Parte terza.

PAKISTAN.

FUORI DALLA MAPPA DELLA STORIA.


1.

UN’IMPRESA CRIMINALE.

 

C’era molto da vedere a Persepoli, piu’ di quanto si potesse programmare in un giorno. E non erano molti i visitatori disposti, dopo Persepoli, a percorrere un’altra quarantina di chilometri fino a Pasargadeh, dove era rimasto relativamente poco e quel poco era disadorno, sparpagliato e ridotto all’osso: la torre crollata di un tempio del fuoco, il palazzo di Ciro, la tomba di Ciro. Mehrdad e io avevamo il posto tutto per noi. All’ingresso della zona archeologica, una vecchia guida dalla pelle bruciata dal sole (che forse era anche uno dei custodi), un ometto smilzo con la faccia non rasata, che indossava una giacca logora e un pullover per proteggersi dal vento e dalla polvere, monto’ sul suo motorino e, senza dire una parola, comincio’ a farci da battistrada nel paesaggio desolato. Ci precedeva di pochi metri, con gran fracasso, sollevando nuvole di polvere e di fumo bluastro e, come un incantatore nella versione moderna di un vecchio mito, ci sorrideva e faceva cenno di proseguire ogni volta che il nostro autista esitava.

Arrivammo cosi’ alle rovine del palazzo di Ciro. Ampie sezioni del pavimento bianco, fatto di grandi blocchi irregolari di marmo disposti a incastro, erano livellate e saldate come quando erano state posate duemilacinquecento anni prima. Per un certo periodo il palazzo era servito da cava da cui estrarre la pietra da costruzione. Parte di questo materiale, adoperato per una moschea in un’altra localita’ , era stato recuperato al tempo dello scia’ e riportato sul posto. I blocchi, incisi con lettere arabe, non avevano piu’ alcuna funzione; stavano li’ , come reliquie sacre, in un luogo che era stato uno dei centri di potere del mondo un secolo prima di Erodoto, piu’ di mille anni prima dell’Islam. Tutt’intorno, il terreno piatto era ricoperto di piante e fiori selvatici, secchi e fragili dopo l’estate, animati dal canto di uccelli invisibili.

Qualche tempo prima, disse la guida, erano arrivate in pullman trenta o quaranta persone dall’India. Si erano fermate davanti a un pilastro che recava un’iscrizione in caratteri cuneiformi - Io sono Ciro, figlio di Cambise, e questo e’ il mio palazza’ - e avevano recitato qualche tipo di preghiera. Poi, per circa venti minuti, si erano abbandonate ai lamenti. Una volta finito, erano risalite sul pullman e se n’erano andate.

La guida non sapeva chi fossero i passeggeri, ma non era difficile indovinare che erano parsi, zoroastriani, seguaci della religione della Persia preislamica e discendenti di coloro che l’avevano abbandonata dopo la conquista araba e l’avvento dell’Islam. Si erano rifugiati nel Gujarat, in India, e il gujarati era diventato la loro lingua. Formavano una piccola comunita’ che era rimasta piu’ o meno intatta fino a questo secolo. Adesso, con i matrimoni misti che si accompagnavano alla generale apertura del mondo, si stavano disperdendo. Quella commemorazione dell’antica gloria, quel cordoglio rituale nel palazzo in rovina di Ciro aveva qualcosa di miracoloso, anche se il ricordo delle antiche preghiere forse era confuso e il rituale inventato di sana pianta.

Non molti giorni dopo andai in Pakistan, a Lahore, e presi alloggio all’Avari Hotel. Gli Avari erano parsi, membri della diaspora. La divisione del subcontinente indiano nel 1947 aveva lasciato alcuni parsi in India, altri in Pakistan. Nell’atrio dell’hotel erano appese grandi fotografie a colori dei coniugi Avari, i fondatori. All’ingresso, una placca rendeva omaggio alla signora Avari. Ne raccontava la vita e l’attivita’ concludendo con queste parole: Morta il 25 novembre 1977 a Boston (USA). Possa l’Onnipotente Ahura Mazda concedere alla sua Anima la pace eterna in paradiso .

Un’iscrizione del genere faceva somigliare lo zoroastrismo a una versione del cristianesimo o dell’Islam. Era davvero cosi’ l’antica religione persiana? Forse non aveva importanza. Importava cio’ che restava vivo nei cuori di coloro che avevano affisso la placca. Il mondo classico era stato spazzato via e riplasmato dal cristianesimo e dall’Islam. Queste erano religioni universali, non locali; le loro idee religiose e sociali riguardavano tutti e riuscivano familiari persino a coloro che non vi aderivano.

 

In Iran il passato preislamico era irrecuperabile. Non cosi’ in Pakistan, dove frammenti vitali del passato sopravvivevano nell’abbigliamento, nelle usanze, nelle cerimonie, nelle festivita’ e, significativamente, nel concetto di casta. L’Islam si era diffuso in Persia nel periodo immediatamente successivo al Profeta. La penetrazione nell’India nordoccidentale ebbe inizio quasi quattrocento anni dopo (la conquista del Sind, a sud-ovest, rappresenta un caso a parte). Intorno al 1200 (adottando una cronologia molto schematica) i musulmani costituivano ormai una potenza nella parte settentrionale del subcontinente; nel 1600 tale potenza raggiunse il suo apogeo; entro il 1700, col declino dell’impero moghul, la potenza musulmana in India era piu’ o meno tramontata.

Non c’era mai stato nulla di paragonabile a una conquista totale o stabile, come in Persia. Difatti, i popoli straordinari che si affermarono dopo il declino dei Moghul - i marathi, i sikh - si batterono in parte per sostenere la propria fede contro i musulmani. Furono i britannici, seguaci di una religione straniera, a sottomettere entrambi questi popoli, divenendo la massima potenza del subcontinente attraverso una combinazione di dominio diretto e indiretto.

Il periodo britannico - duecento anni in certe regioni, meno di un secolo in altre - fu un periodo di rinascenza indo . Gli indo , soprattutto in Bengala, accolsero con favore la nuova scienza di stampo europeo e le istituzioni introdotte dai britannici. I musulmani, feriti dalla perdita del potere e in obbedienza a vecchi scrupoli religiosi, rimasero a guardare. Fra le due comunita’ si venne cosi’ a creare un divario intellettuale, che con l’indipendenza non ha fatto che approfondirsi. Ed e’ questo, ancor piu’ della religione, che oggi, alla fine del ventesimo secolo, fa dell’India e del Pakistan due paesi decisamente diversi. L’India, con una classe intellettuale che cresce a passi da gigante, si espande in tutte le direzioni. Il Pakistan, che non fa altro che proclamare la fede e soltanto la fede, si ripiega sempre di piu’ su se stesso.

Fu dall’insicurezza dei musulmani che nacque l’istanza di creare il Pakistan. E anche da un’idea della gloria passata, dall’immagine degli invasori che avevano fatto irruzione da nord-ovest, saccheggiando i templi dell’Indostan e imponendo la fede agli infedeli. Questa fantasia e’ tuttora viva, e per il musulmano convertito del subcontinente e’ l’origine della sua nevrosi, Perche’ in tale fantasia dimentica cio’ che e’ e diventa tutt’uno con l’invasore e il profanatore. Riferendosi a un altro continente, e’ come se le popolazioni indigene del Messico e del Pero si schierassero con Corti’s e Pizarro e gli spagnoli, in quanto portatori della vera fede.

 

Un avvocato mi riferi’ alcuni slogan islamici che aveva udito da bambino, a tre anni, in una cittadina del Punjab, al tempo delle agitazioni per il Pakistan. Lo avevano commosso e avevano tuttora il potere di commuoverlo. L’avvocato (il cui padre era stato un famoso liberale negli anni precedenti lo smembramento del paese) si presento’ come un liberale, non meno di suo padre. Se la gente li’ fuori, mi disse indicando la strada con un cenno (un po’ esitante) del mento, sapesse quanto sono liberale, mi ritroverei appeso a una forca nel giro di mezz’ore’.

In realta’ era un vecchio fanatico. Non gli bastava possedere la fede; voleva che questa trionfasse alla vecchia maniera. Me ne resi conto non appena comincio’ a recitare gli slogan del 1947. La voce gli tremava, gli occhi gli brillavano: era di nuovo un bambino di tre anni a Lyallpur, che si trastullava con la fantasia di spedire gli infedeli all’altro mondo.

 

Darte nahin duniya mayu Musalman kisi se -

Ja puch Ali se.

 

“Il musulmano non conosce nessuna paura al mondo -

chiedilo ad Ali’ “.

 

La sua traduzione - in cui la frase, che in urdu scorreva come acqua, si tramutava, parola per parola, in un inglese di pietra - ebbe l’effetto di raffreddare in lui l’emozione. Riprendendo i modi da avvocato, disse, quasi scusandosi: Come poesia, forse, non e’ granche’. Ma mi fa venire un nodo in gole’.

Eravamo seduti nella sua sala da pranzo. Era una stanza vissuta e stranamente buia, come se fosse sprofondata un po’ troppo sotto il livello del terreno intorno. Dal rigagnolo in strada proveniva un cattivo odore: forse una fognatura rotta. L’avvocato si scuso’ , ma sembrava che ci fosse abituato. In un angolo della stanza era sistemato il frigorifero, forse allo scopo di controllare la servito . Un cameriere pathan alto e dall’aria torva, con quegli abiti assai sudici che in Pakistan sembrano essere l’uniforme obbligatoria dei domestici, entrava ogni due minuti per prendere o riporre qualcosa nel frigorifero. Quell’andirivieni a me dava un po’ sui nervi, ma l’avvocato non ci faceva caso: contemplava un orizzonte lontano con gli occhi che gli brillavano. Gli slogan pakistani del 1947 lo avevano risollevato; capii che risuonavano ancora festosi nella sua testa.

Infine cominciammo a sorseggiare il caffe’ scadente che il cameriere sudicio aveva servito e, come in molte delle case dove ero stato, contemplammo la rovina dello Stato.

 

Il nuovo Stato era nato in fretta e furia e non aveva un vero programma. Non poteva diventare la patria di tutti i musulmani del subcontinente; sarebbe stato impossibile. Di fatto, i musulmani destinati a rimanere in India erano piu’ numerosi di quelli che avrebbero fatto parte del nuovo Stato islamico. Pareva piuttosto che, al di la’ e al di sopra di qualunque finalita’ politica, il nuovo Stato dovesse rappresentare il trionfo della fede, un paletto conficcato nel cuore del vecchio Indostan. Qualcuno (non l’avvocato) ricordava questo slogan beffardo del 1947:

 

But ke rahi’ ga Hindustan,

bun ke rah ga Pakistan.

 

“Quant’e’ vero che l’Indostan verra’ smembrato,

tant’e’ vero che il Pakistan sara’ fondato”.

 

Nel 1979, a Lahore, un uomo aveva cercato di spiegarmi cosa avesse significato per lui la creazione del Pakistan quand’era bambino in India, dall’altra parte del confine. Cercava le parole. Infine disse: Per me, fu come Dio . Per molti, o per la maggior parte, dei musulmani del subcontinente, lo Stato che era stato strappato all’India giunse come una sorta di estasi religiosa, qualcosa che andava al di la’ della ragione, al di la’ di inezie quali i confini, le costituzioni, i piani economici.

E poi, quando la divisione era ormai imminente, alcuni si resero conto che c’era anche la possibilita’ di ricavare un bel po’ di soldi dal nuovo Stato. Tutta la terra a ovest, che anticamente, ma anche in tempi piu’ recenti, aveva visto fiorire l’induismo, il buddhismo e il sikhismo, stava infine per essere privata, o meglio depurata, della sua popolazione indo e sikh, che sarebbe andata via per trasferirsi in India. Come comunita’ , gli indo e i sikh erano ricchi; si diceva che possedessero il quaranta per cento della ricchezza della regione. Quando partirono, molti debiti furono cancellati; e in tutto il Pakistan, nei villaggi, nelle citta’ grandi e piccole, un’enorme quantita’ di beni si ritrovo’ in attesa di nuovi proprietari. Da un giorno all’altro si crearono nuovi patrimoni, o si ingrandirono quelli esistenti. cosi’ , fin dall’inizio, il nuovo Stato religioso fu contaminato dalla vecchia idea del saccheggio. Si modifico’ la concezione dello Stato inteso come Dio.

Il paese, che non si era dovuto guadagnare l’indipendenza, divenne un satellite degli Stati Uniti; col loro aiuto, i vari regimi che si succedettero furono tenuti in piedi per tutto il periodo della Guerra Fredda. Non sviluppo’ un’economia moderna: non ne avverti’ la necessita’ . Comincio’ invece a esportare la sua gente, divenendo in parte un’economia basata sulle rimesse dall’estero.

Trentadue anni dopo la divisione, in Afghanistan ebbe inizio la guerra contro l’occupante sovietico. Poteva essere considerata una specie di guerra santa; e ancora una volta, il bottino era favoloso. Per otto anni le armi americane e le droghe afghane circolarono lungo lo stesso percorso; per tutto questo periodo, centinaia di milioni di dollari finirono nelle mani dei fedeli. La corruzione era sfacciata e fine’ per minare le fondamenta dello Stato. Fede pubblica e ruberia privata si saldarono in una catena che, ormai, non poteva piu’ essere spezzata per lasciare spazio alla possibilita’ di un nuovo inizio. Dopo il cinismo e l’inerzia intellettuale di quarant’anni, lo Stato, che in principio alcuni identificavano con Dio, si era trasformato in un’impresa criminale.

 

Nessuno aveva mai riflettuto davvero su cosa significasse amministrare il nuovo paese. Ci si aspettava che tutto discendesse naturalmente dal trionfo della fede. Ma per quanto l’identita’ islamica fosse stata un motore possente della protesta che aveva preceduto la divisione ( un fattore fortemente evocativo , come disse l’avvocato), non bastava da sola a tenere unite le due meta’ della macchinosa struttura dello Stato. Ben presto il Bangladesh, che aveva una propria lingua e una propria cultura, si stacco’ ; e persino allora, quanti cercavano di affermarsi politicamente in cio’ che rimaneva del Pakistan continuarono a giurare di essere piu’ islamici dei propri rivali.

Le leggi procedurali ereditate dagli inglesi, i principali legislatori del subcontinente, furono modificate senza convinzione e con scarso senso pratico. Vennero aggiunte alcune appendici islamiche che spesso gli avvocati non riuscivano ad applicare in maniera coerente; e il sistema legale, gia’ manipolato dai politici, divento’ ancor piu’ caotico. I diritti delle donne non furono piu’ garantiti. L’adulterio divenne un delitto. Cio’ significava che un uomo poteva sbarazzarsi della moglie accusandola di adulterio e mandandola in prigione. Nel 1979 furono introdotte le pene previste dal Corano; e anche se le amputazioni non furono mai messe in atto (i medici si rifiutarono di praticarle), la gente amava le fustigazioni pubbliche e accorreva ad assistervi.

L’Islam definito da queste leggi era restrittivo, semplicistico e severo; le leggi stesse erano di difficile applicazione, e per questo motivo era stato possibile sospendere le fustigazioni pubbliche nel 1986 (malgrado l’opinione pubblica mostrasse di apprezzarle), o aggirare le norme relative al consumo di alcolici e al gioco d’azzardo. Tuttavia le leggi rimasero ufficialmente in vigore e modificarono la natura dello Stato: diedero forza alle posizioni piu’ retrive; crearono uno stato di incertezza; delinearono quel tipo di tirannide a cui, in una situazione di crisi, il popolo si sarebbe piegato senza difficolta’ .

Fu solo per caso che, con il distacco del Bangladesh, la parte del subcontinente che costituisce l’attuale Pakistan fosse quella con il piu’ basso livello di istruzione. Era stata conquistata tardivamente dagli inglesi e aveva avuto meno di un secolo di dominazione coloniale, da poco dopo il 1845 al 1947, turbata all’inizio dall’insurrezione delle truppe indiane (1857-1860) e verso la fine dal movimento indipendentista. (Per un altro caso, il dominio britannico coincise piu’ o meno con la vita del suo piu’ celebre cronista, Rudyard Kipling, che nacque nel 1865 e mori’ nel 1936).

Le istituzioni britanniche scalfirono a malapena i sistemi locali preesistenti, le strutture tribali a nord-ovest, i principati feudali nel Sud semischiavista. A meno di cinquant’anni dalla creazione del Pakistan, questi vecchi sistemi informali cominciavano a riprendere il sopravvento. Lo Stato moderno ereditato dalla dominazione britannica appariva a molti come un recente e inutile fardello.

Sullo sfondo c’erano sempre i fondamentalisti che, nutriti prima dall’estasi della creazione del Pakistan e in seguito dalla parziale islamizzazione delle leggi, volevano riportare il paese sempre piu’ indietro, al settimo secolo, al tempo del Profeta. La realizzazione di questo sogno era affidata a un programma fumoso quanto quello della creazione del Pakistan: soltanto una vaga visione di preghiere regolari e di punizioni coraniche, il taglio delle mani e dei piedi, l’imposizione del velo alle donne e, di fatto, la loro reclusione, la concessione agli uomini di diritti padronali su quattro donne alla volta, da usare e gettare a proprio piacimento. E in un modo o nell’altro, si credeva che, attraverso tutto questo, attraverso una societa’ chiusa e devota in cui, secondo i dettami religiosi, avrebbero spadroneggiato uomini privi di istruzione, lo Stato si sarebbe legittimato e il potere si sarebbe affermato, come si era affermato agli albori dell’Islam.

 

La causa del Pakistan era stata sostenuta seriamente per la prima volta nel 1930 da un poeta, Muhammad Iqbal, in un discorso tenuto al convegno della Lega musulmana prima della divisione. Il tono del discorso e’ piu’ civile e in apparenza piu’ razionale degli slogan di strada del 1947, ma gli impulsi sono gli stessi. Iqbal apparteneva a una famiglia indo convertita di recente; e forse solo un neofita poteva esprimersi in quel modo.

L’Islam non e’ come il cristianesimo, afferma Iqbal. Non e’ una religione che coinvolge solo la coscienza individuale e la condotta privata. L’Islam comporta certi princi’pi legalo’ che, come tali, hanno rilevanza civice’ e creano un certo tipo di ordine sociale. L’ ideale religiosa’ non puo’ essere disgiunto dall’ordine sociale. Per un musulmano e’ impensabile la costituzione di un’entita’ politica su basi nazionali che comporti l’esclusione del principio islamico della solidarieta’ . Nel 1930 un’entita’ politica nazionale significava uno Stato in tutto e per tutto indiano.

E’ stupefacente che un uomo dotato di ragione abbia fatto un discorso del genere nel Novecento. Cio’ che Iqbal sostiene in maniera involuta e’ che i musulmani possono vivere soltanto insieme ad altri musulmani. A voler prendere alla lettera le sue parole, cio’ implicherebbe che il mondo ideale, quello a cui bisogna aspirare, e’ un mondo puramente tribale, precisamente ripartito, con ciascuna tribo al suo posto. Un’idea del genere sarebbe stata giudicata stravagante.

Quel che Iqbal non dice, ma che in realta’ e’ implicito nella richiesta di dare vita al Pakistan e a uno Stato musulmano, e’ il rifiuto dell’India indo . I suoi ascoltatori certamente capirono quel pensiero di fondo; e come lui, avevano un’idea concreta di cio’ che veniva rifiutato. Era intorno a loro; bastava guardarsi in giro; era una parte del mondo reale. Quel che non esisteva, e che la proposta di Iqbal non provava neanche a definire, era la nuova entita’ politica musulmana che sarebbe nata col nuovo Stato. Nel discorso di Iqbal, che fece epoca, tale entita’ e’ un’astrazione, una figura poetica. Bisogna accettarla sulla fiducia. Il nome del Profeta e’ persino utilizzato indirettamente per avallarla.

Oggigiorno quel discorso risulta ironico. La nascita del Pakistan delegittimo’ i musulmani che rimasero in India. Il Bangladesh e’ andato per la sua strada. Nello stesso Pakistan si parla di smembramento. La nuova entita’ politica musulmana e’ risultata simile a quella vecchia, quella che Iqbal conosceva: non bisogna scendere molto in basso per trovare persone prive di parola e di prestigio come quando Iqbal tenne il suo discorso nel 1930.