«“... per i quantitativi, ci sono tre possibilità: la cassetta grande, da sei chili, quella media, da quattro, e quella piccola, da due. Cassette di verdura fresca, coltivata senza pesticidi e senza fitofarmaci di sintesi in campi certificati, che vengono recapitate a casa o in ufficio, anche se abitate al decimo piano senza ascensore”, recita il sito. Senti ganzo. Pilade, potresti senti’ se t’assumano come fattorino. Così butti giù que’ tre o quattro etti».
«Di meno, di meno» bofonchiò il Del Tacca, rigirandosi tra le mani il bicchiere ancora pieno di succo di frutta (ananas, cento per cento naturale, senza zuccheri aggiunti). «Se mi fai fa’ dieci piani di scale, perdo esattamente ventun grammi».
«Ventun grammi precisi?».
«Garantiti». Pilade annuì solenne, col mento che affondava nel collo. «Dice sia il peso dell’anima, l’ho visto una volta ar cinema. Te fammi fa’ dieci piani di scale a piedi, vedrai il risultato è quello».
«Perché, te vai anche ar cinema?». Ampelio buttò giù il giornale, e tirò su le sopracciglia. «Sempre a piange’ che con la pensione ’un ci si fa, che con que’ du’ bicci che t’allunga lo Stato ’un ce la fai a vede’ la fin der mese, e poi vai ar cinema? Capace ci porti anche la tu’ moglie».
«De’, è lei che ci vuole andare» ammise Pilade, dopo una insipida sorsata. «Perlomeno sta zitta un par d’ore».
«Ber discorzo. E un biglietto quanto costa?».
«Un posto, dodici euri» rispose Pilade con tono sepolcrale.
«Alla grazia! E sicché te paghi trentasei euri per senti’ la tu’ moglie che sta zitta?».
«Casomai ventiquattro, Ampelio» corresse Aldo.
«Per te, sì» insistè Ampelio. «Ma per mette’ a sede’ Pilade di poltroncine ce ne voglian due. Più una per la Vilma tre. Comunque, sempre un branco di vaìni. Un tubetto di colla der bisonte costa sei euro, e col resto ci vai a cena. Con trenta euro, sai quante verdure biologiche ti ci compri?».
«Mica tante» si inserì Aldo. «La roba buona costa cara, sai? Questi ragazzi qui, quelli degli orti, hanno avuto veramente una bella idea. Se riescono a tenere i prezzi che ci sono scritti, fanno veramente una gran cosa».
«Sì, ma come fanno a tene’ i prezzi così bassi?».
«Con la filiera corta». Aldo ruppe con gesto elegante la bustina di zucchero e ne versò il contenuto nel caffè. «E con la stagionalità. Sulla verdura che trovi al supermercato, anche quella biologica, buona parte del costo è dato da trasporto e stoccaggio. Se prendi roba prodotta a trenta chilometri da te, senza bisogno di serre, tutti questi costi non ce li hai. Se vuoi i finocchi ad agosto, è chiaro che li devi pagare. Buongiorno, signorina».
Un sorriso appena accennato, subito dopo aver richiuso la porta, fu tutto quello che ottenne Aldo in risposta al proprio saluto galante, in prima battuta. Del resto, ormai era noto, il vicequestore Alice Martelli non era mai in forma smagliante di prima mattina.
«Sì, buongiorno» rispose con una puntina polemica la commissaria, indicando col pollice al di fuori della porta a vetri. «Sta parlando di tre mesi fa, vero?».
Aldo, al di là del bancone, girò la mano che reggeva il cucchiaino con il palmo verso l’alto, in un gesto di rassegnazione. Dal cucchiaino, sul bancone, cadde una goccia. Oltre la porta a vetri, nello stesso momento, ne stavano cadendo qualche milione. E anche a guardare un attimo prima, o un attimo dopo, non sarebbe cambiato molto.
Perché a Pineta, come del resto nel resto d’Italia, sono tre mesi che piove a dirotto.
«Sono tre mesi che piove a dirotto» ribadì il concètto la commissaria, ostinandosi a rimanere fuori dal bar con lo sguardo, mentre il resto del corpo tentava di capire se c’era modo di godersi l’interno caldo e asciutto del locale. «Non vedo il sole da talmente tanto tempo che fra qualche giorno mi dimenticherò che è cubico. Di che parlavate, voi tre giovanottini tutti soli?».
Già, tre. Perché, al momento dato, all’interno del bar erano presenti solo Aldo, Ampelio e Pilade Del Tacca. Se ci fosse stato il Rimediotti, con la sua postura curvetta, probabilmente avrebbe fatto notare che signorina, veramente il sole è tondo, Aldo avrebbe detto Rimediotti guarda t’è cascato il senso dell’umorismo, è lì sul pavimento, se ti pieghi altri due centimetri ci arrivi. Purtroppo, il Rimediotti oggi non c’è: colpa di una congiura tra l’umidità imperante e le ultime due vertebre lombari, che hanno piegato ulteriormente il quarto arzillo rappresentante dei giovani dell’altro ieri, costringendolo a letto con un mal di schiena modello Executive.
Se ci fosse stato Massimo, avrebbe tentato di sedare i conseguenti lanci di dentiera; disgraziatamente, oggi pure Massimo marca visita. Anche qui colpa della pioggia e del maltempo che, in efficace sinergia con il vizio di Massimo di mettersi in maglietta per fare i lavori di carico e scarico del magazzino «perché tanto muovendomi mi riscaldo», lo avevano scaldato a tal punto da portargli la temperatura interna oltre la soglia dei trentanove gradi, imponendogli qualche giorno di sosta ai box.
«Si parlava di finocchi d’agosto» spiegò Ampelio. «Dice Aldo che scarseggiano. Io qui n’ho sempre visti tanti. Lei no?».
La commissaria scosse la testa, evidentemente presa da altri pensieri. Se non fosse stato così, non avrebbe mancato l’occasione per dire ad Ampelio che «finocchio» è un termine offensivo, cosa che faceva da ormai sei mesi, senza che per questo il vegliardo modificasse una singola sinapsi al riguardo.
«Mah, a me sembra che in questo paese più che altro abbondino gli stronzi» disse, sempre guardando fuori dalla finestra. «Intendiamoci, dovunque vai ne trovi, ma da queste parti non scarseggiano di sicuro».
«Ampelio» ridacchiò il Del Tacca «mi sa che il tu’ nipote s’è comportato male».
Ampelio virò verso il porpora.
«Massimo? Guardi, signorina, io glielo ridìo, ’un si periti a dimmelo se quer testone fa quarcosa per ir verso sbagliato. Che io son vecchio, ma questo vi è più vecchio ancora» disse Ampelio, indicando il bastone di faggio che gli fungeva da terza zampa. «Però, ar contrario di me, questo vi più invecchia e più diventa duro. Vedrai se glielo ribadisco ner capo se n’accorge».
La commissaria rispose con il primo sorriso autentico della giornata: quello che le ragazze di ogni latitudine fanno quando pensano al proprio innamorato.
Perché, sì, nel frattempo qualcosa è successo. Qualcosa per cui Massimo e la commissaria passano gran parte del loro tempo libero insieme. Ancora presto per dire se prima o poi i due smetteranno di guardarsi negli occhi per guardare insieme nella stessa direzione, ma di sicuro ci sono già varie scommesse in corso.
«No, povero il mio catorcetto, figurati se ce l’ho con lui. Ce l’ho con quei figli di puttana che stanotte hanno ammazzato una ventina di maiali».
«Una ventina di maiali?».
Mentre Aldo puliva il bancone con la massima solerzia dalla gocciolina di caffè di cui sopra, va bene che Massimo è malato ma prima o poi al bar ci tornerà, e per una macchiolina grossa come un batterio è capace di farti due coglioni come mortadelle, Ampelio e Pilade in coro avevano ripetuto le ultime parole della commissaria, in tono sorpreso, più che interrogativo.
«Ventidue, per l’esattezza».
«Cioè, hanno sgozzato ventidue maiali?».
Alice si appoggiò pesantemente allo sgabello levandosi l’auricolare del cellulare dalle orecchie e liberandosi simultaneamente della borsa a tracolla, gesto che riusciva ad eseguire senza strangolarsi solo quando era perfettamente calma. Ergo, i venti secondi successivi trascorsero con un sottofondo di sbuffi: quelli della macchina espresso, dato che Aldo si era messo a preparare il cappuccino ufficiale delle dieci per la commissaria, e quelli della commissaria stessa, provenienti dal laocoontico viluppo di giacca, borsa e fili dal quale presumibilmente la ragazza stava tentando di liberarsi.
Dopo qualche ulteriore secondo Alice riemerse, mentre la borsa crollava al suolo. La ragazza la guardò con disappunto.
«Tanto, più giù di lì non vai. Ventidue, sì. Ma non li hanno sgozzati, le merde. Li hanno avvelenati».
«E chi ce l’ha, i maiali, a Pineta?».
«Il parco naturalistico, no?».
«Il parco naturalistico?». Ampelio sollevò le sopracciglia, mandandole direttamente dentro al basco. «Lì c’è sempre stato un maiale solo».
«Vero» confermò Aldo, poggiando il cappuccino di fronte alla ragazza. «Bastava guardare dietro la scrivania del direttore».
La ragazza guardò Pilade, che mosse lentamente il capo in su e in giù, confermando quello che stavano dicendo i suoi colleghi di livore.
Il parco naturalistico, ufficialmente noto come Oasi Naturalistica del Golfo di Pineta, era uno dei tanti parchi naturali destinati alla protezione della biodiversità di cui la Toscana si può fregiare, ed in teoria avrebbe dovuto essere un vanto per la comunità tutta. In realtà, l’estensione del parco era enorme, e il numero di guardaboschi (volontari inclusi) decisamente esiguo, per cui la riserva era diventata con gli anni una specie di paradiso del bracconiere. Il numero di cacciatori di frodo che si recavano al parco muniti di fucile, decisamente elevato, era fortunatamente riequilibrato dal numero di visitatori annui, assolutamente trascurabile. Questo in virtù di una offerta al visitatore decisamente scarsa, con alcune aree del parco completamente inaccessibili e altre di uno squallore desolante: come, ad esempio, il tristissimo acquario interno, dove la descrizione di ogni specie marina era puntualmente seguita da una valutazione organolettica della sua appetibilità e, non di rado, anche da alcune ricette selezionate con il pesce in questione.
«Questo non lo so» disse Alice, dopo una sorsatina esplorativa. «Io so solo che all’interno del parco c’è un allevamento di maiali. O meglio, c’era. Perché stanotte qualcuno è entrato nello stabulario e gli ha preparato un pastone con qualche ingrediente extra. E stamani alle sei e mezzo il direttore mi ha telefonato dicendomi che aveva un cortile pieno di maiali morti. E a me ora tocca trovare il matricida».
La ragazza, dopo aver intinto il cucchiaino nel cappuccino, lo ritirò su con un velo di liquido, mettendoselo fra le labbra con circospezione. Aldo, che nel frattempo aveva finito di pulire il bancone, si informò premuroso:
«È troppo caldo?».
«No no, il cappuccino va benissimo. Non è il cappuccino che è troppo caldo. È lì fuori che è troppo freddo». La ragazza indicò fuori dalla finestra, da cui si vedevano cordami d’acqua venire giù dal cielo. «Il tempo ideale per una bella indagine all’aperto, no? Via, visto che ci devo andare a parlare, ditemi un po’ com’è, questo direttore».
Ampelio e Aldo voltarono i bifocali verso Pilade, autorità riconosciuta del bar per quanto riguardava la Cosa Pubblica in quanto ex dipendente comunale.
«Come sia questo, non lo so bene» disse Pilade, fumoso, come sempre quando ci sarebbe da parlar bene di qualcuno. «Io conoscevo quello prima, il Saviozzi, che c’è stato per vent’anni, e era una piaga d’Egitto. Questo tipo che c’è ora si chiama Falaschi».
«Esatto» confermò Alice. «Marcello Falaschi».
«È uno giovane, ma pare che sia un crostino, uno di quelli seri. Dove è andato è andato, dice abbia sempre fatto bene. E ora l’hanno mandato apposta per riqualificare il parco. È uno decisionista, di polso, di quelli che si fa come dico io, ma in una cosa così sabbiosa non ci s’è mai trovato. O bene bene o male male».
«Allora, speriamo bene bene».
«Come si vede che è giovane anche lei, signorina».
Giovane. Dipende dai punti di vista. Per esempio il neodirettore del parco, dottor Marcello Falaschi, era stato etichettato da Pilade anche lui in quel modo, e come tale Alice se lo era immaginato. Per cui il cinquantenne in giacca e cravatta che si era ritrovato davanti, con gli occhiali dalla montatura nera e le labbra inesistenti, l’aveva spiazzata un pochino. Quel tizio, secondo lei, giovane non lo era mai stato. C’è gente che nasce con la camicia: il dottor Marcello Falaschi doveva essere nato direttamente con la cravatta.
«Ventidue, esatto, signor vicequestore. Ventidue esemplari di macchiaiola maremmana».
«Macchiaiola maremmana?».
«Esattamente. Una specie tipica del territorio, che si credeva ormai completamente estinta, ma di cui sono stati rintracciati dei riproduttori alle pendici dell’Amiata, nel 2005. Detti maiali sono stati acquistati dal parco su mia disposizione nell’ambito di un progetto di riqualificazione del territorio tramite la ripopolazione con specie autoctone dell’area faunistica».
«Sì. Quindi...».
«Quindi, detti maiali erano stati destinati all’allevamento in stato semibrado aH’interno di una struttura dedicata sita nel parco stesso, in località Noccioleto, dove sarebbero stati allevati e monitorati dal personale del parco in stretta collaborazione con un gruppo di veterinari dell’Università di Pisa, al fine di verificare come l’allevamento boschivo, oltre a permetterci di recuperare una razza a rischio di estinzione, possa influire sulla qualità dei prodotti carnei trasformati rispetto alla procedura standard in stabulario».
«All’aperto?».
«De’, ormai va di moda» confermò il Bertelloni, scartando un tre di mattoni. «Sai, ir maiale è onnivoro, vale a di’ che mangia di tutto. Però ir maiale ti ridà quer che ni dai, ’un s’inventa mica nulla. A seconda di quello che ni dai da mangia’, viene in un modo o nell’artro».
Il Bertelloni, pescando, testeggiò con autorevolezza mentre i vecchietti ascoltavano concentrati, senza mai tentare di interromperlo o quasi. Primo, perché chetare il Bertelloni era pressoché impensabile: quel genere di persona che tenta di discorrere anche sulla poltrona del dentista. Secondo, perché in fondo era stato chiamato a fare il quarto a briscola per quello, non certo per la sua abilità come giocatore di carte.
Finché si rimaneva sul parlare, cioè parecchio a lungo, Evaristo Bertelloni vantava competenze impressionanti, che andavano dalla strategia ideale per squadre di Champions League alla gestione di fondi monetari internazionali. Il motivo per cui una persona così versatile e dalle capacità così impressionanti continuasse a fare il macellaio in una modesta cittadina di provincia era ignoto, e lo stesso Bertelloni, laddove interrogato in proposito, cambiava discorso. Ad ogni modo se Pilade, come ex impiegato, rappresentava la massima autorità in fatto di pubblica amministrazione, quando si parla di maiali ci vuole il macellaio.
«Se lo tieni ner recinto, in du’ metri quadri, e ni dai granone e patate, viene bello grasso ma la carne sa di pòo» spiegò l’uomo giocando un asso a fiori, ovvero la carta meno adatta, ma d’altronde uno o parla o gioca. «Se lo tieni ner boschetto, e ni fai mangia’ la frutta e le nocciole, cresce magro e bello tirato. E ir prosciutto è bello duro, saporito, e sa di frutta e di nocciole».
«E costa cento euro al chilo» precisò Aldo depredando l’asso con un quattro di briscola.
«To’, è quer che ci vòle» disse il Bertelloni, appoggiandosi sulla seggiola. «Siamo in crisi. Ir che vale a dire che la forbice è larga. C’è un ottanta per cento di gente che ’un arriva a fine mese, e un venti di gente che vòle l’aragosta a colazione. Guarda, se ora come ora vói vende’ la roba bona, deve esse’ bona bona, e costa’ tanto. Se è bona e basta, ’un te la compra nessuno».
«Ho capito» disse Alice. «E quindi lei, per riqualificare il parco, ha scelto di aprire questa collaborazione e di iniziare un allevamento di maiali allo stato semibrado. Come mai ha scelto il maiale maremmano?».
Il direttore guardò Alice, da sopra gli occhiali.
«In che senso?».
«Come mai non una razza autoctona della provincia, come il mucco pisano, o...».
Il direttore sorrise, e la sua somiglianza con un essere umano aumentò considerevolmente.
«Be’, signor vicequestore, la scelta era praticamente obbligata. In primo luogo, io qui gestisco un parco di natura boschiva. Noccioli, querce, pini, roverelle. L’habitat naturale ideale per il suino. Se mi avessero assegnato a un parco in Alto Adige, pieno di colline e di pascoli, un allevamento di bovini sarebbe stato perfetto. Io però devo fare i conti con la realtà. Ho un ambiente ideale per il suino, quindi non vedo perché considerare altre ipotesi. Inoltre, pur nell’obiettivo di mantenere la biodiversità, non mi posso dimenticare che io non sono qui a fare della beneficenza, ma devo guardare anche all’efficienza. Detto in altri termini, l’allevamento per il parco deve essere una fonte di guadagno, oltre che un esperimento scientifico».
«E il maiale rende più del mucco?».
Il direttore allargò il sorriso.
« Signor vicequestore, se non mi hanno informato male lei è laureata in fisica, oltre che in economia, vero?».
Alice guardò il direttore con aria stranita. Proprio vero che tutti i dipendenti pubblici vanno al bar. Anche i direttori di parchi naturali, evidentemente.
«Ecco, vede, il maiale è il più efficace mezzo animale per convertire in carne l’energia che mangia. Un maiale trasforma in massa edibile il trentacinque per cento delle calorie che assume. Rispetto al sei per cento dei bovini, non è male. Un vitello deve mangiare cinque chili di foraggio per aumentare di mezzo chilo il proprio peso, a un maiale ne bastano due. Poi c’è la questione riproduttiva, e anche qui il maiale è superiore. Una vacca partorisce un vitello ogni nove mesi, e ce ne vorranno quattro o cinque perché il vitello arrivi a duecento chili; una scrofa, invece, può partorire da sei a otto porcellini ogni quattro mesi. In capo a sei mesi, ognuno di questi porcellini peserà duecento chili circa. Non c’è confronto».
«Però» disse Aldo. «E sicché piano piano stanno diventando tutti allevatori di maiali, via».
«Conviene» ammise il Bertelloni, annusando l’amaro. «Ma mica solo per la roba di lusso. Anche l’allevamenti industriali li stanno riconvertendo. Da bovini passan tutti a suini, piano piano. Perché ir maiale è onnivoro. Ir maiale mangia di tutto. Cosa ni dai, butta giù. Rende. È la bestia che rende di più».
«Ho capito» replicò Ampelio. «Ma allora a questo modo la ciccia farà onco. Lo dicevi te che ir maiale ti ridà quer che ni dai. Se ni dai l’olio de’ motori, ir prosciutto sa di spinterogeno».
«Sèee, i prosciutti...». Il Bertelloni ridacchiò. «Questi son maiali da battaglia. Ci fanno i mescoloni. Sarcicce, porpette, ciccioli, di tutto. Pancetta, di vèlia che va nelle robe precotte. Cosa credi, che nelle buste di pasta surgelata da scarda’ in padella ci mettano ir Patanegra? E ci mettano ma questa roba vi. Te l’ho detto, è crisi. La forbice è larga. O vendi la roba bona bona, o vendi i troiai. Questa gente vi fa i troiai. Ner parco volevano fa’ la roba bona. Allo stato brado, a mangia’ le ghiande».
«Scusa, eh, ma se le metti allo stato brado poi come le ripigli?».
«Ma ’un le mandano mìa a razzola’ in tutto ir parco» chiarì il macellaio. «Stato brado vor dì che c’è ’r bosco, no che le liberano cor paracadute. Le portavano in una zona fatta apposta, ar Noccioleto».
«Ma dove? Dove ci fu l’incendio doloso?».
Il che, da parte di Ampelio, era un po’ come centrare una piscina con un sasso da dieci metri, visto che negli ultimi trent’anni gli incendi dolosi da queste parti sono stati circa una trentina, uno per ogni estate.
«Proprio» confermò il Bertelloni.
«Alla grazia! Tutto dall’ar tra parte der parco».
«Sì, ma era la zona ideale» spiegò il direttore, mentre Alice lo guardava fisso. «Qualche anno dopo l’incendio, l’appezzamento venne piantumato ex novo con noccioli giovani, e per evitare che i cinghiali ne facessero strage l’intera zona venne circondata con un recinto elettrificato. Una zona boschiva recintata perfetta come habitat per i suini. Non potevamo cercare di meglio. C’è qualcosa che non va, signor vicequestore?».
Presumibilmente, con quella domanda, il direttore si riferiva allo sguardo pallato di Alice. Sguardo che la ragazza aveva messo su piano piano, rendendosi conto con stupore che si trovava di fronte a un funzionario pubblico onesto, appassionato e apparentemente competente.
«No, no. Solo, pensavo...» disse Alice, prendendo tempo. «Cinghiali, mi diceva. Il che, in una struttura come questa, significa bracconieri, no?».
Il direttore crollò il capo, con serietà.
«Abbiamo questo problema, sì».
«Mi hanno detto anche che la precedente gestione del parco prendeva la cosa molto sottogamba».
«Per usare un eufemismo» rispose il direttore. «Stiamo tentando di rimettere le cose a posto. Purtroppo il parco è vasto, gli effettivi sono pochi. Ho riorganizzato i turni di guardia, introducendo anche le ronde notturne, che i miei predecessori ritenevano inutili. Facciamo largo reclutamento di volontari, spesso inesperti e disarmati, ma comunque presenti. Insomma, con le risorse che ho, faccio quello che posso». Il direttore guardò Alice. «Lei sta pensando a una vendetta».
Non era una domanda, e Alice non fece finta che lo fosse.
«Ne ha tutte le caratteristiche. Non si uccidono dei maiali per ereditare i loro beni. È pensabile che questo avvelenamento sia uno sgarro da parte di qualcuno di questi bracconieri, secondo lei?».
«No».
Deciso, e secco.
«Come mai così sicuro?».
«De’, figurati se un bracconiere si prende la briga d’ammazza’ venti maiali» spiegò il Bertelloni, sprezzante. «Io lo so, come ragiona un bracconiere».
«Me l’immagino, che tu lo sappia» sottolineò Ampelio. «Ciai ir cinghiale a giugno. E tu sentissi com’è morbido, pare appena nato».
«Tutta roba congelata» glissò il Bertelloni. «E comunque, gente di questo genere ’un si prende ir disturbo d’entra’ in un parco e avvelena’ venti maiali per fatti uno spregio. Casomai te ne frega un paio, e se li fa in gratella. In primo luogo, se proprio ti vole fa’ un danno, ti taglia le gomme der fòristrada».
«Perché, al parco hanno anche i fuoristrada in dotazione?».
«Come no» confermò il macellaio. «Oddio, fòristrada... Son du’ trabiccoli indiani, di velli che te li regalan colle patatine. Verde militare, ma tarmente sudici che se li lavi capace viene fòri che son bianchi, e che in realtà son du’ Panda».
«Pol’esse’. E in secondo luogo?».
«In secondo luogo...» il direttore prese fiato «... chi ha fatto questa cosa conosceva bene lo stabulario. Sapeva dove era il pastone e dove erano le mangiatoie, tenendo conto che si è introdotto di notte ed ha lavorato al buio, sotto la pioggia. Condizioni proibitive per qualcuno che non fosse più che pratico».
«Capisco. Stando così le cose, devo chiederle se recentemente...».
«Ho licenziato qualcuno? No, licenziato no. Ma...». «Ma?».
«Ma non ho rinnovato un contratto. Un contratto di un lavoratore precario, che stava con noi da quattro anni».
«E cosa faceva, questo precario?».
«Era... è un veterinario».
«E conosceva bene la zona delle stalle».
«Direi. È la stessa persona che ha messo in opera lo stabulario, che ha individuato la razza ideale per il procedimento di riqualificazione».
«E che ha avuto anche l’idea della riqualificazione stessa, magari?» chiese Alice, in tono apparentemente sereno.
«Esattamente». Il direttore tossicchiò. «Credo che lei capisca che la cosa ha delle implicazioni che non possono essere trascurate».
Entusiasta, certo. Onesto, forse. Competente, ho dei dubbi. Invece che tu sia un autentico stronzo, caro il mio dottor Marcello Falaschi, comincio a esserne certa.
«Vabbè, fai presto a dire stronzo. Questo ha un parco da gestire. Se non ha i soldi per pagarlo, il precario, cosa deve fare? Adottarlo?».
Sdraiato sul divano, in divisa da Grande Invalido (pigiama, vestaglia, coperta, ciabattoni coibentati in fibra di pile), Massimo iniziò una complessa manovra per alzarsi. Alice, smettendo di mescolare il risotto, lo fermò alzando il mestolo. Del resto, dai fornelli al salotto c’erano circa ottantasei centimetri.
«Te dove vai? Stai fermo lì, che te lo porto a domicilio».
«Mangiare sul divano è da malati».
«Infatti sei malato» notò Alice, citando monsieur de La Palice. «Ti piace al dente, il risotto alla parmigiana?».
«Veramente, a me il risotto alla parmigiana fa senso a qualsiasi grado di cottura. È roba da ospedale».
«Benissimo. Allora, mettiamola così: preferisci la versione dell’ospedale o quella dell’obitorio? Nel senso, ti fa meno schifo al dente o scotto che pare morto?».
Detta così, forse non conveniva rispondere. Mentre afferrava un pezzone di parmigiano e cominciava a grattugiare, tentando di conferire una parvenza di sapore allo stupido e insipido cereale, Alice riprese la domanda originaria:
« Io dico solo che è il classico comportamento da strutturato nella cosa pubblica. Prendi un giovane, capace, entusiasta, gli fai buttare giù un progetto, lo fai lavorare come un negro, e poi alla fine quando è tutto pronto e il frutto delle sue fatiche sta per cominciare a rendere qualcosa, guarda caso gli è scaduto il contratto. E fondi per rinnovarlo non ce ne sono. Però per il mio gigastipendio da dirigente siderale continuano ad esserci. E tutto sommato me li merito, guarda lì che progettino ho messo su».
«Guarda, non sto dicendo che ’sto poveraccio se lo meriti. Sto dicendo che bisogna anche fare i conti con la realtà. Allora, posto che l’ipotesi che un dirigente pubblico, o se è per quello anche privato, si autoriduca lo stipendio per questioni etiche è più difficile che organizzare una sagra della porchetta a Gerusalemme, se questo non ha fondi non ha fondi. Punto».
Alice veleggiò dalla cucina al divano con in mano due piattoni fumanti, che, nonostante quello che pensava Massimo, dall’aspetto promettevano bene.
«Lo so, lo so» disse Alice passandogli uno dei due piatti, già munito di forchetta. «È che ci sei passato anche te, da tutta questa trafila. Sei giovane e lavori per entusiasmo. E per due soldi. Poi piano piano l’entusiasmo ti passa. Magari ti vuoi sposare, avere dei figli, comprare una casa».
Alice si mise in bocca una forchettata senza troppa voglia. Massimo, sempre coerente, dopo aver annusato il piatto senza troppa attenzione all’etichetta prese una forchettatina e assaggiò con curiosa cautela.
Alla forchettatina seguì una forchettatona, circa sei secondi dopo. Dopo altri dieci secondi riaprì bocca, stavolta per parlare:
«Insomma, si diceva che sei andata da questo tizio e l’hai interrogato».
«Hm-hm».
«E ti è venuto il malessere».
«A manetta».
«Per come è messo da un punto di vista lavorativo o perché ti tocca arrestarlo per suinicidio plurimo aggravato?».
Alice, dopo aver smaltito la prima forchettata, ne prese una seconda lentamente.
«Più che altro, perché ho capito una volta di più che sono più tutelati i maiali, certi maiali almeno, degli esseri umani. L’unica specie non protetta alla fin fine siamo noi».
«Capisco. Un crimine a sfondo classista, quindi. Eliminazione dei porci capitalisti da parte del popolo lavoratore. In fondo è quasi un reato d’opinione».
«Io, per certe opinioni, l’arresto lo eseguirei volentieri. No, a parte gli scherzi, questo tizio in realtà mi sembra uno parecchio positivo». Ciomp. «Punto primo, non ha fatto nessuna recriminazione. Mi ha detto che il direttore lo aveva avvertito che i fondi del parco erano pochi e che il parco non poteva più permettersi due veterinari stabili più un precario. Per cui, quando il contratto non gli è stato rinnovato, non si è sorpreso per niente. Tanto più, e questo è il punto secondo, che già due settimane dopo la scadenza del contratto aveva trovato un altro posto, all’ippodromo, come aiuto veterinario al controllo antidoping. Un anno di contratto, per carità di Dio, non sia mai che qualcuno ti assuma in pianta stabile. Però, meglio che nulla».
«Be’, bene, no?» rispose Massimo, dopo aver deglutito un aggregato di risotto delle dimensioni di un mouse. «Quindi, si può escludere che ti girino perché hai dovuto sorbirti una storia lacrimevole. Ti dispiacerebbe arrestarlo, allora, se capisco bene?».
«Parecchio» assentì Alice con il capo, lentamente. «Perché sono convinta al mille per mille che questo tizio non c’entra nulla».
«Senti, ormai faccio questo lavoro da qualche anno. Se c’è una cosa che ho imparato, è che i crimini sono coerenti con le persone che li commettono. Chiunque di noi può commettere un reato, di qualsiasi tipo. Anche l’omicidio. Ma c’è modo e modo».
Massimo annusò, inserì e masticò, sempre annuendo.
«Intendi che il ragazzo non sarebbe in grado di uccidere a sangue freddo, in modo premeditato?».
Alice, ruminando e rimuginando, fece cenno di no con la testa.
«Un uomo, non lo so. Un maiale, no di sicuro» disse, dopo aver buttato giù. «Stiamo parlando di un veterinario, per di più vegetariano. Questo parlava di ’sti maiali come se fossero figli suoi. Li chiamava per nome».
«Ho capito. Comunque, vegano o mangiatore di carne cruda che sia, un alibi te l’ha fornito, oppure ti ha detto che era solo in casa a ingozzarsi di tofu davanti alla televisione sicuramente sintonizzata su di un documentario sugli ungulati?».
«Sì, c’è anche quello» rispose Alice, controvoglia. «Pare che il tipo fosse a cena a casa di amici e dopo a letto con la sua ragazza. Ho già fatto un paio di telefonate, le versioni collimano».
«Ah, c’è anche quello» ridacchiò Massimo. «Certo, la tua impressione conta di più».
«Era semplicemente incoerente, tutto lì».
«A volte le persone sono incoerenti».
«Con quello che dicono, non con la loro natura». Alice indicò il piatto di risotto, da cui Massimo stava grattando via gli ultimi chicchi. «Te, per esempio, sei una pattumiera. Per cui, anche se hai la febbre a quarantasei e una ti cucina una cosa che, parole tue, ti fa senso, non lasci prigionieri».
«Una a caso, no. Una in particolare, magari, sì».
Seguirono tenerezze, su cui ci sembra signorile non curiosare troppo.
Non vi aspettate nulla di incredibile però, Massimo ha ancora la febbre alta.
«Comunque, è un casino».
Massimo, guardando Alice, non replicò. Un po’ perché era d’accordo, un po’ perché aveva un termometro in bocca. Alice, con accanto una concata di panni appena usciti dall’asciugatrice, ragionava ad alta voce, piegando e impilando.
«Escludendo il veterinario, e dando per scontato che sia stato un lavoratore del parco, abbiamo circa una trentina di persone da interrogare».
Massimo mugolò in modo affermativo. Alice, tirata su dalla conca una camicia che sembrava uscita dal frullatore, cominciò a stiracchiarla.
«E, soprattutto, abbiamo una domanda piuttosto spinosa da farci. Chi dei lavoratori interni di un parco può avercela così tanto con il nuovo direttore da fare una bastardata del genere? Che cosa ti ha fatto, di così grave? E a me viene in mente una risposta sola».
«A’nhe a ’e».
«Stai buono, che se muovi quella lingua ti si alza la temperatura. Non mi sembra che tu abbia bisogno di aiuto. Poi di calorie, dopo che ti sei sgovonato tutto il risotto della pentola, in corpo ne hai a sufficienza».
«A’i o’dini».
«Ecco, bravo. Ti dicevo, l’unica risposta che mi viene in mente è che qualcuno dei guardaparco sia in combutta con qualche bracconiere. Il caro dottor Falaschi può dire cosa vuole, ma questo non significa che abbia ragione».
«Nemmeno te» disse Massimo, dopo essersi tolto di bocca il termometro.
«In che senso?».
«Mi sembra che tu dia per scontato che si tratti di una vendetta».
« Sai, a meno di non voler ipotizzare una azione terroristica da parte dei macellai del golfo del Tirreno, capeggiati dal tuo amico Bertelloni, non riesco a vedere altra spiegazione. E l’ipotesi che sia stato il Bertelloni non regge, qualcuno lo avrebbe sentito chiacchierare di sicuro».
«Primo, non sono responsabile di chi mi entra nel bar. Il mio è un pubblico esercizio e ci può entrare chi vuole, il nome che hai appena fatto lo dimostra. Secondo, il fatto che tu non veda una diversa spiegazione non significa che non ci sia».
«No, per carità. A te viene in mente qualcos’altro?».
«Mi viene in mente che chi ha ucciso i maiali non volesse vendicarsi. Semplicemente, voleva davvero uccidere i maiali».
«Dammi un po’ quel coso» disse Alice, tendendo la mano verso il termometro. «Ah, ecco. Trentotto e nove. Ora mi torna».
«Scusa, prova a pensarci» disse Massimo, senza raccogliere la provocazione. «Perché per vendicarti devi entrare ben all’interno del parco, in un punto difficile da raggiungere, invece di fare qualcos’altro di più facile? Ti sembra plausibile?».
«No, lo so, è tirata per i capelli» ammise Alice. «Te l’ho detto, è l’unica cosa che mi è venuta in mente. Ma mi sembra più probabile dell’alternativa. Perché uccidere venti maiali, se non per vendetta?».
«Bene. Sei sulla strada giusta. Prova a farti questa domanda seriamente».
Alice guardò Massimo, il quale tentò di mettere insieme il suo sguardo più convincente per far capire alla ragazza che il suo intento era maieutico, e non provocatorio.
«Bene» disse Alice, con voce da scolaretta. «Tema: Perché si uccide? Svolgimento: Di solito, quando decidi razionalmente di togliere i sentimenti a un essere vivente lo fai per due motivi. O vuoi trarre vantaggio dalla scomparsa del de cuius, oppure vuoi impedire uno svantaggio che ti deriverebbe dal fatto che il soggetto da stempiare resti in vita. Ora, come spiegavo al direttore, non si può ereditare da un maiale».
«Ergo, resta la seconda possibilità. Impedire che il gruppo di suini faccia qualcosa che ti reca danno. Allora, mi chiedo: cosa avrebbe mai potuto fare una ventina di maiali in uno stabulario, per recare danno a qualcuno?».
Mentre Massimo parlava, gli occhi di Alice si erano mossi velocemente. Troppo velocemente per dare l’idea che stesse guardando all’esterno, ma a rapidità compatibile con quella che mostriamo quando siamo costretti ad ammirare le prestazioni del nostro cervello.
«No, nello stabulario no. Stavano per essere trasferiti in una zona precisa. Tu sai cos’è il Noccioleto?».
«Sì, è un posto in collina, molto nell’interno».
«Esatto. È una zona recintata, lontano dai sentieri visitabili. Un posto tranquillo e isolato. Un nascondiglio ideale».
«O anche un sito perfetto per una bella coltivazione clandestina».
«Marijuana?».
«Questo non lo so. Ma che sia marijuana, oppio, fucili o cadaveri, qualcosa di interrato in quel posto c’è, vai tranquilla».
«“... le forze dell’ordine, recatesi quindi sul luogo, hanno scoperto una vera e propria piantagione clandestina di papaveri da oppio. Più di mille piante pronte per la raccolta. Si ignora da quanto tempo la zona, lontana da sentieri e passaggi turistici, fosse stata destinata a tale uso criminale...”».
«Ho capito, Rimediotti, ho capito» disse Alice, acida. «E con questo?».
Il Rimediotti abbassò il giornale, guardando la ragazza con aria costernata. Non è così, diceva il volto dell’anzianotto, che ci si comporta con qualcuno che dimostra i risultati di una tua brillante intuizione.
Del resto, non era l’unica stranezza che un osservatore qualsiasi che fosse entrato al BarLume in quel momento avrebbe potuto notare nella scena. Se l’osservatore, pur casuale, fosse stato molto attento, avrebbe ad esempio potuto notare come il Rimediotti stesse leggendo un quotidiano di due settimane prima, ripescato con diligenza dal vegliardo stesso dalla cassa in cui Massimo conservava i giornali vecchi prima di portarli a casa, per metterli nella cesta accanto al camino.
«To’, signorina, era giusto per dimostrarle che ’un era un’idea così bislacca» disse il pensionato, battendo il dorso della mano nodosa sulla pagina aperta. «La stessa cosa che penzava lei è successa ner grossetano un paio di settimane fa. Vor dì che ’un era penzata troppo male, no?».
«Sì, Gino. La ringrazio del pensiero. Purtroppo, vede, in questi casi non danno un premio per l’impegno dimostrato o per la brillantezza e la cogenza della soluzione proposta. Se ci becchi sei brava, se non ci becchi devi ricominciare, però nel frattempo hai perso tempo prezioso».
«Sì, ma è sicura che ’un ci fosse nulla nulla?» chiese Ampelio, in tono premuroso.
La commissaria, con un sorriso di pura educazione, prese dalle mani di Aldo una seconda tazzona di cappuccino. La prima, corroborata da una sfoglia mela e cannella, era stata immessa nella stiva da appena dieci minuti, ma quella mattina ci voleva il rinforzo.
«Ampelio, guardi, ci siamo stati tutta la giornata. Prima con i cani antidroga...».
«Scusi, signorina» interruppe il Rimediotti «ma è vero che per addestra’ i cani antidroga prima li devano droga’, così diventano dipendenti e la trovan meglio?».
«Ma nemmeno per idea» troncò Alice, nervosa. «È tutta una tecnica di addestramento che si basa sul gioco. Secondo lei i cani antiesplosivo come li addestrano, gli danno da mangiare i petardi? Insomma, primo, cani antidroga. E non abbiamo trovato un beneamato. Poi con un cane addestrato apposta per cercare i cadaveri».
«Ah, esistano i cani per cerca’ i cadaveri?» notò Pilade, ridacchiando. «Perlamordiddio, signorina, ’un ci spieghi come viene addestrato».
Alice, dopo aver guardato male l’isotropo pensionato, continuò:
«E anche lì, abbiamo perlustrato tutta la zona recintata. Risultato, nulla. Alla fine, ci siamo messi a cercare se per caso trovavamo armi o cose del genere».
«Perché, esistano anche i cani per cercare i fucili? O come l’addestrano, gli fanno sniffa’ la limatura di ferro?».
«Esistono i metal detector» chiarì Alice, sempre meno propensa a cogliere il lato umoristico della situazione, a giudicare dal tono di voce.
«E ’un avete trovato nulla» chiosò Ampelio, in tono malizioso.
«Perché, lei sa che avremmo dovuto trovare qualcosa?».
«Eh, oddio...» disse Aldo, guardando Ampelio con complicità.
A essere presa per il culo da un maschio Alice, in quanto femmina e carina, ci si era dovuta abituare. Ma quattro, di cui uno mezzo rincoglionito, no, eh.
« Signori, se non la smettete di fare gli stronzi io vi porto in questura e vi organizzo un interrogatorio medievale».
«Ma via, signorina, ’un se la pigli così» disse Pilade, con tono dolce. «Il fatto è che lei vien dall’Elba, certe cose come fa a sapelle?».
«In che senso?».
«Via, signorina. Si sta parlando di qualcosa di nascosto in un posto che si chiama Noccioleto, dove qualcuno non vuole che ci vadano dei maiali. Proprio non le viene nulla in mente?».
In condizioni di maggiore lucidità, se non avesse passato la notte accanto a un neofidanzato con la febbre alta che vomitava una betoniera di risotto, probabilmente ad Alice si sarebbero collegate le sinapsi, e avrebbe visto la luce. Quella mattina no, disse lo sguardo della commissaria, spersa.
«Vede, signorina, avete usato cani per la droga, cani per i morti e cani per le spingarde. Bastava usare il cane giusto, e aveva fatto».
Ad Alice si allargarono gli occhi.
«Ma, visto che non ci volevano portare i maiali» insistè Ampelio, bonariamente «perché già che c’era ’un c’è andata con un ber maiale ar guinzaglio?».
Stavolta, alla ragazza si allargò anche il sorriso.
«E dove lo trovo, io, secondo lei, un maiale da portare al guinzaglio?».
In quel preciso momento, si aprì la porta a vetri.
«Si pòle?» disse una voce allenata.
«Vieni, vieni, Bertelloni, ci mancavi solo te».
«“L’imminente trasferimento dei prestigiosi suini nella zona del Noccioleto, quindi, avrebbe rovinato il raccolto previsto per l’autunno e causato ai quattro -Tommaso Landini, agronomo, Giacomo Pescatore, guardia forestale, Cosimo Bertinacci e Gianluca Ghelardoni, guardaparco - una sicura denuncia per sfruttamento abusivo di risorse pubbliche. Per evitare conseguenze legali e pecuniarie, il Ghelardoni - che accusa gli altri di averlo incitato, circostanza che i suoi presunti complici negano - avrebbe deciso di eliminare gli animali.
«La zona del Noccioleto, infatti, era una tartufaia abusiva da tempo: da almeno dieci anni, epoca in cui l’appezzamento era stato piantumato a noccioli in seguito all’incendio doloso verificatosi anni prima. Gli indagati, approfittando del fatto che tra le loro mansioni rientrava la scelta e il ritiro delle piante per la riqualificazione, dopo aver consigliato per motivi economici l’acquisto di piante giovani, si procurarono presso un vivaio specializzato delle particolari piante di nocciolo le cui radici erano state opportunamente modificate per favorire la crescita del tartufo, impiantando così una vera e propria coltivazione abusiva del pregiato tubero”».
«Tartufi coltivati?». Ampelio si appoggiò sulla seggiolina. «Ma si pòle?».
«To’, guarda, lo spiegano vi nell’intervista. “Tartufi coltivati? Si può, ma ci vuole pazienza. Parla il professor Bruno Bertolatto: con il terreno adeguato, si possono ottenere ottimi risultati”». Il Rimediotti, dopo aver compitato con diligenza titolo e sottotitolo, passò eroicamente ad affrontare il resto dell’articolo. «“Il primo passo per ottenere una tartufaia è ovviamente l’interramento di piante le cui radici siano state trattate con un procedimento detto di micorrizzazione, dal greco mico, fungo, e riza, radice, tramite il quale si dà inizio alla simbiosi tra il tartufo e l’albero: il tartufo infatti, nonostante il nome latino tuber, non è affatto un tubero, bensì un fungo simbionte, per la precisione un ascomiceta. Da questa micorrizzazione si produrranno delle ife, le quali andranno ad assorbire i nutrienti del terreno e sulle quali cresceranno, nella stagione finale del ciclo biologico, i corpi fruttiferi. Sicuramente, la scelta della pianta è importante: in questo caso, il nocciolo è una delle piante ideali per l’innesto della micorriza. Ma anche la pazienza è fondamentale: per ottenere i primi frutti occorre attendere almeno cinque anni. Impiantare una tartufaia può essere un ottimo investimento, a patto di avere tempo a sufficienza”».
«De’, tempo a sufficienza questi ce n’avevano» commentò Ampelio. «Se ’un ce l’hanno li statali, chi ce lo deve ave’?».
«Ora, Ampelio, avresti anche rotto i coglioni» fece notare Pilade, più delicatamente che poteva. «Anche te eri uno statale, sai, bello. Facevi ir capostazione, mica l’architetto».
«Io? Io ho sempre fatto ir mio! E ’un ho mai sfruttato nulla, sai» se la prese il vegliardo, puntando il bastone verso Pilade. «’Un è che mi sono mai portato a casa un treno! Invece questi usavano la roba dello Stato per i loro interessi».
«Hai ragione» approvò Pilade, con pretesa serietà. «Avrebbero dovuto proporre l’idea ar direttore der parco. Così ir parco ci guadagnava, e loro avrebbero avuto un bell’aumento. Ma di lavoro, no di stipendio».
«Dovrebbero ringrazia’ che ce l’hanno, il lavoro» ribattè Ampelio. «Vedrai, se ir parco lo mandi in malora, prima o poi ’un ce l’hai più. Ma tanto siamo in Italia, ir fiume è mio e der fosso si fa a mezzo. Poi un giorno ir fiume si prosciuga, e sei der gatto. Finché c’è la gente che è convinta che la roba pubblica è roba sua, s’andrà sempre così. Anzi, peggio».
«Eccolo, lui» rispose Pilade, senza scomporsi. «Ascorta, Savonarola, che ci sian degli statali che sfruttano ir posto è fuor di dubbio. Però, dimmi un po’ una cosa: questi tartufi vi, i guardaparco li mangiavan tutti loro?».
«No, de’» disse Ampelio. «Che discorzi, li vendevano. Ce lo raccontava Ardo, che hanno provato a vendili anche a lui».
«Eccoci» disse Pilade. «Li vendevano. Te, Ardo, l’hai mai comprati?».
«Ma nemmeno per idea» negò Aldo, a braccia conserte. «Io la roba di cui non conosco la provenienza non la tocco nemmeno con la canna da pesca. Io ho il mio tartufaio, e compro da lui».
«Bravo, sette più» rispose Pilade. «E se vai in giro a chiede’, tranquillo che oggi non ne trovi nessuno che li comprava. Però se lo chiedevi ieri, vedrai ne trovavi parecchi. Anche ristoratori, Aldo?».
«Soprattutto ristoratori» confermò Aldo.
Pilade tirò un filo immaginario fra il pollice e l’indice, grassocci entrambi.
«Tutti bòni a lamentassi di quelli che prendono l’iniziativa» riprese, sporgendosi in avanti. «Però poi, a compra’ la roba sottobanco, a paga’ l’idraulico senza ricevuta, siamo in tanti. Io lo faccio, e lo ammetto. Però io son d’un artro secolo. Finché ’un ci si mette in testa che quarcuno deve smettella, ci son tanti sordi che lo Stato non li vedrà mai».
«E chi dovrebbe smette’?» chiese Ampelio. «I disonesti, ber mi’ Pilade, ci son sempre stati, e ci saranno sempre».
«Lo so» rispose Pilade, sbuffando. «Io spero ancora che l’onesti sian di più».
In quel momento, si aprì la porta a vetri.
«Si pòle?» disse la voce del Bertelloni.
«Si pole sì» rispose Ampelio. «Visto, Pilade?».
«Cambiamo discorzo, vai, è meglio».
Era passata una mezz’oretta, dentro il BarLume. Il caso era stato eviscerato, disossato e sfilettato in ogni suo aspetto, con un contributo del Bertelloni non trascurabile. Fu Pilade, mentre prendeva il mazzo di carte, a cambiare argomento.
«Ascolta, Bertelloni, me la spieghi una cosa?».
«Volentieri» disse il Bertelloni, con sincerità.
«Te dicevi l’altro giorno che il maiale è l’animale che rende di più. E va bene». Pilade allargò le mani. «Ma allora, perché c’è dei popoli che non lo mangiano? O, per l’ebrei e i mussulmani il maiale è tabù. E dietro i tabù della religione c’è sempre de’ motivi pratici».
«Perché per loro è immondo» spiegò Aldo. «Avevano paura della diffusione delle malattie, probabilmente. La bocca del maiale è sudicia come i suoi escrementi, diceva Mosè Maimonide nella Guida dei perplessi».
«Sapeva una sega Mosè Maimonide, lì» disse il Bertelloni, con l’usuale lievità di modi e termini. «Dumila anni fa ’un lo sapevano mica, che il sudicio porta le malattie. Ci siamo arrivati centocinquant’anni fa».
«E allora spiegaci come mai, maestro» disse Aldo, con sarcasmo. «Non sapevano pesare il mangime?».
«Dipende da che mangime dici» rispose il Bertelloni. «I maiali mangiano di tutto, è vero. Ma l’erba no.
Il fieno no. Sono i ruminanti che mangiano l’erba. I bovini, e gli ovini. E i cammelli. I maiali sono come l’omini».
«Pilade, mi sa che guarda te» commentò Ampelio.
«Ner senso che i maiali l’erba non la digeriscano, brodo» rispose Pilade, facendo cigolare la seggiolina.
«Bravo» approvò il Bertelloni. «Il maiale mangia frumento. Mangia granaglie. Mangia legumi. Mangia roba che mangiano anche l’omini. Perché mai dovrei dare il mio cibo ar maiale?».