica e soprattutto dalla tecnologia. Quest’ultima è un’arma potentissima che presta il suo aiuto moltiplicando artificialmente le nostre capacità. Ma, nel contempo, moltiplica anche le nostre incapacità. Avete mai riflettuto su questo?
Poniamo d’essere in montagna e di dover prendere una decisione immediata e radicale. Se ci affidiamo solo ai dati tecnologici – previsioni del tempo, dati su neve, vento e umidità, tabelle che ti suggeriscono quale può essere la probabilità che si verifichi un determinato evento –, così facendo noi rinunciamo a utilizzare il nostro istinto e la nostra capacità di “vivere” quell’ambiente. La capacità che ha il camoscio di porsi in relazione con il suo ambiente l’avevamo una volta anche noi. Ci sono stati alpinisti che brillavano di quella luce istintuale, e ce ne sono anche oggi. Perché, non dimentichiamolo, l’alpinismo continua, anche se l’informazione non ne dà notizia. Il pianeta è pieno di ragazzi che vanno in posti meravigliosi a esplorare, indifferenti al fatto che nessuno parli di loro, a parte qualche specializzato sito internet.
L’informazione è rimasta indietro. Se non c’è la magica parola “Ottomila”, oppure non ci sono tragedie in atto, nessuno si interessa più all’alpinismo. L’ultima volta in cui ho visto i media scatenarsi è stato con un grande nome, Simone Moro, su una grande montagna, il Nanga Parbat, nel pieno della stagione invernale: un’avventura che è stata seguita secondo per secondo in tempo reale. La prima invernale era stata tentata decine di volte, nessuno c’era mai riuscito. Quella volta la tecnologia ha permesso di seguire l’avventura come da Houston si poteva seguire l’Apollo 13: mancano ancora 78 metri alla vetta, ecc. È diventato spettacolo, mentre altre imprese, non accompagnate dalla tecnologia ma magari anche più pazzesche, sono rimaste nel chiuso del cortile alpinistico.
Nessun giudizio da parte mia sulle scelte che fanno gli alpinisti, mi auguro solo che tutti siano responsabili di ciò che stanno preparando e facendo. Perché creare responsabilità è sempre stata una delle caratteristiche dell’alpinismo: e oggi molti fattori impediscono che questo possa continuare ad essere. Perché oggi esiste una scuola che non accetta il rischio che un ragazzino si possa sbucciare un gomito, per paura di essere chiamati in causa e doverne rispondere di fronte alla più accanita delle interpretazioni giudiziarie. Un tempo un ragazzino si sbucciava e magari veniva anche punito dai genitori; in ogni caso la ricerca dell’eventuale responsabile non travalicava i limiti del buon senso, nessuno chiedeva danni a nessuno. E non parliamo di ciò che succede in caso d’incidente mortale.
Questo è il punto chiave al quale dobbiamo ribellarci, un cruccio che personalmente mi terrò ancora per parecchio, date le premesse. Liberarsi della sicurezza. Non sto sostenendo che dovremmo agire senza, voglio ribadire che è necessario che la tecnologia la smetta di moltiplicare le nostre incapacità e che la pretesa di sicurezza non affligga più qualunque slancio di generosità e di volontariato.
Prima occorre potenziare la nostra istintualità e le nostre capacità tecniche, poi potremo prendere in considerazione l’uso di tecnologie. È chiaro che io oggi non andrei a fare una “gita” di scialpinismo senza ARTVA (Apparecchio di ricerca dei travolti in valanga), pala e sonda. Sono strumenti ovvi come gli scarponi e gli sci! Equivarrebbe a rischiare stupidamente, e sarebbe assurdo in ciò che per definizione è una “gita” di scialpinismo, dunque un qualcosa dove prima di tutto vogliamo divertirci. Altra cosa è l’impresa di alpinismo, ma il rischio, purtroppo, è presente in entrambe le situazioni. Ed è vero che siamo tutti più responsabili di fronte a ciò che riteniamo un’impresa piuttosto che di fronte a una gita. In un’impresa possiamo considerare di non avere tutti gli aiuti tecnologici, altrimenti che impresa sarebbe? Sarebbe un’impresa ottenuta con la moltiplicazione tecnologica!
Ma in definitiva, l’abbinamento della tecnologia all’alpinismo ha facilitato o meno la ricerca di noi stessi? La risposta è che l’ha resa ancora più difficile, perché alle varie difficoltà si è aggiunta quella di dover rinunciare a un tot di tecnologia. Ognuno deciderà quanta e quale, ma una rinuncia deve esserci. Certo, la libertà di avere con noi ogni tecnologia disponibile è sacrosanta. Ciascuno qui può fare quello che vuole. Siamo liberi di spendere un sacco di soldi per acquistare l’intera tecnologia che il mercato ci vuole vendere. E di andare poi in montagna a quel modo. Io però penso che andando in giro con quel bagaglio di attrezzatura, gadget e app, si rischia di diventare noi stessi strumenti, esseri umani che non cercano più nulla, consumano soltanto. Fruitori. Il frequentatore è attivo ricercando, il fruitore è passivo consumando. Se frequento la montagna, lei diventa la mia partner: io amo la montagna. Se ne sono fruitore, allora la montagna è solo merce, niente di più che un palcoscenico per le nostre evoluzioni. Fruire è agire secondo leggi già stabilite da altri. Se uno sale per una via ferrata, si aggrappa a ferri che sono stati messi lì per il nostro “divertimento” e che esigono che il tuo comportamento non contempli varianti di alcun tipo, nella più totale passività della propria mente creatrice. Il corpo può gioire e sudare del gesto atletico, la mente dorme, anzi deve dormire. Una via normale a una montagna, un sentiero di cacciatori o contrabbandieri, permettono il coinvolgimento della fantasia, una via ferrata no. Le vie ferrate non hanno mai fatto cultura, sono solo un piacevole esercizio: e oggi le costruiscono sempre più adrenaliniche, dunque sempre più squallide. Più fruizione significa anche più segnaletica, quindi ancora meno libertà di perdersi, ancora meno possibilità di esperire.
Ai tempi di Bonatti non esistevano fruitori, oggi purtroppo sono la maggioranza che disturba i frequentatori. E in questo panorama, sempre nell’ottica della ricerca di noi stessi, oggi si è aggiunta la passione competitiva. La competizione sfavorisce la montagna come partner, è ovvio: ciò che importa è l’agonismo della gara, le capacità del mio concorrente. La ricerca retrocede alla dimensione egoica dei propri risultati comparati a quelli altrui.
Anche le sempre maggiori comodità ci allontanano da quello che secondo me dovrebbe essere il vero scopo dell’alpinismo, dell’escursione, dei trekking: ricercare noi stessi. Entro certi limiti tutto va bene; oltre, la comodità rischia d’essere un ostacolo. Se al selvaggio sostituiamo il comfort, forse è meglio che ce ne stiamo a casa: anche le comodità sono una distrazione. Se al selvaggio sostituiamo il divertimento fine a se stesso, il risultato è il medesimo: la perdita di contatto della nostra anima con la montagna.
È la fatica il prezzo comunque da pagare, ma a volte ciò che si spende non riesce ad acquistare ciò che realmente si vuole. La fatica di una competizione corre fortemente questo rischio.
La ricerca attiva di noi stessi in montagna ha bisogno che questa sia vera partner e non sfondo, senza alcuna distrazione. Il semplice camminare è la modalità probabilmente più vicina a questa condizione, senza compromessi con i giochini più vari, dalle piccozze alle corde, dalla mountain bike alla canoa, dal parapendio al canyoning.