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Estate 2009
Il suv era imbottigliato nel traffico del fine settimana. Penelope se ne stava rannicchiata di lato, il piede premuto sul tappetino come se volesse frenare ogni volta che un'auto le affiancava.
Seduta accanto a lei Addison non la smetteva di parlare.
Penelope si calò il cappuccio della felpa di Adam sulla testa e si girò di lato, intirizzita per il vento che continuava a batterle addosso.
Come al solito, Addison teneva il finestrino abbassato per far circolare l'aria, sia che fuori ci fossero tre o trenta gradi, ignorando l'esistenza dell'aria condizionata e delle bocchette di ventilazione.
Penelope tirò giù le maniche sino a coprirsi le mani, gli occhi incollati al finestrino mentre Addison continuava imperterrita il suo monologo sul tempo che guarisce ogni ferita, sul dovere di andare avanti sempre, nonostante tutto, e lasciarsi avvolgere dagli affetti famigliari.
Era piombata all'improvviso nel suo appartamento, con la pretesa che la seguisse chissà dove a casa del suo amato marito e di suo figlio, e non c'era stato modo di farle capire che lei voleva solo pace e solitudine. Addison era testarda, e Penelope tremendamente stanca.
«Guardati!» le aveva detto accennando ai capelli spettinati con la stessa tenerezza con cui si guarda ai vagabondi nelle stazioni della metropolitana. «Non puoi andare avanti così. Vieni con me.
Rimarrai da noi il tempo necessario» le aveva detto. Poi era andata in camera, aveva aperto la valigia rossa che aveva portato con sé e l'aveva riempita pescando a caso nell'armadio.
Penelope l'aveva lasciata fare. Si era seduta sul letto ed era rimasta a guardarla, gli occhi rivolti a un altrove che vedeva solo lei, che era soltanto suo, chiudendosi in un ostinato silenzio.
Rimase muta per tutto il viaggio, la mente che girava a vuoto, cullata dalla voce monotona di Addison in sottofondo.
«Mi stai ascoltando o no?» protestò sua sorella quando per la terza volta Penelope ignorò le sue domande, girandosi dall'altra parte. Certo che la ascoltava, ma non aveva voglia di parlarle.
La luce rossa di un semaforo la costrinse a sopportare di nuovo lo sguardo di Addison, che ne approfittò per tentare un nuovo approccio. Piantò un gomito nel sedile, le labbra piegate in un sorriso intriso di compassione. «Senti, lo so che mi odi per averti costretta a lasciare la casa che avevi comprato con Adam, ma quando mi ha chiamato la tua banca ho avuto paura per te; non paghi le rate del mutuo da mesi, non potevo starmene con le mani in mano mentre ti sbattevano in strada.» Una pausa. Ancora silenzio. «Il tuo consulente mi ha avvertita che presto ti avrebbero pignorato l'appartamento perciò, dato che fra poco non avrai più un tetto e hai perso il lavoro, trasferirti da me mi è sembrata la soluzione migliore.»
«Come no» ribatté Penelope a mezza bocca.
«Invece è così» rimarcò Addison. «Non guadagno abbastanza da poter coprire anche i tuoi debiti. Sono stata costretta a chiedere alla banca di mettere in vendita la casa, come tuo garante non avevo scelta.»
«Ah-ah» rispose. Tentare di convincere Addison del contrario era fiato sprecato.
«Be' è la verità. Garantisco io per te, purtroppo Claire non può più aiutarti. Lei non c'è più.»
«Lo so» ribatté Penelope con la voce scheggiata di rabbia.
Da quel momento nemmeno una parola. La morte improvvisa di sua madre, scomparsa qualche settimana dopo Adam, era un'altra profonda ferita. Ma nonostante fosse già trascorso un anno, portava quelle due date ancora incise nella carne: era un dolore che non aveva fretta di scordare.
Addison guardò con la coda dell'occhio il suo viso scuro; era più prudente smettere di stuzzicarla, almeno per il momento. Strinse le mani sul volante e mise la freccia, augurandosi di riuscire ad attraversare indenne il fiume di lamiera in cui navigavano. Odiava il traffico, quel caos disordinato di vetture era una tortura per lei.
Addison girò in una via laterale e subito iniziò la campagna. La stradina era una lingua d'asfalto divorata dalle intemperie, costeggiata da reti sbilenche e muretti a secco che separavano i campi.
Intorno a loro solo il frusciare del vento, e il canto degli uccelli notturni.
Proseguirono con gli abbaglianti accesi e a velocità ridotta, tanto che quando Addison sterzò per evitare una volpe sbucata all'improvviso, Penelope quasi non se ne accorse.
«Ci siamo» l'avvertì spegnendo la radio, infastidita dal continuo gracchiare. Svoltò in un secondo vialetto, ritrovandosi pochi metri più avanti ai piedi di una enorme sagoma scura.
«Eccoci.» Un giro di chiave e il motore dell'Audi si ammansì in un miagolio.
Addison prese dal sedile posteriore la sua Marc Jacobs con la ventiquattrore e scese dall'auto, in attesa che la sorella facesse lo stesso. Da quando le aveva nominato Claire, Penelope era tornata nel suo mondo. Finalmente scese e le sbarrò la strada, negli occhi arrossati dalle lenti a contatto tutta la stanchezza di una giornata cui voleva solo mettere fine.
«Hai già un piano per farmi saltare i nervi?» la provocò, ma Penelope si guardò intorno con l'aria di chi viene accusato ingiustamente; aveva obbedito a tutto quello che le aveva detto di fare, perciò non capiva di cosa si stesse lamentando. Abbozzò un sorriso, sgranando gli occhi chiari ereditati dalla madre.
«Non capisco.»
«Invece capisci» l'accusò Addison con le braccia incollate ai fianchi.
Penelope sbuffò e aprì il bagagliaio. Detestava che Addison decidesse per lei, detestava il modo in cui riusciva a risolvere i problemi di tutti e a condurre la sua vita perfetta mentre lei di perfetto non aveva niente, anzi; era svuotata dentro, e Addison lo sapeva.
Prese la valigia e richiuse il bagagliaio, lo sguardo ipnotizzato dalla targa gialla.
«Non ha senso litigare, ma devi ammettere che è strano cambiare vita in un pomeriggio» spiegò a testa bassa.
Sul viso di Addison affiorò un sorriso cauto. Penelope iniziava a cedere, finalmente. Le appoggiò la mano sulla spalla e le prese la valigia, facendole strada. «Lo so, tesoro. Lo so» ripetè.
Camminavano nel buio, mentre Penelope si lasciava guidare da nuovi odori e nuovi profumi, una specie di sentiero invisibile ma forte, insolito per il suo spirito cittadino.
All'improvviso un lampione rischiarò la notte, e le due sorelle approdarono davanti alla casa in stile georgiano, con i mattoni rossi e le inglesine bianche, e l'impeccabile simmetria dei camini agli estremi del tetto; il ritratto di Addison. Rigore, linearità, purezza delle forme.
«Al piano terra ci sono la sala da pranzo, il salotto, la cucina, lo studio di Ryan e i bagni per gli ospiti; al piano superiore le camere. La casa è circondata da un parco secolare, un capanno per gli attrezzi e i parcheggi. Ci piacerebbe una piscina, ma per il momento è solo un'idea» continuò Addison.
Penelope raggiunse le due colonne bianche che incorniciavano la porta a vetri circondata da intrecci di glicine, ma non resistette alla tentazione di lanciare lo sguardo oltre. C'era qualcosa al di là del confine delineato dalla notte stellata; un giardino apparentemente sconfinato che respirava piano, seguendo la brezza leggera del sud.
Sentì nell'aria lo scricchiolio degli alberi finché un rettangolo di luce le accarezzò la guancia; in casa c'era qualcuno ad aspettarle.
Addison la invitò a entrare, ma all'improvviso Penelope ebbe freddo, quel freddo che attanaglia le ginocchia e blocca il respiro.
Fu allora, per la prima volta in quella giornata, che si risvegliò da quel torpore durato un anno intero. Il sangue ricominciò lento a pompare nelle vene, e le gambe a riprendere forza.
Era viva, la luce fioca oltre la finestra non doveva spaventarla. Addison non sarebbe riuscita a soffocarla, questa volta avrebbe lottato.
«Vuoi rimanere lì impalata o entri con me?» insistè Addison dall'ingresso.
Penelope seguì la sorella docilmente.
«Tu vai avanti, io arrivo tra un attimo» le disse Addison rovistando nella ventiquattrore.
Penelope obbedì entrando in punta di piedi.
«La famosa Penelope? Ryan Walker» disse una voce calda e profonda. La luce proveniente da un'altra stanza illuminò la figura di un uomo e di una sedia a rotelle. Ryan, il marito di Addison.
Suo cognato.
Le braccia toniche e il torace ampio erano quelle di uno sportivo, ma nei suoi occhi Penelope trovò la sua stessa solitudine. Le sorridevano, certo, ma raccontavano solo metà della storia.
Le gambe non si vedevano, nascoste da uno di quei plaid patchwork. Penelope rimase intrappolata fra le trame di quel tessuto, Ryan nel dolore della compassione per lei.
«Avevo camminato troppo e avevo bisogno di sedermi» disse lui con un mezzo sorriso. «A volte succede. Benvenuta Penelope, è bello averti qui.» Il gelo invisibile tra loro a poco a poco si sciolse, e allora le venne naturale chiedersi cosa avessero in comune Addison e Ryan, così profondamente diversi.
«Piacere di conoscerti, sono Penelope» disse sporgendosi verso il cognato.
«Sarai stanca, avrai fame.» Addison irruppe nella stanza, annunciata dal ticchettio dei sandali.
«Di lei mi occupo io» disse abbandonando la borsa sulla poltrona. «Hai messo a letto Leonard?» Ryan e Penelope si guardarono. «Sì, almeno da un'ora» rispose lui.
«Bene, Leonard ha bisogno di dormire, ma tu sei sempre troppo permissivo con lui» disse Addison mentre Penelope li osservava. Aveva la sensazione che quei due avessero tempi troppo diversi nella vita, e che lei stesse assistendo a uno spettacolo che si sarebbe risparmiata volentieri, catapultata suo malgrado nell'intimità del matrimonio della sorella.