7.

QOM: IL PUNITORE.

 

Nell’agosto del 1979, quando giunsi a Teheran per la prima volta, l’ayatollah Khalkhalli, il giudice-boia della rivoluzione, era una vera e propria star. Il tribunale islamico rivoluzionario di via Shariati rimaneva in seduta quasi ventiquattr’ore al giorno, come ci aveva raccontato Ali’ . Le esecuzioni si succedevano senza sosta nella prigione di Evin e di notte i camion trasportavano fuori i cadaveri attraverso le cancellate azzurre.

Non si faceva alcun tentativo di nascondere o sminuire l’eccidio. Un ufficiale rivoluzionario era perfino incaricato di tenere il conto e sul Tehran Times comparivano regolari aggiornamenti. Questo conteggio doveva servire in principio a testimoniare la clemenza della rivoluzione; venne sospeso piu’ avanti, quando il numero delle uccisioni si fece eccessivo. Nei primi tempi si scattavano anche fotografie ai condannati, prima e dopo le esecuzioni - uccisi e archiviati, per cosi’ dire, con i cadaveri nudi distesi sulle lastre mortuarie scorrevoli, pronti a entrare nell’enorme archivio dell’obitorio. Queste foto si trovavano in vendita per le strade.

L’ayatollah Khalkhalli, giudice supremo del tribunale islamico rivoluzionario, era bendisposto verso la stampa. Rilasciava un’intervista roboante dietro l’altra. Mi recai a trovarlo a Qom insieme a un interprete. Ricorreva il Ramadan, il mese del digiuno, e l’ayatollah si era temporaneamente ritirato li’ per pregare e digiunare. Era agosto e nel deserto si soffocava dal caldo. Dopo essere arrivati a Qom, aspettammo piu’ di cinque ore finche’ l’ayatollah non ebbe terminato le preghiere e interrotto il digiuno: quando lo fece, erano ormai le nove di sera. Lo trovammo seduto nella veranda della sua modesta abitazione, al centro di una piccola corte di persone (anch’esse per terra): le sue guardie, alcuni ammiratori iraniani e una coppia di visitatori africani molto rispettosi e formali, lui in completo grigio chiaro, lei con un abito che pareva di chiffon, tagliato come un sari.

L’ayatollah era calvo, di carnagione pallida e assai basso: uno gnomo ecclesiastico dall’abbigliamento trasandato. Forse per via della statura, amava molto gli scherzi e le barzellette, e il suo argomento preferito erano le impiccagioni: la sua corte si sbellicava dalle risate. Ma gli piaceva anche - un manierismo forse legato ai suoi doveri di boia - interrompere bruscamente i lazzi e farsi di colpo cupo e severo.

Proveniva dall’Azerbaigian, nel Nord-Ovest. Sosteneva di essere figlio di un contadino e di aver fatto il pastore da giovane. Khalkhalli rappresentava dunque il prototipo del ragazzo di campagna per il quale, mezzo secolo addietro, la scuola teologica costituiva l’unica via di scampo, secondo quanto ci aveva raccontato Ali’ : una camera, vitto e qualche soldo. Sembrava che Khalkhalli avesse ben poco da aggiungere riguardo a quei primi tempi; si limito’ a dire, con una risata grassa e strozzata, che sapeva tagliare con un colpo netto la testa a una pecora: un’altra battuta a beneficio del suo piccolo seguito. Forse, non avendo mai imparato ad analizzare le proprie esperienze per migliorarsi e non avendo mai letto, o riflettuto, abbastanza, la vita gli era passata accanto e in gran parte gli era perfino sfuggita. Forse quei trentacinque anni (come ricordava lui stesso) di studi teologici a Qom gli avevano guastato il cervello, cancellando la realta’ e inculcandogli solo regole che adesso, con l’avvento della rivoluzione, lo tenevano immerso nella virto e nella vanita’ . Il suo unico interesse erano il presente, la sua autorita’ , la sua reputazione e il suo lavoro di boia.

Finalmente e’ giunta l’ora dei mullah sentenziava. Ci attendono diecimila anni di Repubblica Islamica. I marxisti continueranno a seguire il loro Lenin. Noi proseguiremo sulla strada di Khomeino’ .

La rivoluzione come sangue e castigo, la religione come sangue e castigo: nella mente di Khalkhalli, i due concetti sembravano coincidere.

E, in effetti, quella duplice visione di sangue si addiceva perfettamente all’Iran rivoluzionario. Behzad, il mio interprete, era comunista, figlio di padre comunista. Aveva ventiquattro anni e, malgrado la sua affabilita’ iraniana, la sua educazione scientifica e le sue ambizioni sociali, coltivava un sogno di sangue. Come modello aveva Stalin. Quello che lui ha fatto in Russie’ sosteneva noi dobbiamo farlo in Iran. Anche qui dovra’ morire della gente. Molta gente .

Di ritorno a Teheran attraverso il deserto, accendemmo l’autoradio. Il notiziario riferiva che il governo aveva chiuso il quotidiano liberale, o comunque non religioso, Ayandegan : quella notizia rabbuio’ Behzad. I comunisti al vertice potevano dire quel che volevano, e per oltre un anno avrebbero continuato a proclamare la propria egemonia sulla rivoluzione religiosa: Behzad comprese quella sera che i giochi si erano conclusi.

 

Adesso, trascorsi sedici anni, pensavo che avrei dovuto riprendere la via di Qom per parlare con Khalkhalli e ricavarne se possibile una nuova prospettiva sui tempi andati. Mi era anche venuto il desiderio, dopo i discorsi di Ali’ e di Abbas, di provare a intervistare uno studente di Qom, un “talebeh”, per inquadrare il tipo di persona che al giorno d’oggi, dopo la rivoluzione, frequentava le scuole teologiche.

Mehrdad riteneva poco prudente la mia idea. Fino a quel momento avevo tenuto il naso al sicuro; ma ora incontrare Khalkhalli, o anche solo cercare di farlo, rappresentava un gesto troppo politico, inopportuno, che avrebbe potuto generare difficolta’ . E in effetti, chiedendo in giro, mi sentivo rispondere che per svariate ragioni l’ayatollah forse non voleva essere disturbato. La rivoluzione lo aveva messo da parte ormai da molto tempo, come esponente della vecchia cricca, e si era ritirato a vita privata; di recente aveva anche cominciato a soffrire di cuore.

Ignorando Mehrdad, feci sondare il terreno e ricevetti una risposta positiva: nonostante l’iniziativa fosse sconsigliata ufficialmente, Khalkhalli era disposto a ricevermi a casa sua alle undici di un certo giorno. La sua abitazione si trovava in una stradina di Qom, la Kuceh Abshar; e la persona che mi ci avrebbe accompagnato era un “talebeh”. Costui studiava a Qom da molti anni ed era disponibile a parlare con me in privato. Ci saremmo incontrati presso la Biblioteca Marashi, non lontano dalla residenza di Khalkhalli. Non avrei avuto difficolta’ a trovarla Perche’ era molto famosa; chiunque a Qom avrebbe saputo indicarmela.

Si trattava di un appuntamento troppo complesso, con troppi tasselli da far combaciare. Da viaggiatore esperto, ero cosciente che saltavano abboccamenti molto piu’ semplici, in posti piu’ facili. Percio’ mi misi in viaggio per Qom con una punta di scetticismo.

 

Avevano costruito una nuova strada fino alla citta’ santa, che passava davanti al tempio di Khomeini, con la sua cupola color rame e i minareti decorati. Kamran, il nostro autista, che gia’ ci aveva accompagnati al santuario e al Cimitero dei martiri, mi chiese con aria divertita: Ci vuole tornare? .

Stavamo attraversando il deserto, ma fin dove giungeva l’irrigazione si vedevano campi verdi in un terreno pianeggiante. Poi ci addentrammo nel deserto vero e proprio, e la terra spoglia e rossiccia si fece piu’ irregolare: qui una serie di dune di fango spaccate dal sole, li’ una catena di basse colline erose a tratti fino alla roccia, che spiccava in striature contorte e crepate. Era uno spettacolo meraviglioso cui assistevamo dall’automobile, ma Mehrdad commento’ : Per noi e’ terra pessima. Salate’.

Sulla sinistra, a distanza, si intravedeva il grande lago salato. Nel 1979 la mia guida e interprete Behzad mi aveva raccontato che la Savak era solita disfarsi della gente scaricandola nel lago dagli elicotteri. Ma adesso Mehrdad mi spiegava che l’acqua era cosi’ salata che nulla vi poteva affondare. Poi continuo’ a parlare del petrolio che correva voce giacesse sotto la terra. La versione ufficiale, diceva Mehrdad, era che il petrolio in quest’area salmastra fosse di scarsa qualita’ , ma tra gli iraniani si mormorava che vi si trovasse in realta’ un giacimento ricchissimo e tenuto di riserva. Per questa ragione, anche se brullo e salato, il territorio appariva favoloso; come favolosa era Qom, sorta in un sito di sicura antichita’ , poiche’tutti i luoghi sacri risalgono a epoche e religioni precedenti.

Di tanto in tanto, sulla sinistra, si scorgeva la vecchia e tortuosa strada per Qom. Via via la terra dura si ammorbidiva e si distendeva in una pianura; cominciavano ad affiorare sporadici ciuffi d’erba. In lontananza, nel bagliore della luce, spiccava il marrone ametista di una catena montuosa dal profilo frastagliato. Lungo la strada superammo due o tre stazioni di rifornimento, simili a chiazze nere nel deserto: il nero dei pneumatici disposti l’uno sopra l’altro e il nero della nafta sul terreno secco.

Una serie di capannoni di tipo industriale, lungo una stradina secondaria sulla destra, annunciarono che ci stavamo approssimando a Qom; e ben presto la cupola e i minareti del famoso santuario della citta’ si profilarono al di sopra dell’anonima distesa color polvere delle abitazioni di mattoni. Nel 1979 Qom non era che una modesta cittadina; adesso, dopo la rivoluzione, le sue dimensioni si erano piu’ che triplicate e contava un milione e mezzo di abitanti.

Arrivammo a un’aiuola spartitraffico ben irrigata e ricca di vegetazione: segnava la fine del deserto e l’inizio della citta’ .

Kamran annuncio’ con il suo piglio ironico: Stiamo entrando in Vaticano .

A lato della strada si trovava un cartellone simile a quelli di benvenuto nelle citta’ , ma dal contenuto ben diverso. Quella scritta era stata fonte di molta sofferenza, mi fece intendere Mehrdad, mentre mi traduceva i caratteri persiani pieni ed eleganti: Tutta la filosofia pratica dell’ordinamento giuridico sta nel governare . Il termine usato per ordinamento giuridica’ era “fiqha”: significa giurisprudenze’ in un’accezione molto ampia, una delle principali materie di studio a Qom. Come spesso accadeva nel persiano, osservo’ Mehrdad, la citazione riportata sul cartello era ambigua. Il significato piu’ blando era: Il nostro sistema di governo si basa sullo studio e sulla religione . Ma il vero messaggio era piu’ brutale: Noi di Qom siamo qui per governarvo’ .

Poco dopo la rivoluzione, nel 1979, il popolo iraniano aveva votato in un referendum per la Repubblica Islamica. All’epoca, i princi’ pi fondamentali della Repubblica non erano stati ancora elaborati e la maggior parte della popolazione credeva di votare soltanto per la liberta’ e la giustizia. Ma, da allora, gli studiosi avevano definito i princi’ pi e uno di questi sanciva il predominio di Qom: incarnava un aspetto del principio fondamentale dello Stato, quello della Guida e dell’obbedienza a essa dovuta, che non dovevano mai venire messi in discussione, nemmeno in modo indiretto.

Un cartello piu’ avanti, redatto in tre lingue, era piu’ cordiale. Riguardava il santuario dell’amatissima santa Masumeh, l’innocente , sorella dell’ottavo imam.

E qui, nella citta’ santa dopo il deserto, le donne che percorrevano le strade nei loro chador neri facevano un’impressione particolare. Sembravano molto piccole, vivaci, solitarie all’apparenza. Alcune reggevano con una mano il chador davanti al volto, oppure ne tenevano un lembo stretto fra i denti; pareva che si fossero imbavagliate di proposito. Guardandole, non veniva in mente la santa di Qom, ma il principio dell’obbedienza.

Senza l’oro opaco della cupola del santuario, la citta’ non sarebbe stata niente di speciale, ma la cupola c’era. E ora, mentre ci addentravamo, cominciavamo a incontrare gli studenti con i loro turbanti, le tuniche colorate e le vesti nere. Se ne vedevano sempre piu’ , e Qom si rivelava ben piu’ di una citta’ nel deserto, piu’ di una localita’ pittoresca. Come se avessimo cambiato secolo; come se, per effetto di un trucco cinematografico o di un congegno elettronico, fossimo finiti in un dramma di Marlowe (per dire); come se percorressimo vecchie strade, vivessimo secondo antiche convinzioni e fossimo tornati a un concetto antiquato di cultura, con i suoi emblemi sorpassati di divise e di colori.

(Sorpassati forse, ma stranamente familiari: tracce di questa concezione accademica, importata in origine dall’Islam, erano sopravvissute inalterate nella Oxford che mi aveva accolto un pomeriggio del 1950 e si finiva per accettarle in fretta: le lunghe tuniche nere dei professori e dei dottorandi, quelle piu’ corte degli studenti ordinari).

 

La Biblioteca Marashi non era poi, almeno fra la gente comune, cosi’ conosciuta come ci avevano assicurato. Tutti quelli ai quali ci rivolgemmo seppero fornirci soltanto indicazioni parziali, e ci limitammo a procedere di incrocio in incrocio. Dopo aver percorso velocemente il deserto, ora perdevamo tempo; saremmo arrivati in ritardo all’appuntamento con Khalkhalli.

Finalmente raggiungemmo la biblioteca e capii Perche’ ci avessimo impiegato tanto; ne avevamo chiesto l’ubicazione come se si trattasse di un monumento eccezionale e invece era una costruzione recente di mattoni scuri, appena troppo islamica nei suoi archi, finestre e motivi decorativi; non era grande e non richiamava l’attenzione. La facciata superiore era addobbata nello stile di Qom, con filamenti di lampadine colorate, mentre sui muri di pietra della parte inferiore facevano sfoggio nuovi manifesti che in parte coprivano quelli vecchi. La grossa insegna che sporgeva di un bel pezzo sulla strada trafficata sembrava quella di un’azienda commerciale.

Lasciando Kamran in auto ad aspettarci, andammo in cerca dell’uomo che ci doveva condurre da Khalkhalli. Erano passate le undici, ormai, e il nostro appuntamento con l’ayatollah era fissato per le undici esatte.

Nel momento stesso in cui superammo l’ingresso ad arco, mi resi conto che avremmo avuto qualche difficolta’ . La tomba dell’ayatollah Marashi, il fondatore della biblioteca, si trovava appena a sinistra dell’entrata. Aveva la curiosa forma di una gabbia di alluminio, come quelle per i pappagalli, con il coperchio verde. E Mehrdad mi riferi’ che l’alluminio era stato adottato come segno di modernita’ , in luogo del piu’ consueto argento. Mentre entravamo lasciando la strada caotica e luminosa, scorgemmo alcuni fedeli bisognosi e altri molto malati appoggiati in silenzio contro la gabbia. Accanto ad essa, e leggermente sopraelevato rispetto al pavimento di marmo, si apriva uno spazio ricoperto di tappeti, dove molti altri ancora sedevano o pregavano, sovrastati da una gigantografia a colori dell’ayatollah Marashi in eta’ avanzata.

La Biblioteca Marashi, a quanto pareva, fungeva anche da santuario, con le sue funzioni e i suoi fedeli. E non mi sorprese di certo che nel piccolo ufficio all’estremita’ del corridoio nessuno sapesse nulla di noi e del nostro incontro con l’ayatollah Khalkhalli.

Fummo dirottati verso un altro ufficio, ma neppure li’ sapevano niente di noi. Quindi fummo condotti nell’ufficio del figlio del grande ayatollah Marashi.

Questi, direttore della biblioteca e custode dell’affollato santuario annesso, era un uomo imponente, dalla barba folta e curata, nera con due striature grigie. Indossava un turbante nero, una tunica e una sopravveste, e il suo ufficio incuteva soggezione, traboccante com’era di libri, fogli e fascicoli. Ignorava chi fossimo e Perche’ ci trovassimo li’ ; e neppure sapeva nulla del “talebeh” o dell’ayatollah Khalkhalli. Allora, non sicuro di pronunciarlo correttamente, gli mostrai l’indirizzo di Khalkhalli, Kuceh Abshar, che avevo trascritto nel taccuino. Mi rispose che senza numero civico quello non si poteva considerare un indirizzo. Obiettai che forse si trattava di una strada piccola e i residenti avrebbero saputo di certo dove vivesse Khalkhalli.

Non era d’accordo con me e comincio’ a subissarmi di domande: Come ti chiami? Dove vivi? Quanti libri hai scritto? Che genere di libri? A quale agenzia appartieni? Aderisci al SOAS? . Non avevo idea di cosa fosse il SOAS, il che non gli ando’ a genio; in verita’ , non gli andava a genio nulla di quello che dicevo. Allora mi offrii di scrivergli il mio nome e il mio indirizzo su un foglio di carta e questo lo rese stranamente civile. Mi fece accomodare, mentre Mehrdad usciva per telefonare a qualcuno a Teheran e a Emami, il “talebeh” che avremmo dovuto incontrare alla biblioteca.

Mehrdad non rimase via a lungo. Al suo ritorno disse che Emami ci avrebbe richiamati. Mi parve una brutta notizia, ma lui, ansioso di consolarmi, aggiunse che nell’attesa avremmo potuto ammirare i preziosi manoscritti della biblioteca. Avremmo fatto molto tardi all’appuntamento con Khalkhalli, ma Mehrdad non sembrava darci troppo peso. Mentre salivamo le scale verso la sala dei manoscritti, Mehrdad mi fece notare che il direttore si era alzato in piedi quando eravamo entrati nel suo ufficio; in Iran era un gesto di rispetto, mi spiego’ : non l’avrebbe fatto se non avesse saputo di noi.

Superata una porta blindata, sprofondammo nel silenzio della sala dei manoscritti, circondati da reliquie di squisita bellezza. Di colpo eravamo entrati in un altro mondo, dopo la confusione della strada, il mio nervosismo e l’ostruzionismo del piano di sotto.

Erano gia’ le undici e mezzo. Se anche Emami ci avesse raggiunti in quel momento, avremmo accumulato un’ora di ritardo con Khalkhalli. Cominciai a rimuovere il nostro incontro dalla mente e pensai che in fondo, come la gente di sotto si appoggiava alla gabbia di alluminio per recepire le emanazioni benefiche del sant’uomo morto, cosi’ avrei fatto bene anch’io a restare una mezz’ora o piu’ in quella sala, a godere dell’aura di serenita’ di un mondo passato. Mi venne in mente la biblioteca dell’Universita’ di Salamanca, in Spagna, un altro luogo di ozioso sapere e copia speculare di quella, quasi dello stesso periodo. Ma senza alcun preavviso, la guida anglofona incaricata di scortarci fu mandata via e al suo posto si presento’ un giovane prete in tunica e sopravveste, piccolo e accigliato. Costui comincio’ a portarci sbrigativamente da una vetrina all’altra, senza proferire una parola, con i lembi della veste che gli danzavano sulle minuscole pantofole chiare; infine ci condusse a passo di marcia fuori dalla sala dei manoscritti, chiudendo la porta blindata con un tonfo alle nostre spalle.

Sempre senza una parola e senza cordialita’ , ci mostro’ le altre sezioni della biblioteca: libri stampati, conservazione, fumigazione, copiatura. E quindi sale con un numero sempre maggiore di libri a stampa: il flusso incessante della teologia islamica, elaborata senza interruzioni in luoghi come Qom, e pubblicata in enormi collane di volumi dalla rilegatura uniforme e sfarzosa. Erano cosi’ numerose, queste collane, che ci si chiedeva fino a che punto fossero state vagliate e controllate, se si proponessero di trovare lettori, o se venissero presentate come oggetti sacri, emanazioni di un sommo ayatollah, pubblicate e prodotte grazie al gesto magnanimo o caritatevole di qualcuno.

Troppe collane da vedere, ormai, in compagnia della nostra scontrosa guida, tanto che alla fine fermandomi dissi che bastava. Mi sembrava che l’avventura fosse sufficiente per quel giorno: adesso ci conveniva recarci a visitare il santuario di Hazrat Masumeh, pranzare da qualche parte e quindi far ritorno a Teheran. Anche Mehrdad era d’accordo. Temeva che avessimo attirato gia’ troppa attenzione e lo preoccupava il fatto che avessi lasciato il mio nome e il mio indirizzo. Riteneva piu’ prudente non rimanere a ciondolare in giro.

Ci congedammo dal nostro accompagnatore e scendemmo per due rampe di scale fino al piano dove cominciava la biblioteca vera e propria; li’ trovammo Emami, il “talebeh”.

Era un uomo sulla trentina, alto e asciutto, dall’aspetto rilassato, a suo agio, come se non si rendesse conto di averci fatto aspettare un’ara. Non indossava la tunica, la sopravveste e il turbante, ma un paio di pantaloni e una camicia bianca di seta, o altro tessuto luccicante, con un motivo ricamato sopra. Non fece parola - o almeno Mehrdad non la tradusse - su come mai si trovasse li’ , sul Perche’ non ci avesse telefonato, o anche solo non si fosse presentato un’ora prima. L’unica cosa che disse, con quel suo fare calmo e mellifluo, era che se’, sapeva dove abitava Khalkhalli e ci avrebbe condotti da lui.

Gli chiesi come mai era vestito cosi’ . Mi rispose che aveva diritto a portare la tunica, la sopravveste e il turbante, ma non gli piaceva. Considerava quella tenuta - o almeno cosi’ parve dalla traduzione di Mehrdad - un tratto della sua modernita’ . Era cosi’ che si vedeva: un uomo moderno.

Ci recammo nell’ufficio del direttore per salutarlo. L’omone col turbante nero si mostro’ gentile ma distaccato: i suoi rapporti con noi erano terminati. Il blocchetto bianco col mio nome e indirizzo si trovava ancora dove l’avevo lasciato, sulla sua scrivania in cima a un mucchio di carte e vecchi libri; saltava subito all’occhio e adesso comprendevo le preoccupazioni di Mehrdad.

Al piano inferiore superammo la folla dei visitatori del santuario che sedevano e pregavano sotto la fotografia dell’ayatollah Marashi, oppure premevano il viso contro la gabbia di alluminio della sua tomba. Fuori, nella strada affollato e inondata dal sole, passammo davanti a una piccola edicola, o libreria all’aperto, con libri iraniani in vetrina; due giovanissimi studenti in tunica, sopravveste e turbante, intenti ad acquistare una specie di piccolo manuale dall’edicolante, erano cosi’ esultanti che sembrava avessero trovato un tesoro. Forse il libriccino conteneva un semplice elenco di domande e risposte. Era come se tutto si svolgesse su un palcoscenico, con gli oggetti di scena - i volumi recenti di un sapere antico e il negozio che li vendeva - divenuti reali, e gli attori in costume - il negoziante, gli studenti - che incarnavano il proprio ruolo. Sarebbe stato divertente fermarsi a osservarli per un po’ e giocare con le fantasie che quella scena suggeriva, ma eravamo gia’ in ritardo di un’ora all’appuntamento con Khalkhalli.

Localizzammo Kamran nella macchina poco lontano, sul lato della strada battuto dal sole. Quando salimmo tutti, l’auto non parti’ .

 

Ci mettemmo a spingere tutti insieme, anche Emami nella sua camicia luccicante, con Kamran che riusciva a esibirsi perfino a quella velocita’ nella sua guida spericolata; ora sterzava di colpo in mezzo al traffico, ora si faceva largo puntando direttamente in senso contrario alle altre macchine. Ma aveva dalla sua la tipica fortuna iraniana e nessuno ci investi’ . Dopo circa cento o centocinquanta metri, la macchina tossendo si mise in moto. A questo punto Kamran, Mehrdad ed Emami - il quale, nonostante le sue assicurazioni, non aveva la piu’ pallida idea di dove abitasse Khalkhalli - cominciarono a chiedere indicazioni a tutto spiano, facendo cio’ che avremmo dovuto fare da soli in mattinata. Tutti conoscevano l’abitazione dell’ayatollah e tutti ripetevano che era molto vicina. Ma ci volle un po’ per trovarla.

Finalmente arrivammo in una stradina residenziale, con case bianche e nuove, circondate da muri o alte cancellate sul modello iraniano. Emami suono’ un campanello, ma non rispose nessuno. Allora, passando al campanello di una seconda casa, parlo’ per qualche momento al citofono. A questo punto si apri’ il cancello della prima casa, e ne usci’ una vecchia avvolta non nel chador nero tipico di Qom, ma in una sciarpa chiara decorata, che si era legata intorno alla testa. Venne fin sulla strada e ci indico’ una terza casa. Emami suono’ il campanello giusto, poi anche Mehrdad, finche’ un uomo non venne ad aprire. Non era in uniforme, ma Mehrdad noto’ - e me lo riferi’ piu’ tardi - che nascondeva una pistola sotto la camicia. Rispose di non essere al corrente di alcun appuntamento, ma sarebbe rientrato a chiedere all’ayatollah, che stava leggendo. Torno’ dopo un po’, dicendo: L’ayatollah vi stava aspettando. Vi aspettava alle undico’ . (Ma Mehrdad non mi tradusse quest’ultima parte se non alla fine della giornata).

Oltrepassammo l’alto cancello fino a un’altra guardia che portava pantaloni e camicia verde scuro, la vecchia divisa dei “komiteh” rivoluzionari.

Dalla mia prima visita mi sembrava di riconoscere il piccolo giardino anteriore, i pochi scalini e la veranda, ma non ero sicuro che si trattasse della stessa casa. I dintorni erano cambiati moltissimo: nel 1979 l’abitazione di Khalkhalli sorgeva ai confini della citta’ , in una strada costruita da poco con alberi appena piantati; si avvertiva la prossimita’ del deserto. Questa via invece sembrava decisamente vissuta e ben inserita nella citta’ .

Tolte le scarpe, entrammo nell’anticamera. Verso destra si scorgeva una biblioteca, o uno studio, con scaffali ricolmi di volumi rilegati in serie; sulla sinistra si apriva invece il salone, una stanza formale e quasi vuota, col pavimento ricoperto di tappeti. I muri erano di un grigio verde pallido; alcuni cuscini oblunghi a righe verdi erano appoggiati contro i caloriferi incassati in una parete. Un materassino sul tappeto, stranamente intimo, mostrava dove l’ayatollah si era forse riposato o aveva aspettato il nostro arrivo. Sull’altro lato della stanza campeggiavano quattro o cinque poltrone scure e, accanto a una, contro la parete, un tavolino. Sopra, su un centrino di pizzo, notai degli stuzzicadenti; di certo il padrone di casa era li’ a leggere quando avevamo suonato il campanello.

Dalla parete con i caloriferi incassati pendeva un turbante nero gia’ avvolto, dall’aspetto un po’ provato, schiacciato, nel complesso patetico; sopra, alcune fotografie dell’ayatollah insieme a Khomeini. Le immagini erano appese molto in alto, forse per evitare che qualcuno le rubasse, ed era difficile scorgere i dettagli. Un’istantanea in bianco e nero li aveva colti a loro insaputa mentre passeggiavano con aria assorta nella neve, accigliati, in sopravveste e turbante dietro una macchina: una scena di strada, senza dubbio. La veste di Khalkhalli scendeva fin quasi alle caviglie, delineandogli il ventre e nascondendone la piccola statura; infatti, procedendo ad ampie falcate accanto a Khomeini, non sembrava tanto piu’ basso di lui. Una foto di gruppo piuttosto formale, alla sinistra di questa, ritraeva Khomeini e suo figlio accanto a Khalkhalli, che era stato il tutore del ragazzo, un privilegio che gli dava un’espressione orgogliosa. Ancora piu’ a lato, un’istantanea a colori aveva sorpreso Khomeini e Khalkhalli che ridevano insieme: Khomeini sulla destra, disteso su quella che pareva una sedia a sdraio; Khalkhalli che si protendeva con aria complice verso di lui dalla sinistra, avvolto nella sopravveste nera, con il turbante e gli spessi occhiali dalla montatura scura; la sua veste bruna, che occupava quasi tutta la parte sinistra dell’immagine, si protendeva come un’ala protettiva su Khomeini. La foto era leggermente sfocata, oppure era stata ingrandita male, Perche’ si notava una specie di alone bianco-azzurro intorno alla sedia di Khomeini. L’istantanea mi parve inquietante: Khalkhalli il giullare che divertiva il suo padrone. Era l’unica fotografia in cui avessi mai visto Khomeini ridere, e la risata gli alterava i lineamenti, ne metteva in risalto la sensualita’ .

Ormai Khalkhalli era fuori del giro, diceva la gente; l’avevano messo da parte. Le fotografie sul muro costituivano una testimonianza del potere di un tempo, della sua vicinanza all’imam, la Guida suprema della rivoluzione. Ma nei giorni a venire potranno forse rivelare qualcos’altro: gli alacri artefici della rivoluzione che si mostravano seri in pubblico e ridevano in privato.

 

Finalmente si affaccio’ nel salone e fece la sua entrata: a passo lento, piedi scalzi, vestito di bianco come un penitente. Una tunica candida a maniche corte, madida di sudore verso il centro del petto, copriva un’ampia sottoveste, bianca anch’essa. Arrivo’ trascinando un passo dietro l’altro, piccolo, completamente calvo, con il volto infantile senza il turbante e la testa schiacciata contro il petto, gettando sguardi da sotto la fronte, con occhi non piu’ minacciosi e quasi prossimi alle lacrime, come se volesse drammatizzare la sua condizione e suscitare pieta’ .

Mi invito’ ad accomodarmi in una poltrona e si sedette vicino a me; ci divideva soltanto il tavolino con il centrino di pizzo e gli stuzzicadenti.

Non sapevo come cominciare. Mi premeva chiedergli del suo lavoro di giudice e sentire cosa ne pensasse adesso della rivoluzione, ma non avevo idea di come arrivarci. Pensai che un approccio indiretto, partendo dalla sua infanzia e dai suoi esordi, fosse la strada migliore per condurci in quella direzione, ma come nel 1979 era restio a parlare della sua vita.

Se dovevamo spingerci cosi’ indietro, mi disse, si sarebbe stancato. Aveva subi’to un’operazione al cuore, gli avevano messo un triplo by-pass. E quasi a voler sottolineare che le mie domande gli erano sgradite, o forse solo Perche’ stava scomodo, si alzo’ dalla poltrona accanto alla mia e si sistemo’ sul suo materassino posato sul tappeto.

Allora gli chiesi quando fosse diventato un rivoluzionario. Mi rispose di esserlo sempre stato, fin da quando poteva dire di conoscersi; aveva sempre odiato i sovrani.

Le guardie ci servirono del te’ in piccole tazze e si sedettero ad ascoltare i nostri discorsi. Mi parve che gradissero il diversivo nella loro routine.

A quel punto Khalkhalli dimostro’ una certa premura. Disse di aver imparato molto da Nehru, intendendo la frase come una cortesia nei miei riguardi: mi considerava indiano. Di Nehru aveva apprezzato in particolare il libro “Glimpses of World History”; la traduzione iraniana era uscita in tre volumi. Allora, ricordando l’interesse per il Fronte Polisario che aveva dimostrato nel 1979, gli chiesi cosa vedesse nel futuro di societa’ che oggi si dichiaravano rivoluzionarie. Mi rispose (nella versione di Mehrdad): La realta’ finira’ sempre per prevalere .

Realta’ , per lui, significava Verita’ : si contrapponeva ai falsi sistemi, ai falsi de’i e alla corruzione. Ma era difficile farlo parlare in termini concreti, tendeva sempre a esprimersi per astrazioni. Come ayatollah, quella era la sua caratteristica. Si compiaceva di eludere il mio scopo; e mentre parlava di realta’ e corruzione alla maniera degli ayatollah, i suoi occhi - all’apparenza cosi’ vicini al pianto quando si era presentato nella stanza - si illuminarono e cominciarono a brillare, mostrando lampi dell’antica malizia: uno scorcio dell’uomo che avevo conosciuto nel 1979.

Mi chiese se avessi in programma di incontrare l’ayatollah Montazeri.

Non creda’ gli risposi.

Quando Mehrdad gli tradusse il mio rifiuto, Khalkhalli fissandolo insistette: Dovrebbe incontrare Montazero’ .

Mehrdad riferi’ l’esortazione con espressione impassibile. Solo piu’ tardi, rimettendo assieme cio’ che avevo sentito, compresi che quella sull’ayatollah Montazeri era una domanda politica, forse addirittura un tentativo da parte di Khalkhalli di coinvolgermi nella sua causa. Khalkhalli e Montazeri erano stati entrambi esponenti di spicco della rivoluzione nei primi tempi (Montazeri, a un certo punto, era stato perfino eletto vice di Khomeini), ed entrambi si erano distinti per la loro ferocia. Se Khalkhalli era il giudice-boia, Montazeri, nella sua qualita’ di secondo di Khomeini, si era dimostrato spesso piu’ fanatico del suo stesso capo. Quando Khomeini, ad esempio , aveva affermato che la rivoluzione doveva concentrarsi sui giovani, e che le persone sopra i quarant’anni erano inutili, Montazeri aveva calcato ancor piu’ la mano asserendo che le pensioni erano superflue e gli alberi vecchi andavano abbattuti. La gente se lo ricordava ancora. Sia Khalkhalli sia Montazeri erano stati messi da parte dalla nuova generazione al potere, ed entrambi erano stati ridotti al silenzio e all’impotenza.

Ma quasi tutto questo lo seppi piu’ tardi. Sicche’, quando Khalkhalli mi chiese se avessi intenzione di incontrare Montazeri, non capii dove volesse arrivare e non raccolsi lo spunto. Invece gli domandai - e sara’ stata una grossa delusione per lui - che cosa stesse leggendo quando eravamo arrivati. Gli spiegai che ce l’aveva detto il guardiano quando aveva aperto la porta: si trattava di un’opera religiosa?

No, era solo il giornale. Si giustifico’ col suo tono da oratore: Il mondo non rimane immoto. Ci sono sempre delle novita’ ; per questo leggo i giornalo’ .

Le parole che adoperava non significavano molto. Non rivelavano niente di lui e gli permettevano invece di valutarmi a sua volta. Non aveva fatto altro che squadrarmi da sotto il suo cipiglio, seduto sul materassino posato sul tappeto, e adesso mi avvedevo del suo controinterrogatorio insinuato fra le chiacchiere astratte e sconnesse. Quanti anni avevo? Avevo figli? Risposi di no, e mi chiese perche’. Perche’ avrebbero reso difficile svolgere il mio lavoro, spiegai; al che lui replico’ che molti grandi scrittori persiani avevano avuto cento figli e scritto cento libri. Quanti libri avevo scritto io? Mi ci guadagnavo da vivere? Per chi scriveva in Iran era duro tirar fuori di che vivere. Ero legato a qualche agenzia? Di che religione ero? Chiese dell’India e del Kashmir, senza prestare attenzione alle mie parole.

Si era ormai stancato di me. Era abituato a un altro genere di interviste, piu’ politiche e immediate (e forse anche con un maggior impatto pubblicitario). Non riusciva a capire che cosa cercassi e in effetti, forse avevo perduto l’orientamento. Forse la disavventura alla Biblioteca Marashi mi aveva reso troppo cauto.

Sarebbe stato meglio se gli avessi chiesto apertamente della sua fama di braccio spietato della rivoluzione, ma ero piuttosto restio a farlo: temevo che una domanda del genere lo avrebbe portato a chiudersi, oppure ne avrei cavato una risposta preconfezionata, o magari sarebbe diventato ostile; in ogni caso, avrei ottenuto soltanto l’ovvio. Avrei potuto domandargli delle fotografie sul muro; quelle mi interessavano e significavano molto per lui: forse ne avrebbe parlato volentieri e cio’ avrebbe potuto condurci ad altri argomenti. Ma questo appiglio non mi venne in mente che diverse settimane dopo, mentre ripassavo i miei appunti.

Continuando a procedere a tentoni, gli chiesi come valutasse oggi la rivoluzione. Parlo’ per qualche momento, impiegando chiaramente una quantita’ di parole inutili, e la concisa traduzione di Mehrdad fu che si era compiuto un primo passo. Quanto grande? chiesi. E lui: trenta per cento. Intravidi un’apertura e anche lui deve aver capito quel che stava per seguire, perche’, prima che potessi porgli la domanda su quel restante settanta per cento, disse di essere stanco. Gli occhi che brillavano mentre teneva i suoi discorsi ridiventarono opachi, e l’espressione torno’ vacua, malinconica. Lascio’ di nuovo cadere la testa, premendo il mento contro il petto, e si alzo’ lentamente, con il sudore che gli impregnava davanti e dietro la tunica bianca a maniche corte. Con passo strascicato, si trasferi’ in un’altra stanza.

 

L’intervista era conclusa. Ma adesso avevamo un problema: ci trovavamo a piedi. Kamran era andato in cerca di un meccanico per riparare l’accensione; aveva detto che ci avrebbe impiegato mezz’ora, ma non si intendeva alla lettera. Non potevamo fare altro che aspettarlo. Era il mezzodi’, e faceva troppo caldo per fermarci in strada. cosi’ , intanto che aspettavamo Kamran, Emami, Mehrdad e io rimanemmo a sedere nel salone di Khalkhalli insieme alle sue guardie e ne approfittammo per scambiare due chiacchiere.

Parlare con Emami era uno degli obiettivi della mia trasferta: desideravo conoscere meglio i “talebeh”, gli studenti che oggigiorno si stabilivano a Qom per coltivare la propria istruzione. Emami aveva gia’ dedicato quattordici anni allo studio. Aveva cominciato in una scuola teologica di Teheran all’eta’ di sedici anni, poi si era trasferito a Qom dopo aver trovato un ayatollah disposto ad accettarlo. Adesso era sposato e aveva un bambino di due anni; il fondo che l’ayatollah gli metteva a disposizione ammontava a duemila tuman al mese, circa cinquanta dollari. Arrotondava un po’ insegnando ed eseguendo traduzioni dall’arabo, ma non era una vita semplice. Qom era una citta’ calda e polverosa; la sopportava solo Perche’ fin dalla fanciullezza aveva desiderato propagare la fede. Non era il tipico “talebeh”, ci fece notare, proveniente da una famiglia povera, in cerca di vitto e alloggio nella citta’ santa; la sua era una famiglia borghese: suo padre era un uomo d’affari.

Ma quando si sarebbe concluso tutto questo studio? Quando avrebbe affrontato il mondo? Non era cosi’ che andavano le cose, mi redargui’. Si poteva rimanere studenti anche per cinquant’anni. Khomeini era solito dire che ogni giorno imparava qualcosa. Ma quali erano le prospettive di avanzamento di un religioso? Come si faceva a emergere? Ci si poteva far notare per la cultura e la personalita’ , replico’ . Alla cultura non esisteva mai fine. E con tutti quei commentari (e i commentari dei commentari) di teologia, filosofia e giurisprudenza, con tutti quei tomi allineati nella Biblioteca Marashi, si poteva ben comprendere il ragionamento di Emami. In questo groviglio di cultura, gli audaci potevano distinguersi anche attraverso l’espressione di giudizi nuovi o interessanti. Khomeini, per esempio , aveva realizzato qualcosa di simile con la sua affermazione che il gioco degli scacchi non violava la legge, purchi’ non si scommettesse sul risultato. Un giudizio che faceva ancora discutere a Qom.

Quanto a lui, ci confesso’ Emami, non era famoso; ma gli andava bene cosi’ . Si accontentava di essere un soldato semplice della fede, un propagatore. Era quella la sua vocazione. Non era ricco, ma non gli importava. Mangiare non era cosi’ essenziale per lui. Osservai che forse stava drammatizzando un po’; non mi sembrava deperito. Anzi, aveva un fisico armonioso; ero certo che praticasse qualche sport. Sorrise, ammettendo che faceva ginnastica tutte le mattine.

Si poti’ ricavare poco altro da Emami. Aveva il chiodo fisso della vocazione, che era sufficiente a spiegare i suoi quattordici anni di studio; non era in grado di fare un passo indietro, per considerare dall’esterno la sua vita e le sue motivazioni. Il suo mondo era delineato da rigidi confini. Quello che lui considerava istruzione era in fondo solo un modo di apprendere le regole. Conoscere le regole equivaleva a semplificarsi la vita ed Emami era un uomo profondamente obbediente. Incarnava cio’ che richiedevano la fede e la rivoluzione; i giornali pubblicavano ogni giorno messaggi di quel tenore.

In attesa del ritorno di Kamran, avevamo trascorso in conversazione forse mezz’ora o quarantacinque minuti, nel salottino dell’ayatollah, sotto il suo turbante e le sue fotografie; tendevamo le orecchie per sentire se una macchina si fermava e, di tanto in tanto, uno di noi si affacciava sulla veranda a controllare. Poi rientro’ Khalkhalli, lento, abbattuto, con l’ampia sopravveste bagnata per meta’ . Mehrdad gli spiego’ di Kamran e del problema con l’automobile, e Khalkhalli ci offri’ pane e formaggio, naturalmente iraniani.

A me parve un’ottima idea: mi avrebbe fornito l’occasione di riprendere in altro modo il discorso con l’ayatollah. Ma Mehrdad mi spiego’ con una certa fermezza che l’offerta di pane e formaggio era soltanto un modo di dire, una formula di cortesia che l’ayatollah aveva usato per chiederci di andarcene.

Allora ci alzammo per congedarci. Se avessimo voluto rivederlo, ci ricordo’ Khalkhalli, avremmo dovuto prendere un appuntamento. Sarebbe stato libero il giovedi’ della settimana successiva, l’unico giorno in cui non insegnava. E stavolta saremmo dovuti arrivare in orario. Il suo volto melanconico cominciava a mostrare segni di irritazione. E avremmo dovuto prendere appunti: nessuno poteva ricordarsi tutto. Parlare senza trascrivere era una perdita di tempo; lo avevamo preso in giro. Gli assicurai che ero solito prendere appunti, ma non dal principio : non mi era sembrato che la nostra conversazione fosse arrivata ancora a quella fase. Alla settimana prossima, ripeti’, dominando la stizza; e dovevamo telefonare in anticipo. Ci diede il suo numero e indico’ la guardia che avrebbe risposto all’apparecchio.

Avevo la sensazione che se non avessimo subi’to quel ritardo e le cose fossero andate piu’ lisce, non gli sarebbe dispiaciuto parlare. Ma il momento era passato, ormai. Uscimmo sulla veranda dove avevamo lasciato le scarpe e ce ne andammo oltrepassando l’alto cancello nel muro. Attraversata la strada fino a una sottile striscia d’ombra vicino a un angolo, li’ rimanemmo ad aspettare Kamran.

Avete notato la pistola? esordi’ Mehrdad.

E’ pieno di nemici, adessa’ ribatti’ Emami.

Sono nemici fra lora’ sottolineo’ Mehrdad. I vecchi e i nuovo’ . Poi rivolto a me: Le ha domandato di Montazeri. Spero che non intenda andarlo a visitare: quella strada conduce alla morte .

La sua voce vibrava di sincero terrore. Feci il possibile per tranquillizzarlo: Ma questi uomini sono finiti, ormai. Sono vecchi. Di certo non rappresentano piu’ un pericolo per nessuno .

Di questi tempi anche i morti sono un pericola’ ribadi’. Allora, mentre aspettavamo di fronte alla casa di Khalkhalli, mi resi conto che anche se fossi ritornato il giovedi’ seguente (ammesso che tutti ci fossimo ricordati dell’appuntamento), ci sarebbe stato ben poco da aggiungere a quanto avevo gia’ visto quel giorno: il giustiziere della rivoluzione ormai vecchio, malato e apprensivo, sottoposto a ogni genere di controlli, seduto sotto le sue fotografie che erano piu’ minacciose e rivelatrici di quanto lui stesso non immaginasse, e circondato da guardie armate, una delle quali indossava la divisa verde scuro del primo “komiteh” con l’aria di portare un abito vecchio.

Neanche nel 1979 erano mancate le guardie. Ricordavo ancora con chiarezza - da quel tardo pomeriggio di agosto, circondati dal tramonto del deserto - il massiccio uomo armato che ci aveva accolti al basso cancello della casa trovata quasi per caso nella via in costruzione; ricordavo le sue mani pesanti mentre mi perquisiva e la sua espressione chiusa, vacua, esaltata. La rivoluzione apparteneva ancora a tutta la nazione e quel rituale di guardie e perquisizioni era piu’ una messinscena che altro: si giocava a fingere che la rivoluzione fosse in pericolo e questo faceva parte dell’eccitazione e del trionfo di quei primi giorni. Adesso invece - anche se facevano parte del suo isolamento - Khalkhalli non poteva privarsi dell’alto muro di cinta e dell’uomo con la pistola.

Mehrdad dichiaro’ all’improvviso: E’ stato molto gentile da parte sua dirci di essere stanco. Di solito gli iraniani non lo fanno, non parlano mai cosi’ apertamente. E’ vecchio, ma molto sveglio .

 

Il tempo passava, nell’ombra vicino all’angolo. Mehrdad propose di camminare fino a una fermata di taxi, sbrigare le nostre faccende con Emami e dare appuntamento a Kamran per le quattro e mezzo presso uno dei ponti piu’ conosciuti di Qom. Potevamo fargli pervenire il messaggio attraverso i sorveglianti di Khalkhalli. Suonammo di nuovo il citofono e il guardiano che usci’, l’uomo grosso con i baffi, non parve affatto seccato del nuovo disturbo.

Ci mettemmo in marcia nel bianco accecante delle strade, con Emami che ci guidava e allo stesso tempo ci arringava sui mali che affliggevano i corsi di filosofia a Qom: troppa dottrina stantia, pochi riferimenti contemporanei, troppi Alfarabi e Avicenna - un nome magico, per me: suonava strano, pronunciato in maniera cosi’ casuale - che avevano derivato le loro concezioni, fin troppo spesso sbagliate, da pensatori antichi come Tolomeo o Aristotele. Queste critiche su Qom erano diffuse e approvate; per quanto si ritenesse un uomo moderno e adottasse un abbigliamento disinvolto, Emami non era un ribelle.

Dopo alcuni minuti di cammino, in una visione quasi surreale, si profilo’ la macchina di Kamran che si dirigeva verso di noi lungo la strada bianca e deserta. Aveva avuto la sua dose di grane con l’accensione: era passato di officina in officina e quindi di autoricambi in autoricambi, per trovare il pezzo che serviva.

Ora che non eravamo piu’ a piedi, Emami insistette per invitarci tutti a pranzo a casa sua. Mehrdad accetto’ e ci fermammo in due o tre negozi lungo le strade polverose per comprare frutta e altro per il pranzo; l’aria era calda e immobile. A Qom si raccoglievano venticinquemila studenti, ci spiego’ Emami, indicandoci il grande ostello per gli stranieri; erano per lo piu’ indiani, pakistani e africani, con qualche raro europeo. Non mancava una nutrita rappresentanza araba. Dopo un po’, quasi a volersi giustificare per la polvere nelle strade, sbotto’ che gli arabi sporcavano la citta’ . Il suo tono era del tutto naturale, privo di cattiveria, come se affermasse una verita’ ovvia e riconosciuta: mi colpiva sempre, e ogni volta in modo nuovo, questo disagio degli iraniani nei confronti degli arabi, loro antichi conquistatori nonchi’ fonte della loro religione.

Superammo la casa di Khomeini, quella in cui aveva vissuto quando insegnava a Qom. Si trovava all’angolo di una strada molto trafficata, con un vigile a dirigere il caos: di sicuro era piu’ silenziosa quando vi abitava Khomeini. La casa era bassa, senza pretese, color polvere; il muro che dava sulla strada la copriva in parte alla vista. Ma come accadeva spesso nelle abitazioni iraniane, quella recinzione bianca e anonima nascondeva di certo un giardino al suo interno, con deliziosi giochi di luce e ombra, protetto dal chiasso e dal bagliore della via.

Emami viveva proprio ai margini della citta’ in espansione, in un nuovo insediamento che sembrava fosse stato posato cosi’ com’era in mezzo alla polvere del deserto. Le strade non esistevano ancora. Fummo sballottati per qualche tempo fra detriti e pezzi di mattoni e io cominciavo a preoccuparmi per la macchina appena riparata di Kamran, quando finalmente ci fermammo. Uno o due brandelli di plastica per terra, un pacchetto di qualcosa incastrato in un mezzo mattone davano gia’ un senso di incuria urbana. Ma oltre la porta disadorna della casa di Emami, si apriva anche qui un piccolo giardino ombroso e ordinato, cosi’ diverso dalle strade in costruzione; pochi scalini conducevano alle due stanze che teneva in affitto e che da quattro anni chiamava casa.

La stanza anteriore in cemento era praticamente vuota, fatta eccezione per alcuni scaffali di libri su una parete. Emami dovette ricorrere a un vicino per procurarsi una sedia da porgermi. La nudita’ della stanza - che attestava non tanto la poverta’ , quanto l’austerita’ che caratterizzava lo studente di teologia, il cui unico interesse era la propagazione della fede - colpi’ Mehrdad a tal punto da fargli prendere un appunto sul suo taccuino. Sugli scaffali erano allineate diverse serie di volumi di filosofia, teologia e giurisprudenza, fra i quali spiccavano (nella loro bella rilegatura color crema e verde) i cinque tomi della fondamentale opera legale di Khomeini su tutti gli aspetti della compravendita, di cui avevo ignorato l’esistenza fino a quel momento. I testi di filosofia comprendevano una traduzione iraniana dei “Problemi della filosofia” di Bertrand Russell (sulla quale gli eredi, pero’ , non percepivano un soldo di diritti, giacchi’ l’Iran non aderiva alla convenzione internazionale sul copyright). Rispondendo a una mia domanda, Emami mi spiego’ che i libri usati dagli studenti come lui venivano pubblicati da varie fondazioni e i prezzi erano abbordabili. Ma la sua biblioteca finiva comunque per assorbire una parte cospicua dello stipendio mensile che riceveva dal suo ayatollah.

Adesso che era il nostro anfitrione nella sua casa, Emami era piu’ affabile e cortese. Il bambino di due anni di cui ci aveva parlato stava dormendo; altrimenti, ci assicuro’ , sarebbe stato gia’ con noi. Era sollecito ma discreto nell’occuparsi di Mehrdad, Kamran e me e nel dare disposizioni alla moglie, nascosta da qualche parte nella stanza posteriore a preparare le uova fritte e il pomodoro che lui e Mehrdad avevano deciso come portata principale, accompagnati da pane iraniano e formaggio bianco (di importazione danese, ma dichiarato “halal”) per me.

Presa una tela cerata, la stese sul pavimento. Mehrdad lo define’ un oggetto sacro, quel telo, Perche’ ci era avvolto del pane. Doveva essere tenuto pulito e in un luogo alto. Poi Emami comincio’ a disporre i piatti e altre cose, fermandosi di tanto in tanto a chiacchierare con noi, seduto sulle ginocchia e sui talloni; i pantaloni gli si stringevano sulle cosce muscolose e la camicia argentea delineava le sue spalle atletiche e il ventre piatto. Era appagato, ribadi’ mentre cominciavamo a mangiare; faceva quello che aveva sempre voluto fare: diffondere la fede.

Gli chiesi se fosse a conoscenza, visto che se ne parlava, che i giovani perdevano la fede. Non era un segreto, annui’. I nemici conoscono la nostra debolezze’.

Ci interruppe un leggero bussare alla porta, come di qualcuno che non volesse creare troppo disturbo. Questa volta non era per il cibo proveniente dall’invisibile moglie di Emami, ma suo figlio, riposato e tranquillo, ancora un po’ stordito dal lungo sonno che gli si leggeva sulla faccia.

Un cocomero concluse il pasto dopo le uova e i pomodori. Chiesi a Emami chi fossero i nemici cui aveva accennato poc’anzi. Le nazioni occidentali, mi rispose con la stessa affabilita’ con cui aveva detto ogni altra cosa: l’Occidente voleva spazzare via l’Islam.

Il pranzo era finito. I piatti tornarono in cucina, ed Emami ripiego’ con cura la tela cerata, facendo combaciare gli orli due volte prima di portarla fuori. Quindi restitui’ il bambino alla moglie e, senza altre distrazioni, si getto’ in una discussione con Kamran. Parlavano della guerra. Emami racconto’ di aver fatto propaganda islamica al fronte, durante l’ultimo anno del conflitto. Spesso? Ci era andato quattro volte; due o tre mesi di permanenza in tutto. Aveva tenuto delle conferenze. Kamran gli chiese se il contributo dei religiosi si esaurisse li’ , in quelle conferenze. No, ribatti’ Emami, conosceva dei religiosi che avevano anche combattuto, ma non lui: la guerra era stata per lui un’esperienza spirituale.

Era appagato, ma sapeva di non aver fatto abbastanza. La sua abitazione era lontana dalle scuole e gli spostamenti e i lavori domestici portavano via gran parte del suo tempo. Ma da quando aveva preso una bicicletta, la situazione era migliorata di molto.

 

Dopo pranzo, Emami ci propose di visitare una scuola teologica. Non avevamo nessuno da salutare - sua moglie era rimasta invisibile e il bambino era stato portato via -, quindi uscimmo senza cerimonie nel piccolo giardino e, quasi all’istante, ci trovammo nell’abbagliante strada sgretolata del deserto. Saliti in macchina, tornammo in citta’ , diretti alla scuola che aveva prescelto Emami. Ma il preside non era in sede e la guardia all’ingresso non ci poteva concedere il permesso di curiosare. Allora Emami indico’ a Kamran un’altra scuola, una moderna costruzione di mattoni gialli che si affacciava su un ampio viale costeggiato da alberi e da un piccolo canale. Alcuni studenti erano appena arrivati per una lezione, in un turbinio di vesti, tuniche e turbanti nel cortile al di la’ del corso d’acqua. Altri sopraggiungevano su delle motorette. Avevano un aspetto pulito, sano e - non potrei usare un’altra parola - prospero. Emami torno’ a riferirci che aveva parlato con il direttore: potevamo fare un giro.

Ci togliemmo le scarpe all’ingresso e le depositammo in una scarpiera simile a una colombaia, prima di salire al piano superiore per una scala ricoperta con la moquette. Insieme a noi sciamava un flusso continuo di studenti: alcuni si fermavano a bere un sorso d’acqua al distributore automatico prima di levarsi le scarpe. Diventarono presto una piccola folla; nessuno parlava, alcuni avevano l’aria ansiosa. Mentre in calzini si incolonnavano su per l’ampia scalinata moquettata, si udiva solo il fruscio delle loro vesti. Nell’atrio tappezzato alla sommita’ della scala, una quantita’ di studenti che non avevano superato una determinata materia erano seduti in terra a ripetere l’esame. C’era un elemento punitivo e di pubblica umiliazione nel dover riscrivere il compito davanti a tutti. Gli studenti non avevano tavoli o scrittoi e alcuni lavoravano in posizioni incredibili: seduti a gambe incrociate con il corpo tanto proteso in avanti che tutto il torso sembrava allungato.

Il preside era un uomo anziano e gentile, solenne con il suo turbante e la barba tinta; una figura d’antica saggezza. Ci presento’ nel suo piccolo ufficio a tre professori, seduti l’uno accanto all’altro in maniera formale. Uno insegnava cristianesimo (e parlava inglese), un altro sette islamiche, e il terzo teologia islamica. Mehrdad osservo’ che teologie’ non era una traduzione adeguata del termine arabo; ne segui’ una piccola disputa fra lui e i tre professori, seguita dal preside con occhio benevolo. Quella disciplina, secondo Mehrdad, era sostanzialmente un’analisi delle tradizioni legate al Profeta: vecchie dottrine che, cristallizzatesi nel corso dei secoli e negli innumerevoli commentari, si potevano o non si potevano considerare tradizione pura; fondamentali, Perche’ servivano da base per emanare o contestare leggi.

Il preside ci mostro’ quindi l’ala piu’ recente del suo collegio, ricca e sontuosa. Nelle aule, le sedie e i banchi erano nuovi e robusti. Nella biblioteca spiccavano interminabili file e serie di volumi freschi d’acquisto, con qualche studente seduto qui e li’ per terra accanto agli scaffali.

Il piano inferiore era riservato a quelle che il preside chiamava ricerche specialo’ : uno studioso e una ricerca per stanza. Ma dopo aver visitato una per una tutte le sale delle lezioni, non me la sentivo di affrontare anche quelle delle ricerche speciali. Lo feci presente a Mehrdad, ma lui deve avere ammorbidito il mio tono nella traduzione, Perche’ il preside non si scompose.

Spalanco’ deciso la prima porta del corridoio, sorprendendo il ricercatore che dormiva o riposava sul pavimento, con una coperta e un cuscino. C’erano libri e fogli di carta dappertutto, per terra, sul tavolo, sugli scaffali. Il preside ci presento’ l’uomo come uno storico di grande reputazione (e qualcuno con cui parlai in seguito, a Teheran, me lo confermo’ ): il povero studioso, imbarazzatissimo, afferrato il suo zucchetto bianco, se lo calco’ in testa. Era un uomo di mezza eta’ , forse anche piu’ anziano. Alzatosi con goffa sollecitudine, si avvolse nella sua coperta marrone e ci venne incontro camminando un po’ curvo. Era di bell’aspetto per la sua eta’ , con una pelle liscia leggermente olivastra. Stringeva la coperta intorno alla vita come le donne per strada reggevano il chador sotto il mento.

Il preside ci riferi’ che lo storico stava lavorando a un libro intitolato “La storia politica del mondo”.

Ripresosi in fretta dalla sorpresa, lo studioso mi chiese: Conosce qualche libro su Gandhi e i musulmani? .

Non ne conoscevo, ma per incoraggiarlo commentai: E’ un argomento interessante. L’uomo che per primo ha invitato Gandhi in Sudafrica, verso il 1890, era un mercante indiano musulmano. Quindi si potrebbe affermare che e’ stato lui ad avviare la sua carriera politice’.

Lo storico non mi presto’ attenzione. Mi spedisca il libra’ taglio’ corto indietreggiando di due passi fino a una pila di volumi, dalla quale estrasse un foglietto di carta. Tenga. Questi sono il mio nome e il mio indirizzo. Mi spedisca il libro .

Gli suggerii di chiedere informazioni e consigli all’ambasciata indiana di Teheran.

Sembrava di nuovo che non mi ascoltasse. Riavvicinatosi alla porta, mi esorto’ : Lo consideri un ricordo, un dono. Sa, sto compiendo vaste ricerche sul sionismo per la mia storia del mondo, e sono sempre piu’ convinto che, dopo aver fatto degli Stati Uniti il loro primo idolo o falso dio, i sionisti sono sul punto di trasformare l’India nel loro secondo idolo. Non so se ne e’ al corrente, ma la corona d’India e’ stata donata alla Gran Bretagna da un ebreo, Disraeli. Questo fatto non e’ risaputo come meriterebbe. La sciabola degli inglesi in India e’ stata affilata dagli ebrei e ho un sincero timore che torneranno ancora a ferirla: i sionisti uccideranno Gandhi un’altra volta e cacceranno di nuovo il suo pensiero in esilio .

Mehrdad interruppe la sua traduzione: Gandhi e’ stato esiliato? .

Forse intendeva in maniera simbolice’ ipotizzai.

Lo storico, che si era fatto educatamente indietro durante questo scambio fra Mehrdad e me, aggiustandosi la coperta e lo zucchetto, avanzo’ di nuovo quando finimmo, con l’aria di esser pronto a continuare. Ma con grande sollievo del preside (evidente, per quanto dissimulato), decidemmo di congedarci e lasciare lo studioso al suo riposo.

 

Ci dirigemmo al santuario di Hazrat Masumeh. Kamran, a dispetto del suo cinismo verso le cose in generale, comincio’ a borbottare di non aver depositato alcuna offerta nelle cassette per le elemosine quella mattina, all’inizio del viaggio, come avrebbe dovuto; per questo gli erano capitati tutti quei guai con l’accensione e aveva finito per girare di officina in officina. Allora rimedio’ , con ostentazione teatrale, infilando una banconota ripiegata in una cassetta per le elemosine fuori del santuario. Ma quasi temendo che non fosse abbastanza, una volta all’interno del tempio si allontano’ da noi e ando’ alla tomba, a pregare per un ritorno senza incidenti.

In quel frattempo un uomo tiro’ Mehrdad da parte e gli chiese di me (saranno stati forse i miei occhiali scuri ad attirare la sua attenzione, o il mio cappello di feltro da repubblica delle banane). E’ un musulmano? domando’ . Mehrdad, per evitare guai, rispose di se’, e l’uomo parve soddisfatto. Ma in effetti correvamo dei rischi: il santuario era tecnicamente una moschea e i non musulmani non erano ammessi nemmeno nel cortile. Nessuno ci aveva rivolto una domanda simile nel 1979; Behzad, la mia guida e interprete di allora, mi aveva condotto dappertutto senza fastidi. Dopo questo episodio mi sentii a disagio nel cortile: giravano numerosi Guardiani della Rivoluzione e non volevo essere fermato.

Non rimanemmo a lungo. Kamran, finite le sue preghiere, ritorno’ dalla tomba illuminata con un’espressione seria e contrita sul volto. Partimmo per Teheran con il sole che calava rosso e rotondo dietro le colline salmastre. Quando eravamo ormai piu’ vicini a Teheran che a Qom, Kamran prese a parlare di Emami e dei suoi viaggi al fronte. Lora’ diceva, intendendo i preti non hanno mai capito il vero significato della guerra. Ammettiamo che Emami sia andato sei volte al fronte. Sono due giorni per andare e due per tornare: cosi’ fanno in tutto ventiquattro giorni di viaggio. Il resto del tempo, lo avra’ passato a preparare la gente a combattere. Avra’ tenuto discorsi. Non avra’ fatto nient’altro che il suo lavoro . Man mano che ci avvicinavamo a Teheran, cresceva l’irriverenza di Kamran nei confronti di Emami: Non se la passa mica male, in quel suo appartamento di Qom, nonostante le lagne. Almeno vive per conto suo. Io sto ancora con i miei genitoro’ .

Poco piu’ tardi, con le luci del tempio di Khomeini che cominciavano a brillare in lontananza, sollevo’ la questione del pagamento per la giornata. Credevo che Mehrdad avesse concordato la cosa in anticipo, ma adesso mi diceva di non averlo fatto. Queste cose e’ meglio risolverle in modo amichevole auspico’ in inglese.

Mehrdad gli disse qualcosa in iraniano. Kamran non rispose; invece accese la luce dell’abitacolo, si arrotolo’ la manica sinistra e sollevo’ l’avambraccio per mostrarci la cicatrice lunga e seghettata lasciata da uno shrapnel.

Mehrdad mi ripeti’ in inglese: Dobbiamo risolverla in modo amichevole .

Eseguimmo qualche calcolo, valutando sia i chilometri fatti sia le ore trascorse, sommando insieme le due cifre e quindi togliendo qualcosa dalla somma decisamente considerevole che ne era risultata. Per un po’, con le luci del tempio di Khomeini ormai alle nostre spalle, Mehrdad non preciso’ la cifra, per tenere Kamran in sospeso. Quando le luci di Teheran cominciarono ad apparire all’orizzonte, gli presento’ finalmente la nostra offerta e lui l’accetto’ senza indugio. Contai le banconote, le infilai in una busta e Mehrdad gliela porse. Kamran la prese e la mise nel cruscotto: non si parlo’ piu’ di soldi.