8.

L’ORMA DI ALI’.

 

In quella stagione, nella campagna intorno a Peshawar si potevano scorgere, al mattino, figure avvolte nei chador di fronte alle case basse di mattoni con gli sterpi secchi ammucchiati sui tetti; il fumo dei fornelli si mescolava alla nebbia. Nei campi piatti e gelati, gli appezzamenti di canna da zucchero tropicale si alternavano ai piccoli frutteti di alberi dei climi temperati. Ai bordi di alcuni campi crescevano uno o due filari di esili piu’ ppi ibridi, che facevano poca ombra. Anche quella era una coltivazione: dopo quattro anni i piu’ ppi si potevano tagliare e il legno era utilizzato per fare i fiammiferi. Si trattava di una coltura nuova per la zona. E in questo c’era un pezzetto di storia: fino alla secessione del 1971, il Bangladesh produceva i fiammiferi di tutto il Pakistan.

Con un’automobile dell’albergo andai a Rawalpindi. Ad Attock, le acque limacciose del fiume Kabul si mescolavano a quelle azzurre dell’Indo, in una confluenza larga un chilometro e mezzo. Era una delle grandi vedute fluviali del subcontinente. li’ terminava la provincia di frontiera e cominciava il Punjab. Sarebbe stato bello fermarsi a guardare, ma era impossibile arrestare la macchina e sostare sul ponte. Man mano che proseguivo, in macchina fino a Rawalpindi e poi in treno fino a Lahore, mentre il paesaggio diventava sempre piu’ piatto e gli scenari erano costantemente affollati, le idee dei pathan che Rahimullah mi aveva fatto conoscere iniziarono a sembrare molto distanti. L’onore e il territorio, il santuario e la vendetta, la reclusione delle donne e il rigore dei precetti religiosi: erano concetti che avevano bisogno del loro contesto, del loro mondo chiuso. Ma i pathan erano stati costretti a emigrare; avevano bisogno del mondo esterno e allora era possibile che si distorcesse la loro idea di onore. Pochi avevano studiato o avevano capacita’ professionali avanzate; e il codice del clan, che assicurava protezione, poteva anche farne dei predoni. In questo modo erano conosciuti nel mondo esterno, cosi’ come era diffusa la loro fama di soldati.

Nell’atrio dell’albergo a Peshawar una scritta dipinta su un cartello ammoniva: REGOLE DELL’ALBERGO. E’ vietato portare armi all’interno dell’albergo. Le guardie del corpo e i vigilantes sono pregati di depositare le armi presso il Servizio di sicurezza dell’albergo. Vi ringraziamo della collaborazione. La Direzione . E quando tornai a Lahore, fui accolto dalla notizia di un rapimento nella provincia di frontiera.

Avevo gia’ avuto occasione di conoscere Ahmed Rashid. Faceva il giornalista e, insieme a un socio, era proprietario di una miniera di carbone nell’entroterra del Punjab. La notizia che mi diede era che tre delle jeep della miniera erano state rubate e sei degli uomini rapiti. Il furto e il sequestro si erano svolti in piu’ fasi. Prima avevano preso una jeep e i due uomini che portava, a Sargodha, che e’ una grande citta’ . Dopo dieci giorni era arrivata una richiesta di riscatto per due “lakh”, duecentomila rupie, quattromila sterline. Ahmed aveva mandato due uomini con una jeep a negoziare con i rapitori, ma senza soldi, e questo aveva irritato i rapitori, che sequestrarono i due uomini e la seconda jeep. Ahmed aveva colto il messaggio e aveva mandato due impiegati in una terza jeep col denaro del riscatto. Ma a quanto pareva, i rapitori erano ancora infuriati: trattennero i due impiegati, il riscatto e chiesero altri venti “lakh”, quarantamila sterline.

Ahmed, che non dimenticava mai di essere un giornalista, era eccitato da tutta la faccenda, una bella storia appetitosa che gli era accaduta, per cosi’ dire, sulla porta di casa; e con il distacco del giornalista, trovava buffa la successione degli eventi e gli uomini della miniera che a due a due finivano in un covo di banditi da qualche parte nella provincia di frontiera. Si era messo in contatto con l’esercito e i servizi segreti: solo loro potevano aiutarlo. E adesso pensava che le trattative avrebbero potuto trascinarsi per mesi, il che non sarebbe divertente per i sequestrati. Era importante che non si interrompessero, per evitare che i rapiti fossero portati al di la’ del confine. Se fosse accaduto, era finita: potevano dimenticarsi le jeep e gli uomini.

Dove non esistevano leggi o istituzioni affidabili, gli uomini per proteggersi ricorrevano al codice e al concetto di onore. Ma funzionava anche nell’altro senso: dove il codice d’onore era forte, non poteva esserci uno Stato di diritto. Nella provincia di frontiera (come aveva osservato l’ospite pathan di Saleem Ranjha a Mansoura) lo Stato moderno stava morendo; era superfluo. La gente tornava a vivere con l’idea del clan e del feudo. E questo giovava agli affari.

 

Circa cinquecento chilometri a sud, dove il Punjab incontra il Sind, nel deserto, c’era un tempo il vecchio principato di Bahawalpur. Esistevano piu’ di cinquecento Stati semiautonomi come questo al tempo dell’impero britannico. All’incirca settanta erano abbastanza importanti da permettere ai loro governanti di fregiarsi del titolo di Altezza Reale. Uno di questi era Bahawalpur.

Era uno degli staterelli o feudi parassitari nati intorno alla meta’ del Settecento durante il crollo della potenza musulmana nel subcontinente. A ovest e a nord era delimitato per cinquecento chilometri dall’Indo e dal suo affluente, il Sutlej. Da un lato questi grandi fiumi (il Sutlej col suo corso sinuoso e accidentato, ampio parecchi chilometri), dall’altro il deserto, protessero il territorio di Bahawalpur contro gli attacchi dei sikh dal Nord e dei maratti indo dal Sud. Nel 1838 gli inglesi fecero di Bahawalpur un protettorato; cosi’ , finalmente, sotto l’ala dell’impero, i “nawab” di Bahawalpur conobbero la sicurezza. Governarono fino al 1954, quando lo Stato fu assorbito nel Pakistan.

Il “nawab” aveva sperato che, dopo la partenza degli inglesi dal subcontinente, nel 1947, il suo Stato diventasse indipendente. Era una follia. Nel 1941 Bahawalpur aveva meno di un milione e mezzo di abitanti, in gran parte servi della gleba. Ma dopo un secolo di tranquillita’ sotto la protezione britannica, il “nawab” si era fatto delle illusioni sulla portata della sua autorita’ . Dopo che ebbe perso lo Stato, fu impossibile per lui continuare a vivere li’ da privato cittadino. Quasi certamente, la sua idea di Stato non prevedeva liberi cittadini privati, ma soltanto un sovrano e dei sudditi. Abbandono’ Bahawalpur e si trasferi’ in Inghilterra, portando con se’ buona parte del suo patrimonio. Compro’ una casa nel Surrey, dove visse fino alla morte, nel 1966.

Dietro di se’, a Bahawalpur, lascio’ molti figli, legittimi e illegittimi, tre palazzi, un harem disoccupato e sconcertato, alcuni college e scuole, e l’ambizioso Progetto della valle del Sutlej. Il progetto, realizzato da ingegneri inglesi e con un prestito del governo dell’India britannica, aveva portato l’irrigazione nel deserto, rendendo coltivabili vaste aree. La terra era stata offerta a prezzi irrisori a chiunque volesse coltivarla. Ma la gente del posto si era gia’ spezzata la schiena a furia di combattere contro il deserto e non aveva interesse a tentare la sorte con questa nuova impresa. Dal Punjab erano arrivati coloni animati da maggiore determinazione. Il successo del progetto aveva triplicato le entrate dello Stato e arricchito smisuratamente il “nawab”. Senza dubbio questa ricchezza fu uno dei fattori che lo avevano incoraggiato a vagheggiare l’indipendenza.

Grazie a una combinazione casuale di elementi storici e geografici, la dinastia di Bahawalpur era durata in definitiva due secoli. Non era mai stata gloriosa o intraprendente (a parte il Progetto della valle del Sutlej), ma sul suo conto avevano cominciato a diffondersi delle favole. Si diceva discendesse dagli Abbasidi che avevano regnato gloriosamente a Baghdad fino all’invasione mongola, avvenuta nel tredicesimo secolo. Un ramo degli Abbasidi era allora fuggito nel Sind, che a quel tempo faceva parte dell’impero abbaside. E li’ (secondo la leggenda) aveva pazientato per circa cinque secoli prima di cogliere la sua grande occasione impadronendosi di quella vasta distesa desertica che sarebbe diventata Bahawalpur.

L‘“Encyclopaedia of Islam”, recentemente aggiornata, smentisce questa storia, affermando che l”Abbas di Bahawalpur non e’ l”Abbas degli Abbasidi. In un certo senso non importa che la storia sia vera o no; conta, invece, che ci creda la gente del posto e che le vicende locali siano lette alla luce di questa storia. Il vecchio regno indo del Sind fu la prima regione del subcontinente a essere sottomessa dagli arabi nell’ottavo secolo. L’invasione, effettuata principalmente allo scopo di saccheggiare il paese, fu condotta con implacabile sistematicita’ . La prima spedizione avvenne nel 634, appena due anni dopo la morte del Profeta, e tre anni prima della conquista della Persia. Altre otto campagne contro il Sind precedettero la conquista definitiva nel 710. L’attacco finale ebbe luogo sotto il controllo diretto del califfo dalla Siria. Il testo duecentesco che celebra la conquista, il “Chachnama”, malgrado sia in parte fantasioso e poetico, e’ un resoconto di massacri, saccheggi e sopraffazioni non meno raccapricciante del “De bello gallico” di Giulio Cesare. Ma la conquista del Sind puo’ essere vista in molti modi e la pretesa della dinastia di Bahawalpur di discendere dagli Abbasidi costituisce anche un anello di congiunzione con la nascita della potenza araba e musulmana nel subcontinente. E’ come la nevrosi primaria del convertito.

Quale che fosse l’autenticita’ della storia degli Abbasidi (e indipendentemente da cio’ che stava accadendo nel resto del mondo nel corso del Novecento), l’ultimo “nawab” di Bahawalpur credeva fanaticamente alle proprie presunte origini. A Bahawalpur e, piu’ in generale, in Pakistan e nel subcontinente, era considerato un conquistatore arabo, discendente degli Abbasidi, un uomo che traeva la propria ricchezza dal paese ma non ne faceva parte. Per sottolineare questo punto, portava il fez e obbligava i suoi cortigiani a fare altrettanto per tenerli al loro posto (fin quando non si era imparato, non era facile tenere sulla testa quel cappello a forma di vaso da fiori). Un giorno, mentre guidava l’automobile fuori citta’ , il “nawab” scorse in lontananza sulla strada uno dei suoi cortigiani senza il fez. Non appena lo vide, il cortigiano comincio’ a correre, inseguito dal “nawab” in macchina. Il poveretto, dimenticando ogni dignita’ e temendo in quel momento il “nawab” e il suo famigerato bastone piu’ di ogni altra cosa, lascio’ la strada e corse a nascondersi in un campo di canne da zucchero, con le foglie affilate come rasoi.

La fede araba, la lingua araba, i nomi arabi, il fez: dodici secoli dopo la conquista del Sind, perdurava questa affermazione di separatezza, di supremazia imperiale, razziale e religiosa. Probabilmente non e’ mai esistito un imperialismo come quello dell’Islam e degli arabi. Dopo cinquecento anni di dominio romano, i Galli poterono recuperare le loro vecchie divinita’ e devozioni; quelle credenze non erano morte, erano soltanto nascoste appena dietro la facciata della romanita’ . Ma per l’Islam l’impegno di cancellare il passato e’ un articolo di fede. Alla fine i credenti onorano soltanto l’Arabia; non hanno nulla a cui fare ritorno.

Il “nawab” si considerava un arabo e un conquistatore, ma un’altra parte di lui sapeva riconoscere la vera autorita’ . E se da un lato costringeva i cortigiani a chinare la testa al suo cospetto, dall’altro non aveva remore a piegarsi alla schiacciante potenza britannica. A Bahawalpur c’era senz’altro un residente inglese che sovrintendeva agli affari del paese e, oltre a lui, dei cittadini britannici ricoprivano importanti cariche ufficiali.

E, scuro di pelle com’era (a scuola, mi raccontarono, era soprannominato Brownie), era ossessionato dalle donne bianche. Pur rivendicando fieramente le proprie origini, aspirava ad annullarsi dal punto di vista razziale, infatti desiderava ardentemente dei figli bianchi o meticci. Tre delle sue mogli erano inglesi (e una quarta era angloindiana) e in questo aveva dato origine a una moda: molti andarono all’estero e tornarono con mogli bianche. L’ultima moglie inglese del “nawab” era conosciuta localmente come Lady O, Perche’ gli ufficiali britannici e la piccola aristocrazia di Bahawalpur la giudicavano ordinaria.

Il “nawab” mando’ tutti i figli maschi legittimi all’Aitchison College, la scuola istituita dagli inglesi per i figli dei principi di Lahore (dove da ragazzino lo avevano chiamato Brownie). Ma era risaputo che gli erano particolarmente cari i figli di sangue misto da lui avuti, che riteneva magici. Si raccontava che avesse portato due dei figli avuti da concubine indigene in un santuario sperduto nel deserto e li avesse lasciati li’ Perche’ da grandi diventassero custodi del cimitero. Poteva farlo; il suo potere era assoluto. Ma non e’ escluso che la storia fosse falsa. Il “nawab” ebbe molte mogli, molte concubine, molti figli. Le loro gelosie e sofferenze erano un terreno adatto ad alimentare ogni genere di storie.

Un giornalista di Bahawalpur, che aveva conosciuto una delle donne dell’harem del “nawab”, mi racconto’ : All’interno del palazzo c’era una costruzione apposita per le mogli inglesi e i loro figli. Le mogli indiane sapevano di quelle inglesi, ma le inglesi ignoravano l’esistenza delle indiane. Quando il “nawab” voleva visitare l’harem, diceva che partiva per un giro del paese. A volte stava fuori per tre o quattro giorni, altre volte per una settimana. E aveva un seguito adeguato: le guardie, la Rolls-Royce, i soldati a cammello che erano le sue personali guardie del corpo. Tutto quello che faceva era di andare sul retro del palazzo, che era enorme, simile a un vecchio forte, ed entrare nell’harem, che si trovava appunto nella parte posteriore .

Aveva avuto piu’ di trecentonovanta donne. La maggior parte di loro era andata a letto con lui solo una volta. Pero’ non potevano stare con nessun altro uomo. Alcune svilupparono una forma di isteria; altre divennero lesbiche. Nell’harem c’erano sempre tra sedici e diciotto donne a sua disposizione.

Quando entrava nell’harem portava un bastone. Le donne gli saltavano addosso e lo tiravano da tutte le parti, e lui le teneva a bada col bastone fin quando non vedeva quella che voleva, e allora lo diceva all’eunuco. Al ritorno dai viaggi all’estero portava nell’harem bauli di latta pieni di doni e le donne impazzivano. Avevano chiesto camicette, trine e piume ed erano pronte a contendersele. Per le mogli inglesi faceva compere da Tiffany, Cartier, Garrard. I commessi andavano da lui, quando era in Inghilterra, per mostrargli i gioielli. Per se stesso comprava vedute della campagna inglese e si faceva ritrarre da pittori ingleso’ .

Un giorno, una lettera su un vassoio d’argento (un particolare che fa pensare a intrighi di palazzo e pettegolezzi eccitati) rivelo’ alla favorita inglese che il “nawab” aveva un harem indiano. Quando il poveretto ando’ a trovarla, vide l’intero harem seduto li’ a prendere il te’ in sua compagnia.

L’esercito che occupo’ il palazzo reale trovo’ un’intera collezione di falli artificiali, circa seicento, alcuni di creta, altri azionati da pile, comprati in Inghilterra. I soldati scavarono una fossa e li seppellirono. Trovarono anche un’enorme quantita’ di riviste pornografiche. Se ne serviva il “nawab”, diventato impotente assai presto, per utilizzare i falli. I suoi appetiti erano saturi. Un giorno qualcuno entro’ nell’harem nel momento sbagliato e sorprese il “nawab” che usava un fallo artificiale su una donna urlante .

Il palazzo principale, rimasto chiuso per undici anni, adesso era in rovina. Come altri immobili principeschi nel subcontinente, era oggetto di una causa legale e chiuso coi sigilli giudiziari. Se lo contendevano i numerosi eredi del “nawab”. La facciata era ancora in buone condizioni, ma all’interno le termiti lo stavano divorando; nel corso degli anni l’accumulo della segatura da loro prodotta, premendo contro il portone d’ingresso, lo aveva socchiuso e aveva riempito la stretta fessura bloccandolo. Dicevano che nel garage ci fossero diciannove macchine d’epoca, fra cui cinque Rolls-Royce degli anni Trenta costruite su ordinazione. Poggiavano su mattoni e la ruggine le divorava.

Quando mi allontanai dal viale d’accesso e cominciai a dirigermi verso il retro, le guardie mi urlarono dietro. Capii il perche’. Al piano superiore, sul retro, vidi la finestra di una camera da letto forzata e la zanzariera divelta: ladruncoli, saccheggiatori all’opera, il tema ricorrente del subcontinente. I giardini erano invasi dalla vegetazione: spinosi triacanti del deserto, smisurata erba degli elefanti, palme da datteri che crescevano nei canaletti di scolo. Sembrava un giardino surrealista, come se l’avessero progettato apposta per il palazzo in rovina, con un viale d’accesso surrealmente pulito e i bordi ben curati.

Lontano nel deserto c’era il recinto desolato (a cui badavano famiglie di custodi del cimitero) con le tombe pesanti e retoriche dei quattordici sovrani di Bahawalpur e delle loro mogli. Le favorite avevano tombe in marmo simili a chioschi, con graticci intarsiati in stile moghul e motivi floreali a rilievo. Due delle spose inglesi del “nawab” avevano tombe di marmo di questo tipo.

Fu il nipote di una di quelle mogli ad accompagnarmi alle tombe. Il “nawab” adorava sua nonna, disse Azhar Abbasi; lei lo aiutava anche in alcuni affari di Stato. piu’ tardi mi mostro’ una piccola fotografia sbiadita; a causa delle leggi del “parda”, non esisteva quasi nessuna immagine di sua nonna. Questa, forse scattata da un professionista (o in uno studio fotografico) prima che sposasse il “nawab”, mostrava una donna snella in un vestito degli anni Venti o Trenta lungo fino al polpaccio, seduta, con le gambe incrociate, girata da un lato, con un bel volto e l’aria composta. Era la figlia di un ufficiale britannico di stanza in India. Era strano immaginare la sua scelta, quel particolare patto con la vita, per cosi’ dire, che per lei aveva significato una sorta di scomparsa, e poi la sua tomba nel deserto. Forse era morta di avvelenamento, a causa delle gelosie della corte; o forse in seguito a un’operazione eseguita, non nella sala operatoria di un ospedale, ma sul tavolo da pranzo del palazzo, Perche’ il “nawab” si preoccupava che non fosse violato il “parda”. Anche a questo proposito circolavano parecchie storie.

Il “nawab” aveva riconosciuto dieci dei suoi figli maschi. Azhar Abbasi, che mi aveva mostrato le tombe, era il figlio del terzo figlio, che aveva avuto anche lui quattro mogli. Azhar era oppresso da tutti i problemi familiari di proprieta’ che erano scaturiti da quella situazione. I matrimoni plurimi musulmani, benche’ spesso risultino comici agli occhi di un estraneo, erano fonte di indicibili sofferenze per molti di coloro che erano coinvolti, e il dolore poteva trasmettersi come una malattia di generazione in generazione. Sembrava quasi che i padri non potessero fare a meno di tramandare ai figli le ferite (la gelosia, il tormento, l’indifferenza) di cui avevano sofferto.

Azhar era ancora musulmano, sebbene fosse praticamente bianco, come risultato dei matrimoni misti nel corso delle generazioni, e avesse la cittadinanza australiana. Gli chiesi cosa pensasse del suo ambiente d’origine, ora che ne era cosi’ distante in termini razziali.

Rispose che voleva emigrare in Canada o vivere in Australia: Mio nonno era un principe indiano. Tutto questo e’ finito. Un principe indiano: bella roba! .

 

Tutto era fondato sulla servito della gleba. La colonizzazione del deserto, l’harem, le costose mogli inglesi, i gioielli da Londra, la casa nel Surrey, le Rolls-Royce che marcivano nel garage del palazzo, i quadri con le vedute della campagna inglese, rappresentavano i tributi riscossi, centesimo su centesimo, come la segatura delle termiti, dai piu’ poveri fra i poveri. Gli abitanti dei villaggi appartenevano al proprietario della terra, che aveva su di loro un potere quasi altrettanto assoluto di quello del “nawab” sui suoi sudditi. Potevano essere frustati a piacimento; a piacimento potevano essere stuprate le figlie e le mogli. Il servo della gleba sapeva che non doveva dare la schiena al padrone. Si allontanava camminando a ritroso o spostandosi lateralmente. Generazioni di lavoro servile erano radicate in quella istintiva danza del gambero, che al primo impatto lasciava sconcertato il visitatore.

Bahawalpur era stata soltanto un protettorato britannico e qui gli inglesi non avevano mai imposto le loro leggi. Aveva sempre regnato la “sharia”; e un’atavica crudelta’ (nascosta fra gli stracci e le catapecchie delle campagne, mascherata da semplice poverta’ ) era sopravvissuta al secolo di presenza britannica. Le storie di questi luoghi erano simili a quelle delle piantagioni dei Caraibi verso la fine del Settecento o della Russia agli inizi dell’Ottocento. Persino al tempo del “nawab” (che pure aveva sempre vigilato per impedire quel tipo di maltrattamenti) la moglie di uno dei suoi funzionari aveva frustato a morte un ragazzino di dodici anni.

Ecco una storia tutt’altro che insolita:

La donna, una baluci, era una serva della gleba, che un proprietario terriero feudale aveva letteralmente comprato quando aveva dieci anni. Era stata la sua amante e l’amante del figlio, ma finalmente, quando anche il nipote aveva cercato di possederla, era scappata col suo innamorato e aveva trovato rifugio nella nostra tenuta agricola. Anche noi eravamo feudatari. Era scappata da un feudatario a un altro. Fecero un sacco di pressioni su di noi Perche’ la restituissimo. Sapevo che, se l’avessimo fatto, l’avrebbero punita nella maniera piu’ bestiale. Quell’uomo violentava le serve, le umiliava quando disobbedivano, a volte le uccideva e ne distruggeva i corpi. Per umiliarle, le legava nei recinti come animali, le faceva sodomizzare, le costringeva a mangiare escrementi. Aveva piu’ di sessant’anni.

Sapevo che se avessimo rimandato indietro la donna, lui le avrebbe fatto tagliare il naso e i tendini del ginocchio. Anche lei lo sapeva. Durante le trattative col feudatario, che politicamente era molto potente e, cosa paradossale, era un membro del Partito liberale, pretesero che la donna restituisse il figlio di sei anni. Dissero: ‘Per noi e’ una questione di onore. Se non ci date la donna, allora dateci il bambino’.

Dovetti persuadere la donna a rimandare indietro il bambino. Lei comincio’ a piangere. Mi si getto’ ai piedi e supplico’ : ‘Lei e’ molto potente. Mi puo’ far riavere il bambino’. Le dissi che non potevo.

Si rassegno’ a rinunciare al bambino. E’ incredibile con quanta cura lo vest. Vennero a prenderlo due perfetti sconosciuti. Lei lo vesti’ e gli disse di andare con loro, che lei li avrebbe seguiti e che non doveva avere paura. Ogni volta che lui piangeva, gli ripeteva che li avrebbe seguiti, che sarebbe andata anche lei. Lo spinse verso gli uomini. Erano alti, con grandi baffi, e portavano la “lunji”. Lei disse: ‘Va’ con loro. Vai a incontrare la famiglia di tuo padre’. Il bambino aveva paura. Continuava a voltarsi indietro. Lei rimase impassibile. Niente lacrime. Disse: ‘Va’. Ti raggiungo’. Continuo’ a ripetere ‘ti raggiungo’ fin quando il bambino non scomparve. Solo allora comincio’ a piangere. Ma non avrebbero ucciso il bambino. Lo avrebbero allevato nella tenuta. Sarebbe cresciuto per diventare un altro servo della glebe’.

Erano passati sei anni. Per caso, solo quattro giorni prima che arrivassi a Bahawalpur, fu fatta, in un certo senso, giustizia. Il proprietario terriero, quello che violentava le sue serve, fu ammazzato a fucilate. Non da un servo della gleba, non da qualcuno che voleva vendicare le violenze commesse da quell’uomo nell’arco di tutta una vita, ma da una milizia settaria, una banda religiosa che stava delimitando un nuovo territorio di propria competenza. Un altro dominio feudale in via di creazione, un aspetto della guerra civile attualmente in corso, in quell’area fra il Punjab meridionale e il Sind, fra le milizie settarie, gli estremisti sindi, i “mohajir” e gli antichi feudatari della zona: “jihad” dopo “jihad”, una guerra santa dopo l’altra.

I miliziani avevano cominciato a infiltrarsi nella zona del feudatario, che era deciso a tenerli alla larga. Quando lo incontrarono, spararono per aria in segno di spregio e come affermazione di potere. Per vendicarsi lui fece uccidere uno di loro. E adesso, a sua volta, era stato assassinato. Gli avevano sparato tanti di quei proiettili (di kalashnikov, inevitabilmente) che gli erano rimasti piu’ buchi che carne .

A usare queste parole fu l’anziana signora che mi aveva raccontato la storia. La sua stessa vita era stata devastata dalle ossessioni sessuali della corte del “nawab”. Il marito era un vecchio cortigiano che, come alcuni altri, manteneva dei ragazzi. Le tracce di un’antica isteria trapelavano sul volto invecchiato della donna. Aveva una bella casa, che per lei non significava niente. E ora, parlando del feudatario assassinato, quell’uomo che aveva condiviso la crudelta’ di cui lei stessa si sentiva circondata, rise delle parole che aveva pronunciato, piu’ buchi che carne , mostrando i denti.

 

Ibn Batuta, il viaggiatore arabo del Trecento che voleva visitare tutti i territori musulmani del mondo, trascorse pressappoco sette anni nell’India musulmana, a partire dal 1335 circa. E, all’inizio del suo soggiorno indiano, si trovo’ a passare da queste parti (allora la provincia del Sind).

Per viaggiare, Ibn Batuta dipendeva dalla munificenza dei vari despoti di cui visitava le terre. Conosceva le buone maniere; sapeva come fare regali per riceverne altri maggiori in cambio. (Al governatore locale del Sind dono’ uno schiavo bianco, un cavallo, uvetta e mandorle). I principi lo onoravano in quanto studioso di religione. E, da bravo mullah che sa stare al suo posto, lui vedeva in loro soltanto i difensori della fede. Non vedeva oltre, eppure le barbarie di Delhi, dove ogni giorno all’udienza pubblica del sovrano si eseguivano condanne a morte e si praticavano torture, furono troppo anche per lui, soprattutto quando quattro schiavi di corte ricevettero l’incarico di non lasciarlo solo un istante; conoscendo le usanze della corte, gli venne infatti il sospetto che ben presto sarebbe toccato anche a lui di essere giustiziato.

In India Ibn Batuta parla costantemente di schiavi e di schiave. In un punto afferma di non poter viaggiare senza. Gli schiavi fanno parte del paesaggio. (Ad Aden aveva visto schiavi impiegati come bestie da tiro, ma registra il fatto soltanto come una novita’ ). Attraverso certe sue osservazioni quasi casuali ci facciamo un’idea della natura delle campagne e della servito della gleba su cui si fondava la gloria del sultano di Delhi e dei dignitari locali. Per alcuni mesi, come gesto di cortesia verso l’ospite, un funzionario del posto concesse a Ibn Batuta le rendite provenienti da un villaggio nella zona di Bahawalpur, per l’ammontare di cinquemila dinar. I dinar non cadevano dal cielo: erano i proventi dei campi e dei servi che li lavoravano. Sono loro gli uomini sempre presenti che Ibn Batuta non menziona mai. ( Ci preparammo allora per il viaggio verso la capitale, che si trova a quaranta giorni di marcia da Multan attraverso una distesa ininterrotta di terre disabitate ). In seguito, a Delhi, alla corte sanguinaria, gli furono concesse le rendite di cinque villaggi. Nel libro ogni cosa viene calcolata in termini di raccolti. La dotazione di un mausoleo, ad esempio , e’ quantificata in raccolti.

cosi’ , a Bahawalpur e nella regione circostante (dove il tempo che sfugge alla memoria dell’uomo e’ un flusso incommensurabile e le strutture feudali, rimaste intatte durante l’epoca coloniale britannica, hanno riacquistato vigore con l’indipendenza e la creazione dello Stato islamico separato, scaturito dal sogno del poeta Iqbal) e’ possibile ritrovarsi straordinariamente vicini al quattordicesimo secolo e forse persino all’ottavo, agli inizi della dominazione islamica. Dopotutto, e’ per quelle rendite servili che fu intrapresa la conquista.

 

Ibn Batuta conosceva la citta’ di Uch. Era sorta intorno a un antico tempio della fertilita’ che attirava ancora devoti. Ci andai una mattina. La strada che partiva dalla citta’ di Bahawalpur, ombreggiata per miglia da “shisham” (una specie di dalbergia) e acacie selvatiche, attraversava una ricca terra irrigata: cotone, canna da zucchero, senape; uno zuccherificio; stabilimenti per la ginnatura del cotone. Prima dell’irrigazione, qui c’era solo deserto; e di tanto in tanto, fra i verdi campi pianeggianti, sabbiose gobbe grigiastre mostravano come doveva essere stato un tempo il paesaggio. I camion provenienti da Karachi, ottocento chilometri piu’ a sud, viaggiavano in fila serrata in una lenta autocolonna per difendersi dai “dacoit”, i banditi del grande deserto del Sind.

Uch era una citta’ cinta da mura di fango su un grande tumulo accanto a un fiume secco. Il tumulo era un indizio della sua antichita’ : i detriti di secoli si erano accumulati li’ , i resti di molte Uch precedenti. Le strade si inerpicavano su e gio per la collina. Nel 1335 Ibn Batuta aveva trovato bei bazar e palazzo’ . Ma aveva un suo modo di vedere le cose, suoi parametri, e forse cio’ che aveva visto era soltanto una versione di quel che vedevo io: palme, asini, strade ripide, bambini, rifiuti, fogne a cielo aperto e tempietti funerari.

Il primo di questi tempietti curava i dolori di schiena e la parte inferiore del muro esterno di mattoni era stata levigata dalle decine di migliaia di persone che vi si erano strofinate contro con la schiena sofferente. Dentro, le colonne di legno che sorreggevano il tetto erano simili alle colonne dei templi indo : forse era un caso, o forse uno stile associato adesso all’antica magia o virto del luogo. Il principale santo musulmano aveva un grande sepolcro coperto di verde. I santi minori che gli erano succeduti avevano lapidi bianche piu’ piccole.

Il secondo tempio , il piu’ importante, era la meta delle donne che volevano avere figli. Qui l’elemento centrale era l’orma di Ali’ . Un prodigio: Ali’ era il genero e cugino del Profeta; la sua impronta, un avvallamento su una colonna di granito nero. La colonna era stata portata da Baghdad, il centro del mondo, da un santo musulmano che, con l’aiuto dei “jinn”, spiriti potenti, era volato a Uch su un muro. La tomba all’interno del santuario era quella della moglie del santo. Il santuario era buio, col pavimento scuro e l’odore greve di olio vecchio. Dopo secoli di offerte, una parte somigliava a una grotta nera, con le incrostazioni viscose delle lampade a olio, piccoli recipienti di argilla con stoppini di cotone arrotolato, che i fedeli poggiavano per terra. Le donne che, dopo aver fatto offerte, avevano messo al mondo dei figli, tornavano e appendevano le culle oppure scrivevano il loro nome. Le donne che avevano avuto dei gemelli appendevano scale giocattolo. Ce n’era una nuova quel mattino, di legno bianco.

Chiunque abbia viaggiato nel subcontinente e osservato i vecchi templi indo avrebbe riconosciuto nella colonna di granito con l’avvallamento un “lingam”, l’emblema fallico di Siva. Ascoltare le storie dei “jinn”, dell’orma di Ali’ e del santo venuto in volo su un muro da Baghdad era come partecipare a un avvenimento storico ancora vivo e assistere alla transizione dalla vecchia religione alla nuova.

Dell’area sacra faceva parte una piccola moschea sotto un albero enorme col tronco massiccio e tanti rami nodosi. I custodi dei santuari, abituati a convivere con i prodigi, dicevano che la moschea era stata costruita da Muhammad bin Qasim, che aveva conquistato il Sind nel 710, e che anche l’albero risaliva a quel tempo. Era un albero che Muhammad bin Qasim certamente conosceva.

Forse l’albero non era cosi’ vecchio, e la moschea era certamente assai piu’ tarda. Ma l’associazione con Muhammad bin Qasim serviva a celebrare la conquista (i fedeli non si consideravano piu’ gli sconfitti) e ad assimilare l’antico luogo di culto nella nuova fede. Proprio come sarebbe accaduto, sei o settecento anni dopo, a Giava dove la nuova fede si sarebbe impossessata della figura astratta del grande meditatore, il “tirthankara”, colui che attraversa il guada’ (una metafora comune a indo , buddhisti e giaina per indicare coloro che conseguono un livello superiore di coscienza), e vi avrebbe ricamato intorno una storia piu’ letterale. L’attraversatore del guado sarebbe diventato Kali Jaga, il guardiano del fiume : obbedendo all’ordine di un grande maestro, rimase seduto ad aspettare in riva a un fiume con incrollabile fedelta’ finche’ i rampicanti non lo avvolsero e, solo allora, il maestro gli aveva consentito di alzarsi e andare a diffondere il messaggio dell’Islam.

 

Il “pir” di Uch, l’erede della santita’ e del luogo, era il discendente del santo che i “jinn” avevano trasportato sul muro da Baghdad e che aveva propagato l’Islam nel territorio conquistato. L’attuale “pir” era un uomo di potere. Era a capo di una vasta congregazione religiosa e sua sorella aveva sposato il piu’ grande possidente feudale della regione. Questa era la strategia dei feudatari: stringere alleanze con gli industriali e le dinastie religiose, come quella dei “pir”. Uno stretto legame tra religione, denaro e terra assicurava la supremazia.

Quel giorno il “pir” era andato nel Sind. I suoi “murid”, o seguaci, lo avevano chiamato per fare da arbitro in un caso di omicidio. In teoria la legge esisteva anche nel Sind, ma la gente nutriva scarsa fiducia nell’apparato statale e i seguaci del “pir” preferivano affidarsi al suo giudizio.

cosi’ , le donne che erano venute quel giorno per incontrare il “pir”, costrette ad aspettare, stavano accoccolate al sole in cortile come galline. Erano contadine, serve della gleba, effetti personali dei padroni e dei mariti, che ne’ la legge ne’ le usanze ne’ la religione proteggevano. Convivevano con la crudelta’ e avevano quasi perduto la ragione. Il “pir” era la loro unica luce e si erano recate da lui Perche’ erano possedute dai demoni. Il “pir” aveva fama di saper trattare i demoni che entravano nelle donne e per un po’ le trasformavano in creature spaventose che roteavano gli occhi e la testa e pronunciavano parole oscene con voce alterata. Il “pir” sapeva come colpire i demoni punendo il corpo in cui si erano insediati.

Un giornalista di Bahawalpur mi racconto’ che ogni primavera si teneva una cerimonia speciale nel cortile del “pir”. I suoi seguaci, che venivano principalmente dal Sind, in una specie di pellegrinaggio, si riunivano nel cortile. Quando arrivava il momento, si stendevano per terra e il “pir” camminava su di loro, o meglio zoppicava Perche’ aveva un piede equino. Era una deformazione congenita dei “pir” di Uch e ogni passo pesante curava i malati.

Nel grande soggiorno della casa, dove stazionavano alcune domestiche soddisfatte e cortesi che chiaramente si sentivano privilegiate, troneggiava un grande lampadario di Waterford, un oggetto inaspettato in quella polverosa citta’ nel deserto. C’erano fotografie degli antenati del “pir” e del “pir” attuale in compagnia di diversi presidenti del Pakistan, di ambasciatori stranieri e dell’ultimo “nawab” di Bahawalpur, appoggiato a un cuscino, con la pelle scura e uno sguardo in apparenza rispettoso ma duro e, in testa, l’alto fez.

 

9,

GUERRA.

 

I camion diretti a Karachi sulla superstrade’ nord-sud viaggiavano incolonnati attraverso il deserto del Sind. Era a causa dei “dacoit”, i banditi. E infatti, qualche giorno dopo che avevo visto l’autocolonna procedere lentamente in fila indiana attraverso Bahawalpur, ci fu un episodio alla periferia di Karachi a cui il quotidiano serale della citta’ dedico’ un articolo intitolato “Assalto dei banditi sulla superstrada”: i banditi avevano assalito un camion, c’era stata una sparatoria e i due uomini che viaggiavano sull’automezzo erano rimasti feriti.

Ma i banditi del Sind non erano sempre quel che sembravano. Mi capito’ di conoscere un ufficiale di polizia che al suo primo incarico era stato assegnato a una zona dove era diffuso il banditismo. Era un territorio selvaggio: da un lato l’autostrada era costeggiata da una foresta palustre, alimentata dalle inondazioni annuali del fiume; dall’altro nient’altro che montagna, roccia e deserto. Era una regione poverissima: capanne di fango e canne nelle zone rurali, casette di mattoni di due stanze nei paesi, con dieci o dodici abitanti per casa, e tanti che non avevano niente da fare in quel paesaggio desolato se non lasciar passare gli anni.

I banditi erano disgraziati quasi quanto le vittime. Poi il giovane ufficiale, capo di una sottodivisione, scopri’ che in realta’ i signori feudali del posto manovravano i banditi: li proteggevano ma, in cambio, se ne servivano, gratis, come sicari. Assoldare un sicario costava circa millecinquecento rupie al mese, trenta sterline; quindi avere a disposizione due o tre killer senza dover pagare era un buon affare e poi, quando il bottino dei banditi era consistente, una porzione andava al feudatario. Sulla testa dei banditi pendevano sempre gravi imputazioni, a volte addirittura di omicidio; in qualunque momento il feudatario poteva consegnarli alla polizia. E l’esercito che, come disse l’ufficiale, stazionava perennemente nel Sind, in teoria per combattere i bandito’ , era sempre in agguato, pronto a ucciderli se il feudatario faceva una soffiate’.

Il gioco aveva le sue regole. Capitava che una mattina il feudatario, nella sua “shalwar qamiz” inamidata, circondato dalle guardie del corpo avvolte nei loro chador (e i fucili nascosti sotto), arrivasse sulla sua Nissan a trazione integrale (emblema dell’autorita’ feudale) alla sede della sottodivisione, accompagnato da una delegazione di gente del posto, per lamentarsi dei banditi. Lo stesso feudatario arrivava in un altro momento per dire che il bandito catturato dalla polizia era l’uomo sbagliato. Un ufficiale di polizia troppo insistente o aggressivo poteva essere destinato ad altra sede .

L’ufficiale era fresco di addestramento, diciotto mesi fra l’accademia per funzionari statali e quella di polizia. Un ritorno al passato coloniale britannico: un tot di equitazione, un tot di esercitazioni di tiro, un tot di teoria, molto astratta, sul mondo esterno. In realta’ sanno che l’ufficiale pronto a scendere a patti e compromessi, adeguandosi alla legge della giungla, e’ quello che fara’ carriere’.

In una situazione ugualmente paradossale si erano venuti a trovare i “mohajir”, gli immigrati musulmani, giunti in gran numero dall’India dopo l’indipendenza nel Sind feudale. Si erano mobilitati piu’ di chiunque altro per uno Stato musulmano separato ed erano arrivati in Pakistan e nel Sind come se fossero la loro terra. li’ scoprirono che il paese apparteneva a qualcun altro; e coloro ai quali apparteneva non intendevano fare posto ai nuovi arrivati. I “mohajir” divennero la quinta nazionalita’ del Pakistan, dopo i baluci, i pathan, i punjabi e i sindi. Erano una nazione senza territorio. E da questo, dal desiderio dei “mohajir” di avere un territorio, ebbe origine, una o due generazioni dopo, la guerra di Karachi. Volevano che Karachi appartenesse a loro, Perche’ li’ erano la maggioranza. La loro passione, la loro sensazione di aver subi’to un torto, erano come una religione, quasi che rivivessero la mobilitazione dei padri e dei nonni per il Pakistan di cinquant’anni prima.

La guerra era durata piu’ di dieci anni e secondo i “mohajir” erano morte ventimila persone. Le parti in conflitto, i “mohajir” contro lo Stato, non erano chiaramente definite. La citta’ era troppo grande e troppo diversificata, e i governi avevano cercato di sfruttare le passioni dei vari gruppi. La guerra afghana aveva reso accessibile a tutti una gran quantita’ di armi. cosi’ adesso c’erano due fazioni militanti di “mohajir” in lotta fra di loro; c’erano i nazionalisti sindi e i feudatari sindi; c’erano i gruppi settari, sunniti e sciiti, gli uni e gli altri pronti a uccidere; c’erano i servizi segreti; c’erano le bande di narcotrafficanti, la malavita organizzata, le bande degli speculatori immobiliari. La poliedrica citta’ degli immigrati era in guerra con se stessa. Persino l’esercito aveva gettato la spugna. I militari avevano presidiato Karachi per ventinove mesi; i risultati erano stati scarsi e cosi’ al loro posto erano arrivati i Rangers, un corpo paramilitare di guardie di frontiera.

Nel 1930 il poeta Iqbal, perorando la causa di un Pakistan interamente musulmano, aveva detto: L’ideale religioso dell’Islam e’ connesso organicamente all’ordine sociale che ha creato. Inevitabilmente il rifiuto dell’uno comportera’ col tempo il rifiuto dell’altro . Era il punto di vista del convertito: la fede era sufficiente ad assicurare un’identita’ e uno Stato. Era la stessa idea che aveva portato i “mohajir” in Pakistan. Nella visione romantica di Iqbal, non c’era alcun presentimento della carneficina, del saccheggio, del dolore dello smembramento subi’to dal subcontinente; o degli oltre cento milioni di musulmani abbandonati in India; o della guerra che sarebbe scoppiata quarant’anni dopo a Karachi. O di un titolo in prima pagina come questo: “Negozi chiusi. Sparano in aria per protestare contro gli omicidi di ieri - TENSIONE A GULBAHAR, L’ABAD E KORANGI”.

Gulbahar, Liaquatabad e Korangi erano vasti quartieri degradati abitati da “mohajir”. La guerra, che era cominciata con la protesta dei “mohajir” delle classi medie, si era estesa fino agli strati inferiori della societa’ .

Il direttore di un giornale in lingua urdu, che conobbi per caso al Circolo della stampa, disse: Ieri hanno ucciso il fratello del primo ministro del governo locale. Oggi tremila giovani di una certa zona sono stati presi in una retata della polizia. Alcuni di loro saranno torturati. Le famiglie dovranno pagare un riscatto di venticinquemila rupie . Cinquecento sterline. Ecco Perche’ ci sono terrore e poverta’ . Dovrebbe vedere la citta’ di notte. Col buio cambia. E’ come una citta’ occupata. Venga a vedere la polizia in azione, che ferma le persone e le perquisisce. Ma ci vuole coraggio .

Il direttore, un uomo piccolo, dai modi gentili, aveva quarantadue anni. Simpatizzava per la causa dei “mohajir”, benche’ non fosse propriamente un “mohajir”, bensi’ un “memon”. I “memon” erano una comunita’ di mercanti di lingua gujarati. Il direttore pensava che, essendo venuti da fuori, lui e la sua famiglia erano stati trattati iniquamente nel Sind. Le loro attivita’ , in campo assicurativo e farmaceutico, erano state nazionalizzate. La nazionalizzazione era stata istituita per danneggiare gli affari di coloro che non erano sindi. E lui stesso, a causa del terrorisma’ nazionalista sindi all’universita’ , non aveva potuto laurearsi.

Aveva cambiato casa quattro volte, per proteggersi non solo dalla polizia, ma anche dal movimento militante dei “mohajir”, l’M.Q.M. Man mano che si diffondeva fra gli strati inferiori della comunita’ “mohajir”; perdendo in parte l’appoggio della classe media, l’M.Q.M. diventava brutale quanto i suoi nemici. Come altri movimenti in difesa degli oppressi, con le prime vittorie si era fatto autoritario e il suo leader attuale non poteva essere contraddetto. Malgrado simpatizzasse con la causa, al direttore “memon” poteva capitare a volte di pubblicare cose che offendevano il principale esponente dell’M.Q.M. Una volta il giornale era stato messo al banda’ per due settimane. Al direttore era stato chiesto allora di scrivere una lettera personale al leader, implorando il suo perdono , dopodichi’ per tre giorni di seguito aveva dovuto pubblicare le sue scuse.

Eppure il direttore andava avanti. Il coraggio non gli mancava.

 

Abdul mi confido’ : Deve capire che quando esco da casa la mattina, non sono mai sicuro di tornarco’ .

Aveva trentasei anni, era legato alla famiglia, ma anche al movimento dei “mohajir”. Non era un incendiario. Parlava pacatamente e vestiva di bianco: pantaloni bianchi, camicia bianca; su di lui sembrava il colore del lutto. Era ripiegato su se stesso, privo di espressione, gli occhi spenti. Pareva intontito e abbrutito dalla lunga guerra. Se non ci avesse presentati Nusrat, un amico comune, non credo che sarebbe stato disposto a parlare di Karachi o della guerra.

Suo padre e suo nonno venivano da Simla, dove erano fornitori di generi alimentari per l’esercito britannico. Sua madre era di Meerut. Erano arrivati nel 1947 e suo padre aveva aperto un negozio dove si riparavano radio e televisioni. L’attivita’ aveva prosperato. Bisognava cavargli di bocca i particolari uno a uno. Non aveva una visione unitaria della vita o del passato.

Gli ho chiesto: Come vanno adesso le cose a Karachi? .

Molto bene .

Perche’? .

E’ il governo che li commette .

Commette cosa? Gli omicidi? .

se’ .

E Perche’ questo sarebbe un bene? .

Fondamentalmente, a morire sono persone che parlano urdu e questo e’ il sacrificio. Quando vuoi qualcosa, devi dare qualcosa. Venti “lakh” sono morti per la creazione del Pakistan . Venti “lakh”, due milioni. Dobbiamo sacrificarci per i nostri diritto’ .

Intervenne Nusrat: Cioe’ per una nazione di “mohajir”. Adesso parlano di separatismo .

Non sapeva dire cosa l’avesse spinto su quelle posizioni. Dieci anni prima aveva cominciato a intuire che le cose non andavano per il verso giusto. Aveva avuto un contrasto con un poliziotto punjabi addetto al traffico e per risolvere la questione aveva dovuto dargli cinquanta rupie. Contemporaneamente, un guidatore punjabi, in grado di parlare in punjabi col poliziotto, se l’era cavata senza pagare niente.

Ma questa non era un’inezia?

Non rispose direttamente. Invece disse: Guardi cosa fa la polizia quando perquisisce le case dei “mohajir” a Golimar. Sfondano le porte. Portano via gli uomini e maltrattano le donne. Due mesi fa ho visto un corpo in un sacco di iuta e sono rimasto sconvolto .

Succede in continuazione commento’ Nusrat. Ci si scherza su, ormai. Se vedi un sacco di iuta per strada, invariabilmente dentro c’e’ un cadavere, o parti di un cadavere .

Cosa da’ adesso alla gente il coraggio di resistere? chiesi ad Abdul.

Lottano per i loro diritti e sono pronti a tutto .

E’ la religione che gli da’ forza? .

Che c’entra la religione? Cosa c’entra l’Islam con tutto questo? Anche loro sono musulmano’ .

Nusrat chiese: Dio e’ dalla vostra parte? .

Dio e’ dalla parte della verita’ e della giustizie’.

Ma i mullah della zona, pur essendo “mohajir”, non toccavano l’argomento .

Per prudenza? chiesi.

No, non si tratta di questo. Non parlano mai veramente di faccende di attualita’ .

Come comunica col movimento? .

Ci facciamo visita la sere’.

E la polizia? .

Hanno creato una rete tentacolare di informatoro’ spiego’ Abdul. Venditori ambulanti di popcorn, zucchero candito, gelati. Ci sono un sacco di facce nuove per strada nel quartiere. Alcuni “mohajir”, altri no .

Aveva quattro fratelli e quattro sorelle. Tutte le sorelle erano sposate. Un cognato era morto, un altro era disoccupato, uno faceva il disegnatore e uno lavorava per una ditta di vernici. Come mestieri, non erano granche’.

Ho l’impressione che lei sia infelice dissi.

No, non puo’ definirmi infelice .

Ha gravi difficolta’ economiche spiego’ Nusrat. Sua moglie stava per morire dando alla luce il loro settimo figlio. Aveva cinque figli maschi, ma voleva una bambine’.

Abdul commento’ : Mi andra’ bene qualunque cosa Allah decida per me .

Di cosa parla con i suoi amici? chiesi. Parlate di politica? .

Di questi tempi, non parliamo molto .

Nusrat confermo’ : E’ vero. Puo’ essere pericoloso .

E allora di che cosa parlate? insistetti.

Il pensiero costante e’ quanti sono morti oggi. Dove ha fatto irruzione la polizia. Quanti sono stati fermato’ .

Nusrat disse: Abbiamo smesso di farci visita da queste parto’ . Le zone calde della citta’ . Vale la pena di correre rischi dopo le undici di sera? Furti di automobili, banditi, posti di blocco della polizia oppure dell’esercito, persone con uniformi fasulle. Succede di tutto. E ogni volta sono cinquecento rupie. Meglio pagare e correre a casa. E spesso uno non e’ neanche in grado di dire se erano poliziotti veri o falsi. Ti mettono nella macchina una pistola e dicono che l’hanno trovata li’ per incastrarti. La nostra vita conosce molte restrizioni. Ieri c’e’ stato un matrimonio che e’ cominciato alle sei del pomeriggio anzichi’ alle undici di sera. Persino se fai pubblicare un necrologio sui giornali, esiti a mettere l’indirizzo e il numero di telefono. Perche’ con la scusa delle condoglianze, ti entrano in casa per vedere come sono disposte le stanze. E poi tornano a farti visite’.

Quando pensate che finira’ ? chiesi.

Nusrat rispose: Ci sara’ una grande crisi, un grande scontro, e da quello verra’ fuori qualcose’.

Perche’ non lascia Karachi? chiesi ad Abdul.

No. La mia famiglia e’ qui, i miei figli vanno a scuola qui e dobbiamo restare a Karachi ora che la citta’ ha bisogno di noo’ . Karachi, che ai suoi occhi era ormai una citta’ di “mohajir”, la sua citta’ .

Pensa che vivra’ o che morira’ ? .

Anche stamattina c’e’ stata una sparatoria. Ogni giorno corro il rischio di morire .

Chi sparava? .

Qualcuno. Ignoto’ .

Nusrat chiari’: Spesso, quando diciamo ignoti, sappiamo chi e’ stato .

Suo padre parla mai dei vecchi tempi a Simla? chiesi ad Abdul.

Mio padre dice sempre che gli inglesi erano migliori dei governanti attuali. Non c’era ingiustizia, non in questa forma. Mio padre dice che, al tempo degli inglesi, nelle strade c’erano piccoli lampio ni al kerosene. Oggi, invece, non abbiamo neanche i lampio no’ .

 

Gli unici negozi aperti erano le piccole botteghe di alimentari e le edicole. I negozi piu’ grandi erano chiusi, le saracinesche grigie d’acciaio abbassate. Un parco era diventato una discarica di rifiuti; in un’altra strada l’immondizia giaceva abbandonata. I muri erano coperti di slogan.

Questa era la parte piu’ tormentata della citta’ e Mushtaq, un insegnante di letteratura inglese, abitava qui con i suoceri in una casa a due piani. I suoceri vivevano in quella casa da venticinque anni. La colonie’ (una parola tipica del subcontinente per indicare un quartiere residenziale) era stata una delle prime zone di espansione urbana a Karachi dopo l’indipendenza e la grande emigrazione dall’India. A quel tempo, fra il 1949 e il 1950, era una zona borghese, abitata da gente con un buon livello culturale, al di la’ dei mezzi e dello stile della famiglia di Mushtaq.

Mushtaq era arrivato a Karachi nel 1949. Aveva otto anni. La famiglia veniva da Benares, dove il padre di Mushtaq aveva un piccolo commercio di abiti, con un negozio che secondo Mushtaq era piuttosto grande ; misurava circa tre metri per quattro. Il suo fratello maggiore faceva l’impiegato statale a Delhi; aveva optato per il Pakistan e tutta la famiglia era emigrata insieme a lui. Avevano pochissime cose con se’, Perche’ non gli era stato permesso di portare gioielli o soldi; e non avevano venduto il negozio di abbigliamento, semplicemente lo avevano lasciato a vicini e parenti. Ormai il Pakistan non era piu’ aperto a tutti: ci volevano visti e permessi. La famiglia non era riuscita a ottenere un visto per Lahore e cosi’ erano venuti a Karachi, in treno, lungo una linea ora interrotta per ragioni strategiche.

In quei giorni sentivamo tutta la magia e l’entusiasmo di essere un popolo libero, di essere nel nostro paese, il Pakistan disse Mushtaq.

Perche’ pensavate che fosse il vostro paese? domandai.

Perche’ la mia famiglia aveva votato e lavorato per il Pakistan. Non so se i nostri genitori conoscessero il significato del Pakistan o la teoria delle due naziono’ . La teoria che indo e musulmani fossero due nazioni distinte. Ma emotivamente erano attaccati all’idea del Pakistan .

La famiglia era allora mantenuta dal fratello maggiore di Mushtaq, che aveva trovato lavoro come addetto alle vendite presso una ditta straniera. Vivevano in una piccola casa in affitto di due stanze nei pressi della prigione centrale. Era una casa di mattoni a un piano, col tetto di cemento. La cucina e il bagno si trovavano sulla veranda. Tutte le case del quartiere erano fatte cosi’ . I lotti erano minuscoli. Alcuni misuravano ottanta metri quadrati, altri novanta; nessuno superava i centoventi. L’affollamento era maggiore che a Benares e arrivava continuamente nuova gente. Ma in quella casetta erano stati molto felici. Pensavano che li aspettasse un futuro roseo.

La storia che Mushtaq comincio’ a raccontarmi sembrava la tipica storia dell’immigrato che si afferma dopo aver superato le difficolta’ iniziali. Il fratello, che aveva sostenuto il peso della famiglia per alcuni anni, aveva smesso di mantenerlo quando Mushtaq aveva compiuto tredici anni. Ormai era in grado di badare a se stesso. Comincio’ a lavorare part time come dattilografo’ o impiegato. Trovava gli incarichi attraverso gli annunci sui giornali e l’ufficio di collocamento. Si rese conto di poter arrivare a guadagnare ottanta rupie al mese, circa sei sterline. Era piu’ che sufficiente. Si iscrisse a una scuola privata, il Sind Muslim College. La retta era di quattordici rupie al mese, un po’ piu’ di una sterlina; il biglietto dell’autobus per il college era un anna, circa mezzo penny. Dopo aver coperto queste spese, comprato i libri ed essersi concesso qualche piccolo sfizio, Mushtaq si accorse di poter dare piu’ di cinquanta o sessanta rupie al padre, che si era ritirato dagli affari e non aveva entrate.

Non gli pesava la sfida. Karachi aveva un clima piacevole ed era ricca di opportunita’ . I “mohajir” mettevano a frutto la perizia mercantile acquisita nei bazar e, anno dopo anno, consolidavano la loro posizione. Malgrado tutte le difficolta’ , anche Mushtaq comincio’ a fare passi in avanti, anche se al proprio ritmo. A vent’anni si iscrisse a un corso di formazione all’insegnamento. Tre anni dopo consegui’ l’abilitazione; e mentre insegnava in una scuola superiore, si iscrisse all’Universita’ di’ Karachi come studente occasionale e a ventisette anni si laureo’ in Letteratura inglese.

C’erano voluti anni, ma ce l’aveva fatta. Gli era costato un prezzo particolare, pero’ : non si era sposato. Spiego’ che era andata cosi’ Perche’ nessuno in famiglia lo aveva aiutato. Un vero problema per persone come Mushtaq. Nella cultura dei “mohajir”, di solito i matrimoni erano combinati. Ma nel nuovo paese, nel loro nuovo ambiente, non c’era nessuno che gli potesse trovare una moglie. E da giovane, ancora legato alle usanze tradizionali, non avrebbe saputo come procurarsela, se anche avesse avuto la sfacciataggine di provarci.

Ma non era infelice. Ormai aveva lasciato la casa del fratello (i genitori erano morti) e viveva in una camera in affitto nel Distretto Centrale (la zona dove si stava svolgendo la nostra conversazione). Era diventato professore in una scuola di Economia e Commercio. Guadagnava fra le cinquecento e le seicento rupie al mese, tra venticinque e trenta sterline, e l’affitto gli costava solo un terzo di quella somma. cosi’ aveva soldi da spendere ed era molto contento. Gli piaceva sedersi nei caffe’ e chiacchierare con i “mohajir” e i bengalesi, che erano grandi frequentatori di caffe’.

Poi le cose avevano cominciato a mettersi male. Negli anni Sessanta la capitale fu spostata gradualmente da Karachi alla nuova citta’ di Islamabad. Cio’ significava che un maggior numero di lavori statali sarebbe andato a gente del Nord. Mushtaq pensava che quelli del Nord, punjabi e pathan, fossero socialmente e culturalmente differenti dai “mohajir”. Per lui, erano straniero’ . Poi nel 1971 ci fu la secessione del Bangladesh. Per Mushtaq fu una sofferenza: il Pakistan del 1947, per il quale la sua famiglia aveva abbandonato l’India, aveva cessato di esistere.

Molti amici bengalesi, con cui eravamo abituati a chiacchierare nei caffe’, partirono. Avevamo perso una parte importante della nostra cultura. I bengalesi erano stati i piu’ nieri del movimento di liberazione; cosi’ si arriva alla conclusione di essere abbandonati e tradito’ .

Nell’ultima frase il tempo era cambiato dal passato al presente e il linguaggio si era fatto strano, come se a parlare fosse un’altra persona. La sua storia pareva segnata da una frattura. E i buoni risultati di cui aveva parlato poco prima si trasformarono in qualcosa di diverso.

Gli chiesi: Era troppo sentimentale, allora, l’idea di essere arrivati in una terra che vi apparteneva?

E’ il dubbio che comincio’ ad assillarmo’ .

Queste parole diedero la stura al suo dolore. I musulmani che erano rimasti in India adesso stavano meglio, affermo’ : avevano leggi e deputati in Parlamento e ministri. Osservai che non era esattamente cosi’ ; che, una volta invocata la creazione del Pakistan, era inevitabile giungere alla divisione. Se fosse esistita, tutta l’energia dello Stato sarebbe stata spesa nello sforzo di restare unito. (E pensai, ma non lo dissi, che se non si fosse giunti alla divisione, tutte le citta’ del subcontinente sarebbero state come Karachi). Non mi ascoltava. Dietro il suo volto spento, ora tremante, era sprofondato nella contemplazione della sua vita e della sua sventura.

Qui ha fatto carriera. Nell’altro paese non avrebbe potuta’ osservai.

E allora, dopo che mi aveva parlato della sua carriera in maniera piuttosto formale, come una serie di passi in avanti, inizio’ a parlare delle angosce che aveva vissuto come insegnante.

Mi sono reso conto per la prima volta dell’esistenza dell’M.Q.M. nel 1982. Dalle loro scritte col gesso sui muri del college, delle scuole e degli altri edifici. La cosa ando’ avanti, scritte e controscritte. Nel college c’erano due gruppi. I capi dell’uno o dell’altro venivano da me e mi chiedevano di interrompere la lezione Perche’ gli studenti potessero uscire e partecipare alle manifestazioni o alle proteste. Avevano circa diciotto o vent’anni. Parlavano urdu e usavano un linguaggio minaccioso, offensivo. Venivano da famiglie della piccola borghesia. Scioperavano Perche’ le rette erano troppo elevate, o per solidarieta’ verso uno studente ucciso in Punjab. Ero inorridito. Avvertivo un forte senso d’insicurezza. Andai dal direttore. Era un uomo sui quarantacinque, cinquant’anni. Un uomo alto, uno scienziato. Un “mohajir”. Era impotente. Mi disse: ‘Portiamo le nostre lagnanze agli immediati superiori’.

Nel 1985 un esponente locale del partito, un uomo sui trenta, trentacinque anni, ando’ a trovare il direttore nel suo ufficio. Era ben vestito, istruito, forse un laureato. Io ero seduto nell’ufficio del direttore. Feci due chiacchiere con quel signore. Comincio’ chiedendomi di sostenere la sua organizzazione. Gli chiesi cosa volesse. ‘Voglio il suo aiuto nello svolgimento dell’esame’ rispose. Capii cosa aveva in mente. Voleva la mia connivenza nell’aula degli esami, ossia che lasciassi fare ai ragazzi quello che preferivano. Voleva che avessero la liberta’ di copiare e imbrogliare. ‘No,’ dichiarai ‘faro’ il mio dovere’. Il direttore si limito’ ad ascoltare. L’incontro duro’ un quarto d’ora. Due o tre giorni dopo ricevetti una specie di minaccia. Nella veranda della scuola, un ragazzo mi disse: ‘Non si e’ comportato bene. Potrebbero esserci brutte conseguenze’ .

Gli chiesi del ragazzo.

Uno della piccola borghesia. Diciannove anni. Famiglie residenti a Orango’ . Un quartiere degradato di “mohajir”, con una popolazione di circa un milione e trecentomila persone. Io gli risposi: ‘Affrontero’ le conseguenze’ .

Nusrat, che era stato con noi durante tutta la conversazione, agendo da tramite quando pensava che ce ne fosse bisogno, intervenne, con quel suo modo speciale di fare, a meta’ fra l’innocenza e la brutalita’ , dicendo: E’ un ingenuo. Insegna letteratura a studenti indifferenti e ingrati e non sa cosa e’ andato storto nella sua vita. cosi’ succede che si soffra senza neanche conoscere la causa della sofferenze’.

Per Mushtaq, gli ultimi dieci anni erano stati anni di acuta angoscia a scuola. Per ironia della sorte, avevano coinciso col suo matrimonio. Aveva preso moglie a quarantatri’ anni.

Disse: Esco da casa turbato, al college sono turbato e torno a casa altrettanto turbato .

Succede qualcosa sulla strada del ritorno? Gli studenti l’aspettano? .

A volte per strada mi imbatto in studenti che creano disordino’ .

Che genere di disordini? .

Bruciano gli autobus, li dirottano. Nei dintorni del college. Fra il 1987 e il 1988, l’M.Q.M. compiva questi atti di vandalismo. Gruppi di cinquanta, cento persone .

Hanno perso interesse per gli studi? .

Completamente .

La considera un’umiliazione personale? .

Come insegnante non sono trattato… . Non termino’ la frase. Si comportano male, non frequentano le mie lezioni. Mi sento sminuito come insegnante. Due settimane fa due studenti sono venuti al college per presentare la loro prova d’esame. Quelli di un gruppo rivale li hanno picchiati di santa ragione.. Con i bastoni. Per quella volta, niente armi. Quando li ho visti, mi sono spaventato .

Cosa le piacerebbe fare adesso? .

Mi piacerebbe poter insegnare a questi ragazzo’ .

Ero sconcertato. Mi ha appena detto che sono dei teppisto’ .

Ma Mushtaq intendeva solo esprimere il desiderio che il mondo funzionasse in maniera tale da permettergli di insegnare effettivamente ai suoi studenti. E quando gli chiesi di nuovo cosa volesse fare adesso, nel mondo cosi’ com’era, rispose: Adesso sento che vorrei lasciare l’insegnamento. Ho cinquantasette anno’ . Secondo i miei calcoli, ne aveva cinquantaquattro. Ho esercitato questa professione per ventinove anni. E’ la tragedia della mia vite’.

Una vita sprecata? .

Si potrebbe definire cosi’ , Perche’ non ho combinato niente .

La fede era tuttora l’unico punto fermo della sua esistenza. Aveva fatto il pellegrinaggio, portava la barba dello “haji” e indossava una “shalwar qamiz”. Su di lui, con quella barba bianca, sembrava una sorta di veste religiosa sacrificale.

 

Nusrat aveva gia’ passato brutti momenti in passato. Lo avevo conosciuto nel 1979, al tempo del terrore islamizzante instaurato dal generale Zia. Nusrat, che era un uomo devoto, aveva cercato di andare incontro ai fanatici, ma ogni tanto commetteva un piccolo passo falso. Poi, in un momento di distrazione, si era messo seriamente nei guai. In quel periodo lavorava per il Morning News . Era Muharam, il mese del lutto per gli sciiti. Nusrat ebbe l’idea di riprendere dall’ Arab News un lungo articolo sulla nipote di Ali’ , l’eroe degli sciiti. L’articolo ne lodava la bellezza e l’eccellenza come artista, ma gli sciiti si erano sentiti oltraggiati. Per loro era offensivo ed eretico persino dire che la nipote di Ali’ era bella. Si parlo’ di organizzare un corteo di quarantamila persone e dare fuoco al Morning News . Per tre giorni il quotidiano resto’ chiuso. Nusrat stesso era in pericolo. In qualunque momento i fedeli avrebbero potuto essere aizzati contro di lui. Alcuni mesi dopo questo episodio, ripassai per Karachi. A Nusrat erano venuti i capelli grigi.

Quando ci lasciammo, mi disse: Puo’ aiutarmi a trovare un posto dove leggere, scrivere e studiare per cinque anni? Perche’ fra cinque anni, se ci rincontriamo, potrei essere diventato un commerciante di cemento o un esportatore di abiti confezionato’ .

Quelle parole, dette in un momento difficile, erano tipiche del suo modo di essere. E infatti divenne l’addetto alle pubbliche relazioni di una compagnia petrolifera, e con successo, dato che il settore petrolifero non risentiva delle tensioni. Ma la vita nella citta’ era diventata uno stillicidio di ansia e Nusrat si era ammalato di cuore. Da grigi, i suoi capelli si erano fatti bianchi, corti e radi. Non aveva ancora cinquant’anni. Un tempo amava l’inverno di Karachi ed era solito indossare una giacca di tweed. Ora portava una tunica larga di cotone che lo faceva sembrare fragile.

Disse: Adesso le spiego come ho risentito del conflitto interetnico quando ero in ospedale, quasi moribondo, nel giugno del 1990. Ero ricoverato nell’U.C., l’unita’ coronarica. Ricoverano li’ in situazioni di emergenza. li’ si decide se vivi o muori.

A Karachi il conflitto si era trasformato in un bagno di sangue. L’M.Q.M. dominava il Consiglio municipale. All’U.C. l’aria condizionata non funzionava ed eravamo a meta’ giugno. C’era carenza di medicinali. Una notte fecero saltare in aria il centralino telefonico e ci fu uno scontro fra i medici e la gente venuta da fuori, presumibilmente militanti di un partito politico, il P.P.P. o l’M.Q.M., che volevano uno sciopero generale. E io stavo li’ , all’U.C., fra la vita e la morte. Il quinto giorno di ricovero.

Mi trovavo molto vicino alla finestra, steso su un lettino. Vuol sapere com’era fatto il lettino? Aveva un materasso di gommapiuma e, poiche’il condizionatore non funzionava e non c’era aerazione, chiesi che togliessero il materasso. Naturalmente erano riluttanti, ma alla fine mi accontentarono, dopo avermi avvertito che la rete era dura come l’acciaio. Risposi che non mi importava. Il mattino seguente il dottore mi disse che il capo dell’istituto era venuto a fare un’ispezione a sorpresa e non sarebbe stato contento di vedere il materasso gettato in un angolo della stanza. Mi infuriai. Dissi: ‘So che l’aria condizionata del direttore funziona, e lui non ha nessun problema di salute. Quando arriva, voglio vederlo e dirgli quello che penso’.

Chiedemmo ai parenti che ci assistevano di aprire la finestra. Eravamo al primo piano, e c’era il rischio, secondo loro, che ci colpisse una pallottola vagante. Obiettai che il vetro non era certo a prova di proiettile. A giugno il caldo e’ soffocante.

Un giorno ci fu una sparatoria all’esterno dell’ospedale. Mi alzai dal letto, con tutti gli aggeggi che mi avevano attaccato addosso, e sgattaiolai fino alla finestra per dare un’occhiata e vedere cosa stava succedendo. Solo in seguito mi resi conto del rischio che avevo corso, sia per i proiettili, sia per il fatto di essermi alzato all’improvviso, cosa che non avrei dovuto fare.

Una sera, intorno alle undici, vidi in una stanza i parenti di un paziente che piangevano. Ormai avevo imparato che in quel reparto c’era gente che moriva e alcune delle persone che avevo conosciuto erano state portate via. In questo caso i familiari del defunto, in tutto tre persone, si trovavano di fronte al problema di trasportare il corpo dall’ospedale a Orangi, dove da giorni c’erano scontri ininterrotti e si combatteva all’ultimo sangue. Le autorita’ locali avevano deciso di limitare l’accesso al quartiere di notte e il personale dell’ambulanza non era disposto ad affrontare il viaggio.

Orangi si trovava a circa venticinque chilometri di distanza. La famiglia era modesta e doveva affidarsi ai trasporti pubblici, allora alcuni giovanotti che lavoravano all’U.C. si erano offerti di dare una mano. Tra i familiari c’era una ragazzina. Ero sconvolto e arrabbiato, non soltanto per lo stato della citta’ e i ricorrenti divieti di accesso a questa o quella zona, ma anche Perche’ ero preoccupato di quello che poteva succedere alla ragazza a quell’ora della notte. Sapevo bene che erano allora comuni i sequestri di persona, per avere un riscatto o senza alcuna ragione apparente.

Continuavo a dire a quelli che si prendevano cura di me, e mi imploravano di stare tranquillo e dormire, che per favore facessero qualcosa per la sicurezza della ragazza. Chiesi: ‘Perche’ non trasportate il corpo di mattina?’. Qualcuno mi ricordo’ che col caldo di giugno i corpi si decompongono in fretta. Non potevo fare granche’.

Ignoro come ando’ a finire. Devo essermi addormentato. Non so spiegare come sia possibile, ma malgrado tutto in quell’ospedale ero felice, Perche’ mi ero fatto degli amici e Perche’ il medico che mi seguiva era un vecchio compagno di scuole’.

 

Intorno alla meta’ degli anni Ottanta, Ehsan militava nel movimento dei “mohajir”. All’epoca era un movimento intellettuale, diffuso nel ceto medio (era nato da un precedente movimento studentesco), ed Ehsan conosceva tre o quattro degli ideologo’ , per usare il suo termine, che giudicava molto intelligenti. Discutevano con passione in casa dell’uno o dell’altro e si infervoravano in maniera quasi religiosa sulle ingiustizie perpetrate contro la loro comunita’ e la loro citta’ , Karachi. Non come alle preghiere del venerdi’ che infiammavano gli animi, disse Ehsan, rispondendo a una mia domanda, ma piuttosto come nella lotta degli sciiti per i loro diritti.

Inizialmente il movimento aveva dovuto sconfiggere i partiti religiosi attivi nelle universita’ . La politica all’universita’ aveva il suo peso in Pakistan Perche’ spesso era l’unica vita politica che fosse permessa dal regime militare. E la sconfitta dei partiti religiosi da parte del movimento studentesco dei “mohajir” aveva un che di ironico, Perche’ era la fede che aveva spinto i “mohajir” ad andare in Pakistan, e Perche’ era proprio in quei partiti religiosi che la prima generazione di “mohajir” si era sentita a proprio agio. Ma questo accadeva molto tempo prima. Le generazioni successive avevano imparato a capire cosa si nascondeva dietro la fede.

La guerra contro i partiti religiosi si era combattuta con le armi. Entrambe le fazioni erano state, in momenti diversi e per ragioni diverse, incoraggiate e armate dal governo. Nel college di Ehsan c’erano quattro o cinque combattenti “mohajir” riconosciuti; se necessario, arrivavano studenti da altri college a sostenerli. Ehsan era molto amico di due dei combattenti. Appartenevano a famiglie istruite ed Ehsan pensava che l’aspetto piu’ caratteristico di entrambi fosse la loro estrema alienazione . Prendevano molto sul serio l’addestramento ideologico ed erano pronti a morire per la causa.

Ehsan studiava scienze con uno dei combattenti e ogni giorno, dopo le lezioni, andava con l’amico a casa della sua famiglia. L’amico, il combattente, era grasso, alto circa un metro e settanta, una persona molto sanguigna, disse Ehsan, con manone tozze che, secondo lui, erano le mani di un uomo aggressivo.

Il padre dell’amico era un funzionario statale di grado elevato e la famiglia abitava in una grande casa di proprieta’ dello Stato, una casa di quasi mille metri quadrati. (Quando si era trasferita in Pakistan nel 1949, la famiglia di Mushtaq aveva vissuto in una casa di ottanta metri quadrati). Il padre aveva fatto costruire un enorme studio per i cinque figli; c’erano enciclopedie, testi religiosi, libri di scienze. Era una famiglia borghese che credeva nell’istruzione ed erano molto piu’ benestanti della maggior parte degli altri attivisti del movimento. L’amico di Ehsan non era bravo negli studi come i fratelli; ma i quattro figli maschi militavano tutti nell’M.Q.M.

Ehsan si trovava a casa loro un giorno, verso il tramonto, insieme all’amico e a uno dei fratelli, quando all’esterno si udirono numerosi spari, con A.K.-47 e ogni sorta di armi da fuoco. Ormai Ehsan era abituato alle sparatorie, ma questa era particolarmente violenta. Cio’ che lo sorprese, tuttavia, fu che la madre dei ragazzi tiro’ fuori un A.K.-47 e lo passo’ al figlio combattente, l’amico di Ehsan. Lui ando’ sul tetto (era una casa a un piano), prese posizione e rispose al fuoco. Lo scontro continuo’ per cinque o dieci minuti, ma a Ehsan sembro’ molto piu’ lungo. Aveva gia’ visto l’amico usare armi al college; l’amico ci scherzava su e diceva che lui era un coniglio. Ma Ehsan non sapeva che la madre fosse cosi’ impegnata nel movimento. Era una donna grossa e forte in “shalwar qamiz”, non bella, ma molto affettuosa e sempre pronta a offrire da mangiare agli amici dei figli. Non l’aveva mai associata alle armi e non sapeva neanche che nella casa ci fosse un fucile.

Ehsan intui’ che ci sarebbe stata molta violenza e previde che l’amico si sarebbe messo nei guai. Il suo atteggiamento verso il movimento comincio’ a cambiare. Poi un giorno, a una riunione nella casa di uno dei suoi amici ideologi, fu chiesto a tutti i presenti di giurare sul Corano lealta’ al movimento e al leader. Questi era il tipo di capo che viene forgiato dal bisogno e dalla disperazione, e aveva acquisito ormai una immensa popolarita’ . Capeggiava manifestazioni lunghe sei ore che terminavano a mezzanotte e mobilitavano milioni di persone, come disse Ehsan.

Tuttavia, l’idea del giuramento di fedelta’ non piaceva a Ehsan. Ma non ebbe bisogno di rifiutare: all’incirca in quel periodo gli si presento’ l’occasione di lasciare il Pakistan e passo’ i cinque anni successivi all’estero. Quando torno’ , l’M.Q.M. non era piu’ al potere in citta’ . Karachi era presidiata dall’esercito, e l’M.Q.M. era diventato un’organizzazione clandestina. Obbediva ancora al suo leader, che adesso era lontano, in esilio a Londra; ma la distanza ne accresceva il carisma. L’amico di Ehsan era tra quelli entrati in clandestinita’ . Dopo qualche tempo spiego’ per telefono a Ehsan che lo avevano accusato ingiustamente di avere ucciso un altro militante dell’M.Q.M., sicchi’ adesso era latitante. Quando si incontrarono (stranamente, nella casa di famiglia), piansero tutti, Ehsan, l’amico, la madre dell’amico.

L’amico aveva ancora le mani tozze, ma era dimagrito. Disse che era pronto a giurare sul Corano di non aver commesso l’omicidio. Tutto era accaduto mentre la polizia gli dava la caccia. Durante quel periodo aveva dovuto spostarsi in continuazione da una casa all’altra. Poi era riuscito in qualche modo a procurarsi un lavoro su una nave mercantile, dove pero’ dovevano avere un’idea della sua situazione, Perche’ gli fecero pulire i gabinetti e il ponte, e fu costretto a obbedire. Con tutto l’orgoglio di casta dei “mohajir”, aveva detestato l’umiliazione di quel lavoro e ancora se ne lamentava con Ehsan. Disse che voleva andare a Londra per cominciare una nuova vita. Ora criticava l’M.Q.M. e sapeva che se fosse rimasto in Pakistan lo avrebbero arrestato o ucciso. Chiese a Ehsan di trovargli un avvocato a Londra, per poter fare domanda di asilo politico.

Era cambiata anche la madre, la pasionaria con l’A.K-47. Disse che l’esercito, la polizia e il governo erano decisi ad annientare suo figlio. Imploro’ Ehsan: Ti prego, fa’ qualcosa per aiutarlo . I suoi sentimenti e le sue opinioni non erano piu’ quelli di un tempo. Era persino diventata vagamente critica verso l’M.Q.M.. Si lagno’ che non facevano abbastanza per aiutare le famiglie dei ragazzi che erano stati uccisi o erano latitanti come suo figlio.

Ma le cose sarebbero andate bene per lei. Malgrado tutto, gli altri figli avevano iniziato delle rispettabili carriere professionali. E il combattente prima o poi si sarebbe messo in salvo a Londra.

Il fatto era che in quei cinque anni il movimento, alimentato all’inizio da famiglie come quella della donna, era cambiato. Aveva cessato di essere un movimento della media borghesia. Si era diffuso verso il basso, e li’ l’amarezza si era tramutata in rifiuto radicale. Adesso i combattenti e gli organizzatori provenivano dalle file dei miserabili di Orangi e Korangi, che avevano poco o niente da perdere. A quel livello, qualunque cosa fosse accaduta alla famiglia dell’amico di Ehsan, era impossibile estinguere l’incendio.

 

L’esercito resto’ a Karachi per quasi due anni e mezzo. In quel periodo l’M.Q.M. fu dichiarato un’organizzazione terroristica e i suoi leader terroristi latitanti. Il controllo dell’esercito esacerbo’ ulteriormente l’amarezza dei “mohajir”, e il loro risentimento si acui’ ancora di piu’ quando i Rangers, il corpo paramilitare delle guardie di frontiera, rimpiazzarono l’esercito. Intere localita’ continuavano a essere isolate e setacciate. Poi i servizi segreti congegnarono una scissione nell’M.Q.M. e al terrore si aggiunse l’anarchia. Si ammazzavano tra loro.

Hasan Jafri, un giornalista, lui stesso di famiglia “mohajir”, seguiva i disordini in quel periodo. Mi ha raccontato: Io e gli altri inviati vedevamo un sacco di cadaveri. Quasi ogni giorno .

Il servizio di autoambulanze era la prima fonte di informazione. Poi i giornalisti controllavano con l’M.Q.M. per scoprire se i morti erano appartenuti all’organizzazione. In tal caso l’M.Q.M. dichiarava che erano stati torturati a morte dalla polizia. La polizia affermava invece che erano stati uccisi in scontri a fuoco .

Quest’anno sono state assassinate milleottocento persone. Praticamente ogni giorno ci sono cadaveri nelle strade. Uno qui, due li’ , tre da un’altra parte. Quando ho cominciato, lo trovavo disgustoso. Vedevi i cadaveri gettati a casaccio nella camera mortuaria dell’ospedale. Circa cinque mesi fa, c’e’ stata una sparatoria a Korangi. E’ successo di mattina. Credo che siano stati ammazzati cinque uomini. Giacevano su tavoli di cemento nell’obitorio del Jinnah Hospital. Erano nudi, tutti quanti, e i corpi avevano cominciato a puzzare. La zona fra il cuore e la spalla di una delle vittime era completamente spappolata. Un altro era stato raggiunto da una raffica sulla mano, e l’osso principale sporgeva dalla carne. Un terzo aveva un’espressione traumatizzata che pareva essersi congelata sul suo viso. Gli occhi erano sbarrati e la bocca spalancata. poiche’i corpi erano stati trasportati con un certo ritardo all’ospedale, circa sei ore dopo il fatto, sui loro visi l’espressione era pietrificata. In quei tratti il momento della morte sembrava scritto a chiare lettere .

Hasan Jafri mi racconto’ che andava personalmente all’obitorio per contare i cadaveri e vedere in che condizioni erano. Era diventato insensibile, a un certo livello , a spettacoli come quelli. Ma sentiva che, come reporter, aveva il dovere di andare a vedere di persona, Perche’ era importante guardare in faccia la violenze’.

Un altro omicidio che ricordo e’ quello dell’ispettore Bahadur Ali’ . E’ caduto in un agguato. Lui e circa altri sei poliziotti che erano nella vettura sono morti. Bahadur Ali’ aveva quasi due dozzine di proiettili in corpo. Era un uomo massiccio, eppure il suo corpo era distrutto.

Le idee e le belle parole non hanno niente a che fare con questo. Alla fine, resta soltanto un corpo senza vita. Il figlio di qualcuno, il fratello di qualcuno, il marito di qualcuno .

La gente adesso conviveva perennemente con la paura, ha detto Hasan Jafri. Gli uomini dell’M.Q.M. avevano paura: la polizia poteva bussare alla porta in qualunque momento. I poliziotti avevano paura: sapevano di essere potenziali bersagli. I tassisti avevano paura.

I poliziotti erano sovraccarichi di lavoro. Erano brutali Perche’ avevano paura. La maggior parte degli agenti venivano dal Punjab e dall’entroterra del Sind. Erano lontani dalle famiglie. Rischiavano la vita ogni giorno ed erano pagati pochissimo, duemilaseicento rupie al mese, cinquanta sterline.

Hasan Jafri partecipava regolarmente alle ronde serali della polizia con i veicoli blindati. Una sera, nel quartiere di Liaquatabad, una roccaforte dell’M.Q.M., un poliziotto del Punjab sulla trentina, con l’aria stanca e chiaramente in servizio da parecchio tempo, disse a Hasan Jafri: Essere di servizio nel Distretto Centrale e’ peggio che andare all’inferno . Poi la situazione peggioro’ ancora. I terroristi cominciarono a utilizzare i lanciarazzi. Quando avvenne, Hasan Jafri smise di accompagnare la polizia nelle ronde serali.

La guerra aveva raggiunto il fondo, e adesso, ogni volta che un combattente dell’M.Q.M. moriva, un altro era pronto a prendere il suo posto. Le autorita’ sostenevano che i combattenti erano solo duemila, ma secondo Hasan Jafri questa era una sciocchezza. Nei rapporti della polizia cominciarono a spuntare all’improvviso i nomi di nuovi combattenti. Rimanevano nomi, privi di un volto, finche’ non venivano catturati o uccisi; e a quel punto comparivano nuovi nomi. All’inizio erano reclutati per piccoli incarichi; poi eseguivano compiti via via piu’ impegnativi e alla fine venivano risucchiati nel vortice di violenza. Hasan Jafri conosceva un ragazzo, o uomo, di ventun anni, che gia’ si sentiva segnato dalla morte. Aveva rubato tante macchine, ucciso tante persone, rapinato tanti negozi che non poteva piu’ tornare indietro, essere di nuovo normale.

Veniva da una famiglia molto perbene. Il terrorista piu’ improbabile che si possa immaginare. Vede, e’ un ciclo senza fine. Nascita, morte, rinascita, l’una dopo l’altra. Il mio piu’ grande timore, adesso, e’ che potremmo lasciarci andare alla disperazione. C’e’ tanta gente come me, oggi, gente istruita, consapevole, che non ha paura di staccarsi dal Pakistan. Ma non voglio finire a fare il “mohajir” in un’altra terra. I miei genitori sono nati in un paese, io in un altro. Non voglio che i miei figli nascano in un terzo paese .

Queste parole erano, a qualche generazione di distanza, un commento equo alla proposta fatta da Muhammad Iqbal nel 1930 di creare il Pakistan: i poeti non dovrebbero condurre il proprio popolo all’inferno.

Iqbal e’ sepolto nel recinto della moschea di Shah Giahan, a Lahore; la sua tomba e’ vigilata da soldati. Segni di retorica o sentimentalismo come questi destano inevitabilmente preoccupazione, Perche’ nascondono i fatti. E la tomba, con i suoi motivi moghul, sarebbe una sorta di sacrilegio artistico se, proprio di fronte, il grande forte moghul di Lahore (con la finestra dell’imperatore raffigurata in alcune delle piu’ belle miniature moghul) non cadesse a pezzi; se, in quella stessa citta’ di Lahore, i giardini moghul di Shalimar e le tombe dell’imperatore Giahangir e della moglie non fossero in rovina; se, tornando indietro di altri quattro secoli, le torri delle tombe duecentesche di Uch, a Bahawalpur, rivestite di piastrelle dalle tinte delicate, uno dei piu’ begli esempi di arte islamica del subcontinente, non fossero per meta’ sbiadite; se, tornando ancora piu’ indietro, la regione intorno alla citta’ buddhista di Taxila, nota ad Alessandro il Grande e un tempo ricca di vestigia favolose, non fosse letteralmente sfruttata come cava di pietra; se il Pakistan, che persegue ancora fantasie di imperialismo islamico, non fosse responsabile del saccheggio definitivo dei tesori buddhisti dell’Afghanistan.

Nella sua breve esistenza; lo Stato religioso di Iqbal, per meta’ ancora feudale, ancora intriso di ignoranza, che persino nei libri di scuola fa scempiu’ della storia, che annulla l’entita’ politica che avrebbe dovuto servire, ha dimostrato che il suo unico intento e’ di fare terra bruciata della cultura di questa terra, mentre la gloria, di ogni tipo, e’ altrove.