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Günther e Reinhold Messner

Quando eravamo ragazzi, la valle di Funes rappresentava per noi il mondo intero, un mondo nel quale c’era dato di vivere emozionanti avventure come briganti e conquistatori tra i fienili vuoti, le ceppaie delle piante e il muro sgretolato del cimitero.

In L’avventura alpinismo, Reinhold ricorda in questo modo l’infanzia trascorsa nella sua valle natia, piccoli paesi stesi sulle conche prative dominate dalle imponenti pareti delle Odle. La famiglia Messner vive a San Pietro, sulla strada che conduce al passo delle Erbe. Il papà Josef è l’insegnante del paese, mentre la mamma si occupa della casa e dei figli. Sono in nove, tra fratelli e sorelle. Nato il 17 settembre 1944, Reinhold è il secondogenito dopo Helmut. Günther nasce l’11 dicembre 1946. Ha due anni meno di Reinhold ed è il terzo. D’estate la famiglia si trasferisce per un paio di settimane alla malga Gschmagenhart, sui prati di Casnago. Da lì le pareti di roccia e le torri delle Odle si innalzano con prepotenza al di sopra dei pascoli, tanto da assumere un carattere quasi inquietante, addirittura spaventoso per dei bambini. Il battesimo con la roccia per Reinhold arriva nel 1949. «L’estate prima di andare a scuola – avevo cinque anni allora – mio padre mi portò con sé in cima alla vetta più alta delle Odle, il Sass Rigais», ricorda Reinhold in La mia strada; «Poco prima della vetta con la croce dovemmo avventurarci su una cresta sottile [...] Fui colto da ansia e da paura in quel momento, e fui ben lieto quando un alpinista che stava scendendo mi prese per mano e mi condusse oltre i passaggi più difficili». Dal padre i fratelli apprendono i rudimenti dell’arrampicata, la tecnica di progressione, la sicurezza a spalla, che cosa è una fessura, un diedro. Il papà gli spiega anche la scala delle difficoltà, anche se lui su roccia si ferma al terzo grado. Reinhold, il più intraprendente dei fratelli, capisce di poter affrontare l’arrampicata emancipandosi dal papà. Durante l’adolescenza Günther e Reinhold non fanno in genere cordata insieme. Reinhold si lega di preferenza con il fratello maggiore Helmut o il quarto, Erich. «In seguito quando Helmut ed Erich si dedicarono più intensamente alla scuola e agli studi [...] – ricorda Reinhold in 13 specchi della mia anima – Günther e io diventammo una cordata giocoforza, ben presto una cordata ideale». Günther e Reinhold scoprono di avere lo stesso senso di orientamento sulle grandi pareti e di muoversi con dimestichezza nel mondo selvaggio delle crode. «Ci proponevamo senza molti problemi di affrontare una vetta che ancora non conoscevamo, oppure percorrevamo vie nuove, nuove varianti [...] ben presto papà non riuscì più a starci dietro». Impressionato dalla loro bravura e dal loro coraggio il papà comincia a lasciarli fare. Con un sorriso, Reinhold racconta che forse è «perché si era reso conto che non gli avremmo più ubbidito, che avremmo continuato a sottrarci al suo controllo». Sono anni giovanili in cui si va consolidando un’intesa tutta speciale tra Reinhold e Günther. «In quegli anni per me e per mio fratello Günther non esisteva altro che le montagne. Riuscivamo a stabilire un rapporto fortissimo con ogni parete su cui ci arrampicavamo».

È quello il momento in cui i due fratelli, salite quasi tutte le cime delle Odle, cominciano a guardare oltre il limitato perimetro della valle di Funes. Günther e Reinhold hanno già salito diverse vie di quinto grado, dunque ritengono che i tempi siano maturi per fare la conoscenza del sesto grado. Hanno solo 16 e 14 anni quando nel 1961 arrampicano per la prima volta sulla Civetta, nel regno del sesto grado.

«Ci pensavamo tutti i giorni, sfogliando libri, e restando ammaliati da quel numero, VI grado, che meritava tutto il nostro rispetto. Ma no, per noi era ancora troppo difficile. Forse non saremmo addirittura mai riusciti a salire un sesto grado», ricorda Reinhold in Vertical. «Per noi “impossibile” e “sesto grado” erano un po’ la stessa cosa. A scorrer la lista dell’attrezzatura usata per la parete sud della Torre Trieste ebbi un sussulto».

Nel consultare l’elenco delle vie e le relative relazioni, i due fratelli concordano sulla via Philipp-Flamm alla Punta Tissi. La guida indica difficoltà fra quinto e sesto e parla di «pochi chiodi». Ingenuamente pensano che le vie che richiedono pochi chiodi debbano di necessità essere anche quelle più facili. È l’iniziazione al sesto grado e la superano con lode. Da quella prima esperienza in Civetta capiscono che sono in grado di progredire e negli anni successivi si spingono sulle prime scalate di sesto grado. All’inizio su quelle brevi, poi su quelle di media lunghezza e infine sulle vie dove la difficoltà è costante per tutto l’itinerario. Per loro stessa ammissione, rispetto alle grandi arrampicate in libera di quinto grado che hanno già saggiato, non riscontrano sostanziali differenze.

Per determinate salite Reinhold e Günther cercano anche altri compagni. La brigata di rocciatori si arricchisce del contributo del lontano cugino Heindl Messner e degli amici Paul Kantioler e Heini Holzer.

«Quasi sempre sono due le cordate in partenza da Funes, diciamo ad assetto variabile. Di solito, ma non sempre, i fratelli Messner attaccati alla stessa corda e poi Heindl con Heini Holzer o Paul Kantioler. La squadra in fondo era una sola e si passava da una corda all’altra con una certa facilità», ricorda Josef Sepp Mayerl, altro loro compagno di gioventù. L’unica differenza tra di loro è rappresentata dal fatto che i due fratelli Messner studiano e hanno tutta l’estate libera da dedicare alle montagne. Tra il 1965 e il 1966 in loro compagnia aprono le loro prime vie nuove sulle Odle. Tra queste meritano una menzione la diretta allo spigolo nord della Gran Fermeda (1965) e lo spigolo nord della Odla di Funes (1966). Reinhold conosceva Kantioler dal luglio 1964, quando avevano aperto la diretta alla Nord della Furchetta, con una variante dalla via Vinatzer. Dello stesso periodo è la conoscenza con Heini Holzer. Piccolo di statura, Holzer è comunque un arrampicatore apprezzato per la sua forza e le indubbie qualità tecniche. I fratelli Messner lo includono subito nella squadra. Lui e Reinhold dedicano numerose giornate nell’estate del 1966 ad aprire nuove vie in Dolomiti.

Secondo Sepp Mayerl e Heindl Messner, i due fratelli erano entrambi ottimi alpinisti e arrampicatori, e dal punto di vista tecnico si equivalevano.

Due stagioni straordinarie, 1967-1968

Per stessa ammissione di Reinhold, «per la nostra accoppiata, le estati 1967 e 1968 furono le stagioni di maggior successo». Negli anni Günther e Reinhold non hanno mai contato quante ascensioni hanno fatto insieme. «Abbiamo sempre sognato prime ascensioni, fatto progetti, studiato pareti, ci siamo allenati insieme. Pensavamo al futuro [...] eravamo sorretti da un’indomita sensazione d’invulnerabilità che ci accompagnava ovunque».

Per qualche tempo i fratelli Messner ripetono salite in artificiale che sulle prime sembrano divertirli. All’inizio della stagione 1967 sono allo Spiz delle Roé di Ciampiè, nel Catinaccio, con Heini Holzer e Heindl per completare la salita della via Schubert-Werner, che hanno già tentato infruttuosamente la settimana precedente. La cordata procede a comando alterno. Destreggiandosi su chiodi e staffe, raggiungono infine la vetta il 2 giugno. «Quando mi fu accanto, Günther mi diede una gomitata e disse: “quest’arrampicata sui chiodi è una burla!” E poi come rivolto a se stesso: “Una volta imparata la tecnica, addio fascino, non cambia più”». Reinhold è sovrappensiero, sta pensando a tutti quei chiodi a pressione che hanno utilizzato in parete. Sono riflessioni che li portano a una svolta nel loro approccio alla roccia. «Quel giorno decidemmo di ricominciare da dove avevamo smesso un anno prima: dalle grandi scalate in arrampicata libera [...] decisi di non usare mai più in vita mia un chiodo a espansione, e di non portarne nemmeno con me».

In un tempo nel quale l’arrampicata libera perde terreno nei confronti della progressione artificiale, i fratelli Messner ripudiano ogni artefatto umano interrompendo questa tendenza con una serie di realizzazioni in arrampicata libera. Qualche tempo dopo questa loro decisione, Reinhold pubblica il celebre articolo L’assassinio dell’impossibile, uscito sulla «Rivista Mensile» del CAI nel 1968. Ma che cosa si poteva fare a quel tempo senza ricorrere alle chiodature a oltranza? Che cosa c’era di possibile che fosse stato lasciato intatto dai sestogradisti degli anni Trenta e che nello stesso tempo permettesse la ribellione alla progressione artificiale esasperata? Risposta: le pareti vergini e, dopo di queste, la realizzazione di itinerari paralleli e più in libera dei precedenti senza l’uso dei chiodi a pressione. «Con mio fratello Günther continuavamo a parlare di dover fare una parete che fosse considerata insuperabile. Volevamo andare al di là del sesto grado. Per giorni e giorni esploravamo vie con il binocolo, individuavamo itinerari [...]. Non mi andava l’idea di trapanare un buco in ogni parete liscia, di piantarvi un chiodo. Mi sembrava antisportivo perché altrimenti tutto diventava possibile».

Il primo esempio di questa nuova tendenza è la via degli Amici sulla parete nord-ovest della Civetta (30-31 luglio, Reinhold con Holzer, Mayerl e Renato Reali). Reinhold individua poi un altro problema ancora aperto, la parete nord-est dell’Agnér. Tra il 17 e il 18 agosto con Günther e Holzer completano un nuovo itinerario di 1400 metri interamente in libera con difficoltà fino al sesto grado anticipando di una giornata Armando Aste, che avrebbe attaccato la parete il giorno successivo. Aste aveva individuato lo stesso problema ed era determinato a risolverlo. Incontrato il gruppo vittorioso di ritorno dalla scalata, ad Aste non resta che complimentarsi con loro per l’impresa.

La stagione è avanzata, ma i fratelli Messner non fermano ancora la ricerca. Prima delle nevicate autunnali, il 15 ottobre 1967 salgono una splendida e stretta muraglia grigia sulla Nord della Cima della Madonna. Tracciano la diretta, una bella linea di 350 metri che valutano di V+. Quando al mattino presto Günther e Reinhold si portano alla base della parete, con la testa rovesciata all’indietro e gli occhi fissi su di essa, emettono un giudizio unanime: «Fattibile. Tutta da fare in libera». Tornando con la memoria a quelle prime gelide lunghezze, Reinhold ricorda che la parete «era molto più ricca di appigli di quanto avessi immaginato quando me l’ero studiata da sotto. Era verticale, ma anche articolata [...] procedevo verticalmente come un animale selvaggio che si sente inosservato [...]. Dopo le prime lunghezze cominciammo a scalare in modo febbrile». Durante la salita non trovano tracce di passaggi precedenti: è una prima ascensione.

Il Sass dla Crusc

Nel 1968, Reinhold è all’università a Padova mentre Günther lavora in banca in val Badia. Ogni fine settimana arrampicano sempre insieme. Nel giugno del 1968 Reinhold è a Padova. Una mattina riceve una cartolina scarabocchiata da Günther: «Sass de Putia: grande classe! L’ho studiata bene. È tutta in libera. Una giornata. Ti aspetto sabato». È una delle rare volte in cui è Günther a prendere l’iniziativa individuando una linea di salita al centro della parete alta 600 metri alla quale nessuno aveva ancora pensato. La via diretta sulla Nord del Sass de Putia (V+) diventa una grande classica, la Günther Messner. I due fratelli ormai sono lanciati, irrefrenabili. Il fine settimana successivo, ritornano al Sass dla Crusc dove risolvono un problema alpinistico intravisto l’autunno precedente. Il pilastro di Mezzo era stato salito in artificiale da Georges Livanos e Robert Gabriel, reduci dal successo al Gran Diedro della Su Alto (VI/A3). Della salita dei due fratelli, che arrampicano con gli scarponcini, senza friend, senza dadi, è rimasto memorabile il passaggio in libera della famosa placca, poi ridenominata placca Messner. Messner scriverà che su quel passaggio levigato del pilastro di Mezzo ha trascorso uno dei momenti chiave della sua vita alpinistica e ricorda:

Fin qui era andato tutto bene. Ma ora? Ancora due metri in libera, straordinariamente difficili, ma poteva ancora andare. Poi ero al limite delle mie abilità arrampicatorie. Trovai un minuscolo buco, profondo due o tre centimetri. Piantai un chiodo corto a lama. Teneva. Ancora un chiodo, poi ancora arrampicata libera. Finalmente un paio di appigli. Riposi il martello nella tasca [...] raggiunsi una strettissima cengia. Qui era proprio finita. Una placca liscia, senza fessure e con pochissimi appigli, sbarrava la prosecuzione. Quattro metri sopra di me c’era una fessura [...]. Al di sotto un gran vuoto, un appicco strapiombante. Sembrava impossibile andare avanti [...]. Tuttavia non mi diedi per vinto, tentai. Ritentai, eppure in mezzora non mi alzai di un centimetro [...]. Bisogna rinunciare, pensai, peccato. Salivo, ridiscendevo, tentativi disperati [...]. Dovevo farcela, solo questi quattro metri, devo tentare! Sopra c’è un piccolo appiglio giusto per metterci le unghie. Se riesco a prenderlo non devo più tornare indietro, non devo mollare.

In dieci anni nessuno osa avvicinarsi. Solo il temerario Mariacher ci pensa nel 1978 per la prima ripetizione con Luggi Rieser e Luisa Iovane. Ma la placca Messner viene aggirata con una variante di VII3.

«Rebitsch e Vinatzer avevano toccato il VII», commentai, «con quella salita Messner lo ha superato». Da allora la via ha avuto diverse ripetizioni, ma tutti evitano il passaggio chiave con la lunga deviazione a destra e ritorno a sinistra che aveva trovato Mariacher. In tempi molto più moderni Nicola Tondini ha ripetuto da capocordata il passaggio Messner, eternando il momento con delle bellissime riprese video.

Alla fine di luglio 1968 Toni Hiebeler invita i due fratelli Messner insieme a Fritz Maschke ad aprire una via nuova di misto sull’inviolato sperone nord dell’Eiger, tra la parete nord e la via Lauper sul versante nord-est. La salita richiede due bivacchi con brutto tempo. Al mattino del terzo giorno, «tutto era bagnato e ricoperto di neve fresca: le corde, gli abiti, le piccozze, gli zaini». I due fratelli non la ricordano come un’esperienza esaltante. Ad agosto sono di nuovo in Dolomiti. Alla Marmolada il 17 aprono la via delle Placche sulla parete di Punta Penìa. In quei giorni d’agosto gira la voce che qualcuno vuole salire la parete nord della Seconda Torre di Sella con i chiodi a pressione. Reinhold alletta Günther dicendogli che si tratta di «una cosa breve e carina». «Ma avevo preso in giro mio fratello quando all’attacco pensava ancora che questi 250 metri di parete fossero possibili senza artificiale», racconta Günther in Settimo grado. E prosegue «Potrei scommettere che lui stesso non lo credeva. E se non fossi stato presente quando lo dimostrò, ancor oggi sarei scettico».

Nel maggio 1969 Reinhold parte per il primo viaggio alpinistico all’estero con una spedizione tirolese nelle Ande peruviane. Al suo ritorno si sposta nel gruppo del Monte Bianco dove realizza la prima ripetizione in giornata del pilone centrale del Frêney e la prima solitaria della Nord delle Droites nel tempo straordinario di 7 ore. Al rientro in Dolomiti si segnala ancora per le numerose solitarie. Tra queste la prima della Philipp-Flamm in Civetta, della via Vinatzer alla Punta di Rocca sulla Sud della Marmolada (con lunga variante diretta finale) e la Soldà sulla Nord del Sassolungo. Nell’estate 1969 Günther, impiegato in banca, «si prendeva meno tempo del solito per arrampicare quasi come se l’esplosione del fratello maggiore lo avesse scoraggiato», spiega Ivo Rabanser, «non condivideva lo stile sempre più spregiudicato con cui Reinhold scalava le pareti più severe inanellando salita dopo salita e soprattutto non apprezzava le sue pazzesche solitarie».

Nanga Parbat

L’insperata vittoria solitaria di Hermann Buhl sul Nanga Parbat nel 1953 consacra il successo della spedizione, e dunque, tributa onori anche al suo capo, il medico Karl M. Herrligkoffer, che nel corso del ventennio successivo si ripresenta in Himalaya, e specificamente al Nanga Parbat, con altre sette missioni. A nove anni dalla prima ascensione, nel 1962, la squadra composta da Toni Kinshofer, Anderl Mannhardt e Sigi Löw porta a termine sul versante Diamir il progetto di Mummery passando per colatoi, costoni di roccia e pendii di neve, su una linea più a sinistra rispetto a quella pensata dall’inglese, già studiata l’anno precedente nel corso di una prima missione di ricognizione fino a 7150 metri. Löw scivola in discesa e muore. L’anno successivo Herrligkoffer è nuovamente al Nanga Parbat, ormai divenuto una vera e propria ossessione, per una ricognizione del terzo e ultimo versante, quello della parete Rupal. Allo studio sono due itinerari che non vengono tentati, uno direttissimo nel centro della parete che Kinshofer ritiene impraticabile, mentre più accessibile parrebbe una salita sulla parte più a sinistra. Per Herrligkoffer questa è ancora un’occasione per rendere un tributo alla tragica spedizione del 1934 e al suo fratellastro maggiore Willi Merkl: intitola diversi passaggi ai protagonisti di quell’eroica vicenda. Sempre Herrligkoffer è alla guida di una spedizione invernale che, causa la persistenza del cattivo tempo e problemi amministrativi, viene interrotta dopo aver appena saggiato la direttissima alla Rupal. Quasi sia stato sancito un patto segreto con la montagna, tedesche o austro-tedesche e con la guida dell’instancabile Herrligkoffer sono ancora le due spedizioni successive, quella del 1968, che si avvale di una squadra fortissima di alpinisti tra i quali Peter e Wilhelm Scholz (si spingono sulla Rupal fino a 7100 metri, oltre il ghiacciaio Merkl), e quella del 1970, con la prima presenza himalayana del “giovane alpinista altoatesino” Reinhold Messner e del fratello Günther. Abile nel reperire i finanziamenti, Herrligkoffer intende comandare con approccio militaresco e richiede la massima ubbidienza.

La spedizione austro-tedesca del 1970 ha come obiettivo il versante sud-est della montagna. L’intenzione è quella di salire l’inviolata parete Rupal, 4500 metri di roccia e ghiaccio che si impongono in tutta la loro enormità al di sopra dell’omonima valle. Appassionato di spedizioni in memoriam, Herrligkoffer dedica questa ulteriore stagione a Sigi Löw (quella del 1968 era invece per Kinshofer). Reinhold Messner, reduce dai recenti successi sulle Alpi e in Dolomiti, è un candidato ideale. Nell’autunno riceve la convocazione da Herrligkoffer. Nella squadra, figurano tra gli altri, oltre ai fratelli Messner, Felix Kuen, Peter Scholz, Werner Heim e il cineoperatore Gerhard Baur.

In un primo momento sembrava che dovessi andare al Nanga Parbat senza Günther. Alcune settimane più tardi gli feci trovare un telegramma. C’era scritto: «Sono d’accordo per Günther. Karl». A quel tempo io e Günther eravamo arrampicatori. Ci appassionavano le vie di roccia più impegnative delle Alpi ma anche le grandi pareti di ghiaccio. Gli Ottomila himalayani ci stuzzicavano molto meno. Ma la parete Rupal decantata da decenni come la parete più alta della Terra, costituiva la sfida per eccellenza per l’alpinismo di quegli anni. Hermann Buhl infatti l’aveva definita impossibile e i migliori alpinisti degli anni Sessanta avevano fallito i loro tentativi. La parete Rupal ci forniva lo spunto per una sfida: traslare in una nuova dimensione il nostro modo di andare in montagna.

Sulla parete Rupal i fratelli Messner vivono un’esperienza esaltante, anche se il ritmo e le dinamiche interpersonali di una spedizione organizzata non gli sono congeniali. La squadra è composta di 15 alpinisti selezionati tra i migliori dell’epoca. La salita ai campi alti avviene in maniera tradizionale. La parete è attrezzata con centinaia di metri di corde fisse che servono agli alpinisti per raggiungerli. Fedeli a un loro stile “pulito”, i fratelli Messner decidono però di rinunciare all’uso di ossigeno. Fin dalle prime ricognizioni in parete Reinhold e Günther si segnalano come il duo più dotato ed efficace. Pur scontrandosi spesso con gli ordini impartiti da Herrligkoffer, sono una tra le due cordate di punta. Dal campo base gli accordi prevedono che sia un razzo rosso ad avvertire l’arrivo del cattivo tempo, mentre uno blu avrebbe dato il via all’assalto finale. Messner, dal campo 4, dove si trova nel tardo pomeriggio con Kuen, Scholz, Baur e il fratello Günther, propone di provare, anche in caso di cattivo tempo, a salvare l’esito della spedizione con un suo tentativo in velocità fino in vetta e ritorno. Secondo l’ottica già sperimentata nel 1953, per la quale la vittoria di uno solo può voler dire la gloria di tutti, Herrligkoffer aderisce alla proposta. Rosso è il colore che quella sera illumina il cielo e anima le discussioni. Messner non crede ai suoi occhi, è proprio rosso e annuncia il brutto tempo. Non si dà per vinto, il cielo è ancora bello e decide di anticipare il monsone con una salita lampo dal campo 5, dove trascorre la notte con il fratello e Gerhard Baur. Alle 2 del mattino del 27 giugno esce dalla tenda e comincia ancora al buio a districarsi tra le difficoltà che gli oppone il canalone Merkl. A un’ora di distanza lo segue a sorpresa Günther. Messner lo vede salire velocissimo il canalone (600 metri in quattro ore oltre i 7000 metri di quota). Insieme procedono poi per la vetta. Si spingono avanti finché la percezione di farcela diventa imperativa, anche se la vetta, ormai vicina, sembra allontanarsi. Ed ecco infine la sommità, e la favola diviene realtà per la terza ascensione assoluta della montagna. Ma è già tardi, il tempo peggiora velocemente e Günther è allo stremo delle forze. Senza corde, i due fratelli rifiutano l’idea di scendere dalla via di salita, troppo rischiosa in quelle condizioni, e si lanciano su un terreno ignoto, ma meno difficile e ripido, la vastissima parete del Diamir. Il giorno successivo ai due fratelli andranno in cima anche Kuen e Scholz, per la quarta salita. Per i due Messner invece è tragico l’epilogo della lunga corsa verso la salvezza: tre giorni di discesa per un labirinto di crepacci giganteschi sotto il costante rischio delle valanghe. Günther scompare, travolto da una di esse. La ricerca disperata del fratello non dà esito, come non lo darà la ricerca che Reinhold condurrà l’anno successivo. Bisognerà attendere fino al 2005 perché il ghiacciaio restituisca il corpo del fratello. Con questo ritrovamento termina l’accesa polemica scatenatasi fin dal rientro in Europa nel 1970 che aveva visto Reinhold accusato di aver cercato di raggiungere la vetta a ogni costo nonostante le precarie condizioni del fratello, rendendosi così responsabile della sua morte pur di riuscire nella sua impresa.

Reinhold aveva riportato gravi congelamenti a sette dita dei piedi (subendo una parziale amputazione di esse) e alle ultime falangi delle mani. Seppure la perdita del fratello lo segni indelebilmente, prosegue l’opera di esplorazione verticale e interiore che con lui aveva avviato sulle montagne di casa.

Reinhold diventerà l’alpinista numero uno al mondo. Sarà il primo uomo a completare la salita dei 14 Ottomila, a compiere la prima solitaria a un Ottomila (ancora sul Nanga Parbat), a salire per primo l’Everest senza ossigeno. La sua ricerca lo porterà a percorrere anche le vaste distese dei deserti e dei Poli.

La “montagna nuda” di Reinhold Messner

A tre anni di distanza, nel 1973, Messner torna a questa “sua” montagna per un tentativo in solitaria: una profonda forza interiore lo riporta a salire il Nanga Parbat. Sarà il terzo tentativo in cinque anni a vederlo infine in cima nel 1978, dopo un secondo compiuto l’anno precedente. Un piccolo zaino, ramponi e piccozza con una tendina leggera sono l’attrezzatura che si carica in spalla per un’impresa straordinaria: la prima salita in solitaria del Nanga Parbat. Ed è anche la prima solitaria in assoluto su un Ottomila. In questa stessa occasione inaugura due nuovi itinerari sulla parete del Diamir in puro stile alpino, sia quello in salita (in tre giorni) che quello in discesa che passa a fianco degli speroni di roccia tentati da Mummery nel 1895. Nel 2000, a trent’anni di distanza dalla sua prima e drammatica esperienza himalayana, Messner è nuovamente nella valle dell’Indo, diretto al Nanga Parbat, questa volta con il fratello Hubert, Hanspeter Eisendle e Wolfgang Tomaseth. Per un nuovo tracciato nella sezione sinistra del Diamir giungono fino a 7500 metri di quota. Ugualmente l’itinerario incompiuto verrà chiamato via Messner: saranno Thomasz Mackiewicz (che morirà in discesa) ed Elisabeth Revol a concludere il percorso fino alla vetta nell’inverno 2018.

3 Con l’apertura verso l’alto della Scala Welzenbach viene introdotta definitivamente la Scala UIAA che prevede una numerazione romana dei gradi.