17.
UN SACCO DI IMMAGINI

Il mio cellulare vibra mentre sono seduta sul letto di Irma, il giorno dopo. Lo sbircio di sottecchi dallo spiraglio della tasca, ma so già di che si tratta.

La mamma si e’ calmata lo zio nn mi ha sgridato xke gli ho detto ke l’avevi gia fatto tu e lui ha detto ke lo sapeva. Quindi sn ancora vivo e adesso sn a scuola. Grazie!!!!!! Poi mi dici come va la canzone?

Sorrido.

Certo, digito in risposta a Ivano.

Che replica in una frazione di secondo con l’emoticon di un pollice alzato.

Siamo ufficialmente soci in affari. Io ho reso più sopportabile la vita a lui, lui ha risolto una grana a me. Gli ho spiegato il mio problema con la canzone e gli ho detto che quella faccenda dell’«Inferno e Paradiso» poteva essere la svolta. Che aveva messo il dito su qualcosa di incredibilmente importante e interessante e che se avesse accettato di approfondire l’argomento mi avrebbe fatto un gran favore. Che, se non gli dispiaceva, volevo che mi parlasse ancora di quel pantano esistenziale in cui tutti ci dibattiamo nel tentativo di essere buoni e integerrimi come ci è stato insegnato, e lo schifo nel quale invece ci ritroviamo appena mettiamo inevitabilmente un piede in fallo e ci ritroviamo a vergognarci di noi. E di come, una volta che la smettiamo di piangerci addosso perché non possiamo controllare sempre tutto, possiamo quantomeno dirci che, sia inferno o paradiso, prima o poi quel che è certo è che passa.

Lui mi ha guardata con i suoi occhi da leprotto, ha esclamato: «Io ho detto tutta questa roba? Fico!» e poi abbiamo continuato a parlarne e me l’ha detta e ridetta ancora, in tutte le sfaccettature che gli venivano in mente, felice di trovare finalmente, se non una soluzione, almeno immagini e nomi per descrivere le sabbie mobili in cui si sentiva bloccato. E mentre Ivano parlava io cercavo le rime, la metrica, un modo per aprire la prima strofa a effetto, e gli chiedevo se avevo capito bene e se quello che avevo scritto gli tornava; ma intanto pensavo che ascoltare lui fosse già come ascoltare una canzone, che fosse già come seguire quel misto di poesia ingenua e di precisione emotiva che ti induce a non cambiare stazione radio e a stare bene attento alle parole fino alla fine del brano.

Poi, chiaro: oltre al sollievo, finita lì. La nostra chiacchierata non ha avuto assolutamente un cazzo di valore formativo. Figuriamoci. Per essere una brava pedagoga, avrei dovuto fare tutto il contrario. Avrei dovuto cassare con decisione quella sua teoria della ruota che gira e dirgli che se vogliamo ci possiamo restare, in cima, che se uno ha forza d’animo la retta via non l’abbandona mai e bla bla bla. Peccato che non lo penso. Così, chissenefrega. La sua teoria resta la migliore che abbia sentito fino a questo momento per farsi una ragione di questa giostra abominevole sulla quale corriamo tutti come criceti, e affari dei genitori se gli vogliono inculcare qualcosa di diverso.

Io so solo che, quando è uscito dall’ufficio di Berganza ieri notte insieme a me, Ivano sembrava tornato dall’inferno al paradiso.

E io avevo la mia canzone per Morgana. Perfettamente nei termini della scadenza.

«...E questa è la terza scatola», annuncia Delia tutta affabile, riportandomi al presente (anche se una parte della mia testa continua a contare le sillabe di un paio di versi e a chiedersi se non suonino meglio con qualche piccolo ritocco).

Delia, Irma e io siamo nella camera di Irma, una bella, grande camera comoda e soleggiata, e io che volevo foto, be’, ne ho avute. Sedute sul bordo del letto di Irma come tre marmocchie durante un pigiama party, osserviamo il contenuto delle prime due scatole, che giace sparso davanti a noi sulla coperta fatta all’uncinetto. Ho detto a Irma che l’editore avrebbe avuto piacere di creare un inserto con vecchie immagini della famiglia Giay Marin. Irma ha reagito come se non aspettasse altro. Si è scoperto che, di foto, ne ha appunto tre scatole, e che non deve nemmeno ripescarle in chissà quale vecchia madia: le tiene ordinatamente disposte sulla specchiera (sì, questa stanza ha una specchiera, come quelle delle signore dell’Ottocento), per potersele riguardare ogni volta che lo desidera. E ora le ha messe a mia disposizione, e il risultato è che ovunque io giri lo sguardo ci sono facce, molte delle quali in bianco e nero, che mi fissano da rettangolini patinati.

«Ci pensa? I ragazzi di oggi nemmeno lo sanno com’è fatta una fotografia di queste», commenta Delia sollevando all’altezza degli occhi una veduta di casa Giay Marin com’era nell’autunno del ’74. «Le scattano con lo smartphone e non le guardano più, tanto che bisogno ne hanno? Sono sempre lì.» La riabbassa. «E se non sono soddisfacenti c’è sempre Photoshop.»

Io penso che le foto della famiglia Sarca stanno da sempre in un album di cuoio nella credenza dei miei. Accanto al marchio vera pelle, piccolino e nascosto in un angolo interno, a sedici anni ho scritto umana in uno stampatello così regolare da mimetizzarsi con il resto della scritta. Non credo che nessuno in famiglia se ne sia mai accorto.

La verità è che non so ancora dire se le foto stiano davvero rispondendo a qualche domanda. Per il momento mi sto limitando a scrutarle, immagazzinarne le informazioni. Qualcuna la rifotografo col mio telefono per poterla poi mostrare a Berganza. Più della metà ritraggono Aldo e Adriano da bambini: ora l’uno, ora l’altro, più spesso insieme. Che Irma volesse in realtà conservare più ricordi possibili del solo Aldo, suo figlio segreto, e che avesse finito per scattare un sacco di ritratti anche a Adriano per non causare sospetti, o perché i bambini stavano sempre insieme? Possibile. Ma possibile anche che lei volesse altrettanto bene a Adriano e che quindi lo ritraesse volentieri, con intenzione. Non so che dire. Di nuovo. Una sottile corrente empatica continua a ripetermi che Irma anche a Adriano fosse affezionata davvero.

Mi dico che ci tornerò su.

Che diavolo posso fare d’altro.

Continuo a esaminare le immagini. «Chi gliele ha scattate queste?» chiedo, sollevando una Polaroid in cui Irma ha sui quarant’anni e sta mostrando con orgoglio un dolce evidentemente fatto da lei. È bellissima. Ha i fianchi più larghi e il seno più prosperoso delle indossatrici dell’epoca. Nelle foto in cui c’è qualche modella amica di Adriano sullo sfondo, sembra una mela in mezzo a dei torsoli. I capelli neri hanno un taglio più elaborato di quello che ci si aspetterebbe da una domestica, e sospetto che le scarpe con un vezzoso filo di tacco non fossero quelle che usava di solito in cucina.

Irma si gira verso la foto e muove la testa avanti e indietro fino a metterla a fuoco. L’età rende tutti simili a piccioni. «Ah, quella me la fece Armando!» esclama. Non ha nemmeno bisogno di guardarla tanto: come accade a un sacco di anziani, può non ricordarsi se ha fatto colazione, ma ha una memoria infallibile per tutto ciò che riguarda il suo passato. In effetti, davanti a me che sono qui per parlarle quasi solo di quello, la testa di Irma di cedimenti non ne mostra mai. Non a caso, quelle pochissime volte che le scappa qualche piccola défaillance in mia presenza, la cosa mi fa l’effetto di quando si scopre un verme in una ciliegia.

«Tutte le Polaroid che vede le ha fatte Armando», spiega. «Aveva questa macchina e si divertiva un sacco a fotografare, diceva, “quello che voleva lui, come lo voleva lui, una volta tanto”. Mi ricordo di quella foto lì. Era il suo compleanno e diceva che non era giusto che quel dolce favoloso finisse... com’era?, finisse “giù per i tubi” e non ne rimanesse più niente, così lo immortalò.»

Delia annuisce. «È proprio da lui. Mio suocero era sul serio così.» Si gira verso di me e mi sfila con delicatezza la foto dalle dita, osservandola con un sorriso. «Sa, io l’ho conosciuto poco, tutto sommato. Era una brava persona, e quando mi sono fidanzata con Adriano era così felice che in famiglia ci fossi entrata io, e non qualche sciocca modella, che la cosa mi inteneriva. D’altra parte non era certo uno snob. La sa la storia del nome?»

Non la so.

«Tutti pensano che Giay Marin sia un elegante cognome di origine francese», spiega Delia. «Invece viene dalla Val Sangone, a trenta chilometri da qui, attaccata alla Val Susa. C’è questa cittadina carina di mezza montagna, che si chiama Giaveno, in cui un sacco di gente si chiama Giay Qualcosa: Giay Levra, Giay Checa, Giay Gischia... Giay Marin era una combinazione particolarmente aggraziata, così mio suocero ha dato all’azienda il suo nome senza doversi scervellare a inventarne un altro. Ma a chi lo trattava come una sofisticata star internazionale non mancava di sorridere sornione, sapendo benissimo dentro di sé da dove veniva.»

Ride. Che palle. Questa faccenda dell’omicidio, dico. Andrebbe tutto così bene, se io fossi qui solo ed esclusivamente per scrivere lo stupido ricettario, e potessi, anzi, potessimo tutte e tre, goderci dei momenti tranquilli come questo senza l’ombra lunga dell’indagine a lambirli.

Invece l’indagine c’è eccome, e il mio cervello, che non se ne dimentica nemmeno per un minuto, ha registrato un’informazione. Le Polaroid sparse sul letto sono un sacco. E moltissime – molte di più di quelle che ritraggono Judy – raffigurano una Irma smagliante, immortalata sia in pose studiate che in atteggiamenti spontanei, dall’occhio affettuoso di quello che effettivamente avrebbe potuto essere un amante.

«Era Armando che le faceva indossare questi vestiti?» chiedo.

Irma annuisce. «Ad Armando piaceva moltissimo agghindarmi per le foto. “Mettiti quello scialle là, che ti fa risaltare gli occhi!” mi diceva. Oppure: “Stringi un po’ di più il grembiule, che ti fa la vita più sottile!”. Diceva che era stufo di tutti quei manici di scopa a cui era costretto a cucire addosso dei fazzoletti da naso – perché erano talmente secche che tanta più stoffa mica ne serviva. Che gli piacevano le donne fatte a forma di donna, come me.»

Dagli torto. Irma da giovane era uno schianto.

Vedi, invecchiare. Un giorno sei la favolosa Rita Hayworth e il giorno dopo sei un catorcio patetico. Un giorno sei l’implacabile Margaret Thatcher e il giorno dopo sei andata di testa. Un giorno sei la spumeggiante Irma Envrin e il giorno dopo sei Vani Sarca. Che mondo di merda.

Delia annuisce concordando, poi il suo sguardo si prolunga un istante più del normale.

Ah.

Chiaro.

È il segnale d’intesa. Non ha più niente a che fare con la conversazione che stiamo facendo. Ora riguarda quello che le ho comunicato prima di iniziare la visita.

Ci guardiamo intorno, entrambe alla ricerca della stessa cosa.

Prima di arrivare, ho chiamato Delia e le ho spiegato la mia nuova missione. Soprattutto, che ho bisogno di una mano perché è importante che Irma non si accorga di niente. Ormai anche i muri sanno che, se è in corso un’indagine e qualcuno ti chiede se può prendere in prestito il tuo asciugamano, dev’essere per quella faccenda del dna che si vede in ogni telefilm. Irma non deve accorgersi della mia caccia, o potrebbe capire che abbiamo beccato il filo della maternità segreta.

Ovviamente Delia, come suo solito, ha accettato senza nemmeno lasciarmi terminare la frase.

Ora sto passando lo sguardo sull’intera superficie della camera di Irma, e Delia, seguendo la direzione dei miei occhi, sta facendo lo stesso.

Il copriletto immacolato.

Il parquet, pulito da potercisi specchiare (dannate domestiche iperzelanti).

La porta socchiusa del bagno, dalla quale si intravede lo specchio sopra il lavandino di un bianco abbagliante.

Uno spazzolino da denti sarebbe l’ideale, ovviamente. Se Irma li avesse, i denti. Ma ottantun anni sono ottantun anni anche se hai vissuto in una delle case più eleganti della nazione, e oltre sessant’anni di fedele servizio non ti garantiscono di morire con i tuoi denti in bocca: al massimo ti consentono di fartene fare di finti da un dentista molto bravo.

Abbandono con lo sguardo la fessura nella porta del bagno privato – gli occhi di Delia fanno lo stesso seguendo i miei – e torno a concentrarmi sulla camera. La specchiera. La specchiera è sicuramente la luce in fondo al tunnel. Perché sulla specchiera fa bella mostra di sé la soluzione a tutti i miei problemi. Un grande classico nella storia della ricerca del dna. Una spazzola.

Una spazzola molto pulita, a occhio e croce, ma ci sarà un misero maledetto capello anche su una spazzola molto pulita, porcomondo.

Guardo la spazzola, poi guardo Delia. Delia capisce.

«E questa, Irma?» chiede, estraendo una foto a caso dal mucchio. Io intanto mi alzo con il fare casuale di chi vuole solo sgranchirsi le gambe.

«Questa? Uh... una festa di modelle, credo», esita Irma, strizzando gli occhi. «Adriano, buonanima, ne dava in continuazione. Guardalo qui, che bella figura faceva nel suo completo blu scuro!» Fantastico: quindi, per distrarre Irma, Delia ha giusto beccato una delle foto più adatte a ravvivare in lei il ricordo del marito morto. Questa donna è veramente un modello di iella, ultimamente. (Se si ignorano il patrimonio milionario, la vita da sogno e l’aspetto fisico pazzesco che possiede, chiaro.)

Cerco di fare in fretta e afferro la spazzola. Un maledetto capello grigio – uno solo, il bastardo – in effetti c’è. Lo sfilo e me lo tengo nel cavo della mano mentre fingo di estrarre un fazzoletto dalla tasca e di dovermici soffiare il naso. Ma guarda che pantomime mi tocca fare. Mentre Delia commenta qualcosa sull’aspetto favoloso del suo defunto marito con una disinvoltura più falsa dei denti di Irma, infilo il capello nel fazzoletto e me lo rificco in tasca.

«Ho appena avuto un’idea!» esclama Delia così all’improvviso che io sobbalzo. Meno male che non è accaduto un istante fa, o addio capello. «Vani... perché non viene alla nostra festa di Natale?»

Poche parole mi fanno scattare degli allarmi interni quanto «festa di Natale», così la mia prima reazione, totalmente impreparata come sono, è di sbarrare gli occhi e sentire i muscoli della faccia farmisi di cemento armato. Raramente Vani Sarca si trova ancora in una stanza due secondi dopo che le parole «festa di Natale» sono state pronunciate. Guardo Delia, chiedendomi se abbia notato la mia espressione non esattamente carica di trasporto, e mi accorgo che, invece, a essere carica di trasporto è lei. Oh cazzo. Stavolta non sta fingendo per distrarre Irma, anche perché mi ha appena vista nascondere il capello e quindi sa che non c’è più necessità di coprirmi. Stavolta Delia sta facendo sul serio.

«Tutti gli anni diamo qui un piccolo party prima delle feste», mi spiega infatti. «Una cosa confidenziale, intima... Con alcuni giornalisti nostri amici, alcune nostre affezionate clienti di lunga data, qualche personaggio che magari abbiamo conosciuto per ragioni di pubbliche relazioni e con cui abbiamo piacere di creare un legame... Le prometto che non sarà nulla di troppo pomposo. È che lei, Vani, ormai è di casa. E sarebbe veramente un piacere, per me, guardarmi intorno quella sera e vedere il suo viso fra quelli degli invitati.»

Mi sgancia un sorriso disarmante. Ci vorrebbe Truman Capote per spiegarlo. Hai davanti questa Holly Golightly un poco più attempata che ti guarda e ti sorride e tu hai come il sospetto che ti stia raggirando con i suoi occhioni e i suoi incisivi e quella specie di pacata malinconia a cui lei per prima sa bene che nessuno oserebbe credere ma che non riesce a nascondere lo stesso e bla bla bla, fatto sta che, prima di razionalizzare se ti stia prendendo per il culo o no, hai già ceduto a ogni sua richiesta. Per un momento capisco benissimo come mai Adriano Giay Marin abbia deciso, fra tutte le femmine che aveva a disposizione, di sposarsi proprio lei.

Mi schiarisco la voce. «È un’offerta veramente molto gentile, ma, ecco. Non so come dirlo. No. Non sono tipo da party, io.»

Delia scoppia a ridere. Mi pare che anche Irma si lasci sfuggire un sorrisino sardonico. Perfetto. Presa per il culo anche da me stessa da vecchia.

«Non è che non si noti, sa», dice Delia bonaria. «Ma la verità è che lei è molto più... in sintonia con noi di tanti degli ospiti che dovremo invitare. Non sfigurerebbe affatto, glielo garantisco. E per me, come ho detto, sarebbe veramente un toccasana.»

La guardo ed esito. Tutto sommato, quella pacata malinconia in filigrana che ci ho visto poco fa potrebbe non essere una finta. Cioè. Andiamo, Vani. Ricorda cosa t’ha detto Berganza. Non essere prevenuta solo perché questa tizia indossa quattro rate del tuo affitto in vestiti da casa. L’hai sentita? Più che un invito a una festa, sta assumendo i contorni di una supplica. L’implorazione di una donna che vede davanti a sé la necessità formale di imbastire una festa mondana in cui le toccherà fare l’ospite disinvolta e padrona della situazione, mentre la sua vita è stata appena sconvolta e l’ultima cosa a cui ha voglia di pensare è se ci siano abbastanza tartine al salmone. In effetti, se sente il bisogno di avere qualcuno nella sala che incroci il suo sguardo e la rassicuri tacitamente sul fatto che sa cosa stia passando, la puoi capire.

Cazzo, però. Un altro party di Natale.

Dai Giay Marin. E Delia può cercare di vendermelo quanto vuole come un’occasione informale. Come se non sapessimo entrambe che il suo concetto di informale è “ci si serve al buffet anziché stare seduti a tavola con tre forchette davanti”, e il mio è “in mutande con i piedi sulla scrivania e bevendo Bruichladdich direttamente dalla bottiglia”.

«Non ho niente da mettermi», azzardo, come ultimo tentativo.

«A dire il vero è proprio questo che mi ha dato l’idea di invitarla», ammette Delia. Adesso ha nello sguardo uno sfavillio divertito, sornione. Ahi. «Stavo guardando la mise delle indossatrici in queste foto di feste mondane che Adriano amava organizzare. E ho pensato: chissà come starebbe Vani con un abito Giay Marin?» Gira verso di me la foto che ha tenuto premuta al petto da quando ha iniziato a parlare. «Una cosa del genere», annuncia, battendo la punta dell’indice su uno dei soggetti.

Guardo sotto il suo dito.

«No.»

«Perché? Io lo trovo perfetto», trilla Delia.

«No, no, no. Non se ne parla neanche. Quanto diavolo deve valere una roba così? Neanche per scherzo. Io che non metto mai per principio nessun capo che costi più di quaranta euro. Troppa responsabilità.»

«Ma è nero. E sexy. E lo ammetta, Vani, è precisamente il suo stile, solo trasferito su un abito da sera.»

«No. Grazie, ma non se ne parla. Sa, i drink hanno la tendenza a versarsi, i tacchi a incastrarsi negli orli e scucirli, i...»

«Avanti! Questo abito esprime precisamente il suo genere di fascino dark!»

«Questo abito esprime un’assicurazione di migliaia di euro, ecco cosa esprime.»

Irma si avvicina a sbirciare. Inserisce la sua testa fra le nostre e guarda la foto. Poi ridacchia – di nuovo. «Andrà accorciato della metà!»

Delia le getta uno sguardo di rimprovero. «Ma è perché qui lo sta indossando una svedese di un metro e ottanta», obietta.

«...E questo chiude la questione: io non posso assolutamente mettere nulla che sia stato pensato per una svedese di un metro e ottanta.»

«Scommettiamo che può?» Delia si gira a sorridermi. «Non ci vorrebbe niente. Un colpo di telefono seduta stante a Ernesto, il mio sarto personale, ed entro un’ora l’abito avrebbe le sue misure. Si fidi dei suoi stilisti di fama mondiale, Vani. C’è un sacco di gente che lo fa.» E mi strizza l’occhio, con fare complice.

Holly Golightly 2.0 versus Vani Sarca: uno a zero.

D’altro canto Holly ha giocato in casa.

«Sabato 20 dicembre, ore otto, porti chi vuole», conclude, con la sicurezza atavica di chi è abituato a vincere.