PROLOGO
Ho scoperto che il peso specifico della carta è di circa 10.000 N/m3.
Un po’ più della cenere e della cera d’api. Un po’ meno del latte, nettamente meno del sale e anche del talco. Più o meno quanto il ghiaccio. Un po’ di più del toluolo, che non ho idea di cosa sia (un «liquido volatile», dice Wikipedia, quindi tanto pesante non sembra).
Se ne evince che tecnicamente – tecnicamente – la carta parrebbe essere piuttosto leggera.
Ora ditemi voi se non è una cazzata questa.
Siamo ormai tutti concordi nel dire che il tempo è relativo e nel citare Einstein: «Sedete un’ora con una bella ragazza e vi sembrerà che passi un minuto. Sedete un minuto su una stufa e vi sembrerà un’ora». Tutti abituatissimi a dissertare sulla soggettività della percezione del tempo. Ma parliamo un attimo della soggettività della percezione del peso. Un trasloco: avete mai portato via uno scatolone di libri da una casa universitaria in cui non avreste più abitato? Un esame: avete mai studiato le cinquecentosessanta pagine del Grande manuale della storia della diplomazia internazionale dall’età moderna alla guerra fredda? Una lettera: avete mai raccolto da un cuscino gli ottanta grammi di un biglietto d’addio? La carta pesa. Chiunque si sia mai trovato a maneggiarla lo sa. La faccenda del peso specifico varrà anche per la carta bianca, la carta intonsa, ma il fatto è che la carta ha questa proprietà tutta sua, questa reattività chimico-emotiva per cui appena ci scrivi qualcosa sopra il suo peso cambia, e così le quattrocentonovanta pagine della Pietra del vecchio pescatore diventano un mazzolino di margherite, mentre le centotrenta di Uomini e topi un macigno che ti impedisce di rimetterti in piedi per mezza giornata anche dopo che l’hai chiuso.
La carta pesa.
Questo penso, mentre fisso la mia libreria come se la vedessi per la prima volta, e non riesco a capacitarmi che non sia ancora implosa in un tripudio di schegge.
Avvicino la scaletta e salgo sull’ultimo gradino.
Il problema è peggiore di quanto credessi. Le mensole si sono imbarcate abbastanza da schiodare in parte il pannello di fondo, e in mezzo si è aperta una fessura di un centimetro abbondante. Sulla mensola più alta tengo i cd. Sono ammucchiati su tre file, perché le mensole sottostanti sono tutte occupate dai libri – in due file per mensola più uno strato extra coricato sopra. Se c’era una logica nella loro sistemazione, è morta molto tempo fa. Ho bisogno di una libreria più grande. Ho bisogno di una casa più grande. Ho bisogno di uno stipendio più grande. Okay, sono appena riuscita a strappare un aumento al mio capo, ma chissenefrega: per come la vedo io, ho sempre bisogno di uno stipendio più grande. Fatto sta che sarà la decima volta che succede: cerco di afferrare un cd, lo spingo senza volere verso il fondo della libreria, e il bastardo scivola giù dalla stupida fessura per andarsi a incastrare dietro i libri della mensola di sotto.
Frugo con la mano dietro i volumi.
Dovrei spolverare. Tipo, dal 2006.
Sotto le mie dita dalle unghie smaltate di viola non sento traccia della custodia del disco. Che palle. Mi toccherà levare i libri per disseppellirlo.
Inizio depositando sulla scrivania un piccolo cluster di classici: La certosa di Parma, Il lupo della steppa e L’idiota di Dostoevskij. To’, chi si rivede. Effetto madeleine: per un attimo ho di nuovo quindici anni, è lunedì mattina e sto andando a scuola dopo essere rimasta sveglia tutta la notte per finire di leggerlo. Dio, quel giorno, che umore di merda. Ma la mia memoria potrebbe confondersi, perché in effetti non sono certa di avere passato un solo minuto dei miei quindici anni senza avercelo, un umore di merda.
Perché invece, adesso.
Peso specifico percepito dell’Idiota: 1000 N/m3. A parola.
Sopra il vecchio Fëdor ci finisce Storia militare in venti mosse, Edizioni L’Erica, 2006. Ex ufficiale dell’esercito italiano ansioso di emulare Sun-Tzu e Von Clausewitz racconta venti grandi battaglie della storia attraverso tattica, strategia ed evoluzione della strumentazione bellica. La testuggine a Veio, l’intimidazione ad Ascalona, il lanciafiamme a Verdun. Fico, vero? Ma certo, sulla carta. (Parentesi: chi diavolo l’ha coniata quest’espressione, «sulla carta», per significare: in teoria, a livello progettuale, nelle intenzioni? È assurda. Come se sulla carta ci potessero stare solo queste cose: teoria, progetto, intenzione. Ma per favore. Io ho vissuto più avventure fatte e finite nei libri di quante ne abbia viste anche solo cominciare nella vita vera. Semmai è proprio la vita vera quella che rimane sempre lì appesa per aria, e solo una volta ogni eone va a parare da qualche parte. È nella vita che trama e intreccio il più delle volte lasciano a desiderare: nei libri, perlomeno in quelli buoni, tutto ha un coronamento, un senso. È un tale sollievo. Ma dicevamo.) In teoria, quindi, sì: il progetto di Storia militare in venti mosse sarebbe stato anche fico. Nella pratica, ecco come è andata. Fase uno: ghostwriter sottopagata sbobina dodici ore di audiocassette registrate da un guerrafondaio incartapecorito che dovrebbe usare più adesivo per dentiere e spreca la metà del tempo a magnificare la cultura della caserma. Fase due: ghostwriter sottopagata cerca di entrare nella testa del guerrafondaio incartapecorito, come fa con ogni autore per cui lavora, cioè cerca di scrivergli il libro con uno stile che rispecchi la sua personalità, e scopre che in quella testa si sta larghi e comodi perché, levate le tirate militariste, è completamente vuota. Fase tre: ghostwriter sottopagata trascorre due settimane fra biblioteche e internet a cercare di accumulare quel po’ di nozioni specialistiche necessarie a integrare gli sproloqui del barbagianni, e conferire al libro il minimo di dignità scientifica che al suo autore ufficiale manca. So queste cose perché la ghostwriter sottopagata sono io. Fra l’altro, il tutto avviene nel 2006 e io, a distanza di poco meno di dieci anni, sono ancora una ghostwriter sottopagata. Perlomeno nella mia percezione, già che di percezioni si parlava.
Peso specifico percepito di Storia militare in venti mosse: 111.000 N/m3, come il piombo.
Peso specifico percepito della professione di ghostwriter: a volte, un milione di N/m3.
Rimuovo un tascabile di Elmore Leonard. (Peso specifico: un po’ più di Lansdale, un po’ meno di Ellroy.)
Un secondo tascabile, di Lansdale.
Il mignolo verde. Un manualetto di giardinaggio per piccoli balconi di città, che ho scritto per conto di un botanico nel 2011. (1500 N/m3, come il legno di balsa: così leggero che non sai cosa fartene.) Da allora, sulla carta (ah ah) avrei appreso alla perfezione come coltivare anche un baobab in soggiorno. Nella pratica l’unica cosa che abbia mai lasciato crescere in casa mia sono le pile di biancheria sporca e qualche lichene nel frigo.
Il menu del ristorante cinese Il drago di seta, consegna a domicilio, domenica inclusa. Ecco dove si era cacciato. Per non saper né leggere né scrivere – altra espressione grottesca, per chi fa il mio mestiere – questo magari lo lascio fuori, perché lui sì che può tornarmi utile.
Pollyanna. Sul serio? Lo esamino come un manufatto alieno. Ho veramente una copia di Pollyanna nella mia libreria? Gesù. Più che altro mi stupisco che, ora che la sto tenendo in mano, non si stia disintegrando come a contatto con l’antimateria. Ah, ma certo, ora ricordo. Me la sono dovuta procurare per documentazione, quando mi è toccato redigere il memoriale di quell’orrenda presentatrice. 2010: una nota conduttrice di varietà dà una svolta alla propria vita, che a quanto pare da anni stagnava insospettabilmente nell’insoddisfazione, e si sente chiamata a scrivere (leggasi: a farsi scrivere, indovinate da chi) un libro sul potere del pensiero positivo. Titolo del toccante racconto-verità: Pollyanna 2000. Come il gioco della felicità mi ha salvato la vita (Edizioni L’Erica, 2011). La ghostwriter sottopagata riceve un plico di appunti scoordinati da usare come traccia base, dai quali apprende che la presentatrice attribuisce la propria rinascita all’energia positiva che ha imparato a incanalare nella vita quotidiana. «Il segreto sta nel reinnamorarsi ogni giorno del proprio mestiere, della propria famiglia, delle piccole cose della vita che si davano per scontate, e soprattutto di sé stessi», pontifica l’illuminata. La ghostwriter sottopagata procede nella lettura, o per meglio dire nella decifrazione dei suddetti appunti, e scopre che l’esimia bodhisattva si è in effetti reinnamorata del proprio mestiere – dopo che un amico produttore compiacente le ha costruito a tavolino un programma su misura per lei; che si è reinnamorata della propria famiglia – dopo aver conosciuto l’aitante giovane attore per il quale ha finalmente avuto il coraggio di lasciare il marito; che si è reinnamorata delle piccole cose della vita – che nel suo caso comprendono, fra le altre, prendere il primo caffè del mattino sull’immenso terrazzo del proprio attico romano, o concedersi di quando in quando il vezzoso premio di un gioiello o di un viaggio esotico. Quanto al reinnamorarsi di sé stessi, non c’è nemmeno bisogno di frugare negli appunti: viene selezionata per il retro di copertina una fotografia in cui l’autrice appare smagliante, merito evidentemente della ritrovata felicità, ma anche del sontuoso lifting più liposcultura praticatole da un altro affettuoso amico, chirurgo estetico. Chiedo un colloquio a Enrico, il mio capo, l’editore. Con la presentatrice non ci posso parlare, perché Enrico non gradisce che io abbia contatti diretti con gli autori, ma con lui sì. Gli faccio notare che mi sta facendo scrivere una presa per il culo. Non che me ne freghi, visto che mi paga lo stesso, ma non venga poi a dirmi che non l’ho avvertito che il libro sarebbe risultato una presa per il culo. Enrico dice che ci deve pensare su e ci pensa su, in effetti, per dieci secondi, poi decide che il bisogno di identificazione e di speranza di un lettore medio è meno importante del fatto che l’autrice trapunti un libro di nomi di personaggi famosi e di amici del jet set, e il libro esce così. Una presa per il culo.
Peso specifico di Pollyanna 2000: quasi 187.000 N/m3, lo stesso dell’uranio, e, se chiedete a me, nocivo uguale.
Fossi almeno stata pagata bene.
Carmilla. Avevo un fidanzato che mi ci chiamava, Carmilla. Non ha funzionato. Col fidanzato, dico, perché il soprannome funzionava eccome. Prima che arrivasse Lisbeth Salander, naturalmente.
Una raccolta dei Peanuts di quelle in cui Snoopy scrive.
Una copia dell’edizione deluxe di Più dritta di una corda di chitarra. Non ne voglio parlare.
Mi pare di intravedere finalmente l’angolo del mio cd, incassato dietro la mensola e gli ultimi due libri rimasti.
Levo ancora uno Scerbanenco d’annata. I milanesi ammazzano al sabato. Ah, il mio nuovo amico, il commissario Berganza, sarebbe fiero di me. Lui adora i gialli d’autore, come appunto quelli di Scerbanenco o di Fruttero e Lucentini, con la loro sofisticata alta società che sa di vintage e i casi improbabili, a tinte fin troppo forti, ai quali però, per quella magica forma di alleanza che si crea fra uno scrittore e un lettore coraggiosi, mentre leggi sei disposto a credere. «I milanesi ammazzano al sabato» perché gli altri giorni lavorano. I torinesi, non so. Noi possiamo trovare il tempo per un omicidio anche la sera dei giorni feriali, direi, perché ceniamo presto e non facciamo l’aperitivo.
Sorrido fra me.
Eccolo là, il cd. Dietro l’ultimo dei libri: La donna della domenica, neanche a farlo apposta.
Il cd è Synchronicity dei Police.
Con soddisfazione lo piazzo finalmente nel lettore, partendo dall’ultima canzone, Murder by Numbers, perché mi va così.
Because murder is like anything you take to
It’s a habit-forming need for more and more.
You can bump off every member of your family
And anybody else you find a bore
“Perfetta”, penso mentre riordino i libri – cioè li risbatto sulla mensola in un ordine casuale diverso dall’ordine altrettanto casuale di prima. Perfetta per me e perfetta per oggi. I Police saranno la colonna sonora simbolicamente ideale della mia giornata.
Visto che da oggi sono ufficialmente diventata una collaboratrice della polizia.