Capitolo XXII
«Da trent'anni lo odiavo»
«Vuol parlare adesso o domani?».
«Come vuole! Meglio subito».
«Aspetti. Segga. Telefono al giudice».
«No. Prima con lei! Bisogna che lei capisca».
«A che cosa può esserle utile?».
«Vorrei che lei vedesse sino in fondo alla mia anima! Oh! Lo so che non servirà a salvarmi. Ma questa sera, dopo quanto è accaduto, non potrei non dir tutto! Domani, lascerò che parlino gli altri. Firmerò tutto quello che vorranno. Ma lei deve conoscere le ragioni, che mi hanno spinto a ucciderlo».
«Le conosco!».
«No! Le dico di no! Non può conoscerle!».
Sempre aggrappato al tavolo, s'infiammava. Sembrava discutere con trasporto una questione generica e teorica.
Era tornato l'uomo normale, soltanto un poco concitato e un poco ansante, forse per l'accesso di poco prima. Poiché egli aveva avuto un vero accesso. De Vincenzi non ne poteva dubitare: gli occhi di lui e quella bava biancastra alla bocca glielo avevano detto senza possibilità d'errore.
Ma adesso l'accesso era passato e Marini sorrideva con sarcasmo.
«Lei crede che l'abbia ucciso, perché mia moglie mi tradiva con lui! Questo crede, lei! E sbaglia! Le dico che sbaglia. Se non ci fosse stato l'odio, non lo avrei ucciso e non avrei sopportato il tradimento. Avrei scacciato mia moglie sei mesi fa, quando la cosa cominciò. Me ne ero accorto subito. Non sono un marito cieco, io! E stavo in sospetto, perché sapevo che lui avrebbe tentato di togliermi anche quella! Ma l'odio aveva una ragione più forte, aveva radici tanto profonde, che non era più possibile strapparle! Lo vede che lei non sa nulla, ancora?!».
Si guardò attorno. Fece per muoversi verso una seggiola, Sani la prese e gliel'accostò. Sedette. Doveva sentirsi stremato. Le mani gli continuavano a tremare legger mente.
De Vincenzi fece un segno col capo agli agenti, che erano rimasti in mezzo alla stanza, pronti a intervenire, e i due si ritrassero nel fondo, presso la porta d'ingresso.
Sani aveva tratto un blocco di carta e un lapis e diede un'occhiata al commissario. Questi gli rispose di sì con gli occhi e lui andò a sedersi dall'altra parte del tavolo, dietro le spalle del dottor Marini, pronto a scrivere. Marini non se ne accorse neppure. Guardava De Vincenzi, che rimaneva in piedi, con le mani in tasca, la persona un po' curva, lo sguardo stanco quasi stremato anche lui. Adesso che la tensione nervosa della battaglia s'era allentata, adesso che sapeva d'aver vin to, un grande dolore umano, fatto d'amarezza e di scoramento, l'aveva invaso. Quel dramma atroce gli dava il senso terribile di quanto la vita fosse cattiva, pericolosa, inutilmente irta di spine. E anche un senso di sgomento, come se un più tragico mistero e insolubile si fosse sostituito all'altro meschino e impercettibile che l'aveva tenuto sino allora. Che cos'era quella sala, con quegli uomini, con quell'uomo, che era un assassino, sotto la vasta volta celeste? La terra? Un pianeta. E tanti altri astri e pianeti, più grandi, lontani. Tanti! E sulla terra, quel punto così minimo, con un uomo il quale in quel momento doveva credere che tutti gli astri, tutti i pianeti, tutto l'universo facessero capo a lui, che aveva una tragedia tanto grande dentro di sé!
«Le ho detto io di voler parlare e adesso mi accorgo che forse le parole non varranno a farle capire perché l'ho ucciso. L'odio per l'odio esiste! Ma in me c'era qualche altra cosa. E poi risaliva lontano! Eravamo fanciulli. In collegio. La nostra camerata, dove trascorrevamo il maggior tempo dello studio e della ricreazione, aveva un'unica finestra, che dava sul giardino. Il resto della sala era buio, tetro. Da quella finestra entrava il sole, si vedevano gli alberi, era uno spiraglio aperto sulla natura miracolosa, sulla libertà. Ognuno di noi collegiali aveva un banco tutto per sé, coi propri libri, con quanto gli apparteneva, lo consideravamo come il nostro sacrario. Ebbene, io avevo il mio banco proprio davanti a quella finestra ed era la mia felicità. Da pochi giorni mia madre mi aveva accompagnato in collegio e mi ci aveva lasciato. Avevo sofferto al distacco.
Piangevo di notte. Mi diedero quel banco e non piansi più! Ma arrivò Magni. Era già un giovanetto, alto, sottile, assai bello. Aveva un sorriso, che conquistava subito tutti. Fu quel sorriso? Fu perché l'aveva accompagnato in camerata proprio il rettore, consegnandolo all'istitutore con molte raccomandazioni sussurrate a voce bassa? Fu perché il mio destino lo volle? Il fatto è che l'istitutore mi ordinò di cedere il mio posto al nuovo arrivato! Da quel momento, l'odiai. Alla notte facevo sogni orribili e sempre lo vedevo morto, strangolato da me! È la verità! Mi sentivo in preda a un'ossessione. Per vincerla, tentai di essergli amico. Ci chiamavano gli inseparabili. Ma lui aveva accettato la mia amicizia, come dovutagli, quasi fosse la sottomissione di schiavo a padrone. Ogni giorno di più faceva pesare su me la sua superiorità. Lui aveva tutto e io nulla. Vivevo della sua luce! Mangiavo gli avanzi dei suoi pasti! Quando fummo più grandi, non potevo guardare una sola delle nostre compagne di scuola, senza che lui, subito, non l'avesse fatta innamorare di sé! L'odio per l'odio! Ah! Esiste. Se esiste!».
Tacque.
Si sentiva il suo respiro e il rumore della matita di Sani sulla carta, contro il legno del tavolo.
Di là, Sigismondi si muoveva, disse qualche parola. De Vincenzi corse a chiudere la porta della stanzetta e poi tornò a mettersi davanti all'uomo seduto.
Nessuno sapeva che Chirico e Pietrosanto esistessero ancora, nel loro angolo.
«Ha capito, adesso? Comincia almeno a capire?».
«Lo sapevo» disse lentamente De Vincenzi e l'altro lo guardò sorpreso.
«Per questo, allora, ha scoperto che ero stato io a uccidere? Per questo mi ha teso il tranello? Per questo ha mandato a prendere quel libro, a casa mia?».
«Anche per questo».
«Meglio così!».
Tacque ancora. Poi sollevò il capo e lo sguardo gli brillava.
«Se non ci fosse stato lei, nessuno mi avrebbe scoperto! Il mio è stato un capolavoro! Vuol sapere come l'ho ucciso? Oh! Debbo riconoscerlo: non avevo stabilito che fosse proprio per quella notte. Ero ben determinato a farlo; ma aspettavo che mi si presentasse l'occasione. Volevo ucciderlo, senza che si potesse mai attribuirne a me la colpa! Stavo in agguato, come il cacciatore d'una belva. Sapevo che era l'amante di mia moglie. Anche quella mi aveva portata via! L'avevo preveduto, del resto, e non avevo fatto nulla per impedirlo. Sarebbe stato inutile. E lei non ne aveva neppur colpa! Lei non faceva che cedere a una forza più forte. Doveva amarlo e tradirmi, perché il mio destino voleva così!».
De Vincenzi rivide l'alcova di via Abbondio Sangiorgio, il ritratto nella cornice d'argento, la donna distesa sulla sedia a sdraio, contro il sole e il mare, con la vestaglia azzurra e i capelli d'oro e quei piedini nudi nelle babbucce…
«Quella notte» continuò il dottore, con voce trionfante, come se narrasse la più bella delle sue imprese «venne lui a cercarmi. Sapeva che alla sera andavo sem pre in un caffè di Porta Venezia ed entrò lì dentro che erano le dieci. Mi sembrava nervoso. Si mordeva le labbra a quel modo che faceva sempre, quando qualcosa o qualcuno lo contrariava. "Andiamo a camminare" mi disse, dandomi un ordine, secondo il suo solito. Girammo tutta Milano. Lui parlava. Diceva di averne abbastanza delle donne e che esse lo annoiavano. Mi parlò di sua moglie. Io a bella posta gli parlai della mia. Covavo il mio odio. Vivevo di esso. Mi era necessario come la cocaina a un intossicato. A più riprese palpai la rivoltella, che avevo nella tasca. Avrei voluto condurlo verso la campagna. Forse, pensavo già a ucciderlo. Ma lui non volle. Entrammo in quattro o cinque bar, senza sederci. Bevevamo in piedi. Lui beveva whisky. Volle che anch'io ne bevessi. Le idee mi divennero lucide, il cervello mi si rischiarò. Fu dopo il quarto o quinto whisky, che decisi di ucciderlo quella notte stessa. Ma come? Improvvisamente, mi ricordai d'avere in tasca le chiavi della libreria di via Corridoni…».
Dall'angolo di Chirico e di Pietrosanto venne lo scricchiolio delle seggiole e i due uomini mandarono un «Oh!» di stupefazione e di protesta.
Questa volta anche De Vincenzi ebbe un moto.
La matita di Sani correva sempre sulla carta e i fogli scritti si ammucchiavano sul tavolo.
«Come le avevo? Il destino, le dico! Una quindicina di giorni prima ero entrato in quella libreria, per cercare un libro di occultismo. Avevo in mano la mia borsa, un giornale, i guanti, non so che altro. Il fatto è che, quando volli andarmene, m'accorsi che avevo po sato tutta quella roba sulla scrivania del proprietario. Andai a prenderla e vidi accanto ai guanti un piccolo mazzo di due chiavi. Ero distratto… sa come avviene?… quelle chiavi somigliavano alle mie… credetti di avervele posate io, assieme ai guanti… le presi e me le misi in tasca… Fu dopo qualche giorno che mi accorsi di averle e dovetti lambiccarmi il cervello, per ricordarmi dove le avevo prese. Avrei voluto riportarle subito. Non lo feci. Non ne trovai il tempo. O forse fu sempre il destino, che non volle… Quella notte, quando Magni mi disse di voler tornare a casa e ci avviammo dalla piazza del Duomo, dove ci trovavamo, verso Porta Vittoria, passando per via Corridoni, mi ricordai delle chiavi. Pensai subito a ucciderlo lì dentro e poi a richiudere il negozio, nessuno avrebbe potuto sospettare che fossi stato io. Ebbi persino uno scoppio di riso dentro di me, immaginando quel che sarebbe accaduto alla mattina, quando avrebbero trovato il cadavere. Con Magni parlavamo di spiritismo. Gli dissi che Chirico aveva un libro assai raro e interessante, gli proposi di andarlo a prendere subito. "Ho le chiavi" aggiunsi. "Chirico me le ha date, perché andassi a prendermi io stesso il libro, questa notte…". Non c'era nulla di strano. Chirico è il segretario di questo Circolo e Magni lo conosceva benissimo e poteva credermi. Ma non voleva. Diceva di esser stanco. Continuò a camminare fino al principio di viale Bianca Maria. Vidi che mi sfuggiva. Ma conoscevo un'altra debolezza sua, ch'era poi un aspetto del suo erotismo morboso e vizioso. "Lo sai che Chirico ha una collezione di libri porno grafici?". Allora, venne. Tornammo indietro. La strada era deserta. Neppure un'anima al largo di via Cesare Battisti. Aprii la saracinesca e dovemmo metterci in due, per sollevarla. Quando fummo dentro, la riabbassai. "Se vedono la luce" dissi "ci prendono per due ladri!". Lui rideva. "Dove sono gli erotici?" mi chiese. Dovemmo cercarli. Finalmente, li trovammo. Lui prese subito il volume della Zaffetta. Ne scorse qualche pagina. Mi voltava le spalle. Lo sentii dire "Ah, sapevano vendicarsi delle donne, in quel tempo! Le trattavano da quel che erano! P… e nient'altro!". Allora, sparai. Fu più forte di me. Lo avrei fatto, forse, anche se lui non avesse detto quelle parole; ma furono esse che agirono su di me come una frustata. Mi sembrò che in quel momento parlasse di mia moglie, che m'insultasse a sangue, insultando lei!…».
Un altro silenzio.
Chirico si chinò verso Pietrosanto a mormorargli una frase e Gualmo lo guardò coi suoi grandi occhi acquosi, senza capire.
«Poi lei prese un sacco» disse De Vincenzi «che trovò in un angolo, e segnò la striscia del corpo sulla polvere, per far credere che fosse stato trasportato là dentro cadavere, dal di fuori?…».
De Vincenzi parlava lentamente. Voleva dar tempo a Sani di scrivere. Oramai, per lui tutto era così chiaro, che avrebbe potuto fare a meno di muovere domande, tranne una che si riservava per ultima.
«Ha capito anche questo? Sì. Era caduto davanti alla porta della terza stanzetta. Mi guardai attorno.
Volli completare l'opera. Afferrai il libro, che lui aveva lasciato cadere e me lo misi in tasca. Perché? Non so! Mi sembrava che quel libro mi avrebbe sempre ricordato la mia azione e volevo tenermelo. Le ho detto che l'odiavo! Ma nello stesso tempo, mi preoccupai di confondere gli indizii, di perfezionare il delitto. Segnai la striscia per terra. Aprii la porta, che dava sul cortile, uscii e vidi che il portone era aperto. Me ne sarei andato per di lì. Così non avrei avuto bisogno di rialzare la saracinesca, che sarebbe stato sempre un rischio. Tornai indietro, presi il cappello di Magni, spensi tutte le luci, accostai la porta dietro di me, in modo che sembrasse chiusa. Quando fui in istrada la vidi sempre deserta e diedi un giro di chiave alla saracinesca, per dar meglio l'impressione che avessero introdotto il cadavere nel negozio dalla porta del cortile…».
«E non pensò che uno dei proiettili era andato a conficcarsi in un libro, di fronte al cadavere!».
«No, a questo non pensai. E come avrei potuto? Ma pensai al cappello!».
Fu un grido di vittoria il suo.
«Me lo tenevo stretto contro il petto, sotto il soprabito. Andai a piedi fino in via Commenda e lo lasciai cadere contro il muro del Dormitorio. Lo avrebbe trovato qualcuno di quegli ospiti… forse un pregiudicato… un disgraziato, certo, che non avrebbe esitato ad appropriarselo».
Ah! Dunque, il bigatt doveva aver trovato davvero il cappello. Se Harrington non gli avesse imbrogliato quella pista! E De Vincenzi pensò alla vedova, che andava a chiedere l'aiuto del detective.
«Sua moglie vide il libro, che lei aveva portato con sé?».
«Sì. Come lo sa? Alla mattina, quando mi alzai, glielo trovai tra le mani. Lo avevo posato sulla scrivania del mio studio. Glielo tolsi di scatto, dicendole che lo avevo acquistato per ragioni di studio».
Ecco, perché la donna gli era caduta davanti, di colpo, appena lui aveva nominato la Zaffetta.
Ma adesso bisognava toccare il punto più orribile.
«E quella ragazza?» chiese con voce gelida.
L'uomo rabbrividì. Gli occhi gli si empirono d'orrore.
«Ah! No! Mi faccia grazia! E mostruoso! Norina ci aveva veduti dalla finestra… ci seguì… vide che entravamo nella libreria… La sera dopo mi venne a cercare a casa. Povera disgraziata! Un'altra sua vittima. Lo amava! Mi sentii perduto… La condussi fuori con me… La feci bere… Poi… poi… sul parapetto della Darsena… E mostruoso!».
Si coprì il volto con le mani.
De Vincenzi guardò Sani. Tutti e due erano lividi. Sani gli fece segno d'aver scritto.
Ma a lui toccava il compito d'insistere. Era come bere un calice di tossico.
«Sospettava di lei, quella ragazza?».
«No» mormorò l'assassino. «Voleva soltanto sapere. Ma avrebbe parlato! Avrebbe detto che io quella notte mi trovavo in compagnia di Magni… Non potevo non fare quel che ho fatto…».
«E avrebbe strangolato anche la Sorbelli!».
«Oh! Quella lì!».
E, togliendosi le mani dal volto, diede un'occhiata alla porta chiusa. Di nuovo gli occhi gli si erano iniettati di sangue. Un ammalato, certo. Quando aveva ucciso, doveva essersi trovato in preda a un accesso di follia sanguinaria.
«Quella lì!» ripetè.
«Fu lei a dirle di profetizzare la morte?».
L'altro esitò. Poi si decise.
«Sì. Volevo mettergli paura. Sapevo che era superstizioso e che amava la vita».
«Anche allo spiritismo lo aveva attirato per la stessa ragione?».
«Forse. Nell'oscuro del mio animo, certo pensavo di danneggiarlo, mettendolo a contatto con qualcosa di soprannaturale e di terrorizzante».
«E… quella donna perché si prestò alla commedia?».
«L'avevo suggestionata. Da principio volevo pagarla; ma vidi subito che non sarebbe stato il mezzo e che era inutile, del resto. Lei non poteva non fare quel che volevo io!».
«E questa, sera?».
«Questa sera, ho capito subito, che avrebbe parlato».
Ebbe un lampo. Balzò in piedi, fissando De Vincenzi. Sollevò una mano accusatrice, verso di lui. Fremeva. Di nuovo le labbra gli schiumavano.
«Lei… lei… è stato lei a suggestionarla… a insegnarle che cosa doveva dire questa sera!».
De Vincenzi lo fulminò con lo sguardo.
«Risponda a questo!» martellò con voce dura. «Ha indotto la signora Magni ad andare da Harrington, con la speranza che si trovasse un innocente da far condannare?».
Il dottore non rispose subito. Abbassò la mano. Ansava.
«Risponda!».
«Sì. Era il piano del cappello, che continuava».
«Quanto ha dato ad Harrington?».
«Lo domandi a lui. Tutto questo non ha importanza, oramai!».
«Era vero».
«Questa è la stessa con cui ha ucciso il senatore?».
E traendola dalla tasca, gli mostrò la rivoltella nera.
«Sì. Ne ho una sola».
«Sta bene. E finito».
L'altro disse: «Lo so. È finito».
«Sani! chiamò De Vincenzi».
Sani raccolse i fogli.
«Deve firmare?».
«No. Domani. Perquisiscilo un'altra volta e mettigli le manette».
«Ha paura che tenti di avvelenarmi?» esclamò il dottor Marini con voce triste, mentre il vicecommissario lo frugava.
Era tranquillo. Rassegnato.
«Oh! Non abbia questa paura! Lascerò che la Giustizia segua il suo corso».
Nelle tasche non aveva nulla di sospetto.
I cerchi d'acciaio scattarono. I due agenti s'avvicinarono e presero i capi delle catenelle, uno per parte.
S'avviarono.
De Vincenzi li fermò.
«Perché ha messo quattro ferri chirurgici e un camice sui gradini della chiesa di San Vito?».
Marini non capiva. Dovette ripetergli la domanda.
«Quattro ferri e un camice? Non so di che cosa voglia parlare. Io non ho messo nulla sui gradini della Chiesa di San Vito».
Doveva esser vero. Non avrebbe avuto ragione di mentire.
«Andate» ordinò il commissario.
Fu il dottore a fermarsi, questa volta.
«La prego! Mia moglie si trova a Pegli… Villa Doria… L'avverta lei».
De Vincenzi pensò che non lo avrebbe fatto, ch'era l'unica cosa che non avrebbe avuto la forza di fare, fece un cenno evasivo col capo e si volse subito a Sani.
«Accompagnalo in guardina. Al Questore penserò io».
«Tu rimani?» chiese Sani, guardandolo con apprensione, perché lo vedeva pallidissimo, con gli occhi cerchiati e stanchi.
«Sì» e indicò la porta dietro cui stava la medium. «Quella mi preoccupa».
Poi ebbe un gesto. Le guardie scendevano già le scale col prigioniero. Prese Sani per un braccio.
«Dimenticavo! Appena lo hai condotto a San Fedele, va' a casa sua, corso Plebisciti, 17, e trova il libro.
È intitolato: La Zaffetta. Reca la data di Venezia, 1531. Trovalo a ogni costo».
«Non dubitare».
De Vincenzi rimase in mezzo alla sala, fissando il vuoto.
Si sentì toccare un braccio. Era Chirico. Aveva i pomelli accessi.
«Le mie chiavi!» disse. «Potrò riavere il mazzo delle mie chiavi?».