19.
STELLE

Agosto 1990.

Crepuscolo sopra Bardonecchia. Crepuscolo avanzato, a dirla tutta. A dirla proprio tutta, sarebbe anche ora di alzare il culo e tornarsene a casa. Perlomeno, questa è la modesta opinione di Vani Sarca, quasi dieci anni e un piumino viola che la inscatola fino alle punte della frangetta bionda. Ah, già. Non si può tornare a casa. Al massimo si può tornare in quell’angusto, ridicolo, scomodissimo bungalow che mamma e papà hanno eletto a surrogato di casa per due settimane. Quattordici giorni di prigionia. Il Bignami dei quattordici anni di carcere di Edmond Dantès.

A Vani il campeggio fa schifo.

Intorno a lei, naturalmente, è tutto un allegro brulicare di gente decerebrata che ne va pazza. Il papà, per esempio. L’idea del barbecue nel prato è stata sua, che è un po’ come scoprire che a lanciare per primo l’idea della Notte di San Bartolomeo è stato un tuo antenato. Finisci per temere di avere sangue cattivo nelle vene. Papà ha raccolto una ventina di famiglie di sadomasochisti – impiegati di banca, geometri, un ingegnere della motorizzazione, e via dicendo; si sono infilati i loro giubbotti tecnici tutti bozzuti di tasche che li fanno somigliare a delle gigantesche radici di ginseng, sono scesi in città all’apertura dei negozi per procurarsi uno scempio ecologico in termini di carne suina e poi, tavoli pieghevoli sottobraccio, hanno invaso il delicato microcosmo di un prato incolto ai confini dell’area campeggio per approntare il barbecue.

È stato orribile.

Tanto per cominciare, queste sono le situazioni in cui gli adulti urlano. Che è una cosa che Vani trova di scarsissima classe, nel migliore dei casi, e nel peggiore un sabotaggio del suo bisogno di credere nei grandi. Poi: c’è troppa gente. Questa è, in effetti, una misura aleatoria, in quanto capita spesso che i parametri di Vani classifichino come «troppa gente» la gente tout court, intesa come qualsiasi presenza umana eccedente la sua sola persona. Tuttavia, Vani sente che in casi come quello di oggi l’oggettività di giudizio è vicina. Perché non è solo una questione di qualità: quando si parla di famiglie cariche di bambini urlanti, «troppa gente» fa presto a essere vero.

I bambini sono un problema a parte. Tecnicamente, Anche Vani è una bambina. Il che significa che gli adulti applicano con lei i medesimi ragionamenti e regolamenti che ritengono validi per i bambini in generale. Quindi: costanti incentivi a giocare all’aperto. A socializzare con i coetanei. A mollare, santo cielo, per una volta nella tua vita!, i soliti libri e a farsi una bella corsa, che qui l’aria è così buona.

Vani lo trova antievolutivo. Una volta ha provato anche a dirlo: è antievolutivo. I nostri precursori correvano per scappare, o per acchiappare, o per raggiungere. Non avrebbero mai concepito l’idea di correre per correre. Il progresso è una scrivania: una comoda, grande scrivania con tanti libri sopra. Vani l’ha dichiarato, la mamma ha riso, le ha detto che è la sua stellina tanto intelligente, e poi l’ha chiusa fuori dal bungalow mentre faceva le pulizie.

La mamma sta sempre facendo le pulizie.

I figli dei compagni di barbecue di mamma e papà hanno dai tre mesi ai quattordici anni. Quelli di quattordici anni sono due gemelli maschi che non fanno che giocare a calcio, e Vani, grazie al cielo, riesce a evitarli con relativo agio. Riesce a tenersi alla larga abbastanza facilmente anche dall’altro estremo, il poppante di tre mesi dei giovani Ortis. Una volta la signora Ortis ha provato a chiederle se le sarebbe piaciuto provare a tenerlo in braccio; è stata anche gentile, a suo modo, facendole intendere che di lei si sarebbe fidata. Il secco no di Vani l’ha un po’ ferita, e Vani, che l’ha percepito, si è quasi dispiaciuta, ma, ehi: la guerra è guerra, e bisogna mettere in conto dei caduti. Lo vedi come sono i grandi. Fanno i figli e poi passano il tempo a cercare ogni sistema di mollarli a qualcun altro. Capace che, se avesse tenuto correttamente in braccio il bambino, poi le sarebbe toccato fargli da baby-sitter ogni momento. Di tredici, undici e dieci anni sono le tre sorelle Marotta, nel cui mucchio invece Vani viene spesso gettata di peso dal padre, stufo di vederla seduta al tavolo del bungalow (che, intendiamoci, in nulla è paragonabile a una scrivania appena decente). Ma il fastidio peggiore di tutti è il nugolo di mostriciattoli dai quattro agli otto anni che infesta il campeggio. In confronto a loro, le Marotta che pretendono di giocare sempre a Barbie sono una quisquilia. Perché 1) Vani è la più matura, pacata e responsabile di tutte le ragazzine del campeggio, quindi se si affidano i piccoli a lei si può almeno star certi che non li porterà a fare giochi spericolati o a camminare lungo i dirupi; 2) a Vani piacciono tanto i libri, quindi forse riuscirà a convincere qualcuna di quelle schegge impazzite a fare qualche maledetto compito delle vacanze; 3) Vani è anche una piccola asociale problematica, nemmeno i suoi genitori riescono più a nasconderlo, quindi mollandole i bambini la si costringe a fare vita di comunità e i Sarca devono solo ringraziare perché lo si fa «per il suo bene».

Ah, e 4) fra i bambini dai quattro agli otto anni c’è anche sua sorella Lara.

Tutto questo significa che, per Vani, campeggio vuol dire una lunga, estenuante contrattazione per tenersi il più possibile lontana dai mocciosi e, tipo, riuscire per qualche ora a nascondersi da sola dietro qualche cespuglio a leggere.

Il che naturalmente è impensabile nei giorni di barbecue.

Un’altra cosa che Vani odia dei barbecue è che, essendo costretta a mangiare con le mani e non avendo a disposizione un lavandino, tutto quell’unto le impedisce di sfogliare un libro fino a sera. Sempre che riesca a portarsi dietro un libro di nascosto, beninteso. In compenso, stando in un prato battuto dal sole tutto il giorno senza uno straccio di tetto sopra la testa, le si abbronzano le braccia e la punta del naso. Quarta cosa che Vani odia.

Le diventano anche i capelli più biondi. Così nei giorni seguenti è tutto un: «Ehi, guarda: ti stanno diventando i capelli come quelli di tua sorella».

E cinque.

Comunque adesso il barbecue se Dio vuole è finito, e Vani vuole solo tornarsene al bungalow al più presto.

Tutt’attorno, i grandi stanno finendo di sistemare. Sono lenti come una morte per dissanguamento. È perché anziché fare il loro lavoro bisbocciano, chiacchierano, si distraggono o fanno pausa per versarsi l’ultimo goccio di genepì, dai che così finiamo la bottiglia. Papà è pieno di carne e vino, ha il colorito delle costine che ha comprato e sta palesemente vaneggiando. «Una delle prossime notti dobbiamo organizzare un falò!» proclama. Ma certo. Che ideona. Vani pensa che vuole proprio vederlo, quel manipolo di grigi ragionieri e impiegati di sportello, dominare una delle forze più dirompenti della natura, il fuoco. O anche no. Sia mai che Madre Natura abbia un moto di insofferenza – plausibile, peraltro – e decida di rimetterli tutti al loro posto con un piccolo incendio boschivo.

Così, mentre la notte cala inesorabile, e ci sono ancora tre tavoli da piegare e due sacchi della spazzatura da andare a buttare dall’altra parte della radura, Vani sospira e non trova di meglio da fare che sdraiarsi sull’erba, a faccia in su, in attesa rassegnata.

E, appena lo fa, resta senza fiato.

Sopra di lei c’è una cosa inimmaginabile. Del tutto inaspettata. Mai vista prima dai suoi occhi di bambina di città.

Ci sono le stelle.

Ma un sacco di stelle. E sfolgoranti, bianco su nero, mica quelle smorzate capocchie di spillo che di quando in quando riescono a traforare il cielo malva della metropoli. Sembrano polvere luminosa, a granelli irregolari. Dunque Van Gogh non ha inventato niente, con quel quadro, pensa Vani. Che tira su la testa, per controllare i confini dell’immensa tela. E si accorge del paradosso: la terra senza luci – il bosco, il prato, adesso a malapena illuminati dalle torce dei campeggiatori – è scura, più scura di quanto la porzione di crosta terrestre di sua conoscenza sia mai stata, perché la città è fatta di fari, finestre, lampioni, portoni e insegne, e le luci la abitano anche dopo il calar del buio. Invece qui la terra, appunto, è scura e compatta e si stende come un’uniforme chiazza nera fin dove si vedono le punte degli alberi. Al contrario, sopra – dove di solito si trova quel cielo slavaticcio e uniforme, opaco per l’inquinamento luminoso – ora è tutto un brulicare di luci, e capisci dove finisce la terra dai confini che le stelle tracciano sparendo dietro le fronde.

Il mondo all’incontrario.

Vani osserva e le scappa un sorrisetto, probabilmente il primo della giornata. “Vedi, com’è tutto relativo”, pensa. “Il cielo notturno pieno di luci, la terra buia e desolata. Domani verrà il sole e la terra sarà piena di vita e persone e colori eccetera, e nel cielo, appannato dalla luce solare, non si vedrà un accidente.” Potrebbe sbagliarsi – dopotutto è solo una nanerottola di dieci anni che ha passato il pomeriggio in mezzo a mocciosi iperattivi – ma ha la sensazione che sia una riflessione importante, una di quelle dopo le quali ti senti un po’ più alto, un po’ più maturo, un po’ più ricco di punti-vita da spendere nel videogame dell’esistenza. In realtà, oltre che a non avere paura del buio e ad averne un po’ meno del campeggio, ciò che sta assimilando non le servirà assolutamente a niente.

Fino a una certa giornata di ventiquattro anni dopo.

Finita.

Scrivo il titolo e la canzone per Morgana è conclusa. Ho appena riletto l’inizio, l’unica parte per cui abbia tratto ispirazione dalla mia esperienza e non da quella di Ivano, e l’episodio collegato mi è balzato in mente in tutta la sua vividezza. Mi ricordo quando ho spiegato a Ivano, la sera dell’interrogatorio, che mi serviva un’immagine forte per cominciare il pezzo e che forse ne avevo una io, se gli sembrava calzante; e non appena gli ho proposto quella che mi era venuta in mente i suoi concetti vi hanno aderito come una tuta di spandex su un supereroe.

Salvo il file e ne stampo una copia. Poi scrivo un sms. Vado a consegnarla.

Ivano risponde dopo meno di tre secondi. Fiiiico! Poi mi dici se ha funzionato????

Io: Non ancora. Ho in mente qualcosa di meglio.

Ivano: ?????

Io: ;-)

A volte è lecito anche usare stupidi emoticon, se si sta parlando con un tredicenne.

Sorrido anche a un’immaginaria Vani Sarca di dieci anni, bionda e abbronzata suo malgrado, che siede per terra durante un barbecue di campeggiatori e pensa: “Spero almeno che un giorno tutto questo dolore mi sarà utile”. Lo è, piccola cinica me. A quasi un quarto di secolo di distanza, ma tu sei una che sa aspettare.

Sono di umore discreto, come sempre quando termino un lavoro, ma va detto che oggi, insospettabilmente, ci si è messo persino il krav maga a migliorarlo. Questo pomeriggio sono stata alla mia prima lezione. Ne sono rincasata con l’animo in festa e la convinzione di avere scoperto la mia vocazione nella vita: menare la gente, al diavolo i libri.

Mi infilo in tasca la stampa della canzone. Cinque minuti dopo sono al piano di sopra e sto suonando il campanello di casa di Morgana.

«Buonasera!» esclama la signora Cossato, la madre di Morgana, che somiglia a una versione sciatta di una Kathleen Turner nel pieno del decadimento fisico. Niente. Ogni volta che mi capita di incontrarla, non posso impedirmi di chiedermi come diavolo abbia fatto la mia beneamata pipistrellina a uscire dal suo ventre rivestito di gonne di panno beige.

«Come sta, signorina Sarca? Stavamo giusto per metterci a cenare, stiamo aspettando anche Laura che dovrebbe essere qui a momenti. Anzi: vuole unirsi? Ma entri, la prego!»

La madre di Morgana mi ama come solo una madre single frustrata e insicura può amare una che la tratta come se la considerasse la migliore genitrice del mondo. Naturalmente, col cavolo che la considero la migliore genitrice del mondo: gliel’ho dovuto far credere una volta solo per salvare Morgana da una rogna, ma va bene. Non è nemmeno la peggiore delle madri. Da allora la Cossato mi venera. Mi piace quando le mie strategie comportamentali rivelano dei vantaggi collaterali, tipo un invito a cena sempre valido, anche quando non mi interessa accettarlo.

«Grazie, ma non voglio disturbarvi. Devo solo consegnare una cosa a Morgana.»

La Cossato va a chiamare la figlia. Scommetto che è orgogliosa di questi scambi alla pari fra la sua bambina e l’indipendente, affermata professionista che vive al piano di sotto. Me la sono intortata talmente bene che sembra essersi completamente scordata, tanto per cominciare, del mio look da disadattata dark, e, cosa ancora più eclatante, del fatto che se vivo da sola nel suo stesso squallido condominio di semiperiferia forse tanto realizzata nella vita non devo essere.

La mente umana è un meraviglioso catorcio pieno di falle manipolabili.

Morgana arriva al galoppo dal fondo del corridoio. Estraggo dalla tasca il foglio piegato in quattro.

«Oddio! Oddio!» esclama la ragazzina afferrandolo come fosse il manoscritto originale di un sonetto del Foscolo.

«Fanne buon uso», dico solenne. «Da questo momento in poi, è tutto nelle tue mani.»

Morgana mi guarda e sembriamo Dio e Adamo nella Cappella Sistina.

La Cossato ci osserva dalla soglia della cucina e scommetto che si chiede con un misto di curiosità e orgoglio quali fondamentali segreti stiano intercorrendo fra le due ragazze che più stima al mondo.

Morgana annuisce, negli occhi il trasporto di un cavaliere che ha appena ricevuto l’investitura, e si infila il foglio nei jeans.

«È sicura di non volere rimanere a cena?» cinguetta la Cossato di nuovo.

«No, davvero, grazie, non c’è bisogno.» Mentre lo dico, il rumore dell’ascensore che si ferma alle mie spalle copre le mie parole. La porta si apre e appare Laura. Io, Morgana e la madre di Morgana facciamo per salutarla, ma Laura ci sorprende con una reazione insolita: appena mi vede, corre fuori dall’ascensore, si affaccia alla tromba delle scale e caccia un urlo che rimbomba per tutto il condominio.

«Aspetti! Non se ne vada! È quassù, al piano di sopra!»

Dopodiché la ragazzina si ricompone e si gira a guardarci, mentre noi a nostra volta la fissiamo interrogative.

«Sono salita in ascensore insieme a un fattorino con un grosso pacco», spiega. «È sceso al tuo piano, Vani, ed è andato verso la tua porta. Ho immaginato che cercasse te.»

La luce dell’ascensore si restringe e poi scompare e un rumore di leve fa capire che la cabina sta scendendo al piano inferiore. Dopo un attimo ricompare. La porta si apre e inquadra un alieno: un parallelepipedo con le gambe.

L’alieno avanza. Il parallelepipedo che ne costituisce la metà superiore, ossia uno scatolone di cartone verde pallido, è talmente vasto che capisco come mai il fattorino abbia preferito riprendere l’ascensore per una sola rampa piuttosto che fare le scale con quella piattaforma spaziale a impedirgli la vista dei gradini. Allunga le braccia, porgendo lo scatolone non si sa bene a chi.

«La dottoressa Silvana Sarca?» dice.

«Sono io.»

Il fattorino orienta lo scatolone verso di me. «Dovrebbe firmare.»

«Qua!» esclama Morgana, che è già corsa a prendere una penna con la sua efficienza da prima della classe.

Laura mi regge il paccone mentre io compilo una ricevuta. «Oddio, c’è scritto “Giay Marin” qua sopra», legge sull’etichetta adesiva che blocca il nastro.

«C’è anche un biglietto», nota Morgana.

Glielo strappo dalle mani, ma ormai le teste delle due ragazze sono talmente vicine che a leggere l’interno, scritto a penna, siamo in tre. In quattro, più probabilmente, perché giurerei che la Cossato all’udire le parole «Giay Marin» abbia iniziato con discrezione a slogarsi il collo.

Cara Vani, provi a vedere come le va il suo Giay Marin su misura. Così a occhio e croce, mi sembra che Ernesto abbia fatto un ottimo lavoro. Sono certa che le starà divinamente! Sono ansiosa di vederglielo indossare alla nostra festa. E grazie ancora di avere accettato l’invito: lei ha capito quanto fosse importante per me.

Un calorosissimo saluto,

Delia.

PS: le consiglio per esperienza di tenerlo un po’ addosso in casa, per vedere se ci si muove liberamente o se, ad esempio, sia il caso di allargare un filo le maniche.

Laura è la prima a capire, come dimostra il mugolio estasiato che inizia a emettere. Morgana pure esclama un «Oh! Non mi dire che qui dentro...!» ma è troppo educata per fare quello che tutte, è evidente, muoiono dalla voglia di fare, ossia sventrare il pacco come una furia. La Cossato leva lo scatolone dalle grinfie di Laura, trillando: «Piano, è delicato!», ma facendosi palesemente violenza per non aprirlo nemmeno lei.

Il fattorino si defila, tanto nessuno lo sta più considerando.

Io allungo le mani.

La Cossato esita, anche se cerca di non darlo a vedere, poi mi porge lo scatolone.

Io potrei ringraziare e andarmene facendo come se niente fosse. Solo che sei occhi ardenti di curiosità mi stanno perforando, e se decidessi di non soddisfare la loro brama mi sentirei come un adulto che prima sventola dei lecca-lecca sotto il naso di un bambino e poi glieli sottrae per sadismo.

Che palle.

«Mi date una mano?» sospiro.

Laura si avventa sullo scatolone, Morgana scioglie il nastro prendendolo con la punta di due dita. Prima se lo avvolge rispettosamente attorno al polso per conservarlo, manco fosse una fascia nobiliare, poi procede a sollevare il coperchio con una cautela che fa pensare che stia aprendo l’Arca dell’Alleanza. Sarà bene che non me lo dimentichi mai: questo è l’effetto che un pacco marchiato Giay Marin fa ai comuni mortali. Per un istante tutte ci aspettiamo che dalla fessura che si va ampliando escano un fascio di luce e un coro d’angeli.

La Cossato, che è la più alta, prende delicatamente per le spalle l’abito contenuto nella scatola e, con una reverenza religiosa, lo dispiega davanti ai nostri occhi.

«Porca di quella...» esclama Laura.

«Gesù, Giuseppe, Maria e tutto il presepe fino all’ultima pecorella», ricama Morgana in un attacco di logorrea.

«No, cazzo. Io non posso mettere questa roba», gemo io.

«È sicura di non volersi fermare a cena?» sussurra la Cossato, tutta un fremito di venerazione.