III
Mi occorrono solo pochi secondi per prendere una decisione. Meglio staccare la testa dal corpo, così potrò lavorare in pace. Lo scalpo è un lavoro incredibilmente delicato. Per decapitarlo qui all’aria aperta servirebbe una sega e poi la quantità di sangue sarà esagerata. Lui è ancora incosciente, ha il respiro affannato ma è un suono che mi rilassa mentre penso alle questioni di logistica.
Qui no. Non nel parcheggio sotterraneo in cui ho colto di sorpresa la vittima con uno straccio imbevuto d’etere. Neanche nel mio furgone Transit, bianco e anonimo. E non alla fattoria – non voglio la rogna di eliminare le prove e sbarazzarmi del cadavere. Magari potrei lasciare un altro biglietto da visita alla mia città preferita. Il primo è stato ai Pavilion. Magari dovrei portare questo qua lontano, sotto al molo. Lì ci sono parecchi spazi bui in cui nascondere il corpo e l’acqua laverà via il sangue prima dell’alba. Anonimo e perfetto, e per quando lo troveranno in qualche angolino oscuro, non ci sarà più nulla a legare me, il furgone o la fattoria all’omicidio.
Un debole gemito del ragazzo – perché questo è, poco più di un ragazzo – mi suggerisce che l’effetto dell’etere sta svanendo. Svito velocemente il tappo della boccetta marrone e imbevo di nuovo il panno. Il giovane respira ed emette un flebile gemito, come se stesse salutando una vecchia conoscenza, permettendomi così di continuare a ragionare.
Nel furgone c’è una mannaia che dovrebbe andare bene per il collo. Uno sguardo all’orologio, noto che sono quasi le due del mattino. Ho ancora un sacco di tempo. Potrei anche riuscire a tornare al laboratorio prima che sorga il sole. Se la testa sarà ancora calda, sarà una passeggiata rimuovere il tatuaggio prima che la pelle si indurisca. E a quel punto non ci sarà alcuna fretta di sbarazzarmi di ciò che rimane della testa.
Adesso che il piano è delineato non resta che mettersi all’opera. Gli lego mani e piedi con delle fascette, si sveglierà di nuovo prima che io abbia finito con lui. E poi gli avvolgo la testa con un enorme asciugamano da bagno, lo stringo sulla schiena con un nodo massiccio. La pelle sullo scalpo non deve essere danneggiata – l’epidermide morta non si rigenera e ogni minuscolo graffio rappresenta una macchia eterna sul tatuaggio preservato.
Quaranta minuti più tardi sto guidando su Madeira Drive, risalgo il porto e vado verso Kemptown. Non incontro nessun’altra macchina in strada. Per fortuna non c’è luna stasera, solo un buio vellutato che ci inghiotte non appena ci dirigiamo verso la spiaggia. Entro in un parcheggio deserto e spengo il motore. Rimango in ascolto per qualche minuto, ma c’è un silenzio tombale. Nessuno si sognerebbe mai di portare a spasso il cane a quest’ora. Ho bisogno di assicurarmi che non ci sia anima viva nei paraggi.
Il ragazzo inizia a gemere e a dimenarsi nel retro. È terrorizzato. La puzza di piscio misto a paura mi provoca un brivido di piacere e per un attimo cullo l’idea di lasciarlo sveglio finché la lama non lo riporterà nell’oscurità. Ma non ha senso rischiare una colluttazione che potrebbe danneggiare la sua preziosa testa, magari sbattendo contro un ciottolo della spiaggia. Un minuto dopo l’etere l’ha riportato a uno stato docile, quindi apro i portelloni del furgone. Nessuno mi vede mentre lo trascino sul marciapiede e poi sulla ghiaia. Nessuno mi vede mentre mi abbasso, proprio al pelo dell’acqua, e comincio a tagliare. E nessuno mi sente mentre la lama seghettata raschia la carne e gratta contro l’osso. La ferocia delle onde ci scherma da tutto. Siamo completamenti isolati quando il suo corpo cade ormai senza vita sul bagnasciuga. Non ci sono spettatori a vedere i fiotti di sangue che si disperdono nelle acque nere della Manica. A parte un gabbiano solitario, che muove velocemente gli occhi alla ricerca di cibo. E a parte me, ovviamente.
Ritorno al laboratorio e mi trovo faccia a faccia con il capo reciso. Gli occhi marroni sono aperti. In assenza di vita sembrano quasi finti. La tela della ragnatela è appena visibile sul lato sinistro della fronte ma i capelli, un po’ più folti dietro, nascondono il gigantesco ragno che si annida al centro del cranio. Accarezzo il rigonfiamento della nuca, godendomi la sensazione ispida dei capelli appena rasati contro i polpastrelli soffici. Non rimarrà lì a lungo, però – i capelli verranno chimicamente rimossi durante il processo di concia. La testa è ancora calda, la pelle soffice e maneggevole. La volto e leggo la scritta ricavata dai fili che escono dalla pancia del ragno:
BELIAL.
Il nome del Diavolo inciso in sinuose lettere gotiche gli avvolgeva la nuca.
«“E quale accordo ha Cristo con Belial? Che cosa ha da spartire il fedele con l’infedele?”», mormoro a bassa voce, sollevando il coltello. Il mio verso preferito dei Corinzi. Gliela farò vedere a quel bastardo che non credeva in me. Gli mostrerò cosa sono in grado di fare. Quando persino il sangue del tuo sangue ti rifiuta, i fuochi dell’ambizione brillano ancora più ardenti, non è vero? Vuoi provare il tuo valore, come atto di vendetta.
Non mi rimane che iniziare lentamente a staccare la pelle dallo scheletro.