PEABODY

 

 

 

Quando finalmente Anse mi ha mandato a chiamare di sua propria volontà, ho detto «C'è riuscito, a darle il colpo di grazia». E ho detto, era ora, e lì per lì avevo deciso di non andarci perché magari c'era qualcosa che avrei potuto fare e allora avrei dovuto riprenderla per i capelli, perdio. Ho pensato forse in cielo hanno le stesse stupide norme etiche che hanno alla Scuola di Medicina, e forse era di nuovo Vernon Tull che mi mandava a chiamare, per farmi arrivare appena in tempo, come fa sempre Vernon con le cose così sfrutta al massimo i soldi di Anse come fa coi suoi. Ma poi, più in là nella giornata, quando ho visto come si metteva il tempo, ho capito che non poteva esser stato nessun altro se non Anse a mandarmi a chiamare. Ho capito che nessuno se non uno davvero scalognato avrebbe mai avuto bisogno di un dottore quando sta per arrivare un ciclone. E ho capito che se finalmente gli era passato per la testa perfino a lui che ne aveva bisogno, ormai era troppo tardi.

Quando sono arrivato alla sorgente, sono sceso e ho legato i muli, il sole era calato dietro un banco di nuvole nere come una catena di monti rovesciata, come una carrata di cenere scaricata laggiù, e niente vento. Cash lo sentivo segare già a un miglio di distanza. Anse è in cima allo strapiombo sopra il sentiero.

«Il cavallo dov'è?» dico.

«Jewel ha preso e se n'è andato» dice lui. «Non c'è nessun altro che lo può acchiappare. Dovrà venir su a piedi, mi sa».

«Io venir su a piedi, col mio quintale e passa?» dico io. «Venire a piedi su per questo maledetto muro?». Se ne sta lassù accanto a un albero. Peccato che il Signore abbia fatto lo sbaglio di dare radici agli alberi e piedi e gambe agli Anse Bundren che mette al mondo. Se solo avesse fatto all'incontrano, non ci sarebbe da preoccuparsi che un giorno questo nostro paese rimanga diboscato. O qualsiasi altro paese. «Che cosa vuoi che faccia?» dico. «Che resti qui a farmi spazzar via dalla contea appena quel nuvolone si rompe?». Anche col cavallo ci sarebbe voluto un quarto d'ora per risalire il pascolo fino in cima alla collina e arrivare alla casa. Il sentiero sembra un ramo storto sbattuto dal vento contro la scarpata. Sarà una dozzina d'anni che Anse non è stato in paese. E come avrà fatto sua madre a arrivare fin lassù per farlo nascere, lui che è figlio di sua madre.

«Vardaman è andato a prendere la corda» dice.

Dopo un po' appare Vardaman con la corda dell'aratro. Ne dà un capo a Anse e viene giù per il sentiero, srotolandola.

«Tienla forte» dico. «L'ho già segnata sul mio registro, questa visita, sicché te la metto in conto lo stesso, ci arrivi lassù in cima o non ci arrivi».

«Ce l'ho» dice Anse. «Può cominciare. Venga».

Mi prenda un accidente se capisco perché non la smetto. Uno di settant'anni, che pesa un quintale e passa, farsi tirare su e giù per un accidente di montagna con una corda. Sarà perché prima di smettere devo arrivare al traguardo dei cinquantamila dollari non riscossi sui miei registri. «Che diavolo le è preso, a tua moglie,» dico «andarsi a ammalare in cima a una maledetta montagna?».

«Mi dispiace, davvero» dice lui. Lascia andare la corda, buttata per terra e via, e si è già avviato verso la casa. Quassù in alto c'è ancora un po' di luce, del colore dei fiammiferi di zolfo. Cash non si volta. Dice Vernon Tull che porta ogni asse alla finestra perché lei la veda e dica che va bene. Il bambino ci raggiunge. Anse si volta a guardarlo. «Dov'è la corda?» dice.

«È dove l'hai lasciata» dico io. «Ma non badare a quella corda. Devo tornarci giù, per quella scarpata. Non ho nessuna intenzione di farmi trovare qui dal ciclone. Una volta preso l'avvio, chissà dove accidenti mi ritroverei».

La ragazza è in piedi accanto al letto che le fa vento. Quando entriamo lei volta la testa e ci guarda. Sono dieci giorni che è morta. Sarà perché è stata parte di Anse per tanto tempo che non può neanche fare quel cambiamento, se cambiamento è. Mi ricordo quando ero giovane credevo che la morte fosse un fenomeno del corpo; ora so che è soltanto una funzione della mente - della mente, dico, di chi subisce il lutto. I nichilisti dicono che è la fine; i fondamentalisti, il principio; mentre in realtà non è altro che un affittuario o una famiglia che se ne va da un appartamento o da una città.

Ci guarda. Soltanto gli occhi sembrano muoversi. È come se ci toccassero, non con la vista o il senso, ma come ti tocca il getto da una canna, il getto nell'istante dell'impatto, dissociato dal boccaglio come se non ci fosse mai passato. Anse non lo guarda per niente. Guarda me, e poi il bambino. Sotto la trapunta, non è altro che una fascina di stecchi marci.

«Be', signora Addie» dico. La ragazza non smette di far vento. «Come sta, sorella?» dico. La testa giace sparuta sul guanciale, a guardare il ragazzo. «Bel momento, ha scelto, per farmi venire quassù e scatenare una tempesta». Poi mando fuori Anse e il bambino. Lei guarda il bambino lasciare la stanza. Non si è mossa tranne che per gli occhi.

Lui e Anse sono sul portico quando esco, il ragazzo seduto sugli scalini, Anse in piedi accanto a un montante, senza neanche appoggiarcisi, le braccia ciondoloni, i capelli arruffati e schiacciati come un galletto bagnato. Gira la testa e mi guarda, sbattendo le palpebre.

«Perché non mi hai mandato a chiamare prima?» dico.

«Sa, tra una cosa e l'altra...» dice. «Quel mais che io e i ragazzi si voleva mettere a posto, e poi c'era Dewey Dell che se ne occupava lei, e gente che veniva, offriva di aiutare e roba del genere, sicché io pensavo...».

«Al diavolo i soldi» dico io. «Hai mai sentito che io sia stato dietro a uno prima che fosse in grado di pagare?».

«Non è che non volessi tirare fuori i soldi» dice lui. «È che pensavo sempre... Se ne sta andando, eh?». Quell'accidente di ragazzetto se ne sta lì seduto sull'ultimo scalino, e in quella luce color zolfo sembra più piccolo che mai. Ecco qual è il guaio di questo paese: tutto, il tempo, ogni cosa, dura troppo. Come i nostri fiumi, la nostra terra: opaca, lenta, violenta; che forma e crea la vita dell'uomo nella propria immagina implacabile e pensosa. «Lo sapevo» dice Anse. «L'ho sempre capito. Se l'è messo in testa».

«E accidenti se non ha fatto bene» dico io. «Con un buono a nulla...». Se ne sta lì seduto sull'ultimo scalino, piccolo, immobile nella sua tuta scolorita. Quando ero uscito aveva alzato gli occhi a guardarmi, poi aveva guardato Anse. Ma adesso ha smesso di guardarci. Se ne sta lì e basta.

«Gliel'ha detto, a lei?» dice Anse.

«E perché?» dico io. «Perché diavolo?».

«L'avrà capito da sé. Lo sapevo che quando vedeva lei l'avrebbe capito, neanche l'avesse visto scritto. Non c'era bisogno che glielo dicesse lei. Se l'è messo...».

Dietro di noi la ragazza dice: «Pa'». La guardo, la guardo in viso.

«Sarà meglio che tu vada dentro, presto» dico.

Quando entriamo nella stanza lei sta guardando la porta. Mi guarda. I suoi occhi sembrano due lampade che avvampano appena prima che il petrolio finisca. «Vuole che lei esca» dice la ragazza.

«Su, Addie,» dice Anse «quando è venuto fin qui da Jefferson per farti guarire?». Lei mi guarda: sento i suoi occhi. È come se con gli occhi mi stesse spingendo via. L'ho visto altre volte, nelle donne. Le ho viste cacciare dalla stanza quelli che portano compassione e partecipazione, che portano un vero aiuto, e aggrapparsi a qualche animale buono a nulla per il quale non sono mai state altro che un cavallo da soma. È questo che intendono per l'amore che sorpassa ogni intelligenza: l'orgoglio, il desiderio di nascondere quell'abietta nudità che ci portiamo dietro, qui, ce la portiamo dietro nelle sale operatorie, ce la portiamo dietro ancora una volta, testardamente, furiosamente, sottoterra. Lascio la stanza. Al di là del portico la sega di Cash continua a russare dentro l'asse. Un momento dopo lei grida il suo nome, la voce aspra e forte.

«Cash» dice. «Ehi, Cash!».