6.
SARÀ UN DANNATO CASINO, SARCA
«Nembutal», dice Irma.
La sua voce esce dal mio cellulare.
Sono le due del pomeriggio e rieccomi nell’ufficio di Berganza. Che cambio di scenario. Che cambio di tutto. Un attimo sei nella stanza più bella della casa più bella della zona più bella di Torino, ad ascoltare storie di bagna cauda e risotti, e un attimo dopo siedi sotto un neon livido, in uno squallido ufficio, insieme a Philip Marlowe 2.0 e a una voce che esce dal tuo cellulare e che racconta tutta nonchalante di come ha posto fine alla vita di un uomo.
Di due, considerando anche quello che se ne sta in carcere da cinque anni per il crimine che potrebbe non aver commesso.
Berganza fissa il cellulare. Ha la faccia di un Van Helsing accortosi che uno sciame di vampiri gli ha nidificato in solaio.
La porta dell’ufficio è chiusa. Dal corridoio non viene il minimo rumore. Berganza ha sbattuto fuori i suoi mini sbirri per non essere disturbato e scommetto che loro, per essere sicuri sicuri di non dare fastidio al capo, si sono momentaneamente trasferiti su Marte.
«Maledizione. Avrei dovuto dirle di filmare, non di registrare e basta», brontola Berganza.
«Quindi lei ci crede», dico. «Lei ha sentito la ricostruzione dei fatti e le sembra plausibile.»
Berganza aspetta a rispondermi, perché sappiamo entrambi che si tratterebbe di un’affermazione delicata e foriera di pesanti implicazioni, ma, al solito, per me che ho ormai imparato a leggere i silenzi di Berganza, questo è un sì.
E, basandomi su quello che ieri sera ho imparato sulla storia dei Giay Marin, la trovo plausibile anch’io.
Secondo la versione ufficiale, tutto inizia quando, lunedì 5 ottobre 2009, Adriano Giay Marin, all’epoca quarantaseienne, si presenta ubriaco e strafatto a un meeting di investitori. Non è la prima volta e non è nemmeno la più grave delle intemperanze di Adriano, ma, come si scoprirà nell’arco di meno di ventiquattr’ore, sarà sicuramente l’ultima. Le foto ritraggono Adriano come un belloccio aitante, sportivo, fin troppo giovanile, dai capelli vezzosamente lunghi. Tutto il contrario del fratello minore, Aldo, che con lui sembra condividere solo il naso importante e la forma degli incisivi. Adriano è l’amministratore delegato dell’azienda di famiglia, e la sera del 5 ottobre 2009 gli ospiti lasciano la sala riunioni attoniti e sfiduciati. Aldo, che è presente, è costretto a chiedere la sospensione del meeting quando il fratello vomita ai piedi del monitor su cui stanno scorrendo le slide. Cerca di rimandare l’incontro al giorno seguente, ma svariati imprenditori devono prendere l’aereo. Il che non sarebbe grave, ovvio – a certi livelli, spostare un volo non è più impegnativo che prendere l’autobus seguente – se non fosse evidente che non sono intenzionati a spostare nessun meeting, e che desiderano solo andarsene, offesi dall’imperdonabile comportamento del loro ospite.
Aldo ha una crisi isterica. L’ennesima, e la più grave. Il fato ha sbagliato, con lui. L’ha fatto nascere super rigoroso, super responsabile, super disciplinato (così lo descriveranno di lì a poco tutti i giornali, con profusione di aneddoti a supporto, creando il mito di una sorta di asceta del jet set). Ma l’ha fatto anche nascere per secondo. Se fosse stato il primogenito, secondo le volontà di Armando l’azienda sarebbe stata sua e lui non avrebbe mai consentito a Adriano di minarne così il futuro. Però Adriano ha un paio d’anni più di lui e ora la faccia del marchio Giay Marin è la sua; il che vuol dire che, a causa sua, il marchio Giay Marin la faccia l’ha forse ormai definitivamente persa.
Aldo è fuori di sé.
Adriano è così andato che Aldo se lo deve caricare in macchina e portare alla grande casa storica dei Giay Marin dove lui vive abitualmente (mentre Adriano di solito soggiorna nell’attico ultramoderno di piazza Solferino, anche se nella vecchia casa lui e la moglie Delia hanno sempre una stanza pronta). In casa ci sono solo loro e un paio di domestici, perché Delia è in Camargue e si è portata dietro un po’ di manodopera. Entrambi i fratelli saltano la cena, Aldo perché troppo sconvolto, Adriano perché ancora malconcio. Alle nove e mezza di sera sono ancora ciascuno nella propria camera. Aldo decide che le cose non possono più andare avanti in quel modo, così scende al piano di sotto, va in cucina, si fa dare la cena rimasta in caldo per Adriano e gliela porta in camera. In qualche punto fra la cucina e la camera di Adriano, Aldo versa nella zuppa del fratello una dose letale di Nembutal, farmaco di cui dispone in abbondanza in quanto lo usa per placare le frequenti crisi d’ansia che il fratello gli procura ormai di continuo. Sa che non gliene serve tantissimo – fortunatamente, perché il Nembutal è dolciastro e Adriano potrebbe accorgersi che il cibo ha un sapore strano – in quanto l’alcol e gli oppiacei che Adriano ha ancora in corpo sono perfetti per interagire col pentobarbital e fare il resto del lavoro. Sale in camera di Adriano, ci si chiude dentro per parlargli mentre, paziente, lo imbocca e si assicura che mangi. I milanesi ammazzano al sabato, diceva Scerbanenco: i torinesi, come ipotizzavo io, trovano tempo per un omicidio anche di lunedì dopo cena. Durante la notte, Adriano muore per paralisi respiratoria, che è quello che succede a chi abusa di barbiturici. La mattina dopo il mondo se ne accorge, e dopo una moderata quantità di ore, che gli sono necessarie per sistemare gli ultimi affari e andarsene con la coscienza pulita nei confronti dell’amata impresa di famiglia, Aldo, sereno, confessa l’assassinio.
Movente, dinamica, arma del delitto sembrano combaciare perfettamente nel puzzle che supporta la sua ammissione di colpevolezza.
E, ovviamente, a nessuno salta in testa di indagare sull’unica altra persona che sarebbe potuta intervenire negli avvenimenti della sera del 5 ottobre.
La vecchia cuoca.
Mi stropiccio gli occhi con due dita.
«A cosa sta pensando, Sarca?»
«A niente.»
Cioè. Accetti di lavorare con la polizia. Quindi lo sai, che ti stai accingendo a vedere con i tuoi occhi cose che fino a quel momento, come tutti i comuni mortali, avrai creduto esistere solo nei libri o alla tivù. Sai che potrà capitarti di entrare in contatto con delinquenti e crimini, forse persino con degli omicidi, perché no. Ma con questo, dai. Con il più eclatante caso di cronaca nera degli ultimi anni, uno di quegli scandali che quando avvengono nella realtà pensi “sembra di stare in un libro” e quando li trovi in un libro pensi “questa faccenda è troppo inverosimile, su, un bravo editor avrebbe dovuto farlo notare all’autore”. Ritrovarti coinvolta in una roba del genere inizia a essere decisamente un fuori programma.
Mai però come quando ci pensi bene e ti rendi conto che il fatto che tu sia appena diventata una collaboratrice della polizia non c’entra un accidente. Perché in effetti in questo casino ci sei finita come? Solo grazie a un dannato, normalissimo libro.
Entri in polizia e il massimo che ti capita è di interrogare un cretino che ha rifilato un pugno a un tizio per un furgone. Lavori in editoria, e prima incappi in una truffatrice sequestrata e minacciata di morte, poi a distanza di nemmeno un mese in un fratricidio che forse fratricidio non è.
A quanto pare è proprio vero, quando si dice che scrivere è un mestiere tutt’altro che sicuro.
«Posso continuare?»
«Prego.»
«Cosa c’entra», prosegue la voce di Irma dal mio cellulare. «Come se solo Aldo potesse avercelo, del Nembutal. Tutti, in quella famiglia, ne usavano a quintali... Anche Delia. Ne teneva sempre una scorta anche in questa casa.»
Mando un po’ avanti. «Ora ci sarà del silenzio, perché, quando Delia ha sentito che il farmaco usato per ammazzarle il marito potrebbe essere stato preso dalle sue scorte mentre lei era in Francia, è scoppiata a piangere e si è dovuta allontanare per un paio di minuti.»
Berganza aggrotta la fronte. Che, nella sua lingua, immagino significhi profonda partecipazione emotiva.
Rischiaccio play.
«Ma... Irma, come hai potuto?» Riecco la voce di Delia, ripresasi, se così si può dire. «Tu conoscevi Adriano da quando era bambino, l’hai praticamente cresciuto tu, gli volevi bene! Come...» La voce si affievolisce. Fine della ripresa.
Irma – io lo so perché c’ero – scrolla le spalle. «Appunto. Io volevo bene a quel bambino, a quel ragazzo che avevo visto crescere, beneducato e allevato con tutti i sacri crismi. Ma non era più lui, per la miseria. Era... si era buttato via. Drogato. Incosciente. Completamente impazzito. Quelle porcherie gli avevano mangiato il cervello. E stava trascinando giù con sé tutto quello che il povero Armando, pace all’anima sua, aveva costruito con tanta fatica. È stato... è stato un po’ come liberarlo, sì. Dargli pace. A lui e alla buonanima di suo padre.»
A risentirla adesso, mi accorgo che ha un tono sognante, quasi spensierato.
«Ma se era così convinta di avere fatto la cosa giusta» (questa sono io. Dio, che schifo la mia voce registrata) «perché ha lasciato che Aldo si autoaccusasse? Perché non ha rivendicato il suo gesto e non c’è andata lei, in prigione?»
«Volevo farlo, certamente. Salvare l’azienda, l’eredità di Armando e anche il povero Aldo, sì. Ma poi è stato Aldo in persona a dirmi che di ben altro cambiamento aveva bisogno!» La voce di Irma suona candida, entusiasta, come quella di chi stia spiegando la fisica di un’aurora boreale o il meccanismo di qualche altro fenomeno meraviglioso. «Era esaurito, era logoro come uno straccio. Si imbottiva di... di quella robaccia pure lui, sa? Il Nembutal, dico. Non ce la faceva più. Quegli anni a correre dietro agli errori di Adriano l’avevano devastato. Così, la mattina del 6 ottobre, me lo ricordo benissimo, mi ha parlato. È venuto nella mia stanza e mi ha chiesto: “Sei stata tu, vero?”. “Sì”, gli ho detto. “E adesso mi metto il vestito buono e vado a costituirmi.” E lui: “Ci posso andare io?”. Questo, mi ha detto. “Ci posso andare io? Ti prego.” Proprio così. Giuro. Mi ha pregata di lasciarglielo fare. “Io non ce la faccio più, Irma.” Gli tremava la voce, sa? “Quest’azienda mi ha succhiato il sangue, questo mondo non fa più per me, voglio solo andarmene, farla finita, ricominciare daccapo... Avrei tanto voluto avere il coraggio di fare quello che hai fatto tu! È come se fossi stato io. Quindi lasciami confessare al tuo posto. Ho bisogno di liberarmi, di espiare l’odio per mio fratello, di ricominciare da zero, di farla finita con tutto questo mondo che mi ha avvelenato la vita. Magari mi lasceranno insegnare cucito o economia agli altri detenuti. Potrò fare delle cose buone, diventare una persona diversa, umile tra gli umili... e in ogni caso, finalmente, sarò libero.”»
Irma sorride – si sente anche dalla voce – soddisfatta di sé per avere riferito con tanta precisione quel discorso decisivo.
Berganza interrompe la registrazione.
Pausa.
«È un discorso del cazzo», sentenzia.
«Già.»
«Ma non è comunque verosimile che una cuoca con la quinta elementare se lo sia inventato da sola.»
«Già.»
«...O forse è del tutto verosimile e io ho solo detto una roba spaventosamente classista senza rendermene conto. L’ho fatto, Sarca?»
«No, no, anzi. Ha detto una cosa sensata. Perché è vero che Irma ha passato la vita a contatto con i Giay Marin e i loro ospiti e quindi è molto più sofisticata di una generica cuoca con la quinta elementare; ma questo è indubitabilmente un discorso del cazzo da ricco esaurito con aneliti di redenzione che non ha la minima idea di cosa significhi stare in galera. E una cuoca con la quinta elementare ha troppo buonsenso e spirito pratico per inventarsi una cavolata del genere. È questo che intendeva, vero?»
«Precisamente. Grazie.»
«Prego.»
Altra pausa.
Lunga.
«E adesso che si fa?» dico.
Berganza sembra avere deciso che non sia ancora tempo di finire la sua, di pausa. Fissa il vuoto davanti a sé e scommetto che dentro al cranio ha due specifiche aree della corteccia cerebrale in attività che chiedono bourbon e sigarette. Prima di decidersi a parlare emette un lungo sbuffo che ha dentro tutta l’esasperazione, la rassegnazione, il “che-mondo-di-merda” e il “da-quanto-tempo-è-che-non-faccio-una-vacanza” che ci si aspettano da un poliziotto da hard boiled.
«Sarca, lei se lo ricorda l’autunno del 2009?»
«Indimenticabile. Tutto passato chiusa in biblioteca per un libro sulla seconda guerra mondiale nelle Langhe.»
Berganza sospira. «Lo prendo per un no. Be’, glielo dico io cosa succedeva fuori dalla sua biblioteca. Un fratricidio. In una famiglia a dir poco in vista, sotto gli occhi del mondo intero. Una cosa da non crederci, un clamore mediatico senza pari. Tutta Italia, e specialmente tutta Torino, si strappava i giornali di mano e non faceva che chiedersi come fosse possibile che Aldo Giay Marin, quello stoccafisso tutto casa e azienda, fosse un assassino.
«Ci mettemmo un po’, ma alla fine ce ne facemmo una ragione. Riguardammo le sue foto in tribunale, rigido e serio come un sacerdote. Gli psichiatri dissertarono nei talk show della capacità dei tipi ossessivi di deformare a proprio uso e consumo i principi dell’etica rimanendo intimamente convinti di stare agendo nel giusto. Si tirò fuori in lungo e in largo il cliché del remissivo angariato che esplode, e in tivù passarono Un giorno di ordinaria follia almeno due volte. Si contarono tutti i casi di nera della storia che avevano avuto per protagonisti degli assassini ricchi e famosi, dall’erede dei DuPont a Jack Henry Abbott, a O.J. Simpson e via retrocedendo fino a Nerone, per dimostrare che non era poi così strano che un milionario commettesse un omicidio. Insomma, alla fine ce ne convincemmo tutti: era plausibile che l’uomo-ombra pacato e represso fosse un mostro silente, obnubilato dall’odio e dalla frustrazione.
«Be’... e se invece ci fossimo sbagliati in massa? Se invece la frustrazione, l’esasperazione, avessero davvero logorato i nervi di Aldo Giay Marin fino a fargli commettere un gesto assurdo, ma il gesto in questione non fosse stato uccidere il fratello, bensì fingere di averlo fatto pur di cambiare completamente vita? Nella testa di un uomo gravemente esaurito, con un’indole monastica e un rigore quasi militare, parole come “espiazione” e “purificazione” un loro senso perverso potrebbero anche averlo avuto.»
Soppeso. A lungo. Maga dell’empatia finché vuoi, ma che ne so io di come ragiona un milionario mezzo asceta e dai nervi andati. Qui parliamo di psicopatia. Non è nemmeno che mi dispiaccia, dubitare delle mie capacità di entrare nella testa di uno psicopatico. Pensavo peggio. Pensavo di farcela al primo colpo. Immagino che dovrei prenderla come una buona notizia.
«Mah, sì, forse. Aldo Giay Marin potrebbe essere abbastanza strambo da aver fatto una cosa del genere. Certo, fosse per me, fra accoppare mia sorella e andare in prigione, e andare in prigione e basta, preferirei almeno togliermi la soddisfazione.»
Berganza mi guarda come sempre quando è il mio cinismo che parla e il mio senso del decoro lo lascia fare, perché si è suicidato nei primi anni Novanta.
Non è esattamente uno sguardo di rimprovero. A volte ho l’impressione che gli piaccia.
«Poi però», prosegue il commissario, per vedere se il ragionamento fila, «è probabile che Aldo Giay Marin abbia visto cosa significa davvero stare in prigione. Certo, Aldo dev’essere sempre stato un tipo abituato alla disciplina e a lavorare sodo, ma anche a un ambiente ben diverso, altri agi, altra autorità, perfino altro cibo... Si può ben ipotizzare che, dopo un po’, la poesia dell’espiazione gli sia passata. Non mi risulta che abbia mai cambiato ufficialmente idea e dichiarato di voler rivedere la propria versione dei fatti, anche perché avrebbe significato mettere nei guai Irma e immagino che Aldo Giay Marin non sia quel tipo di persona; però può benissimo essere che quel poveraccio stia tirando avanti da cinque anni in uno stato di tacita rassegnazione, patendo una situazione che si è andato a cercare con sconsideratezza, in un momento di follia.»
«Nel qual caso, noi saremmo gli unici in grado di tirarlo fuori da lì.»
Berganza annuisce. Inclinando la testa di due gradi, come fa lui.
Cerco di fare mente locale sull’ultima volta in cui mi sono sentita obbligata moralmente a fare qualcosa. Mi sa che avevo diciassette anni e avevo scritto un compito di storia per Lara, che era una capra in quella come in tutte le altre materie, ma aveva una professoressa più perfida del necessario e non meritava la bocciatura. Poi ho smesso, perché, per come la vedo io, l’obbligo morale spesso sfora nel volontariato, e lo sbattersi senza ricompense a sua volta spesso sfora nella rottura di coglioni. Potrei avere fatto un piccolo strappo alla regola circa un mese fa, okay, ma non significa che debba diventare un’abitudine. Specialmente non in una faccenda di ricconi psicolabili che si mettono da soli in casini di cui non vedo cosa debba fregare a me.
Però il commissario ha ragione. C’è qualcosa in questa situazione che mi impedisce di archiviare la faccenda come il vaneggiamento di un’arteriosclerotica, o, più semplicemente, come qualcosa che non mi riguarda e basta.
Forse non è nemmeno per Aldo. Forse è solo che comprendo il bisogno di verità di Irma.
«Ora», dice Berganza, congiungendo le punte delle dita. «Il fatto è che riaprire un caso chiuso è difficilissimo. Ha presente “impossibile”? Peggio. A volte, nemmeno quando emergono tracce di dna il procuratore generale lo considera ragione sufficiente per rimettere in discussione una sentenza, figuriamoci per le parole di un’ottantenne che ogni tanto è lucida e ogni tanto no. In più, se vogliamo arrivare ad avere abbastanza prove per convincerlo, dovremo fare tutto da soli. Perché dubito molto che qualcuno ci dirà: “Ma certo, accomodatevi, sottraete alle indagini in corso il vostro tempo pagato dallo Stato e dedicatelo pure a riesumare una vicenda morta e sepolta. Anzi, sapete che vi dico? Prendetevi anche questi agenti e queste risorse della Scientifica, già che ci siete, perché tanto nessuno di loro ha niente di meglio da fare”.» Sorrisino mesto da parte di entrambi. «Bisognerà smontare lo scenario che accusava Aldo Giay Marin e presentarne uno che invece renda la ricostruzione della Envrin non solo verosimile ma l’unica realistica. Dovremo rivedere le vecchie carte e investigare ex novo, fino a raccogliere un dossier capace di convincere il procuratore generale a riaprire le indagini – indagini che naturalmente a quel punto saranno molto facilitate dal lavoro che noi avremo già svolto, ma questo è un altro discorso. Ah: il tutto senza stuzzicare la curiosità della stampa, perché quelli hanno le antenne come gli scarafaggi e se fiutano che si stanno scoperchiando dei tombini corrono a banchettare con tutta la merda che gli riesce.»
Annuisco. Taccio.
«In poche parole, non per ripetermi, ma sarà un dannato casino, Sarca. E dunque ho bisogno di chiederglielo prima: lei crede davvero che Irma Envrin abbia detto la verità?»
Taccio più forte.
«Lo sappiamo entrambi che per ora non abbiamo che la parola di Irma, ma io lo sto chiedendo alla ghostwriter, Sarca. A quella che entra nella testa altrui ogni giorno per portare a casa la pagnotta, come altri compilano tabelle al computer o vendono frutta e verdura. Lo chiedo alla persona che ho visto con i miei occhi convincere un tizio a non uccidere una donna solo leggendogli dentro. Cosa le dice il suo intuito, Sarca? Irma è sincera?»
Ripenso a Irma.
Ripercorro le sue parole. Ma soprattutto rievoco il suo viso, il tono della sua voce. Il lampo di insofferenza, di urgenza, mentre confessava, come chi non ha tempo di convincere qualcun altro di quelle che sa già essere cose vere e vuole solo andare al sodo e trovare una soluzione prima che sia troppo tardi. Ripenso al modo in cui mi ha guardata nel dirmi la sua versione dei fatti. Che non era semplicemente il modo in cui ti guarda una persona sincera.
Era il modo in cui, se avessi dovuto svelare una grande e assoluta verità a uno sconosciuto, l’avrei guardato io.
«Capo, per me Irma Envrin era sincera.»
Berganza annuisce. «Va bene. Tanto mi basta.»
A quanto pare la decisione è stata presa.
«E... come procediamo, adesso?»
«Be’, Sarca... Credo che la domanda sia soprattutto come procederà lei. Perché, sicuramente se ne sarà già resa conto, è lei che ha in mano la chiave.»
Mi guarda.
Lo guardo.
Merda. Lo sapevo. Alla fine, che sia qui o in casa editrice, devo sempre fare tutto io. Chissà se è presto per chiedere un aumento anche in polizia.
«Si riferisce al libro, vero?»
«Proprio così. Siamo di fronte a un’indagine impossibile, ma almeno abbiamo una grandiosa copertura. Con la scusa del libro, Sarca, lei potrà frequentare assiduamente quella casa. Cerchi di imparare a dormire appesa a un albero del giardino come un pipistrello, se possibile. Già ci somiglia, a un pipistrello, non dovrebbe risultarle troppo difficile.» Di nuovo, sorrisino mesto da parte di entrambi. «Faccia parlare la Envrin più che può. Cerchi di scoprire ogni particolare, ogni movimento avvenuto quella notte, in modo da procurarci del materiale da confrontare con le ricostruzioni in archivio. Indaghi sui caratteri dei protagonisti, sulla plausibilità delle azioni. Osservi i luoghi, le stanze, i corridoi lungo i quali Aldo dice di essersi mosso. E, se Dio vorrà – o qualunque altra divinità protegga gli investigatori che dormono troppo poco e percepiscono stipendi inadeguati – ciò che ne caverà, unito alle indagini che nel frattempo farò io sui materiali del vecchio processo, dovrebbe dare forma a un apparato di dati capace di smuovere il procuratore. Non ce la faremo mai, glielo dico subito, ma almeno potremo continuare a farci tenere svegli la notte da un buon giallo e non dalla nostra coscienza.»
Fisso Berganza a occhi socchiusi, con una smorfia di disappunto. «Se scopro che lei si sbatte anche solo un millesimo meno di me, mi vendico, glielo prometto.»
«È lei quella che ha due lavori», ribatte Berganza alzando le spalle.