Capitolo XIV
Il «confidente»
Erano passati tre giorni.
De Vincenzi li aveva trascorsi a leggere libri di spiritismo. Adesso, nel cassetto del suo tavolo, in Questura, c'erano le opere di Kardec, quelle di Leon Denis e di Delanne. Aveva letto i due tomi di Delanne: Les fantòmes des vivants e Les apparitions des morts. E poi aveva ripreso a leggerli dal principio.
Appariva silenzioso e concentrato. Aveva abbandonato tutte le pratiche correnti nelle mani del vicecommissario.
«Fa' tu…» gli aveva detto, con un sorriso amaro. «Tanto, è lo stesso!…».
Sani lo aveva guardato con affetto. Conosceva ormai in lui quei momenti di chiuso arrovellamento, che erano decisivi ai fini di un'inchiesta. L'idea centrale, l'idea dalla quale doveva sprizzar la luce, sembrava che avesse bisogno di quelle ore, di quei giorni d'incubazione, per germinare.
Ma erano ore di travaglio doglioso per De Vincenzi, giorni di scoraggiamento, nei quali non faceva che sognare la sua Ossola ventosa e tanto bella! E scriveva a sua madre: «Mammetta mia, come vorrei esserti vicino!».
Nella casetta a pie dell'Alpe, con l'aia e le galline, il cane, la domestica…
Aveva fatto rilasciar subito la mattina dopo Pietro Santini. E quello era corso al Monumentale a contemplare il corpo di sua sorella, che i periti settori avevano sezionato per l'autopsia. Poi s'era chiuso a casa e il «pattuglione» ve lo aveva trovato a tutte le ore.
L'autopsia aveva concluso per lo strangolamento. Morta di soffocazione, prima d'essere immersa nell'acqua. Se non le ecchimosi al collo - le dita dell'assassino avevano stretto così forte, con tanta rabbia, che le jugulari s'erano lacerate - lo avrebbe rivelato lo stato dei polmoni, nei quali non si trovò la più piccola goccia d'acqua. E i dottori anche nelle viscere della ragazza avevano trovato abbondanti tracce d'alcool.
«Lo prevedevo» aveva risposto De Vincenzi al medico, che glielo comunicava. «E iperemia alle meningi, vero?».
«Vedo che è ferrato in medicina!» esclamò l'altro.
«Non credo…» s'era schermito il commissario. «Ma che quella figliola avesse bevuto liquori prima di venire uccisa lo immaginavo, per la semplice ragione che il suo assassino è il medesimo del professore».
«Ma lei sa chi sia l'assassino?».
«Io? Non ne ho la più pallida idea».
Mentiva. Un sospetto l'aveva. Ma era uno di quei sospetti, che fanno sorridere, quando vengono manifestati, se non fanno addirittura sobbalzare d'incredulità. E lui si guardava bene dal manifestarlo ad alcuno. Lo covava in silenzio, chiuso nel suo ufficio di San Fedele.
Non era tornato in via Corridoni e neppure in viale Bianca Maria. Nessuno lo aveva più veduto, né lui aveva fatto chiamare nessuno. Né il piccolo signor Chirico, che viveva quei giorni con l'ansia di veder comparire in negozio o a casa sua una o addirittura un paio di guardie. Non miss Drury col suo fidanzato. Non la pallida vedova del senatore. E neppure la medium, che certo si sarebbe presentata, facendosi accompagnare dalla figlia.
Pietrosanto, nel negozio, lo aspettava. Il mite compilatore del catalogo interminabile avrebbe volentieri conversato con quel commissario così gentile e intuitivo.
«Vedrà che scoprirà l'assassino!» aveva detto al padrone, ma quello, grattatosi la testa, l'aveva poi scossa energicamente.
Gualmo nondimeno lo aveva ripetuto e lo ripeteva a tutti i clienti del negozio, che s'eran fatti più fitti e così assidui, da tornare a cercar libri fino a tre volte al giorno. Erano attratti lì dentro dalla curiosità morbosa per quel delitto così strano e oscuro. E trovavano mille pretesti, per andar nel retrobottega a guardare il posto dove c'era stato il cadavere.
I giornali portavano colonne e colonne. Ancora, però, la morte della ragazza era quella che accendeva maggiormente la fantasia. Un delitto atroce di brutalità. Le mani contratte dell'assassino attorno al collo esile e bianco. E la donna era bella! Se fosse stata brutta, la sua morte non avrebbe fatta tanta impressione.
De Vincenzi non cercava, non indagava, non si muoveva neppure. Col giudice istruttore aveva avuto un lungo colloquio, dopo il quale quello se ne era andato, scuotendo la testa e dicendo: «Le concedo gli otto giorni che vuole. Ma se in capo a essi non mi porterà il reo, farò io e le assicuro che farò presto!».
«Naturalmente» aveva pensato il commissario. «Lui farà prestissimo, anzi. Due mandati di cattura e tutto a posto! Povera Patti Povero Edoardo!».
Il dottor Marini non s'era più mostrato a San Fedele. La grippe… il morbillo…
Aveva telefonato due volte e tutte e due le volte De Vincenzi gli aveva risposto: «Nulla di nuovo!… Ma lasciamo andare il delitto, dottore. Mi dica: quand'è che mi farà assistere a una seduta spiritica? Lo sa che non sono più un profano, oramai? Non faccio che leggere libri di spiritismo, giorno e notte…».
L'altro aveva riso dentro il microfono e poi era andato in giro a dire: «In che mani è riposta la protezione dei cittadini! Il migliore di quei tipi, che hanno il dovere di scoprir gli assassini, si è messo a studiar testi spiritici, invece di fare il poliziotto! Se non è matto, incosciente lo è di certo!».
E il Questore, senza arrivare a una conclusione tanto severa, che De Vincenzi fosse un po' tocco cominciava a crederlo anche lui.
Lo aveva chiamato al redde rationem e il commissa rio, dopo averne ascoltata la paternale, s'era limitato a rispondere: «Commendatore, forse scoprirò l'assassino e l'arresterò; ma mi ci vogliono otto giorni. Se lei mi lascia fare per otto giorni, all'ottavo o le conduco nel suo ufficio colui che ha ucciso il senatore e la ragazza o ci vengo da solo a presentarle le dimissioni».
«Una bella prospettiva!» aveva masticato tra i denti il Questore. «Che vuole che mi facciano le sue dimissioni, se con ogni probabilità dovrò darle anch'io?».
Poi gli aveva concesso quegli otto giorni; ma si era affrettato a mandare a Roma un rapporto dettagliato di tutto, chiedendo istruzioni.
Otto giorni.
Ne erano passati tre.
Al terzo si ebbe un piccolo colpo di scena. Una farsa nella tragedia. Ma fu quell'intermezzo grottesco, che valse a scuotere il torpore di De Vincenzi.
Alla mattina, il Questore chiamò Sani nel proprio ufficio e il vicecommissario mandò subito Cruni a svegliare il suo Capo. La vecchia Antonietta esalò ancora tutti i suoi lamenti e De Vincenzi si limitò a ordinarle: «Portami il caffè. Preparami il bagno».
Per la strada non interrogò neppure Cruni e fu il brigadiere, che, dopo un lungo silenzio, non potè più trattenersi dal dirgli: «Lo sa, dottore? Sembra che il Commissariato di via Meda abbia trovato la pista buona…».
«Di che?» chiese De Vincenzi.
«Dell'assassino…».
«Bene».
La pista buona! Come se l'assassino avesse lasciato una pista!
Aveva passato lo straccio sulla polvere, questo aveva fatto, per segnare una traccia, che doveva servire soltanto a ingannar la Polizia. E aveva rubato un libro…
Su dal Questore trovò, infatti, proprio il commissario di via Meda. Era un pezzo d'omaccione robusto e ventruto, con due baffoni da maresciallo dei carabinieri. Un buon uomo, in fondo, il cavalier Roberti, nonostante quel suo aspetto da tiranno dei burattini; ma con una fregola spasimosa di distinguersi e di farla a quelli della Centrale.
Aveva i baffi più minacciosi del solito e gli sguardi lucenti. Le pupille nere sembravano due carbonchi.
«Ah! De Vincenzi… Sembra che ci siamo, questa volta! Senta un po' che cosa dice Roberti».
«Buon giorno» augurò con affabilità De Vincenzi al collega. «Così, ci porti il tuo aiuto, eh! Ne avevamo bisogno davvero… Che hai trovato?».
Roberti arrossì leggermente.
«Veramente, io non ho trovato! Ma uno dei nostri "Confidenti" sembra che la sappia lunga. Dice di avere avuto la confessione completa dei delitti dall'autore stesso del duplice assassinio…».
«Ah! Un "confidente!"…» mormorò De Vincenzi. «E l'autore del duplice assassinio sarebbe?».
«Un pregiudicato di circa sessant'anni, ma valido ancora e robusto. Che vive per le cascine e le campagne di Milano, rubando e rapinando…».
«Avrebbe agito per mandato, allora?».
«Naturalmente» rispose Roberti; ma la brevissima esitazione che aveva avuta diede a De Vincenzi il sospetto che egli non si fosse molto preoccupato di quel particolare.
«Per mandato di chi?» chiese il Questore, che osservava attentamente i suoi due sottoposti.
L'imbarazzo del commissario di via Meda fu evidente.
«Il mandante lo conosceremo, quando avremo arrestato l'individuo…».
«E questo suo "confidente?"…».
«È giù… Se lo vuol vedere…».
Il Questore meditò un istante. Era più azzimato, più lisciato, più tirato a quattro spille del solito, quella mattina; ma gli occhi gli brillavano rapidi e penetranti.
Corrugò la fronte.
De Vincenzi l'osservava e sorrideva dentro di sé, perché si rendeva conto che due opposti sentimenti combattevano in lui: il desiderio di sincerarsi subito da solo dell'attendibilità di quella deposizione e il timore di compromettere la propria autorità, se quella testimonianza fosse risultata vana e magari grottesca.
Il timore la vinse.
«Non importa… Ho affidato le indagini di questo delitto al commissario De Vincenzi. Vada con lui e rimetta nelle sue mani il "confidente"…».
E li accompagnò alla porta, Roberti uscì per primo.
Il Questore trattenne De Vincenzi per un braccio: «Senta, lei!…» e lo fissò negli occhi.
«Ho capito» fece il commissario.
«Questo, però, desidero che abbia capito. Se l'indizio è buono, non se lo lasci scappare… per la ragione tutta sua personale che non rientra nel quadro psicologico, che lei s'è fatto. Mandi al diavolo il quadro e mi arresti l'individuo. Ha capito?».
«Farò come lei vuole!» disse l'altro e raggiunse il collega per le scale.
«Ascoltami, Roberti… Questo tuo "confidente" da che interesse è mosso?».
«Che vuol dire?» s'inalberò quell'ottimo uomo, che già cominciava a sentirsi poco sicuro della scoperta fatta.
«E chiaro. Con che mezzi lo tenete? Il denaro? La paura? E un vigilato? Insomma, quali sono i rapporti, che lo legano alla Questura?».
«E un vigilato…» disse il commissario e si arricciò i baffi, facendo una pausa.
S'erano fermati sul pianerottolo. Passò quasi di corsa un agente con un fascio di carte fra le mani. Volle salutarli e le carte gli caddero, De Vincenzi si chinò a raccoglierle.
«Oh cavaliere… Grazie, cavaliere!… Scusi… scusi…» poi riprese la corsa, tutto rosso.
Roberti guardava con imbarazzo il collega, che s'era sollevato.
«Ti debbo dire… Quest'uomo non è proprio un nostro "confidente". E più che altro un uomo di Harrington… Sai? Il detective privato di via Dante…».
«Ah!» e il lampo d'ironia ch'ebbero le pupille di De Vincenzi fu così evidente, che Roberti arrossì di nuovo.
«Non credi che Harrington sia un galantuomo?».
«Certo certo… Un galantuomo, che si fa pagare dai suoi clienti per non esserlo… Vorrei sapere però chi è che lo paga, questa volta…».
Roberti sbuffò.
«Ne hai di belle, tu! L'essenziale è che questo suo "confidente" dica la verità! Che c'importa del perché abbia parlato?».
«Naturalmente!».
Erano giunti in cortile. Il commissario di via Meda fece segno a un uomo, che si teneva appoggiato a una colonna.
L'uomo gettò il mozzone di sigaretta che aveva tra le labbra e li seguì.
De Vincenzi, passando per la prima stanza, sussurrò rapidamente a Sani: «Trattieni qui colui che ci segue» ed entrò nella sua con Roberti.
«Vuol rimaner solo per interrogarlo?» chiese questi, che s'era accorto della manovra.
«Se non ti dispiacesse… Perdonami, Roberti! Io ho i miei metodi. Valgono quel che valgono; ma insomma non ne ho altri e li adopero. Per di più, questo qui è un maledetto affare, che non mi fa dormire la notte. Mi sono messa un'idea per la testa, che ho paura di confessare anche a me solo. Sono tre giorni che la rimugino, chiedendomi se debba verificare i miei sospetti o se debba abbandonarli come pazzeschi. Credi a me: que sto è uno di quei casi scabrosi, in cui a fare un passo falso, si rotola sino in fondo…».
«Ma sicuro… sicuro… sicuro…» balbettò Roberti, a cui tutte quelle parole avevan dato il capogiro.
Non era un intellettuale, lui! E neppure procedeva guidato da una propria sensibilità e tanto meno da una intuizione, sia pure lenta. Lui vedeva quadrato e tagliava grosso.
«Allora, me ne vado… Mi farai sapere qualcosa… E, se posso servirti, per l'arresto dell'assassino, conta su me. Lo faccio col desiderio d'esserti utile e per null'altro».
Adesso, si espandeva in profferte, pel timore d'apparire offeso o invidioso. Davvero non lo era. Soltanto, non capiva come mai si potesse discutere tanto un'informazione di un «confidente». Oh! Se non fossero esistiti i «confidenti», come avrebbe fatto la Questura? Pensava lui e non era colpa sua, se si era fermato ai metodi e agli usi di qualche anno prima, quando c'erano le guardie regie e tutto il resto!
De Vincenzi gli strinse la mano con cordialità: «Grazie e capiscimi!… Ma del tuo aiuto, come di quello di tutti, ho sempre bisogno».
Quando Roberti fu sulla porta, gli disse: «Allora, mandamelo qui ti prego» e andò a mettersi nell'angolo della finestra, con le spalle alla luce.
Voleva guardarselo bene in faccia il tipo che entrava.
Un tipo, infatti. Quel che colpiva subito, in lui era il colore del volto. Non era pallido, né rosso, né livido, né cianotico, né moro, né mulatto, né aveva alcun altro colore d'un volto consueto o soltanto, se pur raro e insolito, naturale: era cinerino. Neppure, anzi. Si sarebbe detto che quel volto fosse tagliato e modellato nella creta calcarea e proprio pastoso, rugoso e poroso come la creta. Faceva impressione.
Gli occhi apparivano spenti, tra le palpebre socchiuse, sotto la fronte bassa. La mascella sfuggente, il mento appena accennato, le labbra sottili accrescevano l'impressione d'un essere moralmente disossato, obliquo e viscido. La testa posava su spalle a baule, che continuavano in un corpo piccolo e meschino.
Entrò, tenendo il cappello con una mano dietro la schiena, quasi volesse nasconderlo, e con l'altra si toccava i ciondoli, che gli pendevano dalla catena di rame, sul panciotto.
Per tutto saluto, piegò la testa sul petto e attese.
«Che fate, voi?».
Spalancò gli occhi, che apparvero senza luce, opacamente inespressivi.
«Come, che faccio?».
«Dico di mestiere».
«Servo nella Chiesa della Consolata… a Porta Nuova…».
«Siete scaccino, insomma!».
«Servo quel parroco e i fedeli…».
«E fate il "confidente" della Questura, nelle ore di riposo?».
«Chi gliel'ha detto? Le cose non stanno così».
«Sentiamo, allora».
«Ecco».
Ma taceva. De Vincenzi gli disse: «Prendete quella seggiola dietro di voi… Sì, quella… e sedetevi… Bene… Adesso, ditemi come stanno le co se».
L'uomo sedette e posò le mani sulle ginocchia, col cappello pendente dalle dita. Ma aveva tale abitudine, parlando, di congiunger le mani sul petto e di fregarsele poi lentamente, una contro l'altra che fece subito quel gesto e il cappello cadde. Gli diede un'occhiata e non lo raccolse.
«Servo nella Chiesa della Consolata, perché è stato Harrington a volere che prendessi quel posto… Egli aveva bisogno di un uomo suo, in quell'ambiente… Forse, pensava che nessuno avrebbe diffidato di me».
«E ha anche pensato che voi avreste potuto procurargli qualche cliente, approfittando della dimestichezza che i devoti e soprattutto le devote avrebbero avuta con voi».
«Non so…».
«E per di più gli sareste stato utile nei casi d'informazioni matrimoniali e in quelli di adulterio».
«Non so…».
«Lo so io. Continuate».
«Così, in realtà io sono uno degli informatori dell'agenzia del signor Harrington… e non un "confidente" della Questura».
«Bene. Dunque, per far questo servizio di oggi, siete pagato».
«Di quale servizio parla?».
«Dove avete pescato l'assassino del senatore Magni?».
«In un'osteria».
«Quale?».
«Gliela mostrerò… è lontana… vicino a Taliedo… Un'osteria di campagna…».
«Avanti…».
«Le giuro sul Cristo che è la verità!».
«Lasciate in pace il Cristo. Non vi ho ancora accusato di menzogna».
«È stato per caso… Sentivo parlare di un cappello quasi nuovo e di un soprabito da donna, che volevano vendere… Chi ce li ha? domandai. Avevo capito che si trattava di oggetti rubati… Ma il giovanotto che li offriva non volle dirmi nulla… Fu soltanto quando lo ebbi fatto bere, che accennò al bigatt…».
«E questo bigatt sarebbe?».
«Il nome vero non lo so; ma è conosciuto al Carrobbio e per tutto il quartiere di Porta Ticinese… È vecchio ma è terribile… Anche i giovani lo temono… Io l'ho cercato e ieri notte, finalmente, l'ho trovato… Mi condusse in una cascina verso Monza… È la cascina di un fornaio, che gli dà ricetto nel fienile, perché lui gli fa qualche servizio… Sotto il fieno… nascosti… il bigatt mi mostrò un soprabito da donna e un cappello floscio di feltro… quasi nuovo… Nell'interno c'erano ancora due cifre in oro: un U e un M… Non so perché… ma sopratutto per gli occhi che faceva il vecchio, quando toccava quegli oggetti ebbi come in un lampo la rivelazione di qualche cosa di mostruoso… I giornali hanno parlato molto del soprabito e della borsetta di Norina Santini, che non si sono ritrovati nella Darsena di Porta Ticinese, né altrove… Pensai che quello potesse essere il soprabito della ragazza… Chiesi all'improvviso al bigatt: "E la borsetta dove l'hai messa?". Lui si turbò. Mi guardò con occhi striati di sangue. "Sei una spia?" mi chiese ferocemente. Mi misi a ridere. Gl'inventai tutta una storia di delitti e di condanne. E poi gli dissi: "Andiamo a bere. A respirar l'aria di tutto questo fieno m'ha messo sete". Venne. Lo feci bere più che potei. Finalmente, parlò. È stato lui, che ha ucciso il senatore e la ragazza. Mi ha mostrato anche il "rebattin" con cui ha sparato e in quanto alla Santini… le garantisco che, soltanto a guardar le mani di quel vecchio, vengono i brividi!…».
De Vincenzi lo aveva ascoltato, senza interromperlo, immobile.
«I connotati del bigatt, naturalmente, tu puoi darmeli, vero?».
L'altro riprese a parlare con quella sua voce monotona, come se recitasse una lezione.
«Un vecchio ancora valido… Ha l'aspetto sornione e repugnante. Gli occhi piccini mandano sprazzi vivi ira le palpebre arrossate…».
«Aspetta!» intimò De Vincenzi e andò all'uscio della camera.
«Sani!» disse. «Chiama Cruni e venite tutti e due qui».
Lo scaccino s'era voltato sulla seggiola a guardare dove andasse e che facesse. Sembrava preoccupato.
Quando lo vide tornare, riprese: «Ha i capelli grigiastri…».
«Aspettate, vi ho detto!».
De Vincenzi di solito così gentile con tutti, con costui aveva una insolita ruvidezza, quasi ne provasse ribrezzo.
Entrarono Sani e Cruni.
«Sani, ti prego, scrivi quanto quest'uomo dirà. E, tu, Cruni, ascoltalo bene».
Il vicecommissario sedette al tavolo di De Vincenzi e si preparò con la penna in mano.
«Ripetete, voi; ma prima date le vostre generalità».
L'uomo si alzò. Raccolse il cappello. Si avvicinò al tavolo.
«Angelo Panzeri… fu Antonio… di Intra… nato nel 1880… Ma, commissario, le giuro sul Cristo che ho detto la verità».
«Ebbene, ripetetela un po' tutta da principio la vostra verità…».
Lo scaccino ricominciò il racconto. Quasi le medesime parole della prima volta! Sembrava d'ascoltare un fonografo. E ogni tanto guardava di sottecchi De Vincenzi e quei suoi occhi spenti sembravano illuminarsi di malizia, come pensasse: «Se speri di cogliermi in contraddizione ti sbagli!».
Ma quella era proprio l'unica cosa che De Vincenzi non sperava.
Quando ebbe finito, il commissario prese l'ultimo foglio scritto da Sani e lo mise davanti all'uomo, poi gli tese la penna.
«Firmate. È la vostra deposizione».
Lo scaccino esitò, poi afferrò la penna e firmò.
«Sta bene… Cruni, accompagnalo di là, nel corpo di guardia… Poi torna da me immediatamente».
«Mi trattiene?» gemette l'uomo.
«No!» gli rispose De Vincenzi, facendo uno sforzo per sorridergli. «Vi pare?… Ma ho bisogno di voi e in qualche luogo vi debbo pur mettere…».
Quegli uscì lentamente, guardandosi attorno.
«Gli credi?» chiese Sani, quando fu scomparso.
«Una parte di verità, la dice. E questo è il terribile, perché tutto il resto delle sue menzogne si puntella appunto su quella verità».
Prese il cornetto del telefono: «Chiama l'Agenzia d'Informazioni Private di Harrington e digli che gli voglio parlare subito…».
Cruni rientrava.
«Sentite, Cruni. Cercatemi il bigatt. Per questa notte, dovete averlo preso a ogni costo».
«Ci saranno almeno dieci bigatt fra i pregiudicati di Milano…».
«Di questo avete i connotati. Bisogna trovarlo…».
«Farò il possibile, dottore» e Cruni uscì, scuotendo la testa.
Con quel suo buon senso semplice e incapace di sottigliezze tortuose, il brigadiere non credeva neppure che l'uomo descritto dallo scaccino esistesse.
De Vincenzi si mise a passeggiare.
Sani si alzò.
«Ti lascio solo» disse, quando fu sulla porta.
Il commissario sorrise.
«Grazie. Ma adesso non ho più bisogno di solitudine. È cominciata la fase decisiva…».
«Allora, tu pensi che prenderemo il bigatti».
«Certo che lo prenderemo!».
«È lui che ha assassinato il senatore e la cameriera?».
«Questo è un altro conto!…».
E De Vincenzi rise, come non rideva da quella mattina, in cui gli avevano portato l'involto coi ferri chirurgici e in cui s'era trovato davanti al cadavere del senatore Magni, disteso fra i libri e la polvere del negozio di via Corridoni.