12.
I due soli di Renato
Nato ad Arcugnano (Vicenza) il 15 maggio 1948, Renato Casarotto sfondò il muro del suono con la salita (8-11 giugno 1975) del diedro occidentale dello Spiz di Lagunàz. Fino ad allora il suo nome era rimasto perfettamente sconosciuto. Nessuno sapeva, per esempio, che la sua prima grande salita fosse stata nientemeno che un’invernale alla via Solleder del Sass Maor (con Adriana Valdo, Renato Gobbato, Renzo Timillero, Paolo e Ludovico Cappellari, nel dicembre 1972). Così, tanto per cominciare.
Ho conosciuto Renato solo nell’ottobre del 1978, in occasione delle preselezioni al corso Aspiranti Guida. Quattro parole, in cui però apparvero chiari il reciproco rispetto e la stima.
Poi, nel dicembre, quando con Reinhold Messner si parlò di una mia partecipazione alla spedizione della Magic Line al K2, già in quel momento considerata ben più che un progetto, quasi una via mitica, si fece il nome di Renato. Così fui io a contattarlo e lui accettò entusiasta. Mentre parlavamo al telefono convenimmo che non era il caso di rinunciare ai corsi per Aspirante Guida, almeno a quelli non coincidenti temporalmente con la spedizione.
Entrambi avevamo il problema di non essere così bravi a sciare, avevamo bisogno di migliorare la tecnica, avvicinarla allo standard della guida alpina. Così lo invitai per qualche giorno in una casetta da me affittata nei boschi sopra Champoluc, un posto che si chiama “le Fate Nere”, per fare un po’ di scialpinismo assieme.
Approfittammo dell’invito del comune amico Lorenzino Cosson, che già allora era guida a Courmayeur. Renzino ci diede l’esempio di come si scia in neve fresca, cercò di toglierci i più vistosi difetti: insomma in quelle due meravigliose giornate potemmo cogliere almeno una prima chiave d’ingresso nel meraviglioso mondo della polvere. Lasciato il guscio degli autodidatti, ci prendemmo gusto e andammo ancora assieme e per altri due giorni da un altro mio amico, guida e maestro di sci, in una valle del Cuneese.
Al K2
Quei giorni passati in compagnia, nonché i viaggi in auto, ci hanno fatto chiacchierare parecchio: così è nata l’amicizia tra noi, al K2 tutto sarebbe stato più facile. A Champoluc, in occasione delle ultime gite prima del corso, ritoccammo ancora la preparazione e l’equipaggiamento.
Una volta giunti a Bormio ebbi l’impressione che tutti vedessero Casarotto come il primo della classe. Lui non faceva niente per esserlo, conscio com’era dei suoi limiti sciistici. Eppure l’impressione era quella. Sembrava che Renato dividesse la vita in momenti normali (che gli interessavano poco) e in momenti veri: sciare bene per lui faceva parte dei primi. Ma quando si trattava di bivaccare fuori in un igloo e poi di battere pista in salita sulla neve fresca e con gli sci sulle spalle, Renato si trasformava completamente e tutti avevamo chiara idea del perché gli riuscisse così bene fare grandi imprese. Chi è un po’ invidioso, chi vorrebbe ma non può, travisa facilmente la discrezione naturale e la grande tenacia, pensando che siano superbia ed eccessiva ambizione. Così tutti lo rispettavano, ma pochi capivano come Renato realmente fosse.
Parlando con Messner prima di partire per la spedizione avevo avuto l’impressione che anche Reinhold fosse tentato di attribuire a Renato una parte di questi aspetti caratteriali negativi. Sembrava quasi che ne cercasse conferma da me, che lo conoscevo meglio e che avrei fatto vita comune con lui per quasi tre mesi. Il rispetto che avevamo entrambi per l’imponente quanto cristallina attività alpinistica di Renato ci impedì di parlarne chiaramente subito: e così al primo confronto importante le cose non si misero bene.
La spedizione Messner al K2 era davvero internazionale: quattro membri di madrelingua germanica (Messner, Robert Schauer, Friedl Mutschlechner e Michl Dacher), due italiana (Casarotto e Gogna), dove Dacher e Casarotto parlavano solo la loro lingua, senza l’inglese a unirli agli altri. Questo non era un problema per le grandi decisioni, lo era per le piccole cose di ogni giorno, per gli isolamenti che si creavano nell’isolamento. Occorre aggiungere anche che la presenza di Joachim Hoelzgen, giornalista di Amburgo per lo «Spiegel», dell’ufficiale di collegamento Mohammed Tahir e perfino quella del cuoco baltì, Rosalì, contribuivano all’isolamento di Renato. Personaggi intelligenti, decisamente fuori dagli schemi del giornalista, del militare e del cuoco, che se richiesti davano il loro parere, ascoltato. Ma alzavano numericamente la soglia di una “maggioranza” dalla quale Renato, per questioni non solo linguistiche, si sentiva escluso. Rimanevo io l’unico contatto.
Il 12 giugno 1979 un nostro portatore cadde in un crepaccio e morì: faceva parte del gruppo inviato a controllare che l’accesso nord-ovest alla Sella Negrotto (da cui inizia la Magic Line) fosse più comodo di quello a sud-est. La cattiva notizia dell’inopportunità di cercare l’accesso alla Sella Negrotto da nord-ovest si aggiunse alla tragedia. Negli stessi giorni Messner e Mutschlechner fecero una ricognizione sulla parete sud e conclusero che la sua pericolosità non potesse essere ragionevolmente affrontata (era la futura via Kukuzcka). L’osservazione ulteriore con i binocoli aveva convinto, prima di tutto il capospedizione, che il nostro progetto sulla Magic Line, con i mezzi che avevamo a disposizione, non aveva alcuna possibilità di successo.
Si arrivò a una votazione in tenda mensa, dove cinque membri decisero di rinunciare e uno solo (Renato) votò la continuazione del progetto originario. Si percepiva che, pur non votanti, anche Hoelzgen, Tahir e Rosalì stavano dalla parte della maggioranza. La discussione si era svolta in termini del tutto civili, ma i pareri erano decisamente opposti, e destinati a rimanere tali. Renato fece buon viso a cattiva sorte, accettò la decisione dei compagni di concentrarsi sulla salita in stile semi-alpino dello Sperone Abruzzi. Ma di notte in tenda si confidava con me, e so bene quanto lui in realtà fosse davvero contrario a quella decisione. Anche quella notte al campo 1, in una bufera spaventosa dove non dormimmo un minuto, aggrappati alla paleria della tenda.
Io gli dicevo che fare comunque la quarta ascensione della montagna, senza portatori, senza ossigeno, sarebbe stata una bella “consolazione”; gli dicevo che secondo me Messner temeva l’arrivo dei francesi, la grande spedizione nazionale di Bernard Mellet, anch’essa diretta alla Magic Line, il triplo della nostra e con gente di prim’ordine. Se quelli fossero arrivati con noi ancora in pieno assedio, ne avrebbero approfittato e magari sarebbero riusciti ad arrivare in cima (prima di noi e magari senza di noi) grazie al nostro lavoro di un mese di attrezzatura e alla nostra stanchezza...
Renato mi rispondeva che avevo ragione... ma che noi eravamo andati lì per la Magic Line! Per lui era difficile sostituire l’obiettivo. Mancanza di elasticità? Forse, ma quando l’essere rigidi porta a un successo, allora occorre inchinarsi. Renato probabilmente pensava che noi saremmo arrivati in cima ancora prima dell’arrivo di Yannick Seigneur e compagni!
Alla spedizione interessava il successo quasi sicuro, a Renato premeva il confronto con una grande idea, con una montagna molto più forte di noi. Sapeva anche lui di non avere ancora un’esperienza himalayana che avrebbe potuto renderlo certo dei suoi sentimenti, ma se fosse stato per lui bisognava partire a testa bassa per la Magic Line.
L’evidenza estetica di un nuovo progetto
Da quel momento iniziò il suo graduale estraniarsi dai nuovi obiettivi della spedizione. Partecipò ai lavori, ma poi si dovette arrendere alla mancanza di motivazione interiore, sognando quella solitudine che al momento non poteva avere. Nei giorni di brutto tempo Renato si preoccupava molto del suo essere in ordine, soprattutto curava i suoi capelli, terrorizzato com’era di essere sulla via di perderli.
Ricordo come dal campo 2, magari uscito dalla tenda per pisciare, Renato guardasse con intensità l’evidenza estetica dello spigolo nord del Broad Peak, quella che solo quattro anni dopo sarebbe diventata la sua via. Renato non riteneva importante che quello spigolo arrivasse “solo” all’Anticima, una sommità di 7800 metri. Non gli interessava la prosecuzione alla vetta del Broad Peak (Ottomila!), itinerario che fu poi percorso molti anni dopo (senza la salita dello spigolo nord). Vedeva lo spigolo, vedeva quel gioiello.
Io ero più legato ai concetti vecchi, la cima, l’Ottomila. Ai miei occhi quello spigolo era sì bellissimo, ma forse non degno delle mie attenzioni perché segnato dal “peccato originale” di non arrivare in vetta: la continuazione alla cima era così illogica nella sua enorme lunghezza da “contaminare” la meravigliosa struttura dello spigolo. Pensavo alla difficoltà che avrei avuto nel digerire l’assenza della vera vetta una volta in punta all’Anticima. Lui era avanti! Lo ha sempre dimostrato, anche in quell’occasione.
Angustiato per l’abbandono della Magic Line, sognava ad occhi aperti quella salita solitaria, senza nessuno con cui dover prendere delle decisioni in comune. Questo me lo confidò in seguito, ma io l’avevo già capito.
Renato si ammalò di una bronchite che gli durò giorni e giorni. Lui, infermiere, si curava da solo; il nostro medico, una delle fidanzate di Messner, Ursula Grether, non era neppure arrivata al campo base perché il quinto giorno era caduta sul sentiero e si era fratturata una caviglia. Evacuata con elicottero. La spedizione era dunque anche senza medico!
Con la bronchite poté rinunciare a un progetto che non era il suo e la malattia subentrò al chiodo fisso della sua contrarietà all’abbandono della Magic Line.
I rapporti tra Reinhold e Renato si diradarono, anche se la cosa lì per lì passò quasi inosservata a causa di altri problemi più gravi tra Messner e Schauer. Eppure al campo base la convivenza proseguiva serena, il disaccordo non degenerò mai.
Al corso Aspiranti Guide
La salita di Messner e Dacher alla vetta e il successivo fallimento dei francesi non riuscirono a modificare questa situazione. Al ritorno dal Pakistan, poche settimane dopo, ero con lui nella stessa stanza dell’Hotel Bagni di Màsino, per il corso guide di ghiaccio e misto. Mi disse di volere a tutti i costi tornare al K2 per fare la Magic Line da solo ma mi pregò di non dirlo a nessuno. Era chiaro che aveva riflettuto a lungo e che non condivideva minimamente le motivazioni alpinistiche di una qualunque spedizione a più elementi. Reinhold invece mi mostrò in seguito dei ritagli di un giornale di provincia in cui, secondo il giornalista, Renato dava tutta la colpa a Messner per il mancato successo alla Magic Line del K2. Ero amareggiato, e sapevo che come al solito basta dare alla stampa un mignolo perché ti prendano tutto il braccio.
Renato si muoveva in parete come si muoveva nella vita quotidiana. Non era particolarmente veloce, ma era un bulldozer. Non so dove prendesse il carburante... ma benzina ce n’era sempre. Qualunque cosa facesse, era fatta bene, con efficienza e regolarità. Come se il compito del mattino dovesse essere archiviato con successo in serata. Non che gli altri non facessero così, ma magari l’atteggiamento era più discontinuo: e io mi metto tra quelli.
Salimmo assieme, e con noi erano altri quattro, su una via nuova, il Canalone dell’Insubordinato sul Monte Disgrazia. Dovevamo salire in cima per la Corda Molla, nell’imitazione di una normale salita con cliente: di fatto ci stava un po’ stretto quel compito, con una così meravigliosa giornata. Quando Renato vide la fucilata bianca di quel canalone, convinse tutti a cambiare rotta e meta, anche il direttore del corso Gigi Mario! Ricordo bene quella discussione a cavalcioni della cresta di neve: non fu proprio amichevole. Renato la risolse chiedendo: «Allora, chi viene con me? Chi viene con l’insubordinato?».
La modalità “rivoluzionaria” con la quale Renato riuscì a fare quello che voleva quel giorno sul Disgrazia era tra l’altro poco consona alla sua regolarità. In quell’occasione dimostrò a tutti non solo una creatività fuori dal comune, con la capacità di cogliere l’attimo, ma anche uno spirito che non accettava ordini da nessuno. Renato era metodico, ma prima del metodo aveva idee geniali: ecco dove stava la sua creatività.
Un momento molto bello vissuto ancora assieme fu la salita della placca di Nuova Dimensione in Val di Mello. Allora quella salita di pura aderenza su placca liscia di granito, senza alcuna protezione valida per il capocordata e con soste dubbie, era considerata una realizzazione nuova e provocatoria dei Sassisti. Renato se la cavò egregiamente, ma non fu una passeggiata. Ricordo come, a dieci metri da me che lo “assicuravo”, si dondolava sulle suole lisce delle EB, senza decidersi a fare l’ulteriore passo. E la mangiata di mirtilli che ci facemmo dopo Luna Nascente chiude le immagini serene: dopo non ebbi più modo di seguirlo così da vicino nei suoi grandi exploit verso il tragico epilogo del suo destino.
La volontà
Il tratto più evidente del carattere di Renato era la volontà. Una volontà che si manifestava evidente, superiore a quella di chiunque altro. Lo avrebbe dimostrato con quelle grandi imprese solitarie e invernali, isolato e in piena autosufficienza: giorni e giorni di continuo impegno psicofisico.
Non si può essere portatori di così grande volontà se non si è governati da una rettitudine etica anch’essa davvero fuori dal normale. Un uomo che non si perdonava nulla. Con quell’onestà interiore Renato si poteva permettere quel genere di volontà, perché quasi ne aveva diritto. Sapeva di poter volere, si dava da solo il permesso di una volontà gigantesca, grazie al fatto che nel trattare con gli altri era permeato della sua rettitudine, del suo fair play.
Ciò implicava che le sue amicizie fossero abbastanza rare: le amicizie odierne di Facebook non avrebbero fatto per lui. Lui dava l’amicizia quando sentiva che era il caso: solo allora si concedeva, si apriva.
L’etica di Renato non coincideva con ciò che possiamo aver filtrato dopo questi decenni di alpinismo. Oggi agire eticamente significa salire una qualche parete seguendo determinate regole e non praticando le scappatoie che queste regole, loro malgrado, lasciano aperte. Mi viene in mente Matteo Della Bordella, che nell’estate 2014 in Groenlandia, dopo undici giorni di avvicinamento in canoa, assieme a compagni ancora più invasati di lui pensa, di fronte a una meravigliosa parete inviolata, all’on-sight5. Una volta questo era inconcepibile. La gioia del successo può anche essere lesa dal fatto che ci si sia attaccati a un chiodo, ma queste sono regole moderne. Renato non aveva questi codici, non era ancora stata praticata questa feroce divisione tra libera e non libera, tra l’attaccarsi a un friend o non attaccarsi. L’attaccarsi a uno o più chiodi, per le grandi salite non era un problema. Badava a questo solo in caso di salita su falesia o su parete alpina: e comunque dove Casarotto dava settimo grado stiamo pure tranquilli che stava parlando di arrampicata libera, anzi liberissima! Era sulla Nord dell’Huascarán che non badava a questi dettagli. La vera etica per lui era l’isolamento. In un’epoca in cui non esistevano smartphone e satellitari, l’unica concessione era la ricetrasmittente. Per parlare con la moglie. Un’équipe davvero ridotta all’osso, meno di così non si può. Questa era la sua etica, che pochi potevano condividere in pratica. La sua solitudine di certo era prima di tutto una necessità. Non era da solo per una scelta “etica”: era da solo perché l’eventuale compagnia gli avrebbe procurato il disagio dovuto a etiche differenti. Anche lui avrebbe preferito un compagno ideale alla sua solitudine, ma questo compagno ideale non è mai apparso. Renato si è modellato l’etica sul suo stesso carattere. Sappiamo bene che aveva amici con cui faceva in montagna cose anche grandi: ma per le grandissime non li ha mai trovati. Vuoi per le capacità tecniche di costoro, vuoi per la loro volontà non sufficiente all’enormità dei progetti di Renato. Era divorato dal fuoco creativo, non sono pochi ad aver provato questo modo di essere. Ma chi per una volta sola, chi per un anno, chi per due o tre: raramente per un decennio o anche più.
L’etica di Renato era legata all’estetica. S’innamorava delle linee che gli balzavano all’attenzione. La Ridge of No Return la “vide” su una fotografia nell’ufficio dei ranger, ormai nel Parco del Denali.
Se mettessimo Renato sul Fitz Roy odierno, una montagna certamente più “affollata” di allora, perfino il suo Pilastro Goretta non gli potrebbe garantire completa solitudine. Questa Renato nel secolo XXI dovrebbe cercarla altrove, su altre montagne. Se oggi, all’Everest, qualcuno si sbuccia un dito, dopo pochi minuti lo sanno tutti gli sherpa, lo sanno anche a Kathmandu. Se poi quel qualcuno ha anche un buon ufficio stampa, lo sa il mondo. Ma se l’incidente capitasse su altre montagne, rischierebbe seriamente o il totale oblio, esattamente come ai tempi di Renato, o l’impossibilità di un qualche soccorso. La solitudine c’è ancora sul nostro pianeta, ce n’è anche tanta. Lui sapeva cercarla molto bene, con obiettivi che trovava con osservazione diretta (Broad Peak) ma anche e soprattutto con ricerca fotografica, vedi Alaska.
La consegna d’immaginario
Una creatività così in anticipo sui tempi da non essere compresa. Pochi erano pronti. E dirò di più: non è compresa appieno neppure adesso, a ben più di trent’anni dalla sua morte. Ancora oggi, certe sue salite non sono state digerite e assimilate come meritavano. Lo dimostra il fatto che molte sue imprese passarono allora abbastanza sotto silenzio. Se si vanno a guardare le cronache di quel tempo, troviamo notizia delle sue salite avveniristiche. Ma se guardiamo alla Nord del Cervino di Bonatti, di cui si parla ancora oggi, troviamo fiumi di inchiostro scritto, mille interviste. Le salite di Renato sono passate sotto silenzio, al confronto. Questo silenzio, ovviamente non certo voluto, è la traduzione psicologica di un fatto che ci ha colpiti a livello interiore. L’emozione che si verifica al seguito di una notizia, se va in profondità, provoca un certo pudore nel parlarne. Al contrario, è regola psicologica che si parli oltremodo di fatti di cui non si è del tutto convinti interiormente: la propaganda è la miglior prova di assenza di emozione e convinzione. Quando ci sono grosse verità e grosse emozioni, il bisogno di parlare diminuisce. La portata di quanto si è appena vissuto si trasmetterà ugualmente, ma ci vorrà più tempo.
Anche nel caso di Peter Boardman e Joe Tasker, che nel 1976 vinsero la parete nord-ovest del Changabang, il risalto dato dalla stampa alla loro impresa non fu adeguato. E anche in altri casi. Non è colpa dei giornalisti (parlo di quelli del settore), preparati o impreparati. È proprio responsabilità della comunità alpinistica del tempo, che è pronta o non è pronta. La “quantità di immaginario” (come la definisce Alberto Peruffo) che ci stava consegnando Renato era tale che a noi risultava impossibile perfino ripeterla a pappagallo. Ci entrava dentro, ci allagava. E noi non dicevamo nulla, proprio per una forma di compensazione psicologica. Per non essere del tutto sopraffatti.
Credo che il destino delle grandi imprese sia legato al momento in cui queste verranno ripetute. Al momento, la stragrande maggioranza degli exploit di Renato non ha visto ripetizioni di sorta. Il muro di silenzio non è totale ma è sufficiente a “velare” la reale importanza delle imprese di Renato: verrà abbattuto solo da quelli che ne seguiranno le tracce. Questi saranno costretti ad affermare ciò che allora non fu detto, e cioè che Casarotto era il più forte del suo tempo. E, vista la credibilità dei signori che lo faranno, non ci sarà altro che supina accettazione, con immediato rinnovo di interesse verso la sua figura. Non posso dirlo io, che sono un suo contemporaneo. Lo deve dire un giovane di oggi.
Nel mio piccolo, la mia via al Naso di Zmutt è stata finalmente ripetuta da italiani. In 45 anni c’erano state sette ripetizioni, tutte di alpinisti svizzeri o francesi. Nel settembre 2014 Marco Majori, François Cazzanelli e Marco Farina hanno fatto in due giorni la nona ascensione. I loro commenti sono stati entusiastici, probabilmente non si aspettavano certi aspetti di quella salita: e sono i loro giudizi a contare oggi, a modificare dunque il percepito di una comunità alpinistica nei confronti di un’impresa compiuta così tanti anni prima. Non intendo per nulla paragonare questa piccola cosa all’imponenza dell’operato di Casarotto, ma il meccanismo è il medesimo: dopo un bel tot di anni certe cose sono “riscoperte”. In Italia è stato necessario che degli italiani ripetessero la Gogna-Cerruti, non era sufficiente che i più forti svizzeri e francesi lo avessero fatto e ne fossero usciti con gli occhi incrociati. Anche qui è una questione di lingua e di comunicazione. Nelle mie serate, nei miei libri non ho mai taciuto di quella salita, eppure non sono mai riuscito a infiammare nessun italiano, prima del 2014.
Dal che consegue un’ipotesi: se Casarotto, invece che italiano, fosse stato ad esempio inglese, probabilmente non sarebbe stato così evidente l’involontario ostruzionismo a un giudizio più realistico sul suo operato: il pudore collettivo sarebbe stato più tenue. Il fenomeno che sto tentando di denunciare, quello del silenzio su ciò che più ci colpisce, sarebbe stato comunque avvertito, ma sarebbe stato meno intenso. Un caso simile è quello di Charlie Porter, le cui imprese solitarie hanno preceduto e probabilmente ispirato quelle di Casarotto. Anche Porter, pur essendo americano, è stato abbastanza “recintato” in quella zona della comunicazione che tiene “sotto controllo” un evento: nel momento in cui lo si comunica, si chiude il cancello invece di spalancarlo. Casarotto non ha avuto il “culo” di nascere anglofono: se lo avesse avuto, gli anni necessari alla sua futura “esplosione mondiale” sarebbero stati meno. E si sarebbe più vicini a quella consacrazione che al momento vedono in pochi.
La concentrazione in solitudine
Anche io ho fatto delle salite da solo. Ma non sono mai stato un solitario. Non che nell’azione senza compagni non mi trovassi bene: se così fosse stato non sarei neppure partito. Al mio tempo, fine anni Sessanta, c’erano dei problemi da risolvere. In quei due o tre casi di mie salite solitarie di una certa importanza devo riconoscere che se ho saputo cogliere il momento è stato perché c’era la sensazione che i vari Walter Bonatti o René Desmaison avessero per puro caso lasciato in sospeso la risoluzione di quei problemi. Loro avevano indubbiamente le capacità di risolverli. E altri erano lì a ronzare attorno, ho visto lo stesso Gary Hemming, sul ghiacciaio del Leschaux e solo, tornare da una ricognizione alla Nord delle Grandes Jorasses. Insomma, era nell’aria. Ma erano salite, per così dire, “flash”. Vado, l’ammazzo e torno.
Renato faceva prime ascensioni da solo. Magari anche d’inverno. Era veramente su un altro pianeta. Io non riesco neppure a immaginare cosa significhi compiere salite di quel genere, stando da solo per settimane. Ciò che posso testimoniare è che, quando si è da soli, le capacità che abbiamo di adattamento all’ambiente sono acuite. Sensibilità al pericolo, prontezza di riflessi, tensione generale. In tutte le piccole e grandi azioni della giornata, dall’attenzione che poni nel non far cadere la tua pentola nel vuoto a una protezione che devi mettere, dalla cautela nel tirar su la cerniera della giacca imbottita (per non danneggiarla e renderla inservibile) al passaggio più difficile degli altri che devi affrontare. La solitudine ti costringe a sottolineare qualunque azione, con una concentrazione che normalmente non si usa.
Quando Hansjörg Auer ha salito il Pesce in Marmolada da solo lo ha fatto con le sole scarpette e il sacchettino della magnesite, senza imbrago, senza un cordino. In un secondo tempo c’è tornato per fare fotografie, ma la prima volta era del tutto solo e praticamente “nudo”. Significa che lui si sentiva preparato a fare una salita di 900 metri di tale difficoltà, fino al 7a+. Questa è la decisione di chi sa di avere ancora margine. Immagino che la sua concentrazione fosse “esagerata” (non nel senso che fosse troppa, ovviamente). La sua scioltezza e la sua velocità di esecuzione erano sorrette da questa concentrazione. Prendi lo stesso Auer, dagli una corda, un compagno, delle protezioni intermedie: avrai un capocordata rilassato che danza sul Pesce, la sua concentrazione sarà “necessariamente” e senza dubbio inferiore alla concentrazione durante l’impresa in free solo.
È la concentrazione l’elemento più distintivo delle salite di Casarotto, una concentrazione mantenuta ai massimi livelli per giorni e giorni. Chi l’ha provato sa che è un grande piacere sentirsi a quel modo, è davvero eccitante: al contrario dell’anfetamina, è un’eccitazione sana perché autoprodotta. Ti sei dimostrato da solo in grado di reggere a quell’eccitazione. È una sensazione di onnipotenza, da tenere anche sotto controllo, visto che si rischia di diventarne succubi. Può essere una droga per la quale si fa e si rifà la grande avventura: ma quando in fondo al tuo cuore sai che in quell’occasione, in quelle condizioni di concentrazione spasmodicamente serena, davvero non hai rischiato più di tanto, beh, allora è il piacere estremo, la gioia insuperabile. Tutti possiamo arrivare al termine di un’impresa. Ma quanto abbiamo rischiato? Nessuno può dirlo giudicando gli altri, solo i diretti interessati possono farlo, se lo ritengono opportuno. Sono domande che dobbiamo farci da soli e alle quali è necessario rispondere con sincerità, con semplicità. Io sostengo che la gioia è tanto più grande quando alla domanda si possa rispondere serenamente di non aver rischiato. Chi ha rischiato un casino sarà anche contento di esserne uscito, ma di certo non sfiorerà neppure la gioia suprema di chi può rispondere diversamente. Ecco, la solitaria ingigantisce queste situazioni. I compagni portano amicizia, condivisione di responsabilità, scambio d’idee: sono cose belle, che contano. La solitaria esclude tutto ciò, rimane solo la concentrazione a spadroneggiare e a evolversi fino a migliorare anche le capacità di autoanalisi dell’alpinista: alla fine di un’ascensione la domanda deve essere sempre: quanto ho rischiato? E la risposta deve essere ancora più schietta della domanda, perché il tentativo di imbrogliare noi stessi non è mai foriero di buone cose.
La visione
La letteratura alpinistica ci racconta di molti casi in cui individui allo stremo delle forze e stressati al massimo hanno subìto lunghi dialoghi con presenze esterne, come se un compagno invisibile gli arrampicasse accanto. Il fenomeno è capitato più spesso a un solitario, ma anche cordate ne hanno riferito. Episodi simili sono stati riportati anche in caso di lunghe avventure ai poli, nei deserti, nelle traversate oceaniche. Il dialogo è interiore, ma a tutti gli effetti sembra un dialogo normale, tranne che non ci si capacita di non riuscire a vedere l’interlocutore. Sembra così vero... È un’allucinazione? Direi più una visione, dunque molto più reale di un sogno. Il sogno può essere molto forte, mai però come una visione.
Quando sopraggiunge questo genere di visione è perché siamo molto stanchi, o molto impauriti... o quasi sopraffatti dall’ambiente che ci circonda. Non abbiamo più l’energia che ci sorreggeva all’inizio.
Renato Casarotto racconta nel suo libro Oltre i venti del Nord la sua visionaria esperienza al Denali (McKinley). Era il 9 maggio 1984: da ormai undici giorni aveva lasciato il campo base e da dieci lottava da solo sulla sua Ridge of No Return, in mezzo a un ambiente spaventoso, pieno d’insidie e d’incognite.
Già molte altre volte m’era capitato di ritrovarmi solo, stanco e in situazioni limite, e so bene che in certi casi i sensi rivelano una facoltà nuova, assai diversa da quella addormentata dal noioso trantran della vita quotidiana. Questo fatto l’ho sperimentato nei diciassette giorni trascorsi sulla Nord dell’Huascarán, sul pilastro nord-est del Fitz Roy e anche al Monte Bianco d’inverno, ma stavolta la sensazione che vivo, e che si fa quasi immagine davanti ai miei occhi, mi apre orizzonti vastissimi che spaziano dagli elementi della natura fino ai confini inesplorati del mio inconscio.
D’ora in poi, e fino al mio arrivo in vetta, di notte ciò che sento è contenuto nelle dimensioni solite e usuali; di giorno invece, d’improvviso, m’inserisco, senza che io lo voglia, in un ambito dilatato, popolato di eventi e contenuti insoliti e fors’anche irripetibili.
E per molte ore, in quei giorni, mi muovo sull’esile frontiera di due mondi diversi, in mezzo a grandi difficoltà che non sono più solo quelle offerte dalla salita.
La visione è al culmine quando Renato vede distintamente due Soli splendere nel cielo. Mentre leggo, trascinato da quell’energia, vedo i suoi due se stessi affiancati, quello noto e quello sconosciuto, perché proiettato fino ad allora su Goretta, che si scopre altrettanto luminoso. Quello che lo aveva accompagnato e protetto, amico molto discreto, per tutta la sua vita leggendaria, quando tanto più il Sole vero era cancellato dalle buie e violente bufere in quota, tanto più brillava nero e invisibile il Sole della sua anima.
I due Soli appaiono dopo giorni e giorni, quando il viaggio di Renato è al parossismo dell’intensità, nel climax delle atrocità fisiche e psichiche di un ambiente disumano, una visione cui Renato non può resistere, una spaventosa rivelazione di potenza che porta al ripudio di quella che egli stesso qualifica come “zavorra”, perché cerca di impedire quell’insana scissione psicologica che invece lo smisurato ego di Renato a quel punto vuole, pensando sia la soluzione.
In effetti di soluzione si tratta, la recisione di quel patto intimo che aveva per tanti anni fornito l’energia necessaria a cotanta volontà e concentrazione. Una soluzione di contratto purtroppo no return.
A quel punto è lotta tra il proprio io cosciente e quella parte di noi stessi di solito sprofondata ben al di sotto del livello di coscienza, quella parte che riassume tutto ciò che la nostra coscienza, per esistere, ha dovuto relegare nelle profondità, a volte con amore, a volte con disprezzo e odio. Chi decide di intraprendere un’avventura è il nostro io, ma chi fornisce l’energia necessaria è l’accordo con il nostro inconscio, un accordo a volte troppo faticoso, al limite della nostra sopportazione. Un accordo che Renato, ormai allo stremo, ha deciso deliberatamente di rompere:
Nel tardo pomeriggio di questo 9 maggio, mi rendo conto che se voglio proseguire devo liberarmi di una zavorra, di qualche parte di me stesso, di una parte per la quale non mi è permesso provare pietà.
La rottura
La rottura di questo accordo gli permette di raggiungere la vetta la sera dell’11 maggio e di scendere, ma è insanabile. Dopo l’avventurosa discesa, ormai sul ghiacciaio, si sente mancare il terreno sotto i piedi, rimane in un’incredibile posizione corporea per non cadere nella voragine del crepaccio e riesce a liberarsi con la forza della disperazione: un pazzesco anticipo di quanto invece purtroppo succederà al ritorno dalla Magic Line due anni dopo.
Al campo base, raggiunto il 13 maggio, Renato è quasi incapace di riconnettersi. Per spingersi così lontano, e per lontano intendo anche la profondità di noi stessi, ci vuole una volontà enorme. L’io cosciente vuole fermamente quel viaggio. E l’accordo più segreto di tutti, quello che noi facciamo con noi stessi, in lui funzionava in modo egregio. L’energia necessaria era assicurata dalle smisurate forze che si agitano all’interno di ciascuno di noi. Perché queste forze in qualche modo erano da lui state incanalate con un accordo che regge fino a che le due parti si rispettano reciprocamente, e non più quando s’innesta un processo d’inflazione del proprio io che tende al dominio di quest’ultimo sulle forze inconsce. Nella fatica e nella paura si manifestano le crepe dell’accordo, nasce un dialogo pauroso, per la prima volta sentiamo “parlare” ciò che dentro di noi non ha mai parlato. Quella voce che ti avverte che hai superato il limite, che il tuo io deve moderarsi. Quella voce che ti avverte che la spesa è ormai fuori controllo, che il tuo disavanzo non può più essere sorretto dal capitale. Una voce che non può e non deve essere vissuta come nemica. Renato la vive come un qualcosa di cui lui non deve avere pietà. Come fai ad avere pietà per la tua seppellita parte femminile? Qui non è questione di pietà, ma di rispetto e di Amore.
Dopo giorni e giorni di solitudine in ambiente repulsivo, l’ordinaria raffigurazione nelle vesti di Goretta che Casarotto fa delle sue pulsioni più intime, vero motore della sua macchina da guerra, non può più reggere la finzione.
Renato sentiva che se non avesse deciso di uccidere la sua voce interiore, questa sarebbe diventata distruttiva, lo avrebbe fatto soccombere. Quel delitto, come tutti i delitti, era irreversibile. E questo passaggio psicologico, questa delittuosa uccisione che Renato fa di se stesso dove avvenne? Sulla “cresta del Non Ritorno”. Renato non poteva sapere che la sua “vittoria” sulla voce non poteva, e mai avrebbe potuto essere, definitiva. Le forze inconsce ricompaiono con le stesse domande alla prossima occasione. E ti presentano il conto.
Oltre il no return
Dopo quell’esperienza, Renato avrebbe dovuto non accontentarsi del semplice ricordo, ma avventurarsi in una rielaborazione interiore: non sono certo qui a dire che non l’ha fatto, non sappiamo se e come lui affrontò questa fondamentale tematica interiore. Ma i risultati di quest’eventuale travaglio purtroppo parlano chiaro: non rielaborò a sufficienza, non riuscì a veder chiaro l’avvertimento che gli era stato dato.
In tenda assieme abbiamo spesso parlato delle motivazioni che ci spingevano alla montagna e all’avventura. Come sempre, anche in queste chiacchierate Renato non si accontentava della superficie. In seguito lo dimostrò: affrontare imprese sempre più “impossibili” per progredire in questa sua ricerca di conoscenza. Era evidentemente convinto che più impegno, difficoltà e isolamento c’erano, più l’esperienza sarebbe stata rivelatrice. Ma fino a quel momento le sue grandissime imprese non avevano ancora il taglio “eccezionale” che invece avrebbero avuto dopo la nostra estate 1979 al K2. Quel che voglio dire è che la sua salita con Piero Radin al grande diedro dello Spiz di Lagunàz, o altre sue solitarie e invernali fatte fino ad allora, erano sì grandissime salite, che entravano prepotenti nella storia: ma ancora non si era visto il Casarotto che invece si vide dopo! Le nostre chiacchierate, dunque, hanno avuto un limite, quello derivante dal fatto che il futuro nessuno poteva prevederlo. Non andammo oltre un certo livello. Posso dire che non bestemmiava (come invece fa una buona parte dei veneti!), non imprecava, il suo linguaggio era sempre corretto. Un “porco boia” non faceva parte della sua cultura. C’erano pochi momenti in cui potevi affacciarti timidamente alla ricerca del Renato interiore. Che lui fosse in ricerca era chiaro, ma non si andava tanto oltre. Anche l’assenza di Goretta (e il non essere mai stato con loro per più che il tempo di una cena) non favorisce la mia esplorazione all’interno di Renato. Non so per esempio dire se la funzione di Goretta fosse più calmante o agitante, se soffiasse sul fuoco o lo moderasse. Di certo Renato l’amava, ma non so andare oltre. Il fatto che Renato non abbia mai avuto distrazioni non è sufficiente a tratteggiare che genere di amore fosse. E dai suoi scritti non si comprende molto di più.
Dovendo rispondere alla consueta domanda “quale impresa di Renato è stata la più grande?” sarei tentato di rispondere “quella che non ha compiuto, quella sul K2”. Ma non lo faccio, solo perché sulla Magic Line lui non era da solo. La squadra dei polacchi (che poi completò l’itinerario e giunse alla cima) era lì presente, e anche se mai si unirono, il loro lavoro non fu del tutto indipendente.
La Ridge of No Return e la Nord dell’Huascarán si contendono questo primato, anche se ha poco senso paragonare 1000 a 999. Non ci sono unità di misura così precise. Per le Alpi, direi che la sua cavalcata solitaria e invernale al Monte Bianco, senza alcun deposito intermedio, su Ovest della Noire, Gervasutti-Boccalatte al Pic Gugliermina e Pilone del Frêney sia al vertice. Però anche tante altre... francamente non mi va di fare classifiche!
Il Michelangelo dell’alpinismo
Quando noi pensiamo a Renato oggi, in realtà siamo ancora ben lontani dal pensare tutto quel che dovremmo. Come dicevo, il quantitativo di vissuto a noi consegnato non è stato ancora metabolizzato. Il pensiero che dedichiamo a lui è ridotto. Ho l’impressione che ci vorrà ancora un po’ di tempo, speriamo non troppo, per sapere chi fosse quell’uomo. Un uomo che ha saputo pescare nel caos della nostra creatività in modo così geniale ed efficace, in anticipo sui tempi.
Io considero Renato Casarotto come una specie di Michelangelo Buonarroti, un pittore e scultore dalla personalità e genialità così complesse da non poterle misurare solo attraverso le opere d’arte che ci ha lasciato. Le imprese di Casarotto le vediamo, ma non del tutto. L’uomo purtroppo non c’è più, il libro che ci ha lasciato è bello, ma non era il suo mestiere dirci di più. Siamo noi che dobbiamo arrivare a lui e non viceversa. Come giustamente asserisce Peruffo, la scrittura primaria (e cioè l’agire in montagna e in ambiente) supera e comprende la scrittura secondaria (quella a tavolino). La scrittura primaria si rivela con lentezza. Un po’ come la creazione, che ha impiegato milioni di anni e neppure ora è finita...
Non ci rimane che sperare in una replica: magari oggi, domani, qualcuno sta agendo o agirà come Renato. Chissà. Mi vengono dei nomi che lo ricordano, pochi ma ci sono. Certamente c’è qualcuno che non conosciamo. E se davvero questi, conosciuti o sconosciuti, lo ricordano, allora è giusto che siano un po’ sconosciuti... perché anche loro sono in anticipo sui tempi. Un nome? Uno come Denis Urubko ricorda Renato: noi siamo affascinati dalle sue imprese sugli Ottomila, ma non sappiamo nulla o quasi di ciò che ha saputo fare sulle montagne di casa sua, terreni a noi del tutto ignoti e per i quali non abbiamo termine di paragone. I suoi racconti ci parlano di avventure pazzesche... e noi siamo fermi a ciò che conosciamo o che crediamo di conoscere.
Il paragone con il free solo odierno è impossibile. Renato non avrebbe mai potuto fare le solitarie che ha fatto senza l’uso regolare dei sistemi di autoassicurazione. La sua “lentezza” era dovuta a questa ragione. Non faceva mai lunghezze di corda superiori a una certa difficoltà (in genere il V grado) senza doverosa autoassicurazione. Non concedeva nulla in questo campo. Era il suo metodo. Non dimentichiamoci che lui ha sempre arrampicato con gli scarponi più o meno rigidi, le scarpette da arrampicata le ha limitate alla falesia e alle Dolomiti e le ha usate solo dopo il 1977. Con gli scarponi pesanti è d’obbligo l’autoassicurazione. Il free solo richiede una grande fiducia nel proprio equilibrio psicofisico. Soprattutto nel proprio equilibrio interiore. Se solo c’è qualcosa che si rompe dentro, o si ammala, si fa bene a stare a casa. Dunque il discorso è lo stesso, anche le solitarie di Renato richiedevano questo equilibrio interiore.
Anche le mie poche solitarie lo hanno richiesto: che mi autoassicurassi o meno, ero convinto che non mi sarebbe successo niente! Lo sentivo, ne ero certo. Solo in qualche momento l’equilibrio era turbato, ma presto si ristabiliva. Il problema è che l’equilibrio oggi c’è, domani non si sa... A un certo punto, prima o poi, bisogna smettere. Il dialogo interiore sotto la vetta del McKinley, il successivo piccolo incidente nel crepaccio, hanno dato il tempo a Renato di tornare e meditare. Tempo che è stato speso forse come era purtroppo destino: ma c’è sempre il momento in cui passa il treno del cambio di destino. O lo si prende o non lo si prende. Hansjörg Auer non aveva perso quel treno, ma è stato ugualmente sfortunato. Vedremo cosa farà Alex Honnold... e così le centinaia di grandi che in questo momento affollano le cronache alpinistiche. Dobbiamo solo trovare il punto in cui il nostro io possa definirsi appagato e non andare oltre. O meglio, trovare altre strade. Evolversi, dimostrare altro.
Ogni occasione di nuovo progetto deve essere valida per rimettere in discussione il nostro equilibrio. Le solitarie in free solo sono agghiaccianti perché coinvolgono direttamente lo spettatore, che è chiamato, proprio per non soffrire di fronte allo spettacolo, a dare la sua fiducia incondizionata allo scalatore solitario. La nostra fiducia, quella vera, la diamo raramente. La diamo quando c’innamoriamo, qualche volta nel lavoro... ma in genere non siamo così disponibili a “fiduciare” il prossimo. Ecco il perché di tante critiche all’alpinismo solitario. Siamo avari di fiducia e la cosa, a ben vedere, ci danneggia. Ci immiserisce.
La fine
Il ritorno dalla Magic Line per Renato era definitivo. Il 15 luglio 1986, ormai al terzo tentativo e raggiunta quota 8300 metri, Renato si arrese e decise di scendere. Era un crollo dal quale sentiva che difficilmente avrebbe potuto rialzarsi. Quella che qualcuno definisce l’“accidentale” caduta del 16 luglio nel crepaccio fatale è la malaugurata e ineluttabile conclusione di un processo iniziato sul McKinley due anni prima. La salita della Magic Line, a mio modo di vedere, per Renato non era più solo una sfida alla Natura e a se stesso. C’era anche il confronto con gli altri. C’erano i polacchi (Wojciech Wróż, Przemysław Piasecki e lo slovacco Peter Božík avrebbero raggiunto la cima il 3 agosto), la sua mente era ingombra delle esigenze dello sponsor (anche se difficilmente possiamo dare colpe a quest’ultimo)... poi c’era l’ombra di Reinhold Messner! C’era tutto un complesso di ragioni che potevano solo far peggiorare la malattia di cui ormai Renato soffriva: l’allontanamento dalle profondità di se stesso, il deterioramento di un rapporto così a lungo proficuo. Per questo parlo di crollo quando vedo Renato riconoscere il proprio fallimento sulla Magic Line della sua vita. È facile per noi dire che non dovrebbe esserci mai alcun fallimento in grado di far fallire la nostra vita, o in grado di costruire una serie di eventi che portano quasi il soggetto a sentirsi libero solo di fronte alla propria morte.
È facile, troppo facile, dimenticare la dimensione-gioco dell’alpinismo. Anche il rugby è un gioco. Magari violento, rude e faticoso. Però è un gioco. L’alpinismo è ancora più violento, ma non possiamo accettare che sia un gioco che ti fa dismettere la vita, soprattutto se lo fa quando si è capito di aver perso la partita.
E soprattutto quando ciò succede dopo quattordici anni di continui successi. Come si fa a dichiararsi falliti dopo una vita di lotte, qualche sconfitta ma decine e decine di vittorie? Ecco perché fa così male, perché noi non accettiamo che lui possa aver fallito. Lui sì, noi no.
5 Si definisce on-sight, “a vista”, una salita in cui il capocordata abbia superato in arrampicata libera tutte le lunghezze al primo tentativo.