Capitolo 18

Francis

La prima cosa che Francis notò, entrando in casa di sua sorella, fu lo strato di polvere sullo specchio all’ingresso. Il senso di colpa gli cadde addosso come una secchiata d’acqua. Di solito l’appartamento di Robin era immacolato, quindi l’incuria poteva significare soltanto una cosa: una ricaduta. Ed erano settimane che non la sentiva.

«Francis? Sei tu? Sono in salotto».

Tutti i suoi sospetti trovarono conferma. La sorella maggiore se ne stava accovacciata sulla sua poltrona preferita, con la coperta tirata su fino alle ginocchia. Lì dietro, appoggiate allo schienale, vide subito le stampelle.

Robin aveva cinque anni più di lui e una notevole carriera accademica. Ai suoi occhi era bellissima, era sempre stata il suo modello di riferimento. In lei cercava ispirazione, più che nella madre, Lydia. Ma quel giorno sua sorella sembrava stanca e impotente. Non sorrideva.

«Robin, avresti dovuto dirmelo, testarda che non sei altro».

Mentre si chinava a baciarla sulla guancia, annusò il sentore della malattia che le impregnava i vestiti. Le ricadevano larghi sul corpicino esile.

«Perché?», gli rispose. «Per un po’ di tè e compassione? Ne faccio volentieri a meno».

«A proposito di tè, mi andrebbe proprio una tazza».

Portò via il vassoio con il pranzo appoggiato sul tavolino di fronte a lei e, mentre l’acqua bolliva, riordinò la cucina.

«Hai più visto mamma?», gli chiese non appena tornò nel salotto.

Francis fece di no con la testa.

Robin sospirò. «Su, Fran. Va bene se ignori me, ho un sacco di amici che passano a salutarmi. Ma la mamma? Sai che sei l’unico che va a trovarla».

A Francis quella lavata di capo non diede fastidio. In fondo, se lo meritava.

«Colpa del lavoro», si difese, versando due tazze di tè.

«Non è una scusa», rispose sua sorella.

Si allungò per prendere un biscotto dal piatto e Francis notò che aveva difficoltà a stringere le dita. La sclerosi le intaccava i muscoli, la coordinazione, la vista e ogni tanto persino la capacità di parlare – quando arrivava una ricaduta, era violenta. Odiava la malattia e quello che le faceva, ma sapeva bene che era meglio non fare commenti.

«Lo so che non è una scusa».

«E immagino anche che tu non abbia una vita sociale, vero?».

Francis alzò le spalle. Ormai era abituato alle incursioni di Robin nella sua sfera privata.

«Non troverai mai moglie, se non chiedi alle ragazze di uscire».

Ma perché questa ossessione di trovarmi moglie?

«Il lavoro è più importante. Sto cercando di costruirmi una carriera».

«Allora dimmi come va».

Ecco perché si era deciso ad andare a trovarla. Robin lo aveva sempre aiutato a filtrare i suoi pensieri. Era in grado di fare ragionamenti e connessioni che lui e la sua squadra non avrebbero mai potuto nemmeno immaginare. Mentre bevevano il tè, le raccontò dei due omicidi. Finito il resoconto, Francis si ritrovò con la testa mestamente appoggiata alle mani.

«Non riesco ad andare avanti», disse, «e questo è un caso davvero importante».

«Tutti i casi di assassinio sono importanti».

«Certo. Ma mettici anche un capo che non crede in me e una squadra che mi vede come un rampante novellino. Ho un sacco di cose da dimostrare».

«Come al solito. Lasciami pensare un po’».

«Prego, accomodati».

«Su due piedi direi che non si tratta di un serial killer», disse Robin, dopo aver silenziosamente fatto fuori tre biscotti.

«No, niente serial killer: modus operandi diversi e tempistica troppo ravvicinata», confermò Francis. «Ma c’è qualcosa di strano in entrambi i casi. Nessun legame con la criminalità, nessun furto o violenza sessuale che possano rappresentare un movente».

«Questo non vuol dire che siano legati, però».

«Fantastico. Quindi i colpevoli da trovare sono due, ma le risorse che ho a disposizione non raddoppiano di certo».

Robin ignorò quest’ultima frase e osservò attentamente le foto che Francis le aveva passato.

«Qui», disse indicando la spalla scuoiata di Evan, «sembra proprio che l’assassino si sia tenuto un trofeo».

«E la testa di Walsh no? Aveva un tatuaggio sullo scalpo».

«Capisco, ma se l’assassino voleva solo un tatuaggio come trofeo, non poteva sceglierne un altro? Walsh ne aveva tanti, no? Rimuoverglielo dal cranio non dev’essere affatto facile».

«Ecco perché ha preso tutta la testa».

«Perché non il lupo sulla gamba, tanto per dirne uno?».

Francis restò senza parole. Tornò in cucina a prendere il pacco di biscotti che aveva aperto.

«Guarda qui», le disse, passandole un fascio di fogli.

«Cos’è?»

«Materiale della SCAS. Resoconti di casi precedenti, come metro di paragone».

«Quindi cercate qualcosa che possa legare i due casi, giusto?»

«Sì, in teoria sì. Ma in nessun altro omicidio sono spariti dei tatuaggi».

Robin studiò attentamente il fascicolo.

«Quindi sotto questo aspetto i due omicidi non risulterebbero collegati, no? Perché a uno manca il tatuaggio e a un altro la testa. Non è che faresti altro tè, Fran, per favore?».

Mentre riempiva il bollitore, Francis ripensò alle parole di Robin. Le morti di Evan Armstrong e Jem Walsh non mostravano lo stesso modus operandi, ma una cosa in comune ce l’avevano.

«Passami il fascicolo», le disse non appena appoggiò il tè caldo sul tavolino.

Robin glielo diede e Francis crollò sul divano, rileggendo le stesse informazioni per l’ennesima volta.

«Cosa stai cercando?», gli chiese Robin.

Francis scosse la testa. «Non lo so, ma deve esserci qualcosa».

Qualcosa che probabilmente aveva già letto cinque volte, come minimo. Ricominciò da capo e sfogliò tutte le descrizioni.

E alla fine lo trovò. «Sì! Eccolo!».

«Cosa?», chiese Robin.

Tirò immediatamente fuori il telefono dalla tasca.

«Rory? Rory, prendi il fascicolo della SCAS, controlla Giselle Connelly, donna, trovata morta in un campo da golf. Le mancava un braccio, mai rinvenuto. Scopri se aveva un tatuaggio sull’arto scomparso. E fammelo sapere subito».

«Francis, sei un genio», disse Robin.

«Non ne sono così sicuro. Se non troviamo un tatuaggio, saremo punto e a capo. Ma se c’è, potremmo avere fra le mani un serial killer ossessionato dai tatuaggi».

«Tutto quello che devi fare adesso è capire chi è».

«Giusto. E come faccio?»

«Devi scoprire perché ruba i tatuaggi, ovviamente», gli rispose la sorella.

Certo. Ovviamente.