10.
MEDIA

Che poi, parliamoci chiaro.

Come se io non lo sapessi già, sul serio, che i media funzionano così. Come se mi accorgessi adesso che le polemiche, in rete, hanno vita più breve di una farfalla monca. Come se io stessa non l’avessi sfruttata, questa faccenda, per certi lavori del passato.

Incredibile quanto le cose che razionalmente sai benissimo ti si cancellino dal cervello quando sei travolto dalle emozioni. Neuroni contro ormoni: sempre una carneficina, e i buoni non vincono quasi mai.

Okay, ora lo so.

Il che non mi impedisce di continuare a vergognarmene, naturalmente.

Aprile 2013.

La porta dello studio di Enrico Fuschi è una copia del 1997 del restauro del 1951 della copia del 1882 della porta originaria del 1810. Legno massello, cinquecentomila lire (sarebbero state seicentocinquanta, ma il falegname aveva un libro nel cassetto). Il disegno dell’intaglio stona un po’ con la sobrietà moderna del corridoio, attualmente tinteggiato di un bianco freddo, ma le Edizioni L’Erica occupano un edificio storico del centro di Torino, quindi nelle linee arrotondate dei battiscopa e della giuntura parete-soffitto c’è ancora un che di desueto che si sposa bene con la porta. Comunque, è la porta giusta per lo studio di un importante direttore editoriale di un’importante casa editrice, il quale si suppone si barrichi dietro la porta medesima per svolgere indisturbato importanti compiti da persona importante.

È quindi con grande importanza che la porta stride di dolore quando un omino la spalanca di botto.

«Fuschi!» strilla l’omino all’unisono con la porta.

Enrico Fuschi è seduto alla scrivania – una cattedrona d’antiquariato, tremilaottocento euro nel 2010 (ridottisi a tremila perché anche l’antiquario aveva un libro nel cassetto). Sta esaminando qualcosa al computer con un’impiegata. Entrambi, editore e impiegata, alzano la testa di scatto verso la porta urlante e l’omino urlante più forte della porta.

«Castaldi, buongiorno, la segretaria non mi ha detto che stava arrivando», esita Fuschi. È un modo cortese per intendere “non dico farsi annunciare come un ambasciatore, ma almeno avrebbe potuto bussare”. È un modo gentile perché Ottavio Castaldi è il celebre conduttore di un celebre talk show di prima serata di una celebre rete televisiva, ed Enrico è sempre gentile quando ha davanti qualcuno che, per essere identificato, ha bisogno di tutti quei «celebre».

«Fuschi», ripete Castaldi, schiumando dalla bocca. «Il suo ghostwriter mi ha fatto sembrare un coglione

Enrico guarda per un attimo Castaldi e non dice quello che ha pensato, e che chiunque avrebbe pensato al suo posto. Castaldi sarà alto un metro e sessantacinque a dir tanto ed è tondo e levigato come un pomolo. Ha la barba, potata come una siepe di bosso a creargli una moquette perfettamente rotonda attorno alla faccia, tonda anch’essa, e si fa il riporto all’indietro. In tivù sembra normale. Dal vivo, Enrico trova che non serva un ghostwriter, o chiunque altro, per farlo somigliare a, be’, proprio a quella cosa che ha detto lui.

Tuttavia, si dispone diligente all’ascolto delle rimostranze di Castaldi.

Il quale marcia deciso fino alla scrivania, strappa il laptop da sotto le mani della giovane impiegata, che non tenta nemmeno di opporre resistenza, e si mette a digitare qualcosa nella pagina di avvio del browser. Siccome è nervoso, sbaglia un paio di volte, il che non fa che aumentare la sua furia.

«Lei e il suo ghostwriter», sibila, prendendo tempo. «Fuschi, mi aveva assicurato che l’articolo per il quotidiano me l’avrebbe fatto scrivere da un professionista, cazzo. E io stronzo che mi sono fidato.» Terzo tentativo di digitazione. Stavolta sembra imbroccare la url e una pagina inizia a comporsi sul monitor.

«L’articolo della mia riabilitazione, capisce?» incalza. È livido. Enrico non riesce a non pensare a un caso gigante di idrocele. «L’articolo che avrebbe dovuto tirarmi fuori da tutte quelle polemiche di merda. E invece...» Emette un ringhio di stizza.

Enrico sospira. Questa sarà delicata.

Tre giorni prima, intervistando un famoso regista sul suo ultimo film, Castaldi si è lasciato sfuggire qualche parola di troppo. Il film parla di maschi quarantenni in crisi e oggettivamente è il solito prodotto populista in cui, cercando di ammantarlo di raffinata analisi sociale, si ricama sul desiderio dell’uomo medio di portarsi a letto le amiche della moglie. Il regista però è simpatico e mezza Italia lo sta ascoltando con favore, quando nel fargli la terza domanda Castaldi si lascia scappare che per lui quella è tutta «roba da depravati». Pur sapendo che Castaldi ha militato in qualsiasi partito di centro cattolico grande o piccolo che sia spuntato in Italia negli ultimi vent’anni, e quindi non è sorprendente che gli sfuggano giudizi del genere, il pubblico non la prende bene e inizia a dargli del bacchettone moralista, emanazione di una mentalità superata e intollerante che non accetta che l’essere umano sia fatto anche di debolezze e tentazioni e bla bla bla. La parte sull’«emanazione di una mentalità superata» in particolare è preoccupante, perché i personaggi televisivi che vengono percepiti come emanazioni di una mentalità superata fanno presto a venire superati anche loro. Castaldi si sente scottare sotto le chiappe lo scranno da celebre conduttore del celebre talk show eccetera eccetera.

Siccome Castaldi è anche l’autore di Signorina, buonasera! Storia della televisione italiana dal buco della serratura, pubblicato appena un mese prima dalle Edizioni L’Erica, anche Enrico percepisce lo spiacevole aumento di temperatura. Non sia mai che l’autore perda di popolarità, perché un autore impopolare, per definizione, nessuno lo compra. Così procura a Castaldi la possibilità di scrivere per un noto quotidiano nazionale un articolo in propria difesa. O meglio, di farsi scrivere, esattamente com’è successo con il libro.

«L’hanno pubblicato stamattina sia sul cartaceo che sul sito», spiega Castaldi, mentre cerca il link giusto nella homepage del quotidiano online. «Legga, legga la bella merda in cui mi ha messo.»

Maledizione, pensa Enrico. Come ha fatto a dimenticarsi di controllare. Si è fidato troppo, ecco la verità.

Guarda l’impiegata come se avesse bisogno di prendersela con lei. La ragazza si mastica il rossetto.

«Io lo sapevo che dovevo insistere perché facessimo come per il libro», prosegue Castaldi, gli occhi iniettati di sangue sempre fissi sul monitor. «Almeno lì dentro sapevo cosa c’era, cazzo. Ho raccontato le mie cose al microfono e vi ho mandato la registrazione e il libro è uscito con dentro le cose che avevo detto io.» “Sì, be’, quasi”, pensa Enrico. Si ricorda con sgomento le nove ore di mp3 prodotte da Castaldi all’epoca. Nove ore di sproloqui, di flusso di coscienza, di fin troppo libera associazione d’idee, da cui «il ghostwriter» – Castaldi non ne ha mai saputo il nome o visto la faccia – ha dovuto ricavare un testo intelligibile con un capo e una coda. Enrico non lo ammetterebbe mai, ma dentro di sé persino lui ha dovuto riconoscere che l’impresa ha avuto del miracoloso. «Era tanto difficile far così anche stavolta, mi chiedo? E invece cretino io che mi son fidato e vi ho detto di pensarci voi», continua Castaldi spruzzando saliva sullo schermo. «Fricchettoni maledetti. Intellettuali scrittori dei miei stivali. Per un coglione, mi avete fatto passare.»

Enrico si schiarisce la voce. «Mi scusi, Castaldi, ma... Si può sapere cosa diavolo ha scritto il ghostwriter nell’articolo?»

«Che sono un cornuto!» esplode l’omino. L’impiegata fa un salto indietro. Una gocciolina di saliva particolarmente consistente piove sul monitor e genera un minuscolo arcobaleno. «Avete idea di cosa voglia dire tornare a casa per pranzo e venire accolto da mia moglie che strilla come un’aquila sventolandomi il giornale in faccia? Chiedendomi che cosa mi è saltato in mente di farla passare per una zoccola davanti a tutta Italia? E poi cerca di cavarmi gli occhi con il coltello da pesce? I vicini sono tutti usciti sui balconi a guardare!»

Enrico sospira. Scambia un veloce sguardo con l’impiegata e le sue pupille, dietro agli occhialini sottili da squalo, sono strette come il cuore di un boia. Con delicatezza sfila il laptop dalle mani frementi dell’omino, clicca sul link giusto e finalmente riesce a leggere l’articolo.

...la sgradevole impressione di essere un robot, un infallibile giudice supremo che non conosce debolezza o tentazione. Lo so, può essere sembrato così, e, onestamente, me ne scuso. Ma la verità – credo che meritiate di saperlo – è proprio il contrario. La verità, purtroppo, è che conosco a fondo ogni singola emozione di quelle che tocca ed esplora il bellissimo film del mio amico e grande artista (di cui peraltro ho sempre stimato moltissimo l’opera). Conosco il buio del tradimento e il dolore che si porta dietro. Io per primo vorrei che non fosse così, ma, ahimè, non possiamo sempre scegliere le prove a cui il destino ci sottopone, solo cercare di affrontarle facendo del nostro meglio per venirne fuori. Ecco il perché di quel mio commento inopportuno, di cui, ribadisco, volentieri mi scuso, perché non intendo in alcun modo nuocere al successo di un film tanto meritevole: è stato dettato semplicemente dal mio non essere ancora sereno o imparziale quando si parla di situazioni di questo genere. Lo ammetto: una crepa nel professionista, dalla quale per un attimo si è affacciato l’uomo. Alla luce di ciò, tuttavia, faccio una proposta: vi invito a rileggere la mia boutade come un complimento, ebbene sì – certo, espresso in modo singolare! – al nostro amico artista, che con il suo film evidentemente ha dimostrato di saper smuovere...

Enrico sospira di nuovo. Con calma, si leva gli occhiali e se li pulisce con la pezzolina che tiene nel cassetto.

«Castaldi, mi perdoni, ma questo articolo va benissimo. Può averla messa nei guai a casa, ma, me lo lasci dire da editore: credo che la... il ghostwriter non potesse scegliere una linea più efficace.»

«Ah sì? Facendomi sfottere da tutt’Italia perché non passo dalle porte?»

«La prego, cerchi di seguirmi», dice mellifluo Enrico. «Tanto per cominciare, questo articolo parla di un uomo che non si sa bene se è stato tradito o meno. Perché, ci pensi: nulla vieta di interpretarlo come se invece a tradire o a cadere in tentazione fosse stato lei, anziché sua moglie.» Per un attimo la faccia di Castaldi lascia intendere che quella lettura alternativa non gli darebbe altrettanto fastidio. Enrico continua. «Ma soprattutto restituisce l’immagine di una persona sensibile che si è trovata di fronte ai tormenti di una situazione del genere, e per questo non riesce a parlarne a cuor leggero. Un essere umano che, se è sbottato contro un film che tratta appunto di tradimento, l’ha fatto solo per troppo coinvolgimento personale.» Alza le spalle. «È tutto molto... molto simpatico, sa. Il ghostwriter ha avuto un’ottima idea, andando a toccare il tasto dell’empatia. Il pubblico adora queste confessioni dal cuore.»

Enrico cerca di guardare Castaldi con profondità e intensità. Non gli riesce mai: il risultato è una specie di maschera supplichevole da zerbino dei potenti. Tuttavia, Castaldi è sempre istintivamente bendisposto verso chi lo guarda con espressione servile, quindi accetta di rifletterci un attimo.

È a quel punto che l’impiegata si schiarisce la voce. «Leggete i commenti», suggerisce.

Enrico fa scorrere la schermata. In effetti, nel frattempo sotto all’articolo sono apparsi dei commenti di lettori.

Sonia64: Mi colpisce davvero che il caro vecchio Ottavio Castaldi sia sceso x 1 volta dal piedistallo e abbia voluto condividere con noi un pezzo della sua fragilità che nn conoscevamo. Grande Ottavione nazionale!

UlisseViaggiatore: E chi nn ha mai sbroccato 1 volta nella vita?!? Bisogna sempre ricordarsi che anche un personaggio TV è un uomo come tutti.

PassatorScortese: Eh immagino che per gente che vive nel mondo dello spettacolo le tentazioni siano tante ma poi siamo sempre tutti uguali umani e peccatori figli di Dio. Se Castaldi nn riesce a parlare alla leggera di un film che tratta cose del genere come se fossero normali è chiaro che è xché è ancora scottato di suo. Tanto di cappello per avere avuto il coraggio di rivelarsi così!

Ce ne sono altri sei, tutti più o meno sullo stesso tono.

Castaldi fissa il monitor, poi fissa Enrico.

«Oh», riesce solo a dire, sbalestrato.

«Visto?» gongola Enrico. Quando è sollevato per qualcosa, gli viene sempre quest’aria da tacchino festoso.

«Be’, suppongo che sia tutto bene quel che finisce bene», sentenzia l’omino alla fine, ancora esitante. Finalmente si schioda dalla scrivania e si avvia verso la porta. «Vado a parlarne con mia moglie. Magari a quest’ora si sarà decisa a farmi rientrare in casa. Ci vediamo.» Si trattiene, ma mentre esce gli viene quasi da dire grazie.

Dentro lo studio c’è ancora un attimo di silenzio.

«Potevi almeno avvertire», brontola Enrico.

«Che strano, avrei giurato di avergli mandato un’e-mail in cui gli anticipavo cos’avevo scritto nell’articolo e di preparare sua moglie», cinguetta l’impiegata, alzando le spalle rivestite da una maglia nera. «Mi sa che non gli è arrivata. Ogni tanto succede. Ah, questa tecnologia.»

Enrico si accascia contro lo schienale della sedia (stesso antiquario della scrivania, millecinquecento euro nel 2011. Ne sarebbe valsi solo mille, ma nel frattempo l’antiquario si era reso conto che nessuno alle Edizioni L’Erica si sarebbe mai filato il suo manoscritto). «Vani, ma perché devi fare sempre così? Una volta nella vita potresti eseguire il tuo compito e basta, senza darmi il mal di fegato?»

Vani storce il naso. «Ma se non faccio altro. Sei tu che mi chiedi sempre di scrivere per gente di merda. Se una volta ogni dieci anni mi levo una minuscola soddisfazione non puoi certo lamentarti. Anzi, io direi che mi merito un aumento, sai.»

«Aah», geme Enrico tenendosi il fegato.

«Spiritoso», sbuffa Vani alzandosi. «Be’, adesso me ne vado. Addio, Enrico.»

«Ti spiace...»

«...Uscire dal retro, lo so, lo so», sospira Vani, dirigendosi verso la porta senza salutare.