4.
LE SVELO UN SEGRETO
Mezz’ora dopo sono in commissariato. (Con due birre in corpo.)
Era un po’ che non ci venivo. Mi mancava. I neon acidi che fanno somigliare tutti a personaggi dell’Alba dei morti viventi. Il linoleum che geme come se le suole degli agenti gli facessero male. I muri rivestiti fino a un metro e mezzo d’altezza da un intonaco grumoso che mi ricorda la mia scuola elementare, e le collezioni di croste sui gomiti ogni volta che ci finivi addosso. Berganza mi ha offerto un caffè alla macchinetta, una volta. Faceva schifo. Questo posto è pensato per essere la controparte di un carcere, ci scommetto. Forse è un modo per ricordare agli agenti in che razza di inferno faranno finire la gente che arrestano, tipo karma, in modo che prima ci riflettano bene.
Non so come faccia Berganza a passare qui le sue giornate.
Eppure non solo lo fa, ma giurerei che non ci si trova neanche male. In fondo, quando è qui significa che non è fuori a rischiare la pelle in qualche operazione. Può starsene seduto alla sua scrivania spoglia, a compilare carte e a leggere i suoi amati gialli in pausa pranzo. Scommetto che ormai il biancore livido dei neon non gli fa più né caldo né freddo.
Ecco come si tempra un poliziotto. Se impari a sopportare questi neon, dopo puoi anche vedere un cadavere al giorno, e il tuo senso estetico non cadrà da molto in alto.
Berganza chiude la porta e nell’ufficio rimaniamo io, lui e altre tre persone. Ho imparato a conoscerle incontrandole nei corridoi del commissariato o alla palestra convenzionata. Sono Rovato Manuel, un giovane ispettore che, con i suoi capelli color paglia e le lentiggini, ha un che del bobby inglese; Pezzoli Arianna, una sua collega piccoletta e con la coda di cavallo (di un artificialissimo color mogano: unico tocco di frivolezza di tutta la sua persona); e il buon vecchio Petrini Claudio, che dimostra dodici anni e t’aspetti che ti confessi da un momento all’altro che fa il poliziotto perché da grande sogna essere un paladino del bene come Superman o Spiderman. Scommetto che nel chiuso della sua cameretta – perché sicuramente vive ancora con i genitori, e la mamma gli prepara il brodino di pollo ogni volta che prende il raffreddore – ogni sera prima di addormentarsi prega Gesù bambino perché al risveglio gli sia spuntato il primo pelo di barba.
Manca l’agente Macchio, con il quale ho condiviso la mia prima avventura come consulente ancora non ufficiale della polizia, qualche settimana fa, e manca anche Betti, che anche quando risponde al telefono cerca per principio di consumare meno energie possibili. Considerate la sottigliezza di Macchio e l’efficienza di Betti, forse è un bene. Non per l’altra missione, però.
I ragazzi si siedono davanti alla scrivania di Berganza. Io trascino all’estremo sinistro della fila una sedia pieghevole di riserva. I ragazzi si accomodano composti. Io sprofondo nel sedile e stendo le gambe. Non è che voglia fare per forza la strafottente anticonformista, sono queste maledette sedie da regista che cedono sempre e diventano più basse del dovuto. Così ora sembro un’adolescente ostile in una classetta di secchioni. Vani Sarca, signori. La donna che quando hanno distribuito l’integrazione sociale era a casa a leggere Salinger.
Berganza mi allunga attraverso la scrivania due fascicoli, insieme a due foto. Una raffigura un mostruoso tamarro di mezz’età, un’altra un mostruoso tamarro più giovane.
«In questo momento, in fondo a questo corridoio, ci sono due uomini chiusi in due stanze», esordisce il commissario. «Si chiamano Fausto Dalmasso, di anni ventinove, celibe, disoccupato, con piccoli precedenti per furto, e Rocco Monteleone, di anni cinquantasette, separato, anche lui con precedenti, ma peggiori, per furto e aggressione. Ora. I due gentiluomini hanno rubato un furgone, ma uno dei due ha anche malmenato il proprietario che è sopraggiunto mentre stavano scassinando la portiera. Problema: i due non vogliono dire chi ha compiuto il pestaggio, e da quando questi ragazzi sono qua è la prima volta che avviene un’impasse del genere.» “Questi ragazzi” sarebbero i tre baby sbirri che ho davanti, e Berganza dice quest’ultima parte rivolgendosi specificamente a me.
Grandioso. Significa che i tre mocciosi sono degli incompetenti quanto me, ma a differenza di me sono giustificati dall’inesperienza, mentre io, in teoria, dovrei fare il jolly esterno che arriva e risolve il casino. Fantastico.
«Io ho parlato personalmente con entrambi i sospettati in via informale e non ho cavato un ragno dal buco», conclude il commissario. «Perciò ora bisogna cambiare sistema.»
Pezzoli si tormenta la punta della coda di cavallo. È una fanciullina composta, ma in confronto ai due giovanotti sprizza vitalità da tutti i pori. Gli altri sembrano impagliati. Ho la sensazione che non siano stupidi ma muoiano di soggezione nei confronti di Berganza.
«Quindi stavolta niente principio di Locard?» azzarda Pezzoli quando ha finito coi capelli.
Non ho la più pallida idea di cosa sia il principio di Locard.
Berganza scuote il capo. «No, niente di risolutivo, a meno di non affidarci alla Scientifica per delle analisi più minuziose, e quindi anche lunghe. E invece io ci tengo che quei due, specialmente Monteleone, finiscano dentro quanto prima.»
«Perché?» Questo è Petrini, esitante come un cucciolo davanti a un ruscello gelido. «Voglio dire, c’è qualche motivo per cui...?»
Berganza annuisce. Nel vocabolario corporeo di Berganza, «annuire» corrisponde ad abbassare un istante le palpebre. «Monteleone è un vero bastardo. Picchia la ex moglie e i figli e più o meno tutte le donne della sua famiglia, che non lo denunciano perché se la fanno sotto dalla paura, e le capisco anche. Dalmasso è una specie di lontano nipote che vive nel suo caseggiato e dev’essere cresciuto nel mito dello zio fuorilegge. Dev’essere un poveretto psicologicamente plagiabile, vittima della personalità fortissima di Monteleone. Per come la vedo io, ogni ora, minuto, secondo, che separa il momento in cui Monteleone ne fa una delle sue dal momento in cui viene sbattuto dentro, è una vittoria morale di Monteleone. Potremmo anche limitarci all’accusa di furto, ma la sola idea di quel farabutto che torna in mezzo ai suoi cortigiani e si vanta perché è scampato al capo d’imputazione peggiore, cioè l’aggressione, mi fa saltare il fegato. Oppure potremmo accusare entrambi per il pestaggio, se non fosse che il proprietario del furgone ha ricevuto un solo forte colpo alla testa, da dietro: non ha visto in faccia chi dei due sia stato ma è evidente che si è trattato di uno solo. Dunque ciascuno di due continuerà a dichiarare di essere quello innocente, e finirà che dovremo lasciarli andare entrambi. Io invece sono convinto che a picchiare la vittima sia stato Monteleone: tutto sta nel farglielo confessare.»
«Come mai ne è convinto?» chiedo.
«Per esclusione. Vede, Sarca, Dalmasso in questo momento è il galoppino, il servo della gleba di Monteleone. Con tutta probabilità, Monteleone gli ha promesso di farlo diventare il suo braccio destro in cambio di un po’ di gavetta e di dimostrazioni di fedeltà: ad esempio, sarebbe tipico se gli avesse chiesto di coprirlo, di sporcarsi il più possibile le mani al suo posto...»
«Mi scusi, commissario.» Rovato il bobby apre bocca per la prima volta, e mi piacerebbe che pronunciasse una erre per scoprire se la arrota all’inglese. «Ma se Dalmasso ha promesso queste cose a Monteleone, perché finora si è limitato a non dire che è stato Monteleone a picchiare il tizio?» Non l’arrota. Peccato. «Avrebbe potuto dichiarare di essere stato lui, prendersi lui la colpa, così avrebbe non solo coperto ma addirittura scagionato il suo capo.» Ha ragione. Vedi che è vero che questi poppanti non sono scemi.
«Ci stavo arrivando. Il fatto è che Monteleone è un esperto e sa come vanno queste cose», spiega Berganza. «E sa che, se si confessa qualcosa che non si è fatto, prima o poi si commettono degli errori. Ci si confonde con la dinamica, ci si fanno scappare più dettagli del normale, insomma si danno involontariamente indizi agli investigatori su quale sia la verità. In pratica, sono pronto a scommettere che Monteleone ha inculcato a Dalmasso il concetto che è meglio non parlare e basta. Se Dalmasso avesse pestato lui la vittima, avrebbe già confessato per scagionare Monteleone; ma se sta zitto dev’essere perché non è stato lui e Monteleone gli ha spiegato che in questi casi tacere è la soluzione più sicura. Ecco perché io vedo in questa situazione la dimostrazione del fatto che sia stato Monteleone a compiere l’aggressione, ma non ho nessun elemento per provarlo.»
Pausa.
È a questo punto che Berganza si gira e mi guarda. Seguito ovviamente da tutti gli altri.
Io li guardo a mia volta, finché mi rendo conto che si aspettano che dica qualcosa.
«Che c’è?» mi decido, quando il silenzio inizia a diventare imbarazzante.
«Avanti, Sarca. Faccia quello per cui l’ho fatta assumere», dice Berganza. «Entri nella testa altrui.»
Il commissario mi piace, ma quando fa così mi viene voglia di alzarmi, andarmene, e già che ci sono portarmi dietro il giallo che di sicuro tiene nel cassetto della scrivania, in modo che non sappia mai come va a finire.
Taccio.
A lungo.
«Sarca, una parola in privato», dice alla fine Berganza.
Non accade nulla.
«Significa che dovete uscire», sospira il commissario.
Velocissimi, i tre marmocchi scattano in piedi. «Contate fino a venti e rientrate», dice Berganza mentre Petrini apre la porta.
Non appena siamo soli, Berganza mi punta gli occhi addosso. Credo sia la seconda, massimo la terza volta che li vedo così bene, dritti nella mia faccia, e non offuscati da un velo di fumo di sigaretta.
«Sarca», dice piano. «Le svelo un segreto, poi deciderà lei come gestire quest’informazione. I criminali, perlopiù, sono gente banale. Stupidi, persino. Esiste qua e là, ovviamente, qualche volpe, qualche autentica iena dal cervello affilato come una lama e capace di piazzarsi sempre un passo avanti a noi, ma perlopiù si tratta di normalissimi stronzi qualsiasi. Solo un po’ più privi di scrupoli della media: ma non più geniali, o più lucidi, e spesso nemmeno più svegli. E con, appunto, pulsioni banali, moventi banali, reazioni banali. Perché crede che mi piaccia tanto leggere gialli d’autore? Per il gusto di farmi ancora sorprendere da qualcosa o qualcuno, Sarca, glielo dico io.»
Ci guardiamo in silenzio per un attimo.
«...Venti», dice Rovato riaprendo timidamente la porta. «Possiamo?»
Berganza annuisce e i tre tornano a sedersi ai loro posti con la velocità con cui sono usciti.
«Nel frattempo, commissario, avremmo pensato a qualcosa anche noi», azzarda Rovato. «Potremmo dire a Dalmasso che Monteleone ha già confessato, e che quindi...»
«No», lo stronca Berganza. «È proibito. Vi ricordo che fra dieci minuti sarà qui anche Martucci, e sarà prontissimo a saltare su come un petardo a ogni cavillo.»
«Oddio, è vero! Articolo 188 del codice penale», recita all’istante Petrini come un disco. «“Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti.”»
«Chi è Martucci?» chiedo.
«L’avvocato d’ufficio», si affretta a spiegare Petrini. «Quando si interroga un soggetto in quanto persona informata dei fatti, si può fare a meno del difensore, ma se uno è indagato...»
Gli faccio segno che ho capito prima che questa stanza diventi un’aula di diritto.
«Se dicessimo a Dalmasso che Monteleone ha già accusato lui?» Questa è Pezzoli. «Così magari l’istinto di autoconservazione supererà la pressione psicologica e...»
«Proibito, come sopra», dice Berganza scuotendo il capo.
«O gli diciamo che non deve sentirsi in colpa a testimoniare contro Monteleone perché chiunque al suo posto...»
«Proibito.»
«Gli diciamo che non è così grave se...»
«Proibito. Gesù, volete regalare a Martucci il miglior giorno della sua vita?» Berganza spalanca le braccia, come a significare “ma devo spiegarvi tutto”.
«Non diciamo proprio niente a Dalmasso.» E questa sono io. Otto occhi tornano a volgersi verso di me. «Andiamo direttamente su Monteleone.»
«Ma è Dalmasso quello psicologicamente debole», dice Petrini, l’Uomo Manuale.
Troppo complicato da spiegare. Non ci provo neanche e mi rivolgo a Berganza. «Chiamate questo Martucci e ditegli che non c’è più bisogno che venga. E mi serve Pezzoli.» Berganza guarda Pezzoli che, seppur perplessa, annuisce volenterosa.
Bene.
«Ma prima devi venire in bagno con me cinque minuti», aggiungo.
Petrini, Rovato e Berganza sono in corridoio, appena fuori dalla porta dell’ufficio del commissario, quando io e Pezzoli usciamo dal bagno.
Se esistesse un effetto-moviola nella realtà, questo sarebbe il momento di usarlo.
Pezzoli è irriconoscibile. Le ho fatto sciogliere i capelli e sbottonare la divisa. A dirla tutta, le ho anche fatto infilare una generosa manciata di carta igienica nel reggiseno, e ho controllato che l’effetto fosse realistico. Ma soprattutto l’ho truccata come mai nella sua vita. Adesso ha gli occhi grandi il doppio di prima, con ciglia da cerbiatta che le ombreggiano uno sguardo da far invidia a Lauren Bacall. La bocca sembra pronta per essere impiegata in una pubblicità di rossetti, o in attività molto meno caste. Il ciuffo mogano le spiove sull’occhio sinistro (sì, be’, per questo ho preso un tantino ispirazione da me stessa) e ondeggia sensuale a ogni passo della ragazza lungo il corridoio.
Rovato e Petrini la fissano avvicinarsi come fan a lato di un red carpet. Sbarrano gli occhi, serrano le mascelle. So cosa vedono. Un conto è pensare che la tua collega abbia forse un po’ di potenziale. Un altro è trovarsi di fronte quel potenziale pienamente sviluppato. È come vedere Scarlett Johansson nell’Uomo che sussurrava ai cavalli e subito dopo in Match Point. Se ho capito i tipi, non saranno più in grado di rivolgersi a lei con serenità per almeno una settimana. Pezzoli fa un sorrisetto imbarazzato, ma immediatamente si ricorda di essere in servizio, proiettata verso una precisa missione, e si impettisce. Il che fa sì che gli sguardi dei due colleghi vengano ancora più attratti dall’avantreno imbottito.
Berganza invece guarda me. Da parte mia, mi sono limitata a rifarmi il trucco (sostituendo il rossetto viola con un più canonico scarlatto da vamp), levare il maglione e rimanere con la sola canotta nera scollata sotto l’impermeabile aperto. Ho un freddo cane, ma potrebbe anche trattarsi dei sudori gelidi all’idea della mia prima missione ufficiale per la polizia. Già, perché l’idea è mia, il piano è mio, ma questo significa che lo è anche la responsabilità, e mi farebbe davvero girare le palle se un testadicazzo violento che picchia donne e bambini se ne tornasse a casa gongolante perché io ho avuto una pensata da schifo.
Però Berganza mi sta guardando.
E nel suo sguardo, che intercetto mentre gli passo davanti lungo il corridoio, c’è tutto tranne che preoccupazione.
Nello specifico, il commissario mi sta guardando con la stessa aria compiaciuta e divertita che si ha quando si sta leggendo un libro e si pregusta una scena che promette bene.
Io e Pezzoli superiamo i tre spettatori e raggiungiamo la porta a sinistra in fondo al corridoio.
Monteleone ci aspetta seduto a una scrivania.
È stempiato ma ha i capelli lunghi sulla nuca, impomatati all’indietro, e le basette. Non è altissimo ma corpulento. Ha la camicia aperta sul petto villoso, a incorniciare un crocifisso d’oro in scala neanche troppo ridotta, e sopra una vecchia giacca di pelle così elaborata che Elvis l’avrebbe trovata kitsch. Avrà anche cinquantasette anni, ma la pelle della faccia è scura e rugosa come corteccia di castagno. Troppo sole, o troppe lampade. Questi criminali di mezza tacca sono vanitosi.
Bene. Pulsioni banali, come ha detto Berganza.
È proprio ciò su cui conto.
Ha anche l’aria seccata per quanto l’abbiamo fatto aspettare, ma io e Pezzoli, come concordato, non ci scusiamo né nulla. Anzi, entriamo con dei gran sorrisi, chiacchierando piano fra noi, come se fossimo costrette da questa fastidiosa incombenza dell’interrogatorio a interrompere una conversazione frizzante.
«Okay», sospiro io sedendomi, sempre col sorriso sulle labbra. «Allora, che cos’abbiamo qui?» Berganza mi ha prestato il fascicolo del caso. Lo sfoglio distratta, come se mi annoiasse un po’. «Ah, sì. Il furgone.» Passo uno sguardo distratto su Monteleone, per poi incrociare di nuovo quello di Pezzoli.
La quale, perfettamente nella parte, sta facendo finta a sua volta di avere ancora la testa alla nostra conversazione, e di faticare a reprimere una risatina. Io le scocco un’occhiataccia che dovrebbe significare “mio Dio, conteniamoci!”, ma fingo che stia scappando ancora da ridere anche a me.
Per non saper né leggere né scrivere, Monteleone dovrebbe averci appena prese per due ragazzine delle medie. E pure di quelle un po’ stupide, che con tutta probabilità hanno parlato di maschi fino a un attimo prima e si sono eccitate come oche.
«Vediamo...» continuo io cincischiando con il fascicolo. Pezzoli si dà un contegno – ma svogliatamente – e sfodera il foglio del verbale e la penna. «Monteleone Renzo...»
«Rocco», precisa ostile l’uomo.
Alzo gli occhi come se lo vedessi per la prima volta. «Uh? Ah, sì sì, Rocco.» Riabbasso gli occhi sulle carte. «Furto con scasso... Arresto... Insieme al complice Dalmasso Fausto – eccolo qua.» Sospingo la foto di Dalmasso verso Pezzoli. Il nome di Dalmasso mica lo sbaglio. E nel guardare la foto Pezzoli si fa scappare, veloce veloce, una smorfia di apprezzamento femminile.
Benissimo. Brava, Pezzoli. Stiamo andando alla grande.
Sempre che la mia assurda idea funzioni, s’intende.
«Perché non c’è un avvocato?» bofonchia Monteleone.
«Perché non serve», sbadiglio. «Non la stiamo più interrogando come indagato, signor... Monteleone. Lei d’ora in poi è solo persona informata dei fatti. Sa, niente principio di Locard, stavolta» (continuo a non avere idea di cosa significhi, ma ha fatto effetto su di me, prima, e ora farà effetto su Monteleone), «però, ecco, non dovrebbero esserci grandi dubbi. Facciamo fare un rilievino a Conardi», dico a Pezzoli, «ma credo che il Dalmasso si possa già preparare psicologicamente all’accusa.» Non esiste nessun Conardi, ovvio, ma è molto più convincente che dire “facciamo fare un rilievino alla Scientifica”, e poi fa sentire Monteleone un poco più tagliato fuori. Roba da nulla, chiaro, ma sono i sassolini nella scarpa che alla fine ti costringono a smettere di camminare, sfatto dalle vesciche.
Non mi è sfuggito, con la coda dell’occhio, che Monteleone, nel sentirmi attribuire con tanta sicurezza l’aggressione al suo complice anziché a lui, ha avuto un moto di sorpresa. Inoltre, non credo si aspetti che io gli sorrida, ma è esattamente quello che sto facendo.
È un sorriso affettuoso, come quello che si riserverebbe a un vecchietto birbone beccato a non raccogliere dal marciapiede i bisogni del suo cane.
«Vedo che lei ha una lunga esperienza di queste cose, quindi già sa che non è che con questo le sue grane finiranno, perché comunque al furto ha partecipato. Però perlomeno l’accusa di aggressione se l’è evitata. È felice?»
Monteleone alza un sopracciglio, perplesso.
«E adesso lo interroghiamo, Dalmasso?» chiede Pezzoli speranzosa.
«Fra poco, fra poco», dico. Nuovo scambio di sorrisetti maliziosi.
A questo punto dovrebbe essere chiaro anche a un coglione come Monteleone che le due giovani donne che lo stanno interrogando con bonario disinteresse considerano Dalmasso un affascinante mascalzone, del tipo che fa impazzire le femmine sciocche e accende in loro speranze di redenzione, o quantomeno di sesso scomposto in un vicolo buio.
E lui un inutile relitto di una generazione passata.
Pezzoli mi prende il fascicolo dalle mani e osserva ancora per qualche secondo la foto di Dalmasso. Stavolta però con fare più professionale, riflessivo. «Be’, dai, è evidente», dice.
«Ma sì», sbuffo. «Con tutto il rispetto, ma solo i nostri colleghi maschi potevano farsi venire dei dubbi.»
«Per forza, il commissario avrà centovent’anni, è chiaro che non vuole vedere la realtà», borbotta Pezzoli, abbassando la voce come se avesse paura di farsi sentire da Berganza attraverso la porta. (Il che forse è anche un po’ vero.) «Guarda qua.» Indica il report delle ecchimosi del proprietario del furgone. «Hai idea della forza che ci vuole a fratturare così l’osso occipitale? E poi il colpo lo devi dare anche da una certa angolazione, cioè devi essere alto e muscoloso, un bel marcantonio.»
«Ma infatti», concordo. «E poi c’è la questione dell’intraprendenza, naturalmente. Davvero, io a volte mi chiedo cosa diavolo abbiano imparato quelli là in tutti questi anni di servizio.» Scuoto il capo, e Pezzoli in sincrono, come se fossimo due comunissime ragazze al bar che si lamentano del fatto che gli uomini sono tutti uguali. «Al corso ti fanno una testa così a spiegarti che i vecchi mandano sempre avanti i giovani, che sono i giovani la linfa, il motore, che le azioni più dinamiche sono nel novanta per cento dei casi riconducibili a loro... e i nostri colleghi perdono pure tempo a farsi delle domande. Cioè, io posso capire che loro siano anche...» Abbasso la voce, gettando un’occhiata alla porta alle mie spalle, «...che siano anche gelosi di questo Dalmasso che ha neanche trent’anni, è prestante fisicamente, è spregiudicato il giusto, intraprendente, e non ha paura di portarsi dietro la... uh, la vecchia guardia. Ma non per questo possono fare finta che, solo perché un tizio è stato una minaccia una volta, debba pagarla per tutta la vita. Anche i vecchi delinquenti dovrebbero avere il diritto di andare in pensione, per la miseria.»
Pezzoli annuisce.
Solleviamo insieme su Monteleone uno sguardo che trasuda compassione.
Monteleone apre la bocca e inspira forte prima di parlare.
Il botto della mia mano che sbatte la confessione firmata sulla scrivania di Berganza è il suono più dolce del mondo.
Rovato e Petrini ci stanno fissando come la Santa Vergine in duplice copia.
Io e Pezzoli siamo trionfanti.
Berganza aspetta di leggere tutto il foglio fino alla fine, poi anche lui alza gli occhi su di me.
«Avete fatto in modo che si vantasse di aver picchiato il tizio», dice.
«Già.»
«Senza mettergli le parole in bocca... e, anche se l’aveste fatto giusto un pochino, senza burocrati d’ufficio fra i piedi a poterne prendere atto.»
«Sì!» esclama Pezzoli entusiasta. Poi dice qualcosa di complicato sul fatto che non sarebbe comunque una di quelle manipolazioni che tanto esaltano Martucci, perché, di fatto, noi stavamo offrendo a Monteleone la possibilità di confermare la sua innocenza rispetto all’accusa di aggressione e bla bla bla; ma io tanto ho già smesso di pormi qualsiasi problema quando ho visto la faccia soddisfatta di Berganza, e studierò legge quando mi toccherà fare la ghostwriter di un avvocato.
Piuttosto, dico: «Per la cronaca, la ragazza è stata bravissima», perché Pezzoli se lo merita. La giovane agente diventa rossa di piacere. Per un attimo mi ricorda Morgana. La devo smettere con questi conati di istinto materno.
«Molto bene, ottimo lavoro. Potete andare», dice Berganza, laconico ma genuinamente soddisfatto. O almeno, io capisco che lo è, perché, sebbene riabbassi quasi subito lo sguardo sulle carte sparse sulla scrivania, gli angoli della bocca gli si increspano verso l’alto.
I tre mini sbirri escono dall’ufficio del commissario. Rovato e Petrini marciano due passi dietro a Pezzoli come discepoli vestiti di sacco a seguito del messia. Fattene una ragione, ragazza. I maschi con cui dividi incarichi e giornate si comporteranno da idioti nei tuoi confronti almeno fino alla fine del mese. Io faccio per andarmene a mia volta, quando sento: «Sarca».
«Sì, commissario?»
«Ottimo lavoro.»
«L’ha già detto.»
Berganza continua a compilare moduli, ma sorride, stavolta in modo evidente.
«Non finga che non le piaccia sentirselo ripetere.»
A Berganza non riesco mai a nascondere un accidente.
«Buona giornata, Sarca. E si ricordi che domani ha di nuovo lezione di aikido.»