Capitolo VI

«Un vittorioso, un fortunato della vita»

De Vincenzi camminava in fretta e il dottor Marini gli si teneva al fianco. I due uomini tacevano.

De Vincenzi pensava a Patt Drury. Strana creatura! Certo, sapeva più di quanto non volesse dire. Certo, qualcosa doveva essere accaduto alla vigilia o durante la notte, che la ragazza non ignorava e che conosciuto da lui avrebbe contribuito a fargli spiegare il mistero. Ed era egualmente certo che tra lei e il dottor Verga esistevano rapporti di simpatia, forse d'amore, forse intimi addirittura. Innamorati, fidanzati, amanti? Ma da tutte queste certezze dedurre che fossero complici e che quel giovanotto avesse ucciso il senatore Magni ci correva. Strano individuo umano anche lui! Era entrato visibilmente sconvolto e poi, non appena aveva saputo di trovarsi di fronte a un funzionario della Questura, s'era dominato al punto da apparire indifferente e sarcastico. Che cosa temeva al principio? Che cosa temette poi, quando seppe che il senatore era stato assassinato?

Abile nel fingere, lo faceva sempre fuori tempo. Assai più padrona di se stessa, l'americana con tutta la sua freddezza ostentata, il suo cinismo ambiguo, la sua impertinente spregiudicatezza.

E quella cameriera, che alla notizia della morte - notizia sorpresa, con l'ascoltare all'uscio, il che doveva far supporre ch'ella di qualcosa dubitasse - cadeva a terra come uno straccio!

E la moglie del senatore, che viveva con la sua angoscia chiusa in cuore, mentendo per dissimularla!

Tante persone, tanti enigmi e tutti punti del mistero. Che uomo era, dunque, il morto, per aver saputo creare attorno a sé un ambiente simile di tensione morbosa, di sotterfugio e d'intrigo?

De Vincenzi si volse verso l'amico del defunto, che aveva voluto accompagnarlo e che adesso gli camminava al fianco, pensieroso in apparenza, ma evidentemente pronto a parlare dell'assassinato e ansioso di aver notizie, di conoscere particolari.

«Povero Ugo!» mormorò quello, quando si vide osservato. «È terribile!».

De Vincenzi assentì col capo e rallentò il passo.

«Mi parli del senatore, lei che gli era amico…».

«Oh! Ugo era un fortunato nella vita, un vittorioso. Vittorioso in tutto quel che intraprendeva, nella sua scienza come in politica, al tempo in cui si occupava di politica. Sulle donne e sugli uomini esercitava un vero fascino, quasi una suggestione. In amore poi non gli conosco disfatte. Le donne lo amavano…».

Non c'era invidia o amarezza nelle parole di lui, ma più tosto ammirazione.

«Aveva nemici?».

«Nemici?… Non so. Può darsi. Certo, non si passa nella vita con una tal pienezza esuberante di passione e di energia, con una tal sicurezza di se stessi, senza destare invidie e gelosie. Ma io non gli conosco nemici…».

Sembrò riflettere e poi ripetè, come a se stesso: «No, proprio non saprei vedere chi possa averlo odiato al punto di ucciderlo».

Fissò il commissario: «Ma perché lei s'informa di tutto questo? Non è stato un delitto volgare? Non lo hanno ucciso per derubarlo?…».

De Vincenzi gli rispose, sorvolando: «No, non sembra un delitto di teppa. Nulla è stato rubato di dosso al cadavere… E lei è stato compagno di studi del senatore?».

«Sì. Siamo stati in collegio assieme. Oh! Anche allora, Ugo era un vittorioso. Sempre il primo a scuola, il più intelligente, il più forte, il più agile di tutti noi… E tutte le alunne esterne della classe ne andavano pazze. Lo chiamavano il bell'Ugo e si mettevano a rischio d'esser sorprese dai professori, tanto diventavano imprudenti, quando si trattava di passargli qualche bigliettino… Ricordo! Un giorno…». Il commissario lo interruppe. «Ma la moglie?!».

«Che cosa vuol dire?» fece subito il dottor Marini,' sollevando le sopracciglia.

«La tradiva?».

«Bah!… Senza dubbio, la tradiva. Ma era sempre pieno di premure per lei… corretto e deferente».

«E la signora?».

«Come?».

«La signora lo sapeva che la tradiva?».

«Ah!…».

Fece qualche passo più in fretta, quasi volesse dissimulare le reazioni esteriori, che quella domanda gli produceva.

De Vincenzi affrettò il passo anche lui.

«Ha ragione di correre! Anch'io ho fretta».

«Va in Questura?».

«No».

«Allora, non vuol confidarmi qualche particolare?…».

«Vorrebbe vedere il suo amico?».

«Certo!… Se è necessario… a ben pensarci, no, preferisco non vederlo. Non potrei più far nulla per lui e ne riceverei un'impressione troppo forte. Mia moglie me lo rimprovererebbe, ella sa quanto ero affezionato a Magni».

«Ha moglie, lei?».

«Sì».

«Io la lascio. Debbo andare. Ma la prego di passare nel mio ufficio a San Fedele, oggi nel pomeriggio».

«Sta bene».

Il commissario gli tese la mano.

«A rivederla. E sappia che conto molto sul suo aiuto, per trovare l'assassino del senatore».

«Oh! Ci conti! Quanto è umanamente possibile… Ma io, sa?, se avevo molta dimestichezza con Ugo, ero ben lontano dal conoscere i particolari della sua vita intima e tanto meno i suoi segreti… Ci vedevamo spesso, in questi ultimi tempi, perché avevamo trovato un me dium molto interessante e le sedute erano frequenti…».

Il commissario, che stava per allontanarsi, si fermò di colpo.

«Un medium?… Le sedute?…». «Ah! Non lo sa?… Non sa che il professor Magni era un fervente spiritista, come me, del resto?».

«E chi vuole che me lo abbia detto?». «Credevo lo sapesse. La cosa è nota. Ugo non faceva mistero di tale sua convinzione… Ha anche scritto di spiritismo su riviste scientifiche ed era socio del Circolo di Studi Psichici di via Broletto… Anch'io lo sono…».

«E queste sedute?». Il dottor Marini sorrise.

«Che cosa crede? Lei pensa già a fantasmi bianchi, ad apparizioni di defunti, a teschi, a ossa da morto che danzano e a tutto il ciarpame romantico delle leggende…».

«Io non penso a nulla!» lo interruppe bruscamente il commissario. «Ma ne parleremo oggi. Grazie, intanto».

E s'allontanò. Quando fu all'angolo di via Cesare Battisti con via Corridoni, voltando a destra, guardò dietro di sé e vide il dottore che si era fermato e lo seguiva con lo sguardo.

Un altro anello della catena anche lui! pensò De Vincenzi, mentre raggiungeva più in fretta possibile il negozio e sorrise dentro di sé, perché infatti anche in una seduta spiritica si forma la catena… A ogni modo, quell'amico ambiguamente sfuggevole gli aveva dato qualche particolare di gran conto e la storia delle sedute spiritiche era da ricordare. Ma si poteva supporre e ammettere che il senatore rincasasse tardi alla notte e talvolta non rincasasse affatto, perché trascorreva le nottate al Circolo di Studi Psichici? Questo era un particolare facilmente controllabile, del resto, ma se lui era rimasto colpito dal fatto delle pratiche spiritiche, doveva riconoscere con se stesso che era proprio per quel tanto di misterioso e di allucinante, che quelle pratiche hanno agli occhi dei profani. E, per quanto egli non fosse del tutto un profano, perché già si era occupato - soltanto sui libri naturalmente - di magia e di spiritismo, aveva avuto sempre un senso di pavido stupore dinanzi a coloro che praticano i riti magici o tentano di materializzare e d'interrogare le forze oscure dell'aldilà.

Un fatto appariva innegabile: la filosofia occulta era stata la nutrice e la madrina di tutte le religioni, la leva segreta di quasi tutte le forze intellettuali, la chiave di ogni mistero divino, la dominatrice di gran numero di esseri umani…

Ricordò la Profezia d'Ezechiele e l'Apocalisse, che l'infallibile Chiesa Cristiana non aveva neppur tentato di spiegare… Ma qui non si trattava ancora di magia, per buona fortuna! Se mai, di qualcosa di simile alle esperienze dei coniugi Taylor, di cui aveva letto la descrizione su di una rivista di studi psichici, che un giorno gli era capitata per caso nelle mani.

Era così immerso in tali pensieri che si trovò senza ac corgersene davanti alla bottega del libraio, in mezzo alla gente, ancora ferma nella strada a commentare. Diede una crollata di spalle e si fece largo fra i curiosi. Appena dentro, vide l'impiegato della libreria, che, salito su di una scala, passava in rivista le più alte file dei libri, sotto il soffitto. Giovanni stava appoggiato al bancone e Cruni s'era seduto dinanzi alla porta di fondo e fumava. Quando vide il commissario, il brigadiere si alzò. «E così?».

«E venuto il giudice, ha dato il nulla osta e io ho fatto subito portar via il cadavere. Ho raccomandato di metter da parte i vestiti, senza scuoterli, perché lei potesse esaminarli…».

«Hai fatto bene…».

De Vincenzi gli dava del tu, come faceva sempre quando era assorto o quando aveva da agire in fretta.

«E che cosa ha detto il giudice?».

«Che se la sbrighi lei e lo informi». «Ha interrogato qualcuno?».

Dall'alto della scala, si sentì la voce di Pietrosanto, stranamente lamentosa, quasi venata di pianto: «Ha interrogato me. Voleva sapere perché non avevo chiuso la porta del cortile, ieri sera… Ma io l'avevo chiusa o per lo meno mi ero informato, nell'uscire, se era chiusa. Di solito la chiude il signor Chirico, quando fa il giro delle stanze, per vedere se tutte le luci sono spente…».

«A proposito, quando viene questo vostro signor Chirico? Ha il telefono a casa? Lei gli ha telefonato?».

«Io? Nooo!… Oh! Come facevo a dirgli per telefono che c'era un cadavere in negozio?».

«Beh! Poteva dirgli che era necessaria la sua presenza e null'altro…».

«Già. Non ci ho pensato. Che vuole? Lei sarà abituato ai cadaveri, lei! Io no e ne sono ancora sconvolto… Ma che le pare uno scherzo da niente questo qui?…».

Continuava a parlare dal sommo della scala e De Vincenzi lo guardava dal basso, senza riuscire a trattenere un sorriso divertito. Era comico, povero uomo e non si poteva davvero fargliene colpa! Teneva ancora il cappello in testa e certo s'era rifugiato là in alto, per aver l'aria di far qualcosa.

«Che cosa fa, lassù? Venga qui…».

«Subito, signor commissario».

E scese così in fretta, che a momenti cadeva.

«Stia attento!».

«Oh! Che crede che sia finita per me? Quando le disgrazie cominciano…».

«Si metta a sedere… Anzi, no. Venga di là con me…».

L'altro ebbe un sussulto.

«Ha paura?».

«Paura? No!».

Ma s'era sbiancato. De Vincenzi lo guardava con simpatia. Un uomo intelligente doveva essere e col to. Si vedeva che in quel negozio, tra quei libri pol verosi, accatastati in disordine, rovesciati per terra, gettati dovunque, lui ci pativa, abituato al suo nego zio d'un tempo, dove si davano convegno i letterati e gli studiosi più noti, con le loro mogli e le loro amanti in pelliccia.

«Paura, no. Non credo. Ma certo mi fa impressione andar di là e non so neppure se riuscirò a rimanere nella libreria, dopo quanto è successo… È vero che non vedo come mia moglie e io mangeremmo, se me ne andassi!…».

«Ebbene, rimanga pure qui. Andrò io solo».

E Pietrosanto, senza farselo ripetere, chiuse la scala, e tornò a sedere davanti alle schede del catalogo.

De Vincenzi infilò il corridoio, e si trovò ancora nel mezzo di quelle tre stanzette.

Il cadavere, adesso, non c'era più. Per terra si vedeva la striscia lasciata sulla polvere dal corpo trascinato. De Vincenzi si chinò a osservare quella traccia e notò subito una particolarità strana: la striscia non era unita, continua, come senza dubbio sarebbe apparsa, se fosse stato il corpo del morto a segnarla. In due punti essa s'interrompeva e il pavimento appariva coperto di polvere non toccata.

Osservò meglio e vide che era proprio così: in quei due punti, il corpo non aveva strisciato sulla polvere. Alzò il capo e si guardò attorno. Era perplesso. Se avessero trascinato un corpo inerte, non era assolutamente possibile che esso avesse lasciato dietro di sé tracce di quella sorta. De Vincenzi guardò in terra, come se volesse trovarvi la spiegazione del mistero. Libri, riviste, giornali, qualche foglio di carta da imballo, funicelle, chiodi e polvere… Sotto un bancone, addossato al muro della stanzetta di destra, vide un sacco. Senza saper chiaramente neppur lui perché lo facesse, si chinò a osservarlo, lo sollevò, prendendolo con due dita. Nella parte che toccava il pavimento era sporco di polvere, ma sporco in una forma strana, come se se ne fossero serviti di proposito per raccoglier la polvere dal terreno. Il commissario andò verso il corridoio e chiamò: «Giovanni!».

Di corsa, muovendosi a quel suo modo disordinato di ragazzo cresciuto in fretta, Giovanni arrivò e, quando De Vincenzi gli ebbe indicato il sacco, rispose subito: «No, non era lì. È il sacco che serve a trasportar via la cartaccia. Non me ne sono mai servito per levar la polvere».

«E dov'era?».

«Nella stanza di fondo, sopra una cassa».

«Ho capito» fece De Vincenzi.

E aveva capito, infatti, che quello doveva essere un elemento essenziale alla spiegazione del mistero.

Il delinquente con cui aveva da fare era d'indiscutibile abilità.

Tornò in negozio e chiese a Pietrosanto: «Lei è sicuro che il senatore Magni non fosse un frequentatore del negozio, un cliente, insomma?».

«Sicurissimo. Sono qui da due anni e non l'ho mai veduto entrare da quella porta. Ho detto di conoscerlo, perché era una figura nota a Milano… Ma adesso sono certo di non avergli mai parlato……

«Uhm!» fece il commissario e sedette sul bancone tra i libri.

Era assorto.

Pietrosanto lo fissò trasecolato: non aveva ancora veduto nessuno sedersi sul bancone sacro ai libri.

De Vincenzi faceva il punto.

Un delinquente di gran classe, indubbiamente! Uno spirito diabolico, acuto e non privo di eleganza mentale. Tutti i particolari di quel delitto si presentavano con una linea prestabilita e meditata.

Fissò questi particolari, ricapitolandoli nel cervello, perché lui non prendeva mai appunti scritti.

- Al cadavere mancava il cappello; - nulla gli era stato rubato; - la striscia sulla polvere presentava due soluzioni di continuità; - i ferri chirurgici e il camice del professore (quegli oggetti appartenevano poi realmente al senatore Magni? Ecco un punto da assodare) erano stati lasciati sui gradini di una chiesa, ravvolti in un giornale con la lettera: «Prego consegnare alla Questura»; - il professore praticava lo spiritismo; - il professore aveva una o più amanti.

Certo, altri fatti gli erano apparsi, ma per ora eran questi che occorreva tener nettamente in primo piano.

E poi c'era la telefonata della donna, che non gli riusciva di dimenticare e che si ostinava, per un oscuro presentimento, a connettere col delitto…

Le sue riflessioni furono interrotte da Gualtiero Gerolamo che, alzatosi dal tavolo, gli si era andato a mettere accosto, senza che lui lo avesse inteso. Una delle specialità dell'ottimo Gualmo era quella di cammina re come un gatto, a passi di velluto. De Vincenzi, nel vederselo davanti, sussultò: «Eh! Che vuole, lei?!».

«Dicevo…» proferì timidamente il pover'uomo. Il commissario gli scoppiò a ridere in faccia. Interdetto, l'altro s'interruppe. «Ride?».

«Ma sì… Lei porta sempre il cappello in testa, qui dentro?».

Pietrosanto esclamò: «Ah!» e se lo tolse in fretta. «Che vuole? Non capisco più niente, stamane!». «Che cosa diceva?».

«Ecco… Debbo… dovrei andare di là, a prendere un volume…».

«Ebbene, ci vada».

«Già… Ma la pregherei di farmi accompagnare dal suo… da…» e indicava Cruni, che si teneva in un angolo.

«Verrò io con lei…» disse il commissario, senza ridere più.

Nel retrobottega, Pietrosanto si mise a cercare, nelle scansie. A un tratto, lanciò un piccolo grido: «Ah! Guardi qui commissario!». «Che cosa c'è?».

«Dica che cosa non c'è più! Manca un libro…». «Come?».

«Iersera qui c'era un volume, che adesso non c'è più». «Vuol dire che l'hanno rubato?». «Non so. Il fatto è che è sparito…». «Era un volume raro? Di gran prezzo?».

«Di gran prezzo? Oh! Per i prezzi correnti, certo che era di gran prezzo. Vede? In questo scaffale non ci sono che libri rari, quei volumi che noi mostriamo soltanto ai bibliofili qualificati, ai clienti che possono spendere… Prezzo?… Sicuro… Forse duemila lire, forse più… Non posso dirglielo ancora, perché non so quale sia il volume che manca; ma glielo dirò». «Bravo!… Me lo sappia dire con precisione». E De Vincenzi si avviò verso il negozio. Mancava un volume! Che fosse raro o meno, per lui, ai fini dell'inchiesta, non importava.

Era presumibile che l'assassino, il quale non aveva tolto di dosso al cadavere neppure un centesimo, né un gioiello, né altro di valore, avesse poi rubato un libro? Per raro che fosse, era difficilmente convertibile in denaro. E ad ogni modo, perché prendere un oggetto, che poteva denunziare colui o coloro che avessero tentato di esitarlo, quando vi erano lì, a portata di mano, tremila e più lire, che nessuno avrebbe potuto riconoscere come appartenenti al morto?

Quando furono in negozio, Pietrosanto cominciò a compulsar febbrilmente schede ed elenchi, per trovare quale volume mancasse dalla scansia dei libri rari.

De Vincenzi si mise a sfogliare un grosso atlante. Cruni taceva sempre, abituato, ormai, a quelle lunghe attese che, per chiunque altro meno dotato di paziente abulia, sarebbero state snervanti. Giovanni si tirava le dita e ogni tanto si sentiva il rumore caratteristico dei tendini accavallati. «Che diavolo è successo, dunque, che qui davanti c'è un gruppo di gente ferma!?… E lei perché sta tranquillamente seduto, mentre in negozio ci sono clienti?».

Era entrato un ometto piccino e risecchito, con un pastrano lungo fino ai calcagni e un cappello floscio in testa, e si agitava, in preda a una collera sorda.

Gualmo sollevò il capo dalle schede e, guardando il sopravvenuto coi suoi grandi occhi glauchi e miti, chiese con sarcasmo: «Clienti? Quali clienti?».

«E questi signori, chi sono?» e l'ometto indicò De Vincenzi e Cruni, che tacevano, osservando la scena.

«Quel signore è un commissario e l'altro è un brigadiere di Polizia…».

«Ah!» fece l'ometto, impallidendo. «E che… che cosa… desiderano?».

Balbettava.

Nessuno gli rispose.

Lui si turbò maggiormente, sotto lo sguardo scrutatore di De Vincenzi.

«Che c'è?… Ma che c'è, dunque, Pietrosanto?…».

«C'è… c'è… che stamane, quando ho aperto il negozio… ho trovato un cadavere di là…».

«Che dice?!» urlò quell'altro.

«Dico un cadavere!» ripetè con crudele soddisfazione il serafico Gualmo, che si vendicava in quel momento di due anni di tirannia.

«Un cadavere!…».

Girava attorno gli occhi come in cerca di soccorso.

«Un cadavere!…».

E il signor Chirico, padrone della libreria, si tolse il cap pello e si grattò accanitamente la testa, dai capelli bianchi, tagliati corti, duri e diritti come una spazzola.

«Vuol scherzare lei!».

«Il suo impiegato non scherza! C'era proprio un cadavere nel suo negozio…».

«Ma allora… allora…» fece Chirico, senza più fiato «hanno rubato?».

«Che cosa voleva che rubassero?» esclamò Pietrosanto. «I libri?!».

«E perché no?».

«E un libro, lo hanno rubato, infatti. Ma questo non ha importanza, per ora» interloquì De Vincenzi.

Il proprietario di tutti quei libri pensò che anche uno solo di essi aveva importanza per lui, ma non osò obbiettar nulla. Fece il gesto di grattarsi nuovamente la testa e si trattenne.

«Conosceva il senatore Magni?».

Chirico spalancò gli occhi.

«Non vorrà dire?».

«Conosceva il senatore Magni?».

«Certo!».

«Era suo cliente?».

«No. Ma era socio del Circolo di Studi Psichici di cui io sono il segretario».

«Ah! Lei è il segretario del Circolo di via Broletto?». «Precisamente». «Crede nello spiritismo, lei?». «Perché?» chiese l'ometto, che non voleva lasciarsi andare a una confessione di fede, proprio in quel momento. «Mi parli del senatore».

«Uno scienziato. Un uomo affabile e senza boria.

Interveniva a tutte le nostre sedute».

«Le tenevano di notte?».

«Ma no! Qualche rara volta di sera; ma di solito al pomeriggio».

«E ieri sera, c'è stata seduta?».

«No. Gliel'ho detto: assai raramente. Quando qualche socio lo chiedeva, perché impedito di giorno».

«E l'ultima seduta alla quale ha partecipato il senatore, quando è stata?».

«Tre giorni orsono… Sì, è proprio così, sabato scorso… oggi siamo a martedì…».

«E oltre al professore chi assisteva a quella seduta?…».

«Non rammento ora… ma potrò dirglielo… Eravamo in undici…».

«Il dottor Marini?».

«Quello era sempre presente, quando veniva il senatore. Ma lei come lo sa?».

«E il medium chi era?».

«Una donna».

«Chi?» chiese De Vincenzi, martellando quel monosillabo con impazienza.

«Una donna, che io vedevo per la prima volta e che era stata presentata da un socio…».

«E il senatore la conosceva?».

«Non credo».

«E il dottor Marini?».

«Neppure».

«Desidero il nome e l'indirizzo di quella donna».

«Glielo farò avere… debbo informarmi al Circolo… cercherò di ricordarmi chi l'ha presentata…».

«No. Lei ora andrà col brigadiere, s'informerà, la cercherà e la condurrà da me a San Fedele, alle 14 di oggi… Cruni, accompagna il signor Chirico… e non lasciarlo…».

Cruni si mosse.

L'ometto si guardava attorno smarrito. Si grattò in testa, mormorò: «Un cadavere… Il senatore!… Nel mio negozio…» e tornò a grattarsi.

Guardò disperatamente Pietrosanto, come per chiedere il suo aiuto.

«Come faccio? Ho tante cose urgenti…».

«Non importa. Questa è la più urgente di tutte…».

Dal corridoio venne il suono saltellante, rabbioso del telefono. Gualmo fece per correre.

«No!» lo fermò De Vincenzi. «Vai tu, Cruni».

Il brigadiere tornò subito.

«E per lei, cavaliere».

De Vincenzi andò al telefono.

Era la Questura.

«Che volete?».

Gli rispose il telefonista.

«Dottor De Vincenzi, è lei?».

«Parla! Che vuoi?».

«Meno male!… L'ho cercata anche a casa del senatore Magni e m'hanno detto che lei era già andato via…».

«Ebbene?».

«Il dottor Sani la prega di venire subito in Questura… C'è una signorina nei locali della Squadra, che deve parlare con lei…».

«È quella che ha telefonato stamattina?».

«Come lo sa? Il dottor Sani mi ha detto proprio così…».

«Vengo subito!».

Riappese il ricevitore e tornò quasi correndo nel negozio.

«Cruni va', e fa' quel che t'ho detto».

Uscì sulla soglia e chiamò i due agenti, che aveva lasciati Maccari, e che stavano a fumare sul marciapiede.

«Voialtri!».

Quelli accorsero.

«Entrate e non vi muovete di qui».

Corse al largo del Verziere e prese un tassi. Mentre vi saliva, vide scendere da via Corridoni Cruni col signor Chirico. Il brigadiere teneva per un braccio l'ometto, che si agitava tutto e che faceva grandi gesti di disperazione.