5.

IL PENITENTE.

 

Fra i pakistani che parlano inglese, i fondamentalisti erano soprannominati “fundos” ed erano ormai una presenza che, ancora dietro le quinte, premeva con forza crescente ed esigeva sempre di piu’ .

Il subcontinente indiano era stato sanguinosamente diviso per creare lo Stato del Pakistan. Milioni di persone erano morte, e molte altre erano state sradicate, da un lato e dall’altro delle nuove frontiere. piu’ di cento milioni di musulmani erano rimasti dalla parte indiana, ma praticamente tutti gli indo e i sikh erano stati cacciati dal Pakistan per dare vita all’entita’ politica interamente musulmana dell’astratto sogno poetico di Iqbal.

Cio’ avrebbe dovuto essere sufficiente. Ma i fondamentalisti volevano di piu’ . Non bastava che questa grande fetta dell’antica terra avesse cessato, dopo millenni, di essere India e, come l’Iran, come i paesi arabi, fosse stata infine purgata delle religioni preesistenti. Ora gli abitanti stessi dovevano essere purgati del passato, di tutto cio’ che negli abiti, negli atteggiamenti, nella cultura generale potesse collegarli alla loro patria ancestrale. I fondamentalisti volevano che tutti fossero puri e trasparenti, semplici recipienti vuoti in cui travasare la fede. Era impossibile: gli esseri umani non possono mai essere una tabula rasa. Ma i vari gruppi fondamentalisti si proponevano a modello di bonta’ e purezza. Si presentavano come veri credenti. Affermavano di seguire le regole antiche (soprattutto quelle riguardanti le donne); chiedevano agli altri di essere come loro e, dal momento che non c’era una concordanza assoluta sulle regole, di seguire le norme che loro seguivano.

Il piu’ importante dei gruppi fondamentalisti era la Jama’at-i-Islami, l’Assemblea dell’Islam, fondata da un insegnante e propagandista religioso, Maulana Maudoodi. Prima della divisione del paese, questi si era opposto all’idea del Pakistan per strane ragioni. Quando nel 1930 il poeta Iqbal aveva sostenuto la causa di uno Stato musulmano indiano separato, aveva asserito che tale Stato avrebbe sbarazzato l’Islam indiano da quella impronta che l’imperialismo arabo aveva dovuto conferirglo’ . Le aspirazioni di Maudoodi erano esattamente l’opposto. Pensava che uno Stato musulmano indiano sarebbe stato troppo limitato e avrebbe fatto ritenere che l’Islam avesse concluso il suo compito in India, mentre auspicava che l’Islam convertisse e abbracciasse l’India intera e conquistasse il mondo. Iqbal aveva affermato che una ragione importante per la creazione del Pakistan era che, come forza di aggregazione popolare , l’Islam era stato piu’ efficace in India che in altri paesi. Maudoodi non era d’accordo: a suo avviso, i musulmani del subcontinente e i loro esponenti politici non erano all’altezza di conseguire un obiettivo tanto prezioso quanto uno Stato integralmente islamico. La loro fede non era sufficientemente pura, era troppo contaminata dal passato indiano.

Maudoodi mori’ nel 1979. Ma la Jama’at persisteva nella convinzione che il popolo pakistano e i suoi governanti non fossero all’altezza. Se lo Stato islamico di Iqbal aveva avuto le sue disgrazie, non era colpa dell’Islam, ma di coloro che si definivano musulmani. Secondo il modo di pensare fondamentalista, questo tipo di fallimento si rivelava automaticamente per quello che era: il fallimento di un Islam falso o poco sentito. E la Jama’at poteva sempre sostenere, in un perenne rinnovarsi della causa, che dai tempi antichi l’Islam non era mai stato veramente realizzato e che era giunto il momento di farlo. La Jama’at avrebbe mostrato la via.

La sede centrale e la comunita’ della Jama’at erano situate su un terreno di undici ettari a Mansoura, alla periferia di Lahore, sulla strada per Multan. Fra i residenti della comunita’ c’erano alcuni penitenti, che espiavano peccati di varia natura.

Uno dei penitenti era Muhamad Akram Ranjha, di cinquantotto anni. benche’ fosse penitente e devoto, non era un solitario. Viveva a Mansoura in una casa in affitto con la sua famiglia piuttosto numerosa. Proveniva da un ambiente feudale arretrato. Suo padre era un uomo ricco, proprietario di circa duecento ettari di terra, che aveva avuto una certa influenza politica persino al tempo degli inglesi. Ma da bambino Muhamad Akram non aveva ricevuto un’istruzione formale, e c’era un motivo: quand’era molto piccolo era stato colpito dalla febbre tifoide e suo padre aveva fatto il voto che, se fosse guarito, non avrebbe mai frequentato una scuola laica, ma sarebbe stato educato ai princi’pi del Corano. Il bambino guari’, ma il padre dimentico’ meta’ del voto e Muhamad Akram crebbe (pur ricevendo l’educazione religiosa di base da un mullah) come se appartenesse a una famiglia di feudatari analfabeti. Passava il tempo andando a cavallo, montando tende, giocando a polo, facendo scommesse, cacciando col falco e partecipando alle feste locali.

A ventitri’ anni fu coinvolto in una grave disputa familiare che riguardava una donna e la terra. La donna era sua cugina. Aveva studiato, anzi era stata la prima donna della famiglia a laurearsi. Quando le mori’ il padre, eredito’ oltre duecento ettari di terra. Aveva ventitri’ anni. Suo zio, il fratello del padre, un uomo all’antica, voleva che vivesse nel “parda” e sposasse suo figlio, che aveva otto anni. Lei non era affatto d’accordo: aveva studiato a Lahore, al Queen Mary College, una famosa scuola mista gestita da cristiani, ed era abituata alla liberta’ . Inoltre, era innamorata di suo cugino, il fratello di Muhamad Akram, che aveva ventisei anni, era straordinariamente bello e parlava bene. Lui era gia’ sposato e aveva due figli, ma fuggirono insieme e lei divenne la sua seconda moglie.

Lo zio (quello col figlio di otto anni) si infurio’ . Minaccio’ di annientare il ramo della famiglia di Muhamad Akram. Queste erano le usanze feudali del posto e, a livello locale, lo zio era un uomo potente. Muhamad Akram ando’ da lui a implorare perdono. Ti prego, non ucciderci. Ti prometto che scopriremo dove sono andati mio fratello e la ragazza, e te la riporteremo .

Muhamad Akram trovo’ la coppia di fuggitivi a Karachi e li convinse a tornare a Lahore. Quando furono li’ , lui e altri tre o quattro uomini della famiglia rapirono la donna sotto la minaccia delle armi. Il marito della donna, il fratello di Muhamad Akram, non si lascio’ intimorire. Ando’ al commissariato e sporse denuncia contro i rapitori. Questa dimostrazione di coraggio da parte del marito, il fatto di ricorrere alla legge in un rozzo conflitto feudale per la terra e l’onore, dovette coglierli di sorpresa. E fu a questo punto (forse per risolvere la questione della terra unita a quella dell’onore, prima che la polizia facesse il suo dovere) che spararono alla donna rapita uccidendola. Non fu mai appurato chi avesse effettivamente commesso l’omicidio.

Tutti i rapitori furono arrestati e processati. La legge fece rapidamente il suo corso (cio’ accadeva nel 1960, durante il governo del generale Ayub) e, meno di due mesi dopo l’omicidio, tutti e cinque i rapitori furono incarcerati. Muhamad Akram fu condannato a quattordici anni, praticamente una vita.

Fu mandato nella prigione della citta’ di Multan e qui gli diedero la possibilita’ di scegliere il compagno di cella: o un famoso delinquente di Lahore della tribo dei gujjar (col rischio, anche se non lo dissero, di essere molestato sessualmente), o il segretario generale della Jama’at-i-Islami, che scontava una condanna come prigioniero politico. Muhamad Akram scelse l’uomo della Jama’at.

I due uomini si parlarono. In capo a pochi mesi, Muhamad Akram subi’ un mutamento profondo. Comincio’ a leggere gli scritti di Maulana Maudoodi. Capi’ l’ingiustizia e la vacuita’ dei costumi feudali da lui praticati. La sua conversione in carcere alla causa della Jama’at divenne nota. Ben presto comincio’ a studiare. Si iscrisse all’universita’ e consegui’ la laurea: il giovane feudatario non aveva intenzione di smettere. La storia della sua riabilitazione divenne leggendaria. La condanna gli fu ridotta da quattordici a sei anni e proprio il giorno del rilascio arrivo’ con la posta la laurea in letteratura urdu.

Raccontando la storia della conversione paterna (che aveva piu’ spazio nella narrazione della stessa tragedia della ragazza uccisa), il figlio di Muhamad Akram disse: E’ entrato in prigione feudatario e ne e’ uscito rivoluzionario islamico .

 

Passarono dodici anni, pero’ , prima che Muhamad Akram si trasferisse nella comunita’ della Jama’at a Mansoura. Prima si iscrisse alla facolta’ di Legge, con l’aiuto del celebre avvocato che lo aveva difeso al processo nel 1960.

(Avevo conosciuto questo avvocato a Karachi nel 1979. Era ormai molto ricco, piuttosto fissato con la religione e vanesio; inoltre coltivava ambizioni politiche. Era un periodo di grande fervore religioso: Bhutto era stato deposto e impiccato, i furgoni per le fustigazioni islamiche venivano spediti a punire i malvagi - e la gente correva ad assistere - e ogni attivita’ si fermava per le preghiere. L’avvocato pensava dunque che fosse importante ostentare la propria devozione. Per tutto il tempo che restai con lui continuo’ a biascicare le preghiere e a far schioccare i grani del rosario. Io non reagii. Immagino che, secondo lei, dovrei vivere in un monastera’ disse. Non avevo intenzione di incoraggiarlo. Non e’ quello che pensa’ risposi. Fece schioccare il rosario, biascico’ qualcosa, torno’ a far schioccare ripetutamente il rosario, poi, facendo scivolare la sua devozione uno o due grani piu’ in su, dichiaro’ : Sono ebbro di Dio ).

Quest’uomo non solo aiuto’ Muhamad Akram a entrare alla facolta’ di Legge, ma divenne anche il suo consigliere spirituale ufficioso. Fu cosi’ che, quando Muhamad Akram apri’ il suo studio legale nella regione nativa di Sargodha, comincio’ anche la militanza politica nelle file della Jama’at. Fu una svolta rispetto al passato: i feudatari avevano sempre sostenuto coloro che erano al potere.

Ma il passato non era sepolto. Qui le faide non si estinguevano mai completamente. Nel 1975 furono regolati i conti col fratello di Muhamad Akram, che quindici anni prima aveva sporto denuncia contro i rapitori della moglie e li aveva fatti finire tutti in prigione. Questo fratello, che aveva solo quarantun anni, fu ucciso da ignoti. Quattro anni dopo Muhamad Akram si trasferi’ nella comunita’ della Jama’at a Mansoura; due anni piu’ tardi fece trasferire li’ il figlio e l’anno successivo, il 1982, il resto della famiglia. Quell’anno il figlio del fratello di Muhamad Akram, che era stato assassinato, uccise qualcuno della fazione opposta; e per ragioni che non chiari’, Muhamad Akram lascio’ la politica.

Per tutti loro Mansoura significava adesso sicurezza, devozione, penitenza e sostegno alla causa della Jama’at. Era diventato il loro mondo.

Nella famiglia di Muhamad Akram non si parlava mai dell’omicidio originario. Saleem, l’unico figlio maschio, concepito nell’anno dell’omicidio e nato durante il primo anno di carcerazione del padre nella prigione di Multan, disse: Non abbiamo il coraggio di parlarne con mio padre .

 

Saleem aveva ora trentaquattro anni e aveva acquistato una certa importanza come dirigente delle dogane. Per lui, il dramma (la conversione e il pentimento del padre, i suoi studi in carcere) aveva segnato l’inizio dell’evoluzione intellettuale della famiglia. Un sabato, dopo il lavoro (adesso il venerdi’ era festivo, a commemorazione settimanale del defunto Ali’ Bhutto, e sabato il primo giorno lavorativo della settimana), mi accompagno’ a Mansoura. Era un uomo alto, con una giacca leggera di tweed (per l’inverno di Lahore) e la cravatta; da alcune cose che disse intuii che si aspettava di vedermi sorpreso del fatto che un uomo di Mansoura indossasse quegli abiti moderno’ . Arrivo’ con la macchina dell’ufficio guidata dall’autista e sul sedile posteriore c’erano The Economist e altre riviste serie.

Feci l’errore di non accettare l’offerta di attivare l’aria condizionata. Era l’inizio della serata e avevo paura di prendere un’infreddatura. Ma era anche l’ora di punta. Quando finalmente arrivammo a Mansoura, fermandoci e ripartendo in continuazione ai semafori lungo la strada principale immersa in una nube di polvere e smog marrone, ero mezzo soffocato.

Avevo sentito parlare molto di Mansoura e della sua atmosfera da fortezza, e mi ero aspettato un posto piu’ inaccessibile. Invece era proprio li’ , vicino alla strada principale, in mezzo alla calura, allo smog e alla polvere, segnalata da tubi al neon; e all’entrata, sulla sinistra, come a dimostrare subito chi erano, i fedeli erano intenti alle preghiere serali nella moschea della Jama’at, sotto una specie di reticolato, o intelaiatura aperta, che forse veniva utilizzato come copertura quando c’era troppo sole o quando piu’ veva.

Con fretta improvvisa Saleem si tolse la cravatta, getto’ la giacca sul sedile della macchina e ando’ a unirsi alle preghiere, dopo aver detto all’autista di spostare un po’ indietro la macchina Perche’ potessi vedere meglio. Un bambino con addosso una “shalwar qamiz” in miniatura pregava con particolare energia, inchinandosi e rialzandosi sulle giunture flessibili.

Era quasi buio quando le preghiere terminarono. Saleem mi porto’ allora a fare un giro. C’era un tabellone con la mappa della comunita’ , sulla quale ciascuna delle case era contrassegnata da un numero, e una lista sulla destra riportava i nomi degli occupanti. Quel tipo di ordine era insolito in Pakistan, disse Saleem; intuii che era un altro aspetto di quella modernita’ della Jama’at di cui la gente parlava paventando il peggio.

Allontanandoci dalle luci della moschea, camminammo lungo stradine accidentate e arrivammo al famoso ospedale. Era stato costruito al tempo della guerra in Afghanistan e se ne parlava con grande riverenza, ma la sala d’attesa, o divisione traumatologica o pronto soccorso, che Saleem mi mostro’ , aprendo una porta malconcia in un vicolo buio, era scarsamente illuminata e vuota. Appariva rifinita alla buona e sembrava che fosse gia’ scivolata in una specie di disordine pakistano. La biblioteca e il centro di ricerca con i suoi moderni computer erano chiusi fino al mattino successivo, ma il negozio di videocassette era aperto. Vendeva in confezione i discorsi di Maulana Maudoodi e diverse cassette sul Kashmir, di cui una in inglese intitolata “Crush India”. Saleem comincio’ a comprare come se si trovasse in un negozio di giocattoli, forse regali per gli amici, indicando ora una cassetta, ora l’altra, e alla fine l’uomo del negozio mise quelle che Saleem aveva comprato in una piccola busta moderna di plastica bianca.

Arrivammo alla casa in cui abitava. Apparteneva a un membro della Jama’at e Muhamad Akram l’aveva in affitto. Era una casa stretta su due piani e Saleem disse che c’erano due stanze dove avremmo potuto parlare: la sala da pranzo o il suo studio. Lo studio, al piano superiore, non aveva mobili, ma solo tappeti e cuscini.

Avevo bisogno di un tavolo sul quale scrivere, cosi’ pensai che forse potevamo dare un’occhiata alla sala da pranzo. Era sull’altro lato di un atrio aperto, o vano delle scale, molto angusto e ingombro di cose. C’erano sacchi di riso ammucchiati, uno dei quali si era rotto o era stato aperto, e i chicchi dorati si erano in parte sparsi sul pavimento di cemento. Il riso veniva dalla fattorie’, disse Saleem; dunque a Sargodha la famiglia lavorava ancora la terra.. La sala da pranzo era stretta e poco profonda. I mobili soffocavano lo spazio e la luce al neon pareva premere sulla mia fronte, proprio sopra gli occhi. C’erano in tutto venti grandi sedie a braccioli intagliate, un insieme abbinato, nello stile rustico feudale (o anche nello stile borghese indonesiano). Erano tutte addossate alla parete, dodici nella vera e propria zona salotto, disposte sei da un lato e sei dall’altro intorno a tavoli bassi e larghi, mentre le altre otto, tanto vicine che quasi si toccavano, erano sistemate tutt’intorno al tavolo da pranzo.

Giudicando forse dal modo in cui erano disposte le sedie Saleem disse che aspettavano ospiti. E cosi’ , oltrepassando i sacchi di riso, e con una fugace visione della servito nel retro della casa (quelle ombre esili e sbiadite che si incontrano in ogni casa pakistana e persino qui alla Jama’at), salimmo le scale ripide e strette che portavano allo studio e insieme biblioteca.

Era una stanza molto piccola, piu’ o meno una dozzina di metri quadrati, col soffitto alto circa due metri e mezzo, o almeno questa era l’impressione che dava. L’aria era calda e polverosa; la stanza era ermeticamente chiusa. C’erano tappeti e cuscini, come aveva detto Saleem, e scaffali alle pareti. Meta’ della parete di fronte alla porta era occupata da quelle serie di testi islamici con le rilegature ornate che avevo imparato a riconoscere a Qom. Altri scaffali erano piu’ informali. Ma ben presto smisi di guardare i libri. Cominciavo a soffocare in quell’aria chiusa e viziata. Stavo per sentirmi male. Sul pavimento era poggiato quello che pareva un pouf o uno sgabello e invece era un depuratore; fu acceso, ma ci sarebbe voluto del tempo prima che se ne sentisse l’effetto.

Chiesi se si poteva aprire una finestra. Saleem chiamo’ il domestico che stava portando su una delle grandi sedie della sala da pranzo per me, procedendo cauto gradino dopo gradino lungo le scale strette dietro il suo carico ingombrante. Arrivato nella stanza, il domestico mise gio la sedia e provo’ a spingere la finestra. Era una finestra scorrevole con l’intelaiatura di metallo e sembrava bloccata. Saleem tocco’ con una mano, o forse un dito, il fermo della finestra, mentre il domestico continuava a spingere, e finalmente la finestra si apri’. Dietro c’era una zanzariera e nessuna vista. Dalla strada per Multan giungeva il rumore del traffico. Fuori l’aria era granulosa e quasi altrettanto calda. Il domestico trascino’ la sedia vicino alla finestra aperta e per un po’ restai seduto li’ , inspirando profondamente, un po’ come farebbe un devoto seduto accanto alla ringhiera che circonda la tomba di un santo per assorbirne le emanazioni benefiche. La finestra affacciava sul tetto piatto del piano inferiore; questo spiegava il gran caldo dentro e fuori.

Saleem disse di essere un fanatico di cricket. Ricordava i nomi di lanciatori indiani di Trinidad di scarsa fama e ormai dimenticati: S. M. Ali, Inshan Ali, Imtiaz Ali, Rafiq Jumadeen. Era un omaggio a me, ne ero consapevole; ma non pensava solo al cricket. Tutti i lanciatori che aveva nominato erano musulmani e sul loro conto ne sapeva piu’ lui di me.

Il domestico torno’ su, questa volta con te’ e “pakora”, stuzzichini fritti ancora caldi, e un dolce di latte e mandorle, condensato e solidificato, assolutamente delizioso e piuttosto inaspettato, come se in qualche modo, nell’angusta devozione di quella casa della Jama’at, un artista si fosse scatenato in cucina.

Poi arrivo’ il padre, il penitente. Portava una “shalwar qamiz” marrone chiaro, forse il colore della penitenza. Era piu’ basso del figlio e pesante, e le scale lo avevano affaticato. Aveva solo cinquantotto anni, ma nella sua famiglia, preciso’ Saleem con immediata deferenza, era lui l’anziano; ed era perfetto per la parte.

Sedette sul tappeto, molto vicino alla mia sedia, quasi sfiorandola, e alzo’ verso di me lo sguardo, straordinariamente fiducioso. La pelle bruna era tersa e liscia; la fronte, senza rughe, sembrava brillare, come se per anni fosse stata massaggiata con unguenti. Un occhio, di colore latteo, non vedeva bene; l’anno prima era stato operato di cataratta. Anche cosi’ , la sua espressione era bonaria. Aveva qualche difficolta’ di udito, per cui si sporgeva in avanti mentre parlavo e, con le labbra socchiuse su denti piccoli e sani, pareva sorridere.

Saleem gli spiego’ chi ero e cosa ero venuto a fare a Mansoura.

In men che non si dica, padre e figlio si lanciarono in un discorso sulla loro fede nello stile di Mansoura: volevano uno Stato islamico, e il Pakistan non lo era. Non bastava che nel subcontinente fosse stato creato uno Stato per i musulmani. In uno Stato veramente islamico era l’uomo piu’ virtuoso a governare e a guidare il popolo nella preghiera come agli albori dell’Islam.

Assomigliava a quanto avevo udito nel 1979, al tempo del generale Zia, che aveva cercato di islamizzare il paese, ma come altri prima di lui non aveva saputo convertire una fede individuale in un apparato statale e aveva finito per instaurare una dittatura personale. Adesso veniva liquidato come un ipocrita. Ma, dopo tutto quello che era accaduto, il sogno era ancora vivo a Mansoura, il sogno di restaurare l’eta’ aurea dell’Islam primordiale, quando la congregazione, docile e pura, era in armonia con se stessa e con il proprio sovrano.

E ora padre e figlio parlavano insieme in una sorta di duetto, scambiandosi idee su quell’Eta’ dell’Oro islamica. Dopo la conversazione in automobile sulla modernita’ della Jama’at nelle questioni di abbigliamento e organizzazione, dopo la giacca di tweed, la cravatta, The Economist e i discorsi sul cricket, era strano vedere Saleem, il funzionario delle dogane, echeggiare le frasi del padre feudatario parola per parola.

Sapevo, mi chiese il padre di Saleem, che una volta uno dei primi califfi era stato rimproverato per avere indossato un mantello prezioso? E facendomi la domanda, il padre guardo’ verso di me e avvicino’ il viso. Saleem, con aria piu’ indifferente, continuando a bere il te’ e a mangiucchiare un “pakora”, mezzo disteso sul tappeto e appoggiato a un cuscino, prosegui’ la storia del califfo. A chi lo interrogava, il califfo aveva risposto che un parente gli aveva dato il taglio di stoffa per farsi quel mantello. Provi a immaginare, disse Saleem. Provi a immaginare, ripeti’ il padre. Provi a immaginare il sovrano di un impero che si estendeva su tutto il mondo; eppure, disse Saleem completando il pensiero, a un membro dell’assemblea era lecito porgli una simile domanda. (Dunque, in quella visione dell’eta’ aurea, si potevano rimescolare le carte e accostare la semplicita’ dell’unica e malleabile congregazione islamica alla sua ricompensa futura: un impero mondiale).

No, no, disse Saleem, uno Stato musulmano non era uno Stato islamico; molta gente faceva quell’errore. No, no…

Fu interrotto dal domestico, uno degli uomini ombra pakistani, che portava altri “pakora”, questa volta pezzi di cavolo fresco fritti in una pastella di farina di ceci, caldi e croccanti al primo morso e poi soffici e deliziosi. Dietro il domestico c’era il figlio di Saleem, Muhamad, un ragazzino smilzo, abituato a essere al centro dell’attenzione, ora disinvolto, ora timido e piagnucoloso, con grandi occhi neri e il tipico pallore di Mansoura. Il padre lo coccolo’ ; il nonno lo coccolo’ ; gli furono offerti i “pakora”. Ma non voleva restare e torno’ gio con il domestico.

Gli chiesi del generale Zia, del terrore islamico del 1979. Non aveva fatto abbastanza? Cosa restava da fare?

C’era molto da fare, rispose Saleem. C’era una persistente influenza indo di cui bisognava sbarazzarsi e (forse questo era il frutto della lettura dell’ Economist ) sopravvivevano vestigia del colonialismo britannico. E c’era la questione del matrimonio, disse il padre. Il Corano diceva che un uomo poteva sposarsi quattro volte, ma adesso c’erano questi gruppi di donne che cercavano di interferire col diritto di famiglia islamico. Parlava in tono addolorato, un uomo a cui veniva negato cio’ che gli era dovuto. Alzo’ gli occhi verso di me con espressione dolce, lamentandosi della situazione, quasi pensasse che avrei voluto aiutarlo. E c’era la questione dell’usura; bisognava fare qualcosa al riguardo.

Tuttavia, disse il padre, il Pakistan e l’Iran, come paesi, erano i piu’ vicini all’ideale islamico, bisognava riconoscerlo. Saleem era d’accordo sull’Iran e osservo’ che l’unico suo errore erano le dispute con i paesi confinanti. Poi c’era il Sudan, che doveva essere considerato come un paese in cammino verso l’Islam, ma Saleem non era tanto sicuro del Sudan.

Chiesi se volevano qualcosa di simile ai Guardiani della Rivoluzione iraniani in Pakistan. Appoggiandosi ai cuscini, Saleem disse con tono severo che uno Stato religioso doveva incoraggiare il bene e scoraggiare il male, e per questo tutti i paesi si servivano della polizia. Osservai che cio’ avrebbe interferito con la liberta’ personale. Saleem rispose che l’Islam non prevedeva il libero arbitrio. E il padre, col suo viso levigato e bonario, disse che il termine stesso Islam significava obbedienza, sottomissione.

Chiesi in che modo lo Stato avrebbe definito cio’ che era islamico. Quello era stato un problema spinoso per il generale Zia, malgrado il suo Consiglio per l’Ideologia Islamica. La questione sarebbe stata dibattuta, disse Saleem. E aggiunse, inaspettatamente, che non tutti dovevano essere per forza concordi. Altrettanto inaspettatamente il padre dichiaro’ : C’e’ liberta’ nell’Islam . Cio’ che volevano, disse il padre, era uno Stato in cui tutti accettassero volontariamente l’Islam, con tutto il cuore. Cominciai a capire come potessero conciliarsi liberta’ e sottomissione.

L’Islam non e’ stato ancora messo alla prove’ aggiunse Saleem.

Mi aspettavo che dicesse qualcosa del genere. Per l’Islam sono sbagliati la vanita’ e l’orgoglio? domandai.

Saleem rispose: se’ . Il suo sguardo si fece incerto, non meno liquido e sfuggente di quello del figlio.

Come potete condannare a questo modo tutti i fedeli che vi hanno preceduto? Come potete affermare che non sono stati virtuosi? E come potete sostenere di esserlo? .

Avevo toccato un punto dolente.

Possiamo solo cercare di essere il piu’ possibile virtuoso’ rispose il padre.

Il piccolo Muhamad, il figlio di Saleem, rientro’ nella stanza. Saleem disse che aveva cominciato ad andare a scuola.

Il padre di Saleem annuncio’ : Ha gia’ iniziato a studiare il Corano .

Gli chiesero di recitare le sure introduttive. Il bambino fu contento che glielo chiedessero, ma si strinse al nonno e bisogno’ blandirlo ancora un po’ prima che cominciasse a pronunciare le parole con la sua voce infantile. Il volto di Saleem era pieno di orgoglio; e c’era orgoglio anche nell’unico occhio buono del vecchio.

Saleem disse: Imparera’ l’intero Corano a memorie’.

L’intero Corana’ disse il vecchio, riattaccando il duetto col figlio.

Chiesi: Quanto tempo ci vorra’ ? .

Cinque o sei anno’ rispose Saleem.

Non potevo trattenermi piu’ a lungo. Ormai respiravo a fatica. Al piano di sotto, i servitori, esili, scuri e malmessi, dietro i sacchi di riso dorato rovesciato sul pavimento. Fuori, lo smog e la polvere della strada per Multan. Ci penso’ l’autista di Saleem a riaccompagnarmi all’albergo. Saleem non venne.

 

Il venerdi’ seguente, il giorno festivo del povero Bhutto, tornai a Mansoura. Questa volta andai di giorno e mi accorsi che il complesso, che all’ingresso aveva una sbarra come in un parcheggio ed era pieno di uomini barbuti e sfaccendati con addosso gli abiti del venerdi’, era piu’ grande di quanto pensassi, come un piccolo campus universitario. Era anche molto piu’ polveroso. La strada principale, all’esterno, era completamente dissestata e non asfaltata, e vi gravava sopra una nube bruna di polvere e gas di scappamento.

Di giorno la casa di famiglia di Saleem aveva un’aria piu’ informale: un edificio rustico di paese, con un capanno o garage da un lato e altre piccole costruzioni aggiunte. C’era in giro, dentro e fuori, un gran numero di servitori, magri, poveri, indaffarati, ben distinti dai barbuti che si pavoneggiavano all’entrata nei vestiti buoni del venerdi’; era difficile immaginare dove potessero dormire tutti.

Un bell’uomo con i capelli ondulati pettinati con cura fu cosi’ cordiale e disinvolto che pensai fosse uno dei parenti di Saleem. Invece era uno dei servitori, ed era cordiale Perche’ mi aveva visto sei giorni prima. Mi disse che Saleem e sua moglie erano alla preghiera e mi condusse, dopo aver attraversato l’atrio dov’erano ancora poggiati i sacchi di riso della fattorie’, uno dei quali lacerato, su per le scale strette di cemento fino allo studio.

Per qualche motivo avevano appeso davanti alla finestra un lenzuolo o un panno e il depuratore arrancava. Chiesi al servitore cordiale di accendere il condizionatore e lui esegui’.

Quando arrivo’ , Saleem indossava un “kurta-shalwar” bianco, un abito largo di cotone, da riposo. Ridiscutemmo in dettaglio il caso di rapimento in cui era stato coinvolto il padre. Quel caso ossessionava Saleem, aveva segnato la sua vita. Da bambino, per i primi sei anni, era andato una o due volte all’anno a trovarlo nel carcere di Multan. Poi, quando il padre era uscito di prigione, tutta la famiglia aveva vissuto insieme a Sargodha per dodici anni, prima che il padre si trasferisse a Mansoura. Quando era entrato nella comunita’ , Saleem aveva ventidue anni. Da adulto era stato per conto suo solo tre anni, non di piu’ .

Disse che i suoi sentimenti religiosi erano maturati fuori della comunita’ . A proposito di questa osservo’ : Non ti obbligano. Noi abbiamo un’antenne’. Intendeva dire un’antenna parabolica, che la Jama’at non approvava. A volte le nostre mogli ‘partecipano’ . Voleva dire che partecipavano agli incontri con estranei, cosa proibita dall’Islam piu’ rigoroso.

Arrivo’ la moglie, Tahira. Il giorno prima, in albergo, quando era venuta a trovarmi insieme a Saleem, mi era sembrata luminosa. Adesso c’era qualcosa di spento nella sua espressione. Forse era l’assenza di trucco; la Jama’at non approvava il trucco. Anche senza, era bella; e aveva quella pesantezza di fianchi che viene alle donne della sua classe sociale dopo che diventano madri, a causa del lungo periodo che passano a letto dopo ogni parto e dei cibi ipernutrienti di cui si nutrono.

Racconto’ che al suo arrivo li’ era contrariata. Avrebbe voluto una casa migliore. Per i primi tre o quattro anni era stata abbastanza scontenta, per niente soddisfatta. Ma adesso andava tutto benissimo, anche se le sarebbe piaciuto disporre di una stanza separata per i bambini. Avrebbe voluto una casa come quella di Sargodha, con un vero salotto, una vera sala da pranzo e una vera camera per gli ospiti.

Tahira disse: Qui abbiamo molti domestici. Quattordici o quindici. E molti ospiti. Piuttosto seccante .

Cio’ che davvero desiderava era una casa tutta per noo’ osservo’ Salem.

Adesso va bene, mi sono abituata. Non lo desidero piu’ ripeti’ lei.

Il condizionatore d’aria fece un botto, un gemito ed esalo’ l’ultimo respiro. Era mancata l’elettricita’ : e una specie di silenzio era calato su tutta Mansoura, come il silenzio in una valle montana dopo una nevicata. Fu aperta una porta di cui non mi ero accorto, a sinistra della finestra schermata, e vidi che dava sul tetto piatto. Doveva fare molto caldo lasso in estate, forse un caldo insopportabile.

Entro’ la sorella di Saleem. Un ingresso di grande effetto. Era una donna alta in uno “shalwar” kaki dorato, con uno scialle chiaro di cotone impalpabile, punteggiato da un piccolo motivo decorativo, drappeggiato mollemente intorno alla testa e al volto; faceva pensare a Claude Rains tutto bendato in quel vecchio film delizioso, “L’uomo invisibile”, e forse, come Claude Rains, anche lei si era tutta drappeggiata per nascondere un vuoto.

Era entrata nel “parda”, disse Saleem. (Ma non era un vero e proprio “parda”, che l’avrebbe tenuta lontana dallo studio di Saleem). Potevo farle qualunque domanda su Mansoura e sulla religione, disse Saleem; loro erano fatti cosi’ . Lui stesso aveva passato i primi cinque anni li’ senza recitare le preghiere. Adesso lo faceva, ma non c’era stata nessuna coercizione.

La sorella aveva ventisette anni; dunque, doveva essere nata l’anno dopo che il padre era uscito di prigione. Non sapeva dire con precisione Perche’ fosse entrata nel “parda”. Semplice: un giorno aveva sentito che doveva entrare nel “parda”. Adesso era molto piu’ serena. Non disse molto di piu’ ; e forse non c’era altro da dire.

Forse non c’era nessun mistero, nulla da chiarire. Forse posti come Mansoura, con le preghiere e le forme esteriori della devozione, la ripetizione dei gesti e la consapevolezza di se’ che derivava a tutti dal semplice fatto di essere li’ (da questo punto di vista, Mansoura era come Oxford: un costante argomento di conversazione per chi ci viveva), forse posti cosi’ , che potevano spegnere qualcuno come Tahira, la moglie di Saleem, potevano al tempo stesso dare ai piu’ semplici la possibilita’ di recitare costantemente una parte. Era facile immaginare il trambusto quando la sorella di Saleem era entrata nel “parda”. Hai sentito? La sorella di Saleem ha deciso di entrare nel “parda” , Sta per entrare nel “parda” , E’ entrata nel “parda” . E una domanda che tutti mi fanno. Semplice: un giorno ho pensato che dovevo entrare nel “parda”. Adesso mi sento molto piu’ serene’.

Muhamad, il figlio maggiore di Saleem che avrebbe imparato l’intero Corano a memoria, entro’ nella stanza insieme ad Ahmed, il figlio minore.

C’erano ospiti, una coppia giovane. La donna era molto bella; l’uomo era massiccio e forte e, benche’ giovane, aveva un’aria autorevole. La giovane donna disse di appartenere a una famiglia politicamente in vista, il cui nome mi era noto dai giornali. Saleem, come membro del ceto feudale, aveva le conoscenze giuste.

La donna disse di non essere mai stata a Mansoura prima di allora. Non aveva mai voluto venirci Perche’ pensava che non le sarebbe piaciuta. Nulla che la privasse della sua liberta’ poteva piacerle. Eppure, benche’ appartenesse a una famiglia importante, aveva lasciato gli studi quando si era sposata.

Il marito, l’uomo forte, spiego’ : Sarebbe stato contro le usanze socialo’ . E poiche’quelle parole suonarono grette persino a lui, aggiunse: In un’altra societa’ sarebbe stato diverso . Come se per la moglie fosse stata tutta una questione di sfortuna.

Parlammo del Pakistan, l’eterna questione.

Il marito della donna disse senza mezzi termini che lo Stato moderno stava cedendo il posto a feudi separato’ , come in passato. E con altrettanta brutale franchezza sostenne che cio’ avrebbe giovato agli affari. Parlava senza rimpianti del declino dello Stato. E intuivo che a lui, con il suo retroterra tribale, lo Stato moderno appariva un fardello infruttuoso, uno spreco di energie, una serie di pastoie.

I concetti di liberta’ e perdita della liberta’ , di religione e di Stato, erano intrecciati. A questo aveva portato il sogno di Iqbal, il sogno del convertito che anelava a una pura entita’ politica musulmana, indietro, sempre piu’ indietro, fino alla morte dello Stato nella regione da cui lui proveniva, fino a Mansoura.

Dopo un’attesa non breve i domestici portarono il te’ su per le scale scomode. Ritorno’ l’elettricita’ . E ben presto non trovammo piu’ nulla da dire. Avevamo esaurito Mansoura come argomento di conversazione. La sorella di Saleem, nel suo personale stile da “parda”, era scesa senza farsi notare.