Capitolo XVII

Colloqui… spiritici

Quando fu all'angolo di via Cappellani, De Vincenzi si fermò ad attendere il tranvai, che lo portasse dalle signore Sorbelli, madre e figlia.

Da tre giorni non sapeva decidersi a recarsi a casa della medium. Aveva pensato di farsela venire in ufficio; ma non ne avrebbe cavato nulla. La donna sarebbe arrivata, grossa e flaccida, assieme alla figlia, sottile e insignificante; avrebbero sciorinato tutte e due il repertorio delle loro frasi tornite e ravviate, delle loro parole preziosette e scolastiche, e tutto sarebbe rimasto al punto di prima.

E poi voleva conoscere l'ambiente in cui vivevano. L'atmosfera.

Andarvi verso il mezzogiorno doveva essere il momento buono.

Scese dal tranvai all'angolo di via Cosimo del Fante e trovò subito la casa, che era la terza verso corso Italia.

Una di quelle case costruite al principiar del novecento, quando, col secolo nuovo, imperò - per brevi anni, fortunatamente - l'atroce stile liberty, tutto curve e svolazzi mostruosi. Aveva l'apparenza pretenziosa an cora, ma era precocemente vecchia e scrostata. Dentro, nell'andito troppo stretto, l'uscio a vetri della portinaia si apriva sui primi gradini della scala.

«Le signore Sorbelli?».

Un rumore di tegami, un ciabattare e poi la donna comparve. Come la casa, appariva vecchia, unta e trasudante, per quanto non dovesse aver neppure quaranta anni.

«Terzo piano, prima porta… Vuole la signorina?».

«Tutte e due…».

«C'è la madre sola. La figlia è a scuola fino alla mezza. Lei è mandato dal Municipio?».

De Vincenzi chiuse la porta e si avviò per le scale. Ma la portinaia gli corse dietro.

«Dica!… Se va su per un consulto… è meglio che torni dopo pranzo… C'è gente adesso ed è già tardi…».

Il commissario si voltò e ridiscese i pochi gradini, che aveva fatti.

«Che consulto?».

La donna apparve imbarazzata.

«Non so… Credevo… Ma, infine, chi è lei?».

«Non importa che sappiate chi sono… Spiegatemi questa storia del consulto».

«Perché? Lo domandi alla signora Sorbelli, se va da lei!».

E scomparve di nuovo dietro la porta, che richiuse. De Vincenzi ebbe l'impulso di seguirla. Ma si trattenne. Dopo tutto era meglio non metterla in sospetto, con domande precise. A lui era facile immaginare di che cosa si trattasse. La medium, con quella sua aria distin ta, da nobile decaduta, faceva forse la chiromante o qualcosa di simile. Era lieto della scoperta, se le cose stavano così. Quel che andava a proporle diventava più facile.

Sulle scale s'incontrò con due signore eleganti che scendevano e dovette farsi contro il muro, per lasciarle passare. Quelle lo squadrarono. Un'ondata di profumo lo ravvolse. Era il profumo di gente, che va anche a farsi leggere la sorte con le carte o nei fondi del caffè. Quando ebbero raggiunto il pianerottolo inferiore e furono scomparse al suo sguardo, le sentì ridere. Al terzo piano, vide subito la targa d'ottone, col nome e cognome scritti in corsivo, a lettere nere, senza maiuscole: «wanda sorbelli». Una trovata anche quella!

E non ebbe bisogno di premere il campanello, che la porta si aprì.

«È troppo tardi!» cominciava a dire la signora Sorbelli, ma lo riconobbe e gli sorrise, affettando allegria. «Oh! Il signor commissario!… Favorisca nella nostra umile dimora…».

Il tono s'era subito fatto ricercato, prezioso, ma lei aveva impallidito e ansava leggermente. Si trasse da parte, per farlo entrare.

La stanza d'ingresso era quella di una qualunque casa borghese.

«Per di qua, signore».

Aveva ritrovato la sua distinzione e quell'aria da gran dama, che avevano reso perplesso De Vincenzi la prima volta.

C'erano tre porte. Aprì quella di fronte. Una stanza da pranzo coi mobili chiari, di legno biondo, carichi di intarsi. In mezzo alla tavola un vaso di cristallo con qualche garofano appassito.

Il commissario si guardò attorno rapidamente. Sulla credenza c'era un piatto di carne del giorno prima e il pane ancora incartato dal fornaio. Certamente non era quella la stanza dei consulti e la donna aveva preferito fargli vedere il bollito, più tosto che le carte o i fondi di caffè.

«S'accomodi…».

Prese il piatto della carne e lo fece sparire dentro la credenza. Cacciò il pane in un cassetto.

Poi andò a sedersi all'altro angolo della tavola, al suo fianco, e volse la seggiola di tre quarti, per poterlo guardare in faccia.

«Mi dica in che cosa posso esserle utile… Mi duole che mia figlia sia fuori di casa. Ma se lei si trattiene, la vede tornare. Alla mezza, termina la scuola e ha poca strada da fare…».

De Vincenzi taceva. Era imbarazzato. Avrebbe preferito adesso che la portinaia non gli avesse parlato di consulti. Per la strada, in tranvai, s'era fatto un piano.

Sapeva di dove cominciare. Ora, non più. Quella donna a due facce lo sconvolgeva. Come poteva far le carte, con la sua voce musicale e vibrante e il suo contegno da marchesa?

La signora Sorbelli, davanti al suo silenzio, cominciò a guardarlo meravigliata. Improvvisamente le passò sul volto un'ombra di spavento.

«C'è qualcosa di nuovo? Mi dica!… Ho letto nei giornali che hanno ucciso anche la cameriera…». Mandò quasi un grido. «Ah! Lei è qui per questo!». «Per questo, che cosa?» chiese De Vincenzi.

«Perché crede che io sappia più di quanto le dissi; nel suo ufficio…».

«Sa realmente di più lei?».

«Ma no! Come potrei? Quando l'ho veduto sulla soglia della porta, non ho pensato neppure che lei era un commissario di polizia… Mi spiego… L'ho chiamata commissario, ma non mi sono resa conto che potesse venire da me a causa delle sue funzioni… per interrogarmi… E strano! Mi è apparso come un visitatore qualsiasi… un buon amico…».

«Un cliente» insinuò De Vincenzi con voce soave. Cominciava a ritrovare la sua freddezza.

L'altra tacque, colpita. Sembrò facesse uno sforzo, per capire.

«Un cliente?» chiese poi, irrigidendosi.

«Dicevo per dire…».

«Non credo! Lei ha un'idea precisa. Si riferisce a qualcosa di concreto. Perché vuol giocare con me come con un topo? Anche il suo lungo silenzio di quando è entrato… Crede che io abbia un mistero da nascondere?».

«Non proprio un mistero, forse…».

«Ma un?… Suvvia! Dica che cosa…».

«Un piccolo, piccolissimo segreto…».

«Ah!».

Si osservarono. Nessuno dei due voleva parlare per il primo, lei perché temeva di dir troppo, il commissario perché sperava che la donna si tradisse. In fondo, lui brancolava nel buio, guidato soltanto dalla propria intuizione.

«Mi vuol dire perché mi ha onorata di una sua visita?».

La voce d'oro s'era fatta fredda, quasi imperiosa.

De Vincenzi tese la mano sul tavolo con la palma rivolta in alto, verso di lei.

«Vuol leggermi la vita?».

Fu istantaneo. Il volto già flaccido e bianco le si decompose. Gli occhi le divennero supplici. Due lacrime le rigarono le gote.

«Lo sa?!» mormorò. «E per questo che è venuto! La supplico, non mi faccia del male. Oppure, faccia quel che deve, ma eviti che lo sappia mia figlia!… Se non ho preso la licenza, se non ho fatto la dichiarazione alla Questura, non è stato per nascondermi. In fondo, io credo sinceramente nella chiromanzia, come in tutte le arti magiche. Quel che dico e faccio lo compio inconsciamente, mossa da una forza superiore. Glielo giuro! Ma non volevo che lo sapesse la mia Tina! Lei stesso ha sentito come mi ha rimproverata, perché avevo partecipato alle sedute spiritiche! No! Non glielo dica! Ne morrei creda: ne morrei di vergogna!».

Singhiozzava. Era livida. Doveva soffrire di cuore, per di più! De Vincenzi si spaventò.

«No! Non glielo dirò! Non ha importanza. Si calmi!…».

Si guardava attorno.

La donna sembrava mancare. Sollevò la mano e indicò l'armadio. Il commissario si precipitò. Aprì tutti gli sportelli prima di trovar l'acqua. La fece bere. Lei piangeva sempre.

«Non lo dirò mai a sua figlia» scandì con forza De Vincenzi. «Si calmi».

E la donna si calmò, infatti, come se il tono imperativo di lui le si fosse imposto.

«È passato» mormorò con voce bianca. «Sono calma».

Un temperamento facilmente suggestionabile, perbacco! Chiunque avesse voluto operare su di lei con l'ipnosi o col magnetismo, ne avrebbe fatto quel che ne avesse voluto, l'avrebbe ridotta uno strumento inconscio.

Il cervello di De Vincenzi si mise a lavorare febbrilmente.

L'avevano suggestionata anche per imporle di predire la morte a Magni? In questo caso dovevano aver lo scopo di gettare il turbamento nell'animo del senatore, per indurlo a qualche atto, che facilitasse l'opera dell'assassino.

«Non dirà davvero nulla a mia figlia?».

«Certamente, no».

«Grazie!».

«Ho però qualche cosa da chiederle in cambio…».

Le pupille della donna s'oscurarono.

«Sì… Sono pronta a tutto, pur di evitare un dolore a Tina. Lei non sa che i denari del suo stipendio e della mia pensione non bastano… Non possono bastare!… Mio marito, poverino, giocava… ha lasciato mol ti debiti… Io mi sono assunta di pagarli, senza che Tina lo sapesse, perché voglio che la memoria di lui sia pura! Allora… Capisce? Ho cominciato quasi per ischerzo, con le amiche… Poi mi sono fatta pagare… Ricevo i… clienti soltanto nelle ore in cui mia figlia è a scuola… Ho avvertito la portinaia che non faccia salire nessuno, quando Tina è in casa…».

Per questo, la portinaia gli aveva chiesto se andava per un consulto. Doveva essere la verità quella che diceva la donna, anzi, era certamente la verità.

«Ma lei non parlerà, vero?».

De Vincenzi disse di no col capo.

«E… mi permetterà di continuare?».

«Fin quando non se ne accorgano gli altri… Per quel che mi riguarda, io non c'entro. È come se non lo sapessi».

«Oh! Grazie».

Esultava; ma di nuovo gli occhi le si oscurarono.

«E da me che vuole? Che cosa posso fare per lei? Si tratta forse?…».

Il commissario assentì col capo, gravemente.

«Ma io non so nulla!».

«Non importa. Ma se le chiedo di partecipare ad una seduta spiritica per me… con alcuni miei amici… accetta?».

Lei si turbò.

«Non capisco!».

Forse, temeva un tranello.

"Non vorrà mica mettermi alla prova?».

«Non ci penso neppure. Di lei non dubito».

Si alzò. La donna gli afferrò una mano.

«Me lo ha promesso, badi!».

Faceva pena. Aveva perduto ogni fierezza. Per un istante sembrò a De Vincenzi che stesse per baciargli la mano. Rapido, si liberò dalla stretta.

«Stia tranquilla! Sono un gentiluomo…».

Non adoperava mai quella frase, che a lui ripugnava, perché di solito proprio chi lo afferma non lo è; ma sentiva che con quella donna occorrevano le parole drammatiche, le frasi teatrali.

Squillò il campanello. Due o tre colpi successivi.

«E mia figlia!… Che cosa le dirà, per spiegare la sua presenza?».

S'era alzata, aspettava con ansia la risposta, prima di andare ad aprire.

«Interrogherò anche sua figlia. E sempre l'inchiesta, che continua. Sua figlia non può meravigliarsene».

«È vero!».

Ma non sembrava completamente persuasa. Traversò l'ingresso con passo incerto.

«Tina, c'è il signor commissario, che vuole interrogarci ancora…».

«Ha già parlato con te, mamma?».

«Poche parole… E appena arrivato…».

«Buon giorno, commissario. Sempre quella storia dello spiritismo, eh?».

Era ancora più piccola, più insignificante, più inesistente della prima volta che De Vincenzi l'aveva veduta. Forse, per il suo abitino grigio, col colletto rovesciato di tela bianca, la sottana corta, da cui uscivano le gambe troppo magre e ossute, con le calze nere e le scarpe a tacco basso e a punta quadra. Sotto il cappellino scuro, il visuccio smorto si profilava senza rilievo.

Il commissario, s'era inchinato. La guardava.

«Già!…».

Un lampo di corruccio illuminò improvvisamente il volto della ragazza.

«Mamma s'è sentita male!» disse, indicando la bottiglia dell'acqua e il bicchiere sul tavolo e fissò De Vincenzi con rimprovero. «Che cosa le ha detto, lei?».

«Non mi sono sentita male, Tina… Il commissario è stato gentilissimo…».

«E da me che cosa vuole?».

Non era aggressiva. Soltanto amaramente rassegnata.

S'accorse d'avere tra le mani, inguantate di filo nero, un libro e le pagelle e li posò sul tavolo. De Vincenzi tossì.

«Vorrei che rammentasse chi venne a invitare sua madre, sabato scorso, perché andasse al Circolo di via Broletto…».

La figlia diede uno sguardo alla donna, che si teneva sulla soglia.

«Non glielo hai detto?». «Non me lo ha chiesto».

«Si vede che voleva chiederlo a me» disse, sempre con quel tono di rassegnazione pacata. «Fu il signor Chirico. Venne il venerdì verso sera, poco prima di cena». «Come disse?». «Oh! Vuole che ricordi le sue parole!».

«Insistè, perché non mancasse? Sembrò annettere un'importanza particolare a quella seduta?».

«Non più delle altre volte. Lui insisteva sempre, soprattutto quando ero presente io, che sapeva ostile a quel genere di cose».

«E la mamma si recò sola in via Broletto?».

«Io non potevo accompagnarla. Nel pomeriggio del sabato c'è sempre il cinematografo educativo e debbo condurvi i bambini».

«Quando sua madre tornò dalla seduta, le riferì nulla di particolare?».

«Povera mamma!» ma nella sua compassione era una punta di biasimo, quasi di disprezzo. «Quando torna da una di quelle sedute, è molto se trova la forza di mangiare prima di coricarsi. Quella sera si coricò subito, tanto era stremata. Le portai uno zabaione a letto».

«E l'indomani… quando si sentì in forze, insomma… non le accennò alla profezia, che aveva fatta durante il sonno magnetico?».

«No. Io l'ho sentita per la prima volta davanti a lei. Ma non mi sarei impressionata, se me l'avesse detta. Non credo allo spiritismo, io».

«Neppure che sua madre abbia virtù medianiche?».

«Questo non c'entra. Siamo nel campo dell'ipnosi e della suggestione, secondo me. Mia madre è molto impressionabile. Come una bimba».

Sempre quell'aria di compatimento poco indulgente. Si indovinava che era lei a far andare la casa e a comandare. E non doveva avere la mano leggera, nell'imporre la propria volontà.

«Grazie, signorina. Questo è tutto».

S'inchinò di nuovo. La madre lo aspettava in anticamera.

Quando fu sulla porta della stanza da pranzo, la signorina lo richiamò: «Commissario!».

«Dica!».

«Se può interessarle, le dichiaro che non permetterò mai più a mia madre di recarsi al Circolo di via Broletto…».

«Farà bene, signorina, se proprio crede che la salute di sua madre ne soffra…».

La donna gli aprì la porta e, mentre usciva, gli sussurrò: «Lei conti su me! Ma deve mantenere la sua promessa!».

«L'avvertirò. Grazie…».

E scese le scale in fretta. Al passaggio vide, dietro i vetri della porta, il volto della portinaia, che spiava.

Uscì in istrada. Camminava assorto. Adesso gli sembrava che nel suo spirito le impressioni ricevute si precisassero. Si avvicinava alla spiegazione del mistero. Neppur lui, però, avrebbe saputo dire perché lo credesse. Era una sensazione indistinta, che gli veniva dal suo subconscio. Quale rapporto vi fosse tra quelle due donne e la morte del senatore e soprattutto quale legame invisibile tra esse e l'assassino non sapeva. Certo, non un legame d'interesse. Piuttosto uno di quei fili misteriosi, ignoti a coloro stessi che ne sono avvinti. Un'onda eterea, priva di calore, priva di luce.

I tranvai passavano davanti a lui, senza fermarsi, colmi, stipati di gente. Impiegati, commesse, dattilografe.

Scese corso Italia lentamente, a piedi. A casa, Antonietta l'aspettava, fremendo, per la colazione, che lui faceva freddare come il solito. Le avrebbe telefonato che non andava. Quando fu davanti al telefono di una tabaccheria, chiamò San Fedele, invece di casa sua. Si fece dare Sani.

«Novità?».

«Ho fatto quanto t'interessava. Alle due, l'autista sarà qui…».

«Grazie. Nient'altro?».

«Il dottor Verga sono tre giorni che non va in viale Bianca Maria…».

«E l'infer… e quella signorina americana?».

«Quella sì. È lei che manda avanti l'ambulatorio. Naturalmente, i clienti sono quasi tutti scomparsi, adesso che il professore non c'è più».

«Manda Cruni a casa di Verga, in via Leopardi. Che me lo conduca in Questura nel pomeriggio…».

«Va bene…».

«Grazie… Ah! Senti! Per favore, telefona tu a casa mia. Di' ad Antonietta che non vado a colazione. Se telefono io, mi fa la paternale!».

«Chiamo subito. Le dirò che tu mangi col Questore…».

«Fa' come vuoi. Ma la storia del Questore Antonietta la conosce già!… Ciao!».

Uscì dalla tabaccheria e scese da piazza Missori per via Carlo Alberto.

In piazza del Duomo vide che era la una. Lui aveva abitudini modeste; ma, quasi senza rendersene conto, imboccò la Galleria ed entrò al Biffi. Sedette nell'ultima sala, dove c'era meno gente. Ordinò quel che volle il cameriere. «Vino?».

«Acqua minerale».

Il cameriere s'allontanò.

«Astemio, commissario? Eppure un po' d'alcool fa bene!».

Si voltò di scatto. Al tavolo accanto al suo c'era il dottor Marini, che gli sorrideva, esuberante di gaiezza e di cordialità espansiva.

«Io bevo birra!…».

«Fa sempre colazione qui, lei?».

«Io? No. Ma ho mandato mia moglie in campagna. È sofferente. E allora, per non digiunare, mangio dove mi trovo…».

«Ah! Sua moglie è ammalata?».

«Sofferente soltanto. Mali di donne. Si cambia aria e passano».

«Non ha figli, lei?».

«No».

Il cameriere serviva De Vincenzi.

«Virgilio, il signore è mio amico. Porta via quell'intingolo e dagli il piatto del giorno… Dia retta a me, commissario! Quando viene qui dentro, ordini sempre il piatto del giorno».

Virgilio, interdetto, era rimasto a guardar De Vincenzi. Questi gli tolse il piatto dalle mani e se lo mise davanti.

«Sarà per un'altra volta. Stamane, ho fretta».

Marini disapprovò col capo. Poi, come a un'idea improvvisa, si chinò verso la tavola vicina e chiese, abbassando la voce: «C'è qualcosa di nuovo?». «Forse…».

«È vero quel che si dice di un arresto?». «È vero».

«Ha trovato la strada buona, dunque?». «Spero…».

De Vincenzi era laconico; ma senza scortesia. Anzi, sembrava disposto alle indiscrezioni.

Il dottore aveva terminato di mangiare la sua macedonia di frutta. Bevve il maraschino ch'era rimasto nella coppa, si asciugò la bocca e si alzò. «Permette?».

Aveva preso una seggiola e si teneva davanti al tavolo del commissario. «S'accomodi».

«Sa? Non è curiosità la mia. Ma l'idea che Ugo, non sarebbe stato vendicato mi torturava!». «E quell'altra?» scandì De Vincenzi, guardandolo. «Quell'altra?». «La cameriera… Norina…».

«Sì, naturalmente. Una cosa orribile! Ma Ugo era mio amico. Ci volevamo bene».

«Lo sa che l'autopsia ha constatato che quella ragazza era incinta, quando è morta?». «Oh!».

Aveva impallidito. Per qualche minuto non trovò la forza di parlare.

De Vincenzi mangiava e l'osservava, senza parere.

In quella sala erano rimasti loro due soli. Il cameriere cambiava il piatto, metteva sulla tavola il canestro della frutta.

«Vuole il caffè?».

«Sì».

«Liquori?».

«No».

Passò il sigaraio. Offrì il Corriere del pomeriggio.

Finalmente, furono soli di nuovo.

«È mostruoso!» mormorò il dottore. «Che fosse incinta oppure che l'assassino l'abbia Strangolata e gettata nella Darsena?…».

«Ma allora…» e s'interruppe.

«Allora, che cosa?».

«Anche lei, come le altre, lo amava!».

«Pare!».

«Siete sicuri che non è stato un suicidio? Tutto si spiegherebbe!».

«Meno il fatto che quella disgraziata si sia strangolata da sé, stringendosi così forte alla gola da schiacciarsi le vene jugolari!».

Seguì un altro silenzio.

«E l'arrestato?».

«Un vecchio ladro, che sembra si sia tradito, cercando di vendere il cappello del morto e il mantello della ragazza…».

«Imbecille!».

«Infatti…».

«E come lo avete scoperto?».

«Ah!» fece De Vincenzi, sorridendo. «Io non ci ho proprio merito. E neppure la Polizia. Lo ha scovato un uomo di Harrington». «Il detective privato?». «Già».

«Quello che fece arrestare i ladri del gioielliere di via Santa Margherita?».

«Proprio!» esclamò il commissario e si chinò in fretta a raccogliere il tovagliolo, che gli era caduto. Per qualche istante rimase col volto sotto la tavola.

Quando si sollevò, bevve il caffè in fretta e chiamò il cameriere per pagare il conto.

«Se permette, faccio fare tutt'uno col mio. L'altra notte pagò lei le consumazioni al caffè».

«Non è la stessa cosa. Grazie!».

Uscirono assieme. La Galleria era piena di gente affrettata. Soltanto nel centro c'era il solito gruppo di persone, che chiacchieravano tranquillamente. I tavoli del Biffi e del Savini si andavano vuotando.

De Vincenzi voltò sotto il passaggio del Manzoni. Il dottore gli camminava a fianco.

«Crede che sia tutto finito?».

«Finito?».

«Voglio dire che abbiate preso l'assassino…».

«Già… Ha confessato?».

«Non parla, neppure per negare».

«Ma sarà un mandatario!».

«Naturalmente».

«E il mandante?».

De Vincenzi si fermò in mezzo alla piazza, davanti al monumento.

«Quale ipotesi farebbe lei, dottore, ch'era un amico del morto?».

«Gliel'ho già detto che non saprei pensare chi possa essergli stato nemico al punto da volerne la morte… Gelosia? Invidia? Non bastano per pagare un sicario!».

«È vero. Agiscono da sole. D'impeto. Allora?».

«Non so. Mi ci perdo… Ipotesi? Oh! Se ne possono fare. Una donna, che abbia voluto vendicarsi…».

«Anche qui siamo nel campo passionale…».

«Ha ragione!».

Trasalì, fissò De Vincenzi.

«E se fosse stato quel fratello della cameriera? I giornali hanno detto che era un pregiudicato. Fra gente di quella risma si può stringere un patto».

«E avrebbe fatto uccidere anche la sorella, dopo averla vendicata?».

«La ragazza poteva aver scoperto qualcosa e aver minacciato di parlare… Una donna che ama è sempre pericolosa».

«L'ipotesi è sottile» fece De Vincenzi con gravità. «Ci penserò. Vede che lei era in grado di darmi aiuto! Ed è scomparso per tanti giorni…».

«Ah!» fece il dottore, allargando le braccia. «Se sapesse che non ho un minuto di pace».

«Ma le sue passeggiate notturne, quelle le farà ancora, no?».

«Lei di notte rimane chiuso a San Fedele! Lavora… Non ho osato venirla a disturbare».

«Venga, quando vuole. Mi farà sempre piacere… E poi non ho deposto l'idea della seduta spiritica… Lo sa che mi vado sempre più convertendo alla sua credenza?… Un mondo ci circonda, che ignoriamo!».

«Oh!» esclamò il dottore. «Coloro che si contentano di quel che esiste, si contentano di poco!».

«Ebbene, perché non aiuta anche me a non contentarmene?».

Marini rimase qualche minuto in silenzio. Aveva lo sguardo fisso.

Il volto di solito roseo gli si era sbiancato. Le labbra tumide gli tremavano leggermente.

De Vincenzi attese.

Finalmente, l'altro parlò. La voce era dura, metallica, quantunque contenuta e quasi soffocata. Si sarebbe detto che parlasse a se stesso.

«E stato dieci anni or sono che io mi sono dato alle pratiche spiritiche, profondamente convinto ch'esista un altro mondo invisibile e che sia possibile agli uomini di comunicare con esso. Credere allo spiritismo, vuol dire credere alla sopravvivenza dell'anima sul corpo, alla sua individualità dopo la morte e quindi alla sua immortalità. Coloro che ci lasciano possono tornare… Da allora, non ho fatto che un solo proselite alla mia fede… E fu Magni… Oggi, Ugo è morto… Morto nel modo che sappiamo… Non ricomincerò l'esperienza con un altro!…».

De Vincenzi rise.

«Non crederà che il senatore sia morto, perché si era dato allo spiritismo!».

«Oh! No… Ma io sono superstizioso. Tante cose che agli altri appaiono assurde o comiche o grottesche, per me hanno un valore diverso. Non mi badi».

Tese la mano al commissario.

«E adesso vado dai miei ammalati, i quali non hanno alcun desiderio di conoscere l'aldilà e si affidano a me, per non conoscerlo…».

Era tornato gioviale.

«A rivederla. Verrò certamente una di queste notti. Ma non discorreremo di spiritismo. Non bisogna parlarne a cuor leggero… e, per farlo seriamente, occorre trovarsi nello stato di grazia. Creda a me!».

Si allontanò in fretta e scomparve per via Agnello.

De Vincenzi entrò in San Fedele, ripetendo involontariamente a se stesso le parole, che il dottore aveva pronunziate in un momento di meditazione quasi allucinata: «Coloro che ci lasciano possono tornare…».

Sani gli si fece incontro, per dirgli: «Di là, con Cruni c'è quel Pietro Santini… E venuto da sé… ti vuol parlare…».

«Fallo venire» disse il commissario, entrando nella sua camera e andando all'attaccapanni, per appendervi il soprabito e il cappello.