7.
SCALOGNO E DESTINO

Giusto. Ben mi sta. Così imparo a entusiasmarmi come una mocciosa prima di una gita scolastica all’idea di essere diventata una consulente della polizia oltre che una ghostwriter. Sarà uno spasso intervistare Irma cercando di strapparle dati su un omicidio e anche leziose ricette e storielle carine per il libro. Diventerò schizofrenica. Diventerò così schizofrenica che mi dividerò in due per meiosi. Anzi no, diventerò Miss Marple: metà Hercules Poirot e metà Nonna Papera. Lisbeth Salander un cazzo, Lisbeth Salander.

Torno a casa, ancora una volta guidando attraverso la città illuminata a festa – altrui. Dopodiché telefono a Delia, che per l’occasione mi ha lasciato il suo numero super privato e risponde appena vede il mio nome apparire sul display, prima ancora che finisca il primo squillo. Le spiego del mio amico commissario e della sua disponibilità a indagare ufficiosamente, ma anche che abbiamo bisogno della sua collaborazione per marcare stretto Irma. Delia non chiede di meglio, non le sembra vero. Non riesce a starmi propriamente simpatica – troppo ricca; ah già, e poi a me non riesce a stare simpatico nessuno – però per essere collaborativa è collaborativa. Sembra passato un eone dal primo istante in cui l’ho vista, eppure non sono state che poche ore. All’inizio delle quali mi è apparsa come una donna serena, equilibrata e risolta, che ora ha lasciato il posto a una creatura patetica dalla voce tremante e dalla tendenza a esclamare: «Ma certo! Tutto quello che le occorre!» un po’ troppo di frequente. È come se dieci minuti di confessione di Irma avessero spazzato via cinque anni di accettazione, ripresa, ricentratura. Prima c’era una signora matura e razionale, pacificata dall’idea che la condanna del killer del suo coniuge avesse ristabilito l’unica giustizia possibile. Ora c’è una fragile vedova che guarda in faccia la probabilità di avere trattato per anni come una seconda madre l’assassina di suo marito.

Odio il potere che hanno gli eventi di plasmare le persone.

Dovremmo riuscire tutti a farci scivolare le cose addosso. A decidere la nostra personale politica di felicità e a non lasciare che nulla la turbi. Sono solo eventi, dopotutto. Un marito che muore. Una persona che credevi amica e poi scopri che potrebbe averti fatto una cosa orribile. Un fidanzato che pensavi ti amasse e viene fuori che ti stava usando e basta. Che sarà mai. Tutta roba che ti succede attorno, mica dentro. Almeno, così dovrebbe essere, in un mondo ideale.

Domani sembra che Delia avrà degli impegni improrogabili per l’azienda – è vero che ormai i centri operativi sono negli usa, ma lei continua a detenere una serie di incarichi di rappresentanza –, dunque ci accordiamo perché io torni alla villa fra due giorni, a proseguire l’intervista-interrogatorio con Irma.

Nel frattempo, posso comunque fare qualcosa di utile per portarmi avanti. Tanto per cominciare, scarico dal mio telefono il file della confessione e lo spedisco a Berganza, oltre ad archiviarlo in tre o quattro posti fra computer e chiavette varie. Poi. Be’. Poi mi accorgo che fra una cosa e l’altra è venuta ora di cena. Non che a casa mia viga sul serio una cosa come un’ora di cena. Ora di cena è quando il mio stomaco ha fame. Ma si dà il caso che stasera il mio stomaco abbia fame precisamente nella finestra temporale che le persone normali usano chiamare ora di cena. E c’è, in effetti, una cosa che potrei fare per sfruttare anche questo momento. Se non fosse che prima ancora di finire il pensiero mi rendo conto che preferirei spararmi. (Sempre che riesca a centrarmi la tempia, beninteso.)

Apro il frigo ed estraggo un uovo.

«Che palle», dico da sola nel vuoto della mia cucina.

Rimetto dentro l’uovo, estraggo una birra scura e chiudo il frigo.

A metà della birra scura torno indietro, riapro il frigo e risoppeso l’uovo.

La ricetta della frittata speciale di Irma mi chiama telepaticamente dal cellulare.

Mi sento Katniss Everdeen che ha zero voglia di darsi agli Hunger Games ma sa che se non si farà avanti volontariamente poi starà da schifo con la sua coscienza.

Tuttavia, c’è una ragione per cui Katniss Everdeen è la protagonista di un epico romanzo sul senso del dovere e della giustizia e io no. Metto via l’uovo e la mia coscienza, e tiro fuori una confezione di agnolotti pronta cottura.

Dicembre 1995.

Casa Sarca. Pomeriggio domenicale. Fuori dalle finestre, il cielo di Torino in inverno. Il brulicare della folla impazzita per le spese natalizie. Il traffico frenetico. L’angoscia della festa imminente.

Dentro, peggio.

La nonna.

È seduta al tavolo della cucina. Davanti a lei, nell’ordine: una piattaforma apparentemente sterminata di pasta fresca, gialla come un cespuglio di ginestre, circondata da una rotella tagliapasta, un paio di ciotole e altra attrezzatura; seduta accanto, la piccola Lara, attenta, con le mani appena lavate sollevate a mezz’aria nella posa del chirurgo che attende che gli si infilino i guanti; Vani, seduta all’estremo più lontano del tavolo, che getta sguardi nostalgici a una copia dell’Idiota di Dostoevskij abbandonata su una sedia vuota, con un segnalibro che sporge a circa un quinto dalla fine.

La nonna ha la faccia di una che sta per consegnare i Nobel. Alle sue spalle, la mamma sta lavando qualcosa nel lavello.

La mamma sta sempre lavando qualcosa nel lavello.

«Ora guardate, bambine», proclama la nonna. “Bambina un accidente”, pensa Vani, quindici anni, ma tace. Con sussiego, la nonna preleva dall’ettaro di pasta due quadratini già tagliati. «Per prima cosa, si stendono ben distanziati gli uni dagli altri per evitare che si attacchino.» Poi preleva una nocciola di materia molliccia dalla ciotola più vicina. «Si mette il ripieno.» Le sue dita sfarfallano a mezz’aria come per complimentarsi con sé stesse per la precisione del gesto. «E ora guardate molto bene.» Depone il secondo quadratino sopra il primo in modo che i bordi coincidano e poi, con solennità, dà una specie di pizzicotto al centro del quadratino medesimo, creando una sorta di cresta bozzuta. Infine solleva sulle fanciulle uno sguardo carico di significato.

«Questo è il plin, cioè il pizzicotto che dà il nome ai ravioli del plin

Lara annuisce come se le avessero appena svelato l’esatta ubicazione del Graal.

Cioè, se sapesse cos’è il Graal.

«Vani? Ripeti, per favore.» La nonna è peggio di una vecchia maestra.

Vani sospira. Dire che di aiutare la nonna a preparare il primo del pranzo di Natale non gliene importa un accidente è inesatto. In effetti, la cosa non la lascia del tutto indifferente. Per essere precisi, la cosa la irrita a morte. La irrita il tono ammaestrante della nonna, la irrita la sua palese convinzione di stare trasmettendo del sapere indispensabile. La irrita che sua madre e sua nonna abbiano permesso che la patetica lezione di cucina scalzasse anche i compiti di scuola della domenica pomeriggio. Ma la irrita soprattutto perdere del tempo prezioso che potrebbe impiegare a leggere. Nastasja. Aglaja. Il principe Myškin. Deve sapere che fine faranno. Dato che dopo cena dovrà recuperare i compiti di greco, le toccherà finire il libro di notte (di aspettare fino al giorno dopo è chiaro che non se ne parla), e si sta già rassegnando all’idea che domani andrà a scuola in debito di sonno, stanca e insofferente. (Non che tema che qualcuno possa notare una differenza, ma.)

Tutto per della stupida pasta.

«Si mette il ripieno, si tappa con l’altro coso e si dà il pizzicotto», sospira. «Possiamo accelerare, per favore?»

La nonna strizza le labbra. «Vani, per cortesia. A parte il fatto che sono cose importanti, che servono nella vita...»

«...Altrimenti a Natale cosa mangeremmo?» chiosa Lara tutta compunta, come la secchioncella che non è mai stata.

«...Esatto, cara», dice la nonna con un sorriso. «A parte questo, dicevo, sarebbe carino che una volta tanto che facciamo qualcosa in famiglia tu mostrassi un po’ di partecipazione. Non muore mica nessuno se ti ricordi che sei un membro di questa casa, sai, signorina.»

Vani guarda con muta disperazione il libro abbandonato. Se ne andrebbe, ma sua madre, che conosce i suoi polli, prima dell’arrivo della nonna l’ha presa da parte e, fondamentalmente, l’ha minacciata di morte in caso di diserzione.

«E smettila di guardare quel libro o lo faccio portar via!» sbotta la nonna, a cui non sfugge nulla. «Stai sempre a leggere, leggere, leggere! Per carità, nessuno dice che leggere non vada bene, ma tu stai davvero esagerando! Sembra che non t’interessi nient’altro! Esistono anche le persone, diamine! Esistiamo anche noi! Io mi sto spezzando la schiena per darti un’educazione come si deve e tu mi tratti come se ti stessi rubando del tempo!»

Vani la guarda.

Il problema è che la nonna le sta effettivamente rubando del tempo.

Così adesso le tocca pure scusarsi, cazzo. Non ha fatto niente, non s’è nemmeno alzata e allontanata col libro come avrebbe tanto voluto, eppure ancora una volta è nella posizione di doversi scusare. Per avere indispettito qualcuno pur non avendo fatto niente. Semmai, per non aver schiamazzato eccitata come se fare degli stupidi ravioli costituisse l’apice della sua giornata. Che palle. La gente non vuole soltanto dirti cosa fare. La gente vuole la tua anima.

Da dietro la nonna, anche la madre ha interrotto quello che stava facendo e si è messa a controllare la situazione. Ora Vani ha su di sé tre generazioni di sguardi di riprovazione: della nonna, della mamma e anche di quella piccola ruffiana di Lara.

E va bene, allora. Se dev’essere punita, che almeno sia per qualcosa.

«Nonna, credimi. Io ti stimo e riconosco l’impegno e la dedizione che metti nel trasmetterci il tuo sapere», dice Vani.

La nonna ha un moto di compiaciuta sorpresa.

«Ecco perché mi sento in dovere di dirti che è solo per questo rispetto nei tuoi confronti che siamo ancora sedute attorno a questo tavolo, a fare questa roba di cui non ci frega assolutamente un tubo.» Lara fa per aprire bocca, ma Vani gira su di lei uno sguardo imperturbato. «Nemmeno a lei, che sembra entusiasta solo perché è un’ottima scusa per non fare i compiti. E a dirla tutta non ti fa molto onore esserci cascata.»

«Ma non è vero! Nonna, a me piace! Davvero! Continuiamo! Posso andare avanti fino a notte!» esclama disperata Lara, che domani ha matematica.

La nonna boccheggia, cercando le parole. In background, tipo doppione sfalsato, la mamma fa lo stesso. “Se aspettiamo che trovino termini abbastanza duri per dirmi esattamente quello che pensano di me”, diagnostica Vani, “finiamo fra due giorni, e io ho delle cose da fare subito.”

«Mi dispiace, nonna», sospira, prendendo il libro e alzandosi. «Lo so che avresti tanto voluto una nipotina femmina.»

Ci impiegheranno un po’ a capire che è una battuta, Vani lo sa. Il tempo che le serve per andare a chiudersi in camera e leggere almeno una decina di pagine prima che qualcuno venga a metterla in punizione. Se va di lusso, a dirle di non disturbarsi a presentarsi a cena.

Così finalmente potrà leggere, se Dio vuole.

Il telefono mi richiama al presente. Con il pacco di agnolotti ancora in mano, vado a rispondere. È Berganza. Giusto perché ultimamente ci siamo sentiti poco.

«Non ne ha abbastanza di parlare con me?» esordisco. Poi mi viene il dubbio che pensi che ne abbia io abbastanza di parlare con lui, il che non è affatto vero.

Fortunatamente la risposta del commissario è positiva. «Non saprei. Quando le situazioni sono scomode lei fa un sacco di battute divertenti. Aiutano, sa.» Bene. «Sarca, volevo solo confermarle che ho contattato un paio di amici alle Vallette. Dicono che mi fisseranno nei prossimi giorni un colloquio informale con Aldo Giay Marin. In più, ho sentito il procuratore, e ci ho fatto una chiacchierata esplorativa sulle modalità di applicazione dell’istituto della revisione.»

«Questo dev’essere come il principio di Locard», commento.

«Cosa c’entra il principio di Locard?»

«Nulla, immagino, ma è la seconda volta in due giorni che lei tira fuori delle espressioni per me incomprensibili, e la mia testa le sta tutte archiviando nello stesso posto per andarsele a risolvere poi.»

Berganza ridacchia. Cioè, emette un breve suono che potrebbe passare per una risatina. «L’istituto giuridico della revisione è quello che consente di riaprire un caso come il nostro», mi spiega. «Il principio di Locard invece se lo vada a cercare in rete, anzi: faccia di più e cerchi proprio delle informazioni in generale sul suo inventore, Edmond Locard. Se la conosco un po’, il personaggio potrebbe piacerle.»

«Oh. Okay.» Mi annoto mentalmente di googlare questo tizio.

«E con questo la saluto, Sarca. Sarà ora di cena anche per lei.»

«Sono giusto in compagnia di una confezione di agnolotti.»

«Sempre una scelta sicura. Verdi?»

«No, scadono fra dieci giorni.»

Il commissario esita, come se non capisse, poi fa una cosa strana a metà fra la risata e il sospiro. «Ma no, Sarca, non intendevo “ammuffiti”. Mi chiedevo se seguissero la ricetta tradizionale, che prevede che nel ripieno vi siano anche delle verdure miste, o se fossero solo di carne. Quelli con le verdure, e talvolta anche il riso, sono diventati più rari da trovare ma rispecchiano meglio la tradizione dell’agnolotto, che, non so se lo sa, nasce come espediente contadino per riciclare ogni avanzo, da quelli d’arrosto ai residui di verdura. Fine della lezione, scusi, mi sono lasciato prendere.»

Sbatto gli occhi, rigirandomi in mano il pacchetto come se lo vedessi per la prima volta.

«Commissario, mi sta dicendo che s’intende di cucina?»

Berganza temporeggia e io m’immagino che abbia alzato le spalle, non sapendo bene cosa rispondere di fronte all’ovvio. «Be’, non sono uno chef, ma da uomo che vive solo ho dovuto darmi da fare a imparare. Soprattutto se si rimane nell’ambito della cucina rustica regionale, non nego di avere i miei...»

«Come se la cava con le frittate?»

«Bene, ma chiunque se la cava bene con le frittate, Sarca, sono faci...»

«Commissario, ho urgente bisogno di ripetizioni.»

Non vorrei dire, ma mentre gli spiego la faccenda ho la sensazione che Berganza ridacchi e, per l’amor del cielo, nulla mi arreca maggior compiacimento che strappare un sorriso a Berganza, ma un pochino mi girano pure.

«Va bene, Sarca, domani sera da me. Prenda carta e penna che le detto l’indirizzo e le cose da comprare.»

«Mi fa fare la spesa? Non può mandarci Petrini?»

«Se gli chiedessi un favore così personale potrebbe piangere di gioia e la cosa mi metterebbe in imbarazzo.»

Annoto gli ingredienti che Berganza mi elenca.

«Cos’è lo scalogno, capo? Un alimento che porta iella?»

«Sarà una lunga strada. Non so se ho fatto bene ad accettare», sospira Berganza.

Così la sera dopo, uscita da aikido, dove sono caduta bene per quasi un’ora e un quarto, non solo mi devo sorbire la solita gimkana fra pedoni che attraversano senza guardare sommersi di pacchi, ma devo anche cercare parcheggio il più vicino possibile al supermercato sotto casa di Berganza. Il che significa a non meno di due isolati, perché siamo nel momento più consumista dell’anno e sembra che l’intera popolazione torinese si senta obbligata a fiondarsi, appena uscita dal lavoro, in un qualunque antro di perdizione in cui buttare dei soldi per qualcosa che la farà ingrassare, litigare col dottore oppure odiare dal parente che l’avrà ricevuto in regalo.

Dio, se mi fa schifo il Natale.

E dire che la letteratura è piena di gente che ne va pazza. Bob Cratchit, la Piccola Fiammiferaia, quelle quattro sciacquette delle sorelle March. Quando si dice “vorrei che fossero persone in carne e ossa”. Così potrei prenderle a calci. Ma forse una volta era diverso.

Il supermercato sembra un luna park. Chiaramente mi fanno schifo anche i luna park. Le luci mi fanno male agli occhi. Se un tornado scoperchiasse il tetto di questo posto, iperilluminato com’è probabilmente sarebbe visibile dallo spazio. Soprattutto mi urta le retine la quantità di cartelli di cartone patinato oro che pendono da ogni scaffale strillando offerte in pennarello nero dalla grafia puerile. Tutto è scontato, imperdibile, sensazionale. Quando sento la necessità di nutrirmi, io vado a un negozietto dietro casa mia. Il proprietario dev’essere asiatico, o forse mesoamericano, o maori, per quel che ne so, e che lui tiene a far sapere in giro. Adoro il nostro non avere mai socializzato negli anni. Non conosce Natale, non conosce Pasqua, non conosce Ferragosto. Io compro sempre le solite cose, lui le batte alla cassa, io esco. Fine. Qui sembra il canto terzo dell’Inferno, dove gli ignavi corrono in giro come pazzi punti da vespe e mosconi, tranne che loro hanno una buona ragione per correre in giro come pazzi: le vespe e i mosconi.

Ci sono una squadraccia di commessi in divisa e una sezione grande come la Svizzera dedicata a carte regalo e nastri lucidi – altri fastidiosi riverberi dei neon sulle superfici verdi, rosse e oro (sto davvero diventando fotofoba). Ci sono bambini urlanti che, abbracciati a gigantesche confezioni di giocattoli, vengono trascinati per le caviglie come aratri dai genitori. Ci sono bambini più corpulenti che trascinano come aratri madri consunte verso gigantesche confezioni di giocattoli. Palle per abeti personalizzabili su cui stampare la foto dei familiari. Chi diavolo vuole entrare in salotto la mattina di Natale e vedere i propri familiari appesi all’albero, uno psicopatico? Festoni argentei e lucette intermittenti e puntali per alberi, a forma di stella cometa, di pinnacolo, di angelo, di personaggi di cartoni animati. Chi diavolo vuole avere Bart Simpson impalato sulla punta del proprio abete? Trovare il vecchio, banale reparto alimentari, a eccezione naturalmente delle montagne di panettoni e pandori in – indovina indovinello – imperdibile offerta, significa farsi largo tra la folla tutta presa a soppesare a gomiti in fuori le statuine del presepe. Sento il livello della mia pazienza abbassarsi di secondo in secondo dal mio standard, una non troppo rassicurante ma accettabile sufficienza mista a sprezzo, giù giù fino a un’allarmante Zero Tolerance. Mi conosco. Se finisco il budget di sopportazione prima di essere fuori di qui potrei prendermela pesantemente con una promoter che, appostata accanto alle casse come un condor, sta cercando di rifilare a ogni cliente un prezioso servizio da dodici decorato a stelle di Natale. In imperdibile offerta, chiaro. Mi affretto e giusto in tempo mi ritrovo sul marciapiede, a inspirare aria fresca, a meditare sulla labilità del confine fra riservatezza e sociopatia, e a rammentarmi di colpo che ho scordato lo scalogno.

No. Cristo santo. Non posso tornare là dentro. Non riesco a immaginare nulla che vorrei di meno.

E invece di colpo ci riesco, perché sento: «Vani», mi giro, e ho di fronte Riccardo.