Capitolo XIX

Battute d'aspetto

Dal momento in cui si trovò per la strada - uscito appena dall'appartamento, che aveva protetto i molteplici amori del senatore Magni, De Vincenzi compì i più strani e apparentemente scriteriati atti della sua carriera di commissario.

Persino Sani, che aveva cieca fiducia in lui, dovette chiedersi se il suo immediato superiore non avesse per caso perduto il controllo dei propri centri inibitori.

Si sarebbe detto che il profumo acre e denso di quelle stanze, in cui non penetrava mai la luce del giorno, gli fosse salito, attraverso le nari, al cervello, operando su di lui come un etere.

Tornato a San Fedele, quando Sani gli ebbe annunziato l'arrivo del dottor Verga, egli, che pure aveva mandato Cruni a prenderlo a casa, non volle riceverlo.

«È realmente ammalato, e per venire da te, si è alzato da letto…».

«Ci ritorni. Gli farà bene!…».

Sani lo guardò sorpreso e non obbiettò nulla.

«È stanco» pensò. «Quando sarà finita tutta questa storia, insisterò perché prenda qualche giorno di congedo».

Ma De Vincenzi era così poco stanco, nel corpo almeno, che lo si sentì passeggiare interminabilmente, avanti e indietro per la sua stanza, fin quasi alle sei del pomeriggio.

A quell'ora aprì l'uscio, che aveva chiuso a chiave, e apparve col sorriso sulle labbra. Ma lo sguardo gli brillava in modo febbrile e il suo sorriso era più una contrazione nervosa che altro.

Andò a mettersi davanti al tavolo del collega e lo fissò.

«Vedi!» pronunciò lentamente, dopo qualche istante di silenzio. «Tutto sarebbe chiaro se non ci fossero quei ferri chirurgici e quel camice. Sono essi che guastano ogni teoria! Non riesco a farli quadrare col resto, neppure se prendo i fatti che conosco e torco loro il collo…».

Sani intuì quanto quel problema lo martoriasse e non osò sorridere.

«Avranno appartenuto al professore…» disse, ricorrendo alla ipotesi più semplice.

«No! Non si va al Sempioncino con quattro ferri chirurgici e un camice nelle tasche».

«Li avrà avuti con sé l'uccisore…».

«Di sua proprietà?».

«Può darsi. E questo aiuterebbe a trovarlo».

«Troppo! Si può credere che un uomo, diabolicamente abile, come colui che ha ucciso il senatore Magni, fornisca un indizio decisivo contro di sé, con la coscienza di farlo e senza esservi spinto dalle circostanze? Per quanto abbia voluto sfidare gli uomini e forse il destino, non aveva ragione di esagerare a tal punto! Sareb be stata sadica voluttà di denunziarsi, di perdersi, la sua!…».

«Sei sicuro che quel pacco e quel biglietto abbiano connessione con l'assassinio?».

«No! Non ne sono sicuro. Ed è proprio questo che mi turba! Come ammettere che soltanto il Caso abbia fatto coincidere i due fatti? Allora esiste realmente una forza inconscia, intelligente, che governa e regge e crea persino l'impossibile, perché da esso sgorghi la luce?». Rise e aggiunse: «Per ora sarebbero le tenebre…». «C'è la calligrafia del biglietto…». «Già, ma non aiuta. Non è quella dell'assassino». «Tu lo conosci?». «Chi?». «L'assassino».

«No!».

«Ma devi pur avere un sospetto fondato?». De Vincenzi alzò le spalle.

«Che conta? Non corro mai appresso ai sospetti, io! E tanto meno questa volta. Se ti dicessi che affermo con tanta sicurezza che la calligrafia del biglietto non è quella dell'assassino, pur non avendone fatto alcun controllo, soltanto perché la mia intuizione me lo dice, penseresti che sono maturo per Mombello…».

Girò su se stesso e tornò nella sua stanza. Poco dopo ne usciva, col soprabito e il cappello. «Te ne vai?».

«Sì. Avverti il Questore. Rimarrò assente parecchie ore. Forse, tutta la notte. E in tal caso non tornerei qui che domani a mezzogiorno. Può darsi, anche più tardi… Dipende dal viaggio che ho da fare».

«Vai lontano?».

«È questo che ancora non so. E per saperlo, dovrò correre il rischio di rovinar tutto».

Sani lo guardava e non riusciva a dissimulare completamente la sua preoccupazione.

«Sei più enigmatico del delitto stesso!».

«Perché, vedi!, a giuocare con gli enigmi se ne prende l'abitudine. E una forma di pragmatismo subconscio, che opera in noi. E questo qui è un vero puzzle animato del quale non si riesce a trovar tutte le parole, sino a formarne una frase logica».

Tacque un istante.

«Ancora l'azione più orrenda è la più spiegabile! A guardar bene, nello specchio d'acqua della Darsena si vede il volto dell'assassino! A rivederci».

Uscì in fretta, lasciando Sani dolorosamente colpito da quel suo modo.

Era ancora giorno.

L'animazione per le vie appariva intensa. Per la Galleria e sotto i portici si faceva fatica a passare. Egli, giunto in piazza della Scala, tornò indietro e, ripassando davanti a San Fedele, prese via San Paolo, attraversò il corso e si trovò in piazza Beccaria.

Poco dopo entrava nella libreria di via Corridoni, con le mani in tasca e l'aria indifferente dell'amatore di libri.

Gualtiero Gerolamo lo guardò sorpreso e un lampo di angoscia gli passò nei miti occhi umidi. Chirico sal tellò dalla scrivania al suo fianco e lo salutò, togliendosi il cappello e grattandosi in testa. «Signor commissario…».

C'erano un paio di clienti, che frugavano nelle scansie. Uno di essi, corpulento e barbuto, con una grossa catena d'oro sul ventre, aveva tra le mani un opuscolo e ci dissertava sopra in bolognese, senza che nessuno lo ascoltasse. S'interruppe, per guardare il sopravvenuto di sopra gli occhiali.

De Vincenzi rispose con un cenno del capo al saluto del padrone e sorrise dell'attesa ansiosa di Pietrosanto. Si avvicinò al banco e prese qualche libro, uno dopo l'altro, leggendone i titoli, facendoseli girare fra le mani, osservandoli attentamente. Si sarebbe detto che stesse per chiederne il prezzo.

«Qualcosa di nuovo, signor commissario?».

Chirico gli aveva parlato a voce bassa, ma, subito gli altri rattennero il respiro, attendendo la risposta. I due clienti dovevano sapere o intuire chi egli fosse e non si erano fatti ingannare da quel suo cercare fra i libri.

«Di nuovo?» ripetè lui, quasi non avesse compreso la domanda. «Ah! sì… Può darsi… Tutto è finito».

«Come?!».

Anche Gualmo, non contenendosi più, gli si avvicinò, col suo passo cauto e silenzioso, la testa in avanti, gli occhi spalancati e fissi.

L'uomo barbuto depose l'opuscolo e si tolse gli occhiali.

«Già! Qualcuno è stato arrestato. Lo saprete a suo tempo».

«Ma chi è l'assassino? E perché è venuto proprio nel mio negozio?».

«Come ha fatto a entrare?» proferì Pietrosanto, a cui quell'enigma era rimasto immanente nello spirito. «E lei ha ritrovato il libro rubato?».

De Vincenzi represse un sussulto.

Già! C'era il libro. «La Zaffetta - Venetia 1531 - in 8°». L'aveva quasi dimenticato e certamente non ne aveva tenuto conto nel suo puzzle. Eppure era un elemento capitale. Adesso, che aveva respirato il profumo dell'appartamento di via Abbondio Sangiorgio, anche il libro pornografico, pubblicato per vendetta contro una cortigiana, assumeva ai suoi occhi un significato netto e preciso, si rivelava nel dorso e nella costa, come tutti quei libri che giacevano di là, quando la luce veniva accesa dentro le tetre stanzucce del retrobottega.

«Il libro! Già! Ritroveremo anche quello. Mi faccia vedere il posto preciso dal quale è stato tolto».

E si diresse verso il corridoio, preceduto da Gualmo e seguito da Chirico.

I due clienti osservavano e, se il padrone non avesse chiuso la porta dietro di sé, lasciandoli nel negozio, li avrebbero seguiti.

Chirico aveva chiuso la porta per un movimento istintivo; ma appena ebbe raggiunto Pietrosanto, che stava indicando al commissario la scansia degli «erotici», lo prese per un braccio e lo spinse verso il corridoio: «Vada di là, lei! Quei due sono rimasti soli…».

Pietrosanto si agitò tutto a quella ingiunzione, che feriva nel profondo la sua curiosità. Ma dovette ubbi dire. La diffidenza sospettosa del padrone era legge, che egli non poteva contrastare.

De Vincenzi si guardava attorno. Il cadavere non c'era più naturalmente; ma lui lo vedeva sempre davanti a sé, disteso a terra. Soltanto, adesso, aveva per lui un volto non più di ghiaccio, immobile, ma animato. Lo vedeva vivere, quel cadavere, quando entrava nell'appartamento clandestino, quando sedeva sul divano di velluto nero e si avvicinava al bar di palissandro, con tutte le fiammelle dei liquori. Lo aveva dinanzi agli occhi, vivo! E viva era anche la donna del ritratto, per quanto lui non l'avesse conosciuta mai.

Che parte aveva avuta quella donna nel delitto?

Forse, nessuna. Forse, la parte principale.

Come mai pensò anche alla vedova in gramaglie e gli sembrò vederla risalire via Dante, per entrare nell'Agenzia di Harrington?

«Avete tenuto qualche altra seduta spiritica in questi giorni?».

«No!» esclamò l'ometto.

«Perché?».

«Oh! Non sempre si tengono, le sedute… I soci vanno a periodi… Il Circolo serve più di ritrovo per discussioni, lettura delle riviste e dei libri, che altro».

«Oppure lei mi nasconde la vera ragione?».

Chirico si tolse il cappello, si passò una mano sulla testa rasa, dai capelli corti, duri come i peli d'una spazzola.

«Quale?».

«La profezia della medium…».

«Naturalmente, son cose che impressinano…».

«Sa che ho parlato di nuovo con la signora Sorbelli?».

«Ah!».

«Mi ha promesso di tenere una seduta per me. Mi interesso di spiritismo, adesso… Forse, è stato lei a indurmici, convincendomi che attorno a noi vive tutto un mondo, che non conosciamo…».

Chirico lo guardava con diffidenza. Che si facesse giuoco di lui non lo pensava; sentiva invece che aveva un progetto ben definito, uno scopo da raggiungere.

Dove voleva arrivare?

«È un temperamento sensibilissimo, quella signora… Troppo, persino!».

«Desidero che partecipi anche lei, signor Chirico, alla seduta…».

Gli si avvicinò. Gli mise una mano sulla spalla.

«Potremo tenerla nella sede del Circolo}».

«Dipende dal Presidente…».

«O dal segretario? Il segretario è lei! Bisogna farla in quel luogo, signor Chirico. È indispensabile».

«Quando?» mormorò l'ometto, oramai convinto che non gli sarebbe stato possibile sottrarsi. Furbo come era, capiva che De Vincenzi era venuto da lui, soltanto per parlargli di quella seduta. Ma che cosa aveva nella mente? Quale tranello voleva tendere a lui o ad altri?

«Glielo farò sapere domani. Forse, dovremo tenerla domani sera. Certo, prima di lunedì…».

«Domani è domenica».

«Oh! Le telefonerei a casa… Ma potremo anche fissare la seduta per lunedì alle nove… Lunedì not te fanno gli otto giorni che il senatore Magni è stato ucciso».

Chirico ebbe un fremito e fissò il commissario con terrore.

«Che vuol fare?».

«Nulla!».

«Verrà davvero la signora Sorbelli?».

«Certamente!».

«Oh! No!».

«Sicuro! Ma lei crede proprio che i morti tornino?».

L'altro era livido e non rispose.

De Vincenzi si mise a osservare il posto di dove era stato tolto il volume rubato. Se avesse potuto vedere la mano, che si era protesa a prenderlo! Ma lui la vedeva quella mano, bianca, affusolata, vibrante, la mano di un uomo nervoso e sensibile, perché era convinto che doveva essere stato il senatore a togliere quel volume dal suo posto! Ma da che cosa derivasse in lui quella convinzione non avrebbe saputo dire.

Tornarono in negozio. I due clienti non si erano mossi. Gualmo scrutò il commissario. Poi vide il pallore cadaverico di Chirico e gli occhi gli si allargarono ancora di più.

«Inviteremo anche il signor Pietrosanto!» disse, senza sorridere, De Vincenzi. «Siamo intesi».

«Invitar me? A che cosa? Dove?».

«Lo saprà lunedì».

E uscì dal negozio, ripetendo a Chirico: «Siamo intesi, eh?».

L'ometto gli corse dietro, lo raggiunse sul marciapie de e dovette afferrarlo per un lembo del soprabito, perché si fermasse e gli desse ascolto.

«Chi altro parteciperà alla seduta?».

«Glielo farò sapere lunedì. Agli inviti penserò io».

«Ah!» riuscì a proferire il pover uomo e se ne tornò in negozio con un peso sulle spalle, che lo schiacciava.

De Vincenzi prese un tassi in piazza del Verziere, proprio a quel posteggio dove la notte di martedì, quattro giorni prima s'era separato dal dottor Marini, dopo aver passeggiato con lui per un paio d'ore.

«Corso Plebisciti» disse, all'autista, salendo.

Aveva dato l'indirizzo, quasi spintovi da una forza superiore alla sua ragione. Eppure, soltanto la ragione avrebbe dovuto dettarglielo. Egli non poteva, ormai, fare altrimenti.

Quando furono in corso Plebisciti, fece fermare la macchina davanti al numero 17.

Una casa enorme, simile a tutte le altre, che la precedevano e la seguivano. Un portone con un po' di verde nel fondo, tra il biancore del vasto cortile, che s'apriva su altre facciate di case interne, diverse per colore e forma dal corpo principale.

Nella portineria, nessuno. In mezzo al cortile, curvo sopra una aiuola senza fiori, a toglier la paglia di torno a una palma, che l'imminenza dell'aprile liberava dal suo riparo invernale, era un uomo con una specie di spolverina nera, lucida, che gli arrivava quasi ai talloni.

De Vincenzi avanzò e i suoi passi, scricchiolarono sulla ghiaia. L'uomo si raddrizzò, voltandosi. Ancora ave va le mani piene di paglia lunga e nerastra. Due occhi nerissimi in un volto abbronzato, magro sino ad aver la pelle tesa sulle mandibole e sui pomelli sporgenti. «Desidera?». «Un'informazione». «Non c'è mia moglie in portineria?». «Non c'è».

«Starà preparando da mangiare…». Il portinaio gettò la paglia sulla terra nuda e soda dell'aiuola, battè le palme una contro l'altra, se le fregò ai lembi della spolverina. «Di che si tratta?». «Voi siete il portinaio?». «Sì. Ma lei chi è?».

«Se vi chiedo un'informazione confidenziale, saprete tacere d'avermela data?». L'uomo ebbe un gesto.

«Degli inquilini io non so nulla. Né del loro denaro… Non si guarda nelle tasche di nessuno noi!… Non conosco le rendite e i guadagni… Da me lei non potrà tirar fuori proprio niente». Il commissario sorrise. «Non sono un agente delle tasse!». L'altro alzò le spalle.

«Ne vengono sempre. Che cosa vuole, allora?». «Ho bisogno di sapere dove si trova… in campagna… la moglie del dottore Marini. Il suo indirizzo, insomma». L'indifferenza un poco sdegnosa del portinaio si fece ironica. «Lo chieda al marito!».

Lo guardava con sospetto. Gli occhi neri avevano lampi di malizia.

De Vincenzi non voleva dire chi fosse. Con quella sua bonarietà espansiva e cordiale, il dottor Marini doveva essersi guadagnata certo la confidenza dei propri portinai. O quell'uomo o sua moglie glielo avrebbero riferito. E lui a ogni costo non lo voleva. Meglio era passare per un innamorato da marciapiede, per uno sfaccendato, che corre dietro all'avventura.

«Eh! Già…» disse, sorridendo con un impaccio pieno di sottintesi. «È proprio al marito che non voglio chiederlo».

Trasse dal taschino una moneta da venti lire e la tenne fra le dita.

«Nessuno saprà che siete stato voi a dirmelo».

L'uomo guardò la moneta e si passò di nuovo le palme sui fianchi e sul petto, per pulirsele.

«Sono le sette passate… è l'ora in cui il dottore torna per la cena…».

«Chi c'è in casa?».

«La domestica… La cameriera è andata via con la padrona…».

Abbassò la voce: «Sono andate a Pegli… Villa Doria…».

E tese la mano, con un movimento furtivo, guardandosi attorno.

Il pezzo d'argento scomparve nella tasca del panciotto, sotto la spolverina lucida.

De Vincenzi uscì e discese lentamente corso Plebisciti e poi i viali alberati di corso Indipendenza.

Pegli, Villa Doria. Sarebbe partito alle 21 per Genova, dove avrebbe dormito. Poteva essere di ritorno a Milano alle 14 del giorno dopo, che era domenica. Aveva ancora più di ventiquattr'ore per preparare la «seduta» di lunedì sera.

Quello era un tentativo disperato. Avrebbe dato gli effetti che avrebbe dati. Ma non gli rimaneva altro da fare. Prove? Dove trovare le prove? Aveva lavorato soltanto sopra indizii apparenti. Ecco: su nient'altro che sulle apparenze psicologiche. E l'anima umana ha così strani e tortuosi e profondi meandri in cui nascondersi!

Lui aveva realmente paura di concretare a parole, anche soltanto dentro di sé, la teoria che s'era formata.

Dacché, nel suo spirito una teoria si era andata concretando. Oscuramente egli sentiva dove si trovava la spiegazione del mistero. Ma gli mancavano troppi dati, troppi anelli di congiunzione, per poter concludere e per potere agire sulla base delle proprie conclusioni.

Eppure, agire doveva. Gli otto giorni chiesti al Questore e al giudice sarebbero terminati martedì prossimo. Quarantott'ore di tempo. Credere - come per altri delitti era accaduto - che il delinquente si tradisse con qualche azione imprudente o disperata non doveva neppure sperarlo. L'autore di quei due assassinii aveva una completa padronanza di se stesso e dominava l'ambiente nel quale si muoveva con assoluta sicurezza a quel modo con cui, forse, aveva dominato la stessa vittima, quando l'aveva condotta a morire nel negozio del libraio.

De Vincenzi camminava sotto gli alberi, in mezzo a uno dei viali paralleli, fra due linee di panche, sulle quali sedevano mamme e governanti, balie e domestiche. Le panche si andavano vuotando. Attorno a lui era uno sciamare di bimbi, che correvano, spronati dalla voce delle accompagnatrici.

Il giorno moriva con la rapidità dell'agonia crepuscolare, che precipita i suoi ultimi istanti, in un bagliore terso e diafano.

In lontananza, dietro alla città, al di sopra dell'aureola di San Francesco - il santo d'Assisi, che si eleva sottile e stilizzato come un volo di rondini, tutto purità, slancio, passione consumatrice, in mezzo a piazza Risorgimento - ancora gli ultimi raggi del sole tingevano il cielo di rosso.

De Vincenzi dimenticò se stesso, il mistero di quel delitto, il suo intimo martirio d'indagine.

Non fu più e soltanto che una creatura umana in perfetta comunione con la Natura, sotto quegli alberi verdi, tra quell'infanzia garrula, col volto che guardava al cielo. E a un tratto si sentì solo, unico, avulso da tutti gli altri esseri e dalla terra. Fu una sensazione incomparabile, prodotta forse in lui dalla lunga tensione nervosa di quei giorni.

Le tenebre e poi la luce delle lampade lo richiamarono alla realtà. Prese un tranvai della circonvallazione che lo portò, dopo un giro interminabile, a casa sua, al Sempione. Aveva deciso di partire nelle prime ore del mattino. Sapeva che c'era un treno alle quattro. Prima delle otto sarebbe stato a Genova e dopo mezz'ora a Pegli.

Scese alla fiorita stazione di Pegli, alle otto e mezzo del mattino, dopo circa quattro ore di viaggio, fatto da solo coi suoi pensieri in uno scompartimento di seconda classe.

Aveva già veduto il mare dal finestrino del treno, prima di arrivare a Genova. E, sulla Riviera, trovò la luminosità calda della primavera in isboccio.

Ma una sottile angoscia gli stringeva la gola per quell'incontro imminente con una donna, che non conosceva e che pure continuava a vedere viva davanti a sé, con quel suo volto regolare, a cui soltanto i pomelli leggermente salienti davano espressione. Le ciglia depilate e disegnate a matita… i capelli ariosi, tagliati corti… un sorriso di felicità sui denti perlacei… E tutti i pomeriggi o quasi, fino a otto giorni prima, quella donna era solita entrare nell'appartamento di via Abbondio Sangiorgio e sedere sul divano di velluto nero…

Che cosa le avrebbe detto?

E, se non fosse stata lei, la moglie del dottor Marini, a essere l'amante del senatore? Perché, insomma, lui non aveva nessuna ragione specifica, nessuna prova, per crederlo.

Quando l'autista gli disse che ogni volta ella scendeva dall'auto sul piazzale Tonoli e si avviava pel viale dei Mille, egli aveva avuto la rivelazione improvvisa di quella che ritenne subito una verità. Ma, se la sua intuizione fosse stata errata? Viale dei Mille conduce a corso Plebisciti, ma conduce anche altrove…

«Villa Doria?» chiese all'unico facchino, che stava inaffiando le aiuole, al sommo della scala, davanti agli uffici della stazione.

«Non può sbagliare. Appena fuori, volti a destra e vada diritto. Passato il cavalcavia, in fondo al viale, troverà un grande cancello… Quella è Villa Doria…».

«Grazie» e si avviò.

«Entri nel parco, sa? La villa si trova nell'interno… Domandi al custode».

Il parco era immenso. In fondo, tra gli alberi, si vedeva un grande caseggiato bianco, con le finestre verdi. Una villa principesca. Possibile, che la moglie del dottore abitasse lì dentro?

«Ah! Quella signora milanese, che è arrivata da due giorni con la cameriera! Hanno preso in affitto il padiglione interno… Deve salire… Passi accosto alla villa principale… troverà un sentiero… E poi non può sbagliare, perché il padiglione sta a mezza costa e lo vedrà subito dal basso».

Era il vecchio padiglione da caccia della villa dei Doria. Lo vide, infatti, a due piani, dipinto in rosso mattone, con davanti un giardino a terrazza.

A mano a mano che saliva, lui lo distingueva sempre più chiaramente, senza essere a sua volta veduto dall'alto, perché il sentiero saliva incassato fra due siepi, tutto buche e franamenti.

Le finestre della facciata erano spalancate. Il sole sommergeva la casa.

Sulla ringhiera di un balcone, vide il bianco delle lenzuola e le coperte di un letto appena disfatto.

Quando fu proprio sotto la terrazza, mentre continuava a salire, potè dare un'occhiata al giardino, attraverso le sbarre della balconata di ferro, che lo circondava. E scorse una donna in vestaglia azzurra, distesa sopra una seggiola a sdraio, col viso rivolto verso il mare. Fu una visione rapida, di cui trattenne nella memoria due piedini nudi, che si agitavano dentro le babbucce, e una massa di capelli biondi rovesciata contro la spalliera.

Si trovò in un ripiano, su cui si mostrava la facciata laterale del padiglione con una piccola porta rialzata da tre gradini e alla sinistra, in angolo, il cancello della terrazza fiorita.

Si fermò, esitante. Doveva suonare alla porta o varcare il cancello, che era semiaperto?

Si decise e lo spinse, avanzando sul vialetto ghiaiato, tra la facciata principale e un'aiuola di rose.

La donna si trovava proprio al limite della terrazza–giardino, davanti alla ringhiera e gli voltava le spalle. Vide di nuovo il gran fulgore dei capelli dorati, che il sole incendiava.

Davanti, in lontananza, oltre il paese e la spiaggia, la distesa marina.

Cercò di fare il maggior rumore possibile, strisciando coi piedi sulla ghiaia.

«Chi è?» pronunciò stancamente una voce dolce, leggermente trepida, ma la donna non si volse.

«Mi perdoni…» disse De Vincenzi.

«Chi è?» ripetè la voce.

«La signora Marini?».

«Sono io. Avanti… Venga avanti…».

S'era voltata e lo guardava con indifferenza.

Non si era ingannato! La donna del ritratto gli stava dinanzi. Più bella della fotografia, il suo sguardo appariva leggermente atono, quasi smarrito. Doveva aver pianto di recente, perché aveva ancora gli occhi umidi, dolci, come macerati dalle lacrime.

«Che vuole?».

De Vincenzi sentì che non avrebbe mai osato dire a quella donna chi egli fosse e quale compito avesse. Il solo annunzio della sua qualità l'avrebbe fatta crollare. Ne era certo. Doveva mentire. Tutta una storia da inventare in dieci secondi. Non aveva altro modo, se non voleva che il tentativo fallisse.

«Mi deve perdonare, signora!… Vengo da Milano… Debbo parlarle… Sono… cioè ero un amico del povero senatore Magni…».

La donna balzò in piedi. Gli occhi le si fecero duri, foschi. Un leggero fremito la percosse visibilmente.

Le labbra le apparvero esangui sul volto trascolorato e lei le agitò per parlare, ma non ne uscì suono.

«Si calmi, signora. Sono un amico».

La donna sedette di nuovo, ma senza più distendersi. Di fianco alla sua poltrona si trovava un seggiolino portatile di tela e con la mano lei lo indicò a De Vincenzi, che vi sedette, mormorando: «Grazie!».

Seguì un lungo silenzio.

Il mare, davanti, sembrava una immensa lastra d'acciaio splendente.

Subito ai piedi della terrazza, che strapiombava d'una ventina di metri, si stendevano i pini della villa; gran di pini mediterranei, che al sommo dell'altissimo tronco s'aprivano a ombrella.

Un'immobilità quasi magica teneva tutte le cose.

Dietro di essi, la villa era silenziosa.

«Perché è venuto?» mormorò finalmente la donna, senza guardarlo.

«Sì… perché sono venuto?… E molto difficile a dirsi… Ero un amico di Magni… Sono stato a scuola e poi all'Università con lui e con suo marito… Col dottor Marini ci siamo perduti di vista… Non c'era amicizia tra noi… Ma con Ugo, no. Ugo mi confidava tutto. Ricorreva a me, in ogni caso difficile o soltanto fastidioso. Non aveva segreti per me».

La donna lo fissò. Ritrovava un po' della sua forza. Il pallore del volto diminuiva.

«Che cosa vuol dire?».

«Ch'egli mi aveva condotto nell'appartamento di via Abbondio Sangiorgio…».

«Perché viene da me?».

Gli occhi le sfavillavano.

«Perché l'ho ritenuto mio dovere, doloroso, amaro; ma insfuggibile…».

Esitò.

«Continui!» ordinò lei.

«In quell'appartamento c'è un ritratto… Se qualcuno non lo toglie a tempo, cadrà nelle mani della vedova…».

«Che m'importa?».

Disse la frase d'impeto, con profonda sincerità. Sembrava che nulla più avesse valore per lei! Tanto, dunque, l'aveva amato? Soltanto quello era il suo dramma?

«Anche suo marito, presto o tardi, può vedere quel ritratto. Dati i rapporti di amicizia, che aveva col povero morto, egli certamente assisterà la vedova nelle pratiche per l'eredità…».

La donna non rispose; ma il volto di lei espresse un profondo sdegno, quasi una sfida sarcastica.

«Questo è tutto quel che lei ha da dirmi?».

«E lei? Io ero venuto a mettermi a sua disposizione! Ho pensato che ella potesse aver bisogno di un confidente sicuro e devoto…».

«Le ho detto che non m'importa! Il passato si è chiuso così tragicamente, per me, che tutto quanto può accadere non ha importanza. Mi dispiace che si sia incomodato a venire fin qui».

«E se le dicessi che l'ho fatto anche per un'altra ragione?».

«Quale?» la voce era tornata dura, tagliente.

«Per proporle di allearsi a me, in un'opera che io ritengo doverosa, come un debito sacro da assolvere… Vendicare Magni!».

La donna tornò ad alzarsi, forse per celare il turbamento. De Vincenzi la imitò. Lei lo guardava negli occhi. Se anche le parole di lui l'avevano turbata, adesso si era rimessa.

«Come vuole vendicarlo?».

«Cooperando con le autorità a scoprire l'assassino».

«Come potrebbe farlo, lei? E come io potrei aiutarla?».

«Lei, signora, deve saper tutto di Magni… Assai più di me, certamente. Forse, può fornire un indizio capi tale. Egli può… deve essersi confidato a lei… Averle detto se aveva nemici… se li temeva… se ha sentito avvicinarsi il pericolo».

La donna scosse la testa.

«Non mi ha detto nulla di tutto questo. Certo non sapeva di essere minacciato».

«E lei?».

«Io?».

«Lei non ha mai avuto l'impressione che potesse esserlo… che lo fosse?».

«È ridicolo chiedermelo! Se avessi avuto una tale impressione, lo avrei avvertito… lo avrei difeso!».

«E suo marito?».

«Che c'entra mio marito?» esclamò la donna e ancora una volta la sua voce suonò piena di sarcasmo sprezzante.

«Suo marito era amico del senatore. Frequentava assiduamente la casa di lui… Può sapere qualcosa… può avere formulato qualche ipotesi… che non ha detto ad altri, ma che potrebbe aver confidata a lei, sua moglie…».

«No. Non lo ha fatto. Del resto, io sono sofferente da varii giorni… e l'ho lasciato quasi subito… dopo la tragedia… per venir qui».

«Capisco! Mi perdoni…».

Lei chinò la testa, per congedarlo. Evidentemente si era alzata, per fargli intendere che il colloquio doveva terminare.

Ma lui non si mosse. Sembrava assorto. Mormorò: «Uno strano… Un inspiegabile delitto…».

Alzò gli occhi per fissarla. La donna continuava a tacere.

«Non un delitto di teppa… Non gli hanno rubato nulla… Una vendetta, certo!… E lo hanno colpito alle spalle…».

Fece una pausa. Gli occhi di lei rimanevano inespressivi. Non avevano neppur più quei loro lampi terrorizzati.

«… E perché proprio in una libreria? Giacché poi qualcosa hanno effettivamente rubato… Un libro da uno scaffale… Un libro capisce?… Ci sarebbe da credere che abbiano ucciso per quel libro…».

Adesso, la donna lo guardava con concentrazione, come se si sforzasse di capire. Una domanda le salì alle labbra, ma non la formulò.

«Ed era un libro d'amore osceno… un libello infamante… La Zaffetta attribuita a Pietro Aretino…».

Non terminò. La donna era caduta di schianto, lunga distesa in terra, con la testa tra il verde di un'aiuola e il corpo sulla ghiaia.