Il signor Claudio Giorgi viveva in una casa-famiglia in via Cirenei, non lontano dalla metro Gorla, insieme ad altre otto persone di cui quella che stava meglio era una signora che veniva regolarmente bastonata dal marito e che adesso era ospitata neiranonimato in questo luogo, a scopo di protezione. Ciascuno aveva i suoi problemi, nel caso del Giorgi era in corso il suo trattamento di detossificazione (detox) dall’alcol. La prima parte della terapia, svoltasi nel reparto di Gastroenterologia nell’ospedale Niguarda, con flebo e tutto, durata dieci giorni, era terminata. Nella fase in corso al Giorgi veniva somministrato quotidianamente FAntabuse, il quale è un antagonista dell’alcol, chi lo assume se beve anche un goccio di alcol si sente malissimo, una specie di antidoto alla rovescia. Comunque il Giorgi aveva deciso di andare avanti e tutti i giorni doveva recarsi all’ambulatorio del SERT per assumere il farmaco sotto gli occhi di un addetto. Due volte la settimana aveva gli incontri coi terapeuti del centro alcologico. A parte questi impegni la giornata del Giorgi era piuttosto vuota: nella casa-famiglia aveva da dormire e da mangiare e poteva guardare la televisione. In un centro di volontariato seguiva un corso di ceramica che non gli dava tutte queste soddisfazioni. Poteva uscire, fare delle passeggiate, volendo anche andare al cinema. Nella casa-famiglia teneva il suo computer portatile chiuso nell’armadietto, temendo che glielo rubassero, ipotesi non del tutto remota. Quando aveva del tempo libero, cioè sempre, si metteva davanti al computer e ci passava le ore, in una specie di trance. Se a fine giornata gli avessero chiesto cosa avesse fatto, quali siti aveva visitato, non avrebbe saputo dirlo. In fondo il computer era stato il suo lavoro per tanti anni, come consulente informatico, per una ditta di spedizioni. Nella sua lunga storia di alcolismo aveva perso e riacquistato il lavoro molte volte, ma in questa occasione le sue possibilità di ricominciare ammontavano a zero. Non ne avrebbe avuto neanche la testa.
Era abulico e assente, il suo colorito dava sul grigiastro, era anche dimagrito, gli abiti stazzonati gli cadevano addosso.
L’unico spiraglio nelle sue tristi settimane erano le visite alla sua (ex) famiglia, vale a dire i suoi figli Gianmarco e Margherita, anni 11 e 8, che abitavano con la madre nella casa di ringhiera di via ***. Era l’appartamento dove prima risiedeva anche lui finché, dopo le sue ultime bravate e intemperanze, il giudice non aveva stabilito che in quella casa non potesse mettere più piede. Ma adesso che Claudio stava seguendo con impegno il trattamento di detox gli erano concesse due visite settimanali alla famiglia, della durata di circa un’ora. In realtà lui di visite ne faceva di più, alla moglie Donatella andava bene, non aveva sollevato problemi.
I suoi figli erano contenti, anche se il vederlo in quelle condizioni li lasciava un po’ male: era silenzioso, cercava di mostrare un po’ di calore ma non ci riusciva, e soprattutto quando se ne andava sembrava avere la morte nel cuore.
Fra l’altro non è che la situazione della madre fosse idilliaca. L’avevano licenziata dal suo posto di segretaria amministrativa in una ditta di alimentari all’ingrosso che aveva dichiarato fallimento. Adesso la ditta si chiamava in un altro modo, era una falsa cooperativa e al posto suo lavorava una stagista a costo zero. Il titolare era sempre lo stesso stronzo, anche se il suo nome ufficialmente non compariva più, e Donatella quando pensava a lui si immaginava torture medievali.
L’unico lavoro che era riuscita a trovare era la sostituzione di una sua conoscente, incinta, come inserviente in un bar tabacchi, che sul retro serviva dei pasti caldi a mezzogiorno, otto euro un primo, contorno e caffè, oppure insalatona e caffè. Un lavoro part time di quattro ore al giorno, dalle undici del mattino alle tre del pomeriggio come tuttofare, dal servizio ai tavoli alle pulizie, al nero, che le rendeva poco più di 400 euro al mese. E questo era quanto.
Se pensava ai tempi felici, qualche anno prima, quando suo marito portava a casa 1.650 euro al mese e la tredicesima, e lei arrivava quasi a mille, le sembravano la cuccagna: sì, c’era il mutuo da pagare, ma ci rientrava tutto (anche i libri scolastici). Adesso il mutuo era estinto, ma come vivere con quattrocento euro in tre?
Per questo Donatella aveva cercato un sistema per integrare. Dopo vari e frustranti tentativi non le era rimasto che fare le pulizie negli appartamenti di alcuni suoi coinquilini della casa di ringhiera, vale a dire il signor Consonni Amedeo, sessantaseienne ex tappezziere, e la dottoressa Mattioli Angela, qualche anno in meno, ex professoressa, che fra l’altro del Consonni era ufficialmente la «fidanzata».
A nove euro l’ora questi due incarichi le portavano altri 280 euro al mese. Donatella di fare le pulizie un pochino si vergognava. Non voleva che si sapesse in giro, e tantomeno che lo sapessero i figli, che in realtà lo sapevano benissimo ma facevano finta di no.
«Ma che rimbambito che sono!». Amedeo Consonni, occupante l’appartamento 8, ce l’aveva con se stesso. Era convinto che nel barattolo con scritto sopra «Caffè» ci fossero qualcosa come 120 euro, forse poco più, forse poco meno, invece ce n’erano 70, e quando arrivò il garzone del ferramenta, che gli consegnò vari pesantissimi secchi di metallo, contenenti prodotti per il trattamento del parquet, non aveva abbastanza soldi per pagarlo.
Era costernato, si scusò infinite volte, gli disse che potevano andare subito al bancomat dietro l’angolo, che... Il garzone gli disse di non preoccuparsi, prese i settanta euro e rassicurò il Consonni.
«Il resto me lo dà più tardi, non si preoccupi».
Ah, che testa che ho, rimuginava l’Amedeo, dove andremo a finire?
Usci e al bancomat ritirò 250 euro. Ne avrebbe trattenuti cento nel portafoglio e gli altri li avrebbe messi nel barattolo, come faceva da tanti anni, ancora prima di diventare vedovo. Due pezzi da cinquanta, due da venti e uno da dieci.
Da diversi giorni Luigi De Angelis, detto Luis, l’ottuagenario inquilino dell’appartamento 5, era di umore pessimo, per usare un eufemismo. In realtà era adirato profondamente. Tutto per colpa di un cagnetto e delle sue abitudini.
Costui non aveva la più pallida idea di stare facendo qualcosa di illegale o che semplicemente potesse urtare la sensibilità di qualcuno. Amava pisciare sulle ruote della BMW z3 3.2 24 valvole di De Angelis, ma non lo faceva per dispetto.
Prima di tutto non poteva sapere cosa significasse la BMW per l’anziano proprietario. Era tutta la sua vita e ad essa dedicava la maggior parte delle sue risorse, in termini di tempo, energie e denari. Lui, ex taxista, godeva di una pensione di media entità che, se non fosse stato per la BMW e le saltuarie richieste da parte di sua sorella Ernestina in favore di quel debosciato del nipote Daniel, gli sarebbe stata più che sufficiente a mantenere un tenore di vita decente. Invece no, lui alla sua BMW roadster, un modello speciale, non rinunciava, e una macchina così, una 3.2 24 valvole, costa parecchi soldi, dal bollo alla manutenzione, dai prodotti per la carrozzeria metallizzata all’assicurazione. Ma la voce principale era la benzina. Negli ultimi tempi il De Angelis cercava di stare più attento al chilometraggio e alla velocità media, il che per lui rappresentava un sacrificio: se hai un’auto che fa i 250 all’ora che senso ha andare a 130? L’auto gli costava comunque alcune migliaia di euro l’anno.
E doveva anche subire le critiche di chi vedeva quel vecchietto alla guida di quel bolide: «Vecchio rincoglionito, attento che vai a sbattere!», «Chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane», «Con la crisi che c’è», «Pensionati di merda, per voi la crisi non esiste, voi vi incassate la vostra pensione che paghiamo noi, per un lavoro da miseria». De Angelis non raccoglieva. Aveva lavorato quarant’anni e non gli pareva di rubare niente a nessuno, e ognuno i suoi soldi li spende come vuole. Comunque temeva che quei facinorosi nullafacenti gli vandalizzassero l’auto, per esempio squarciandogli la cappotta. E lui alla perfetta manutenzione delle parti meccaniche e della carrozzeria non poteva rinunciare. Ma l’ingenuo cagnetto non lo sapeva e dunque non aveva nessuna remora a orinare sulla BMW.
Infatti lo faceva sotto gli occhi di tutti, meglio, non proprio sotto gli occhi di tutti, lo faceva la mattina molto presto quando il suo proprietario lo portava a fare una passeggiata, cioè la pipì.
De Angelis era indignato: quel padrone - un signore abbastanza ben vestito che fumava la pipa - sapeva benissimo che il cane andava a pisciare dentro la corte della casa di ringhiera, si può dire che ce lo portasse apposta, certamente non lo trascinava fino ai giardinetti, o in un’area idonea per i bisogni dei cani. Ma negli ultimi tempi quell’uomo non si prendeva il disturbo nemmeno di accompagnarlo, il cane, lo faceva uscire di casa, quello trotterellava da solo fino a destinazione, faceva i suoi bisogni e se ne tornava a casa tranquillo, dedicando magari qualche minuto a fugaci esplorazioni dei marciapiedi e di altri cancelli e portoni.
E il padrone doveva saperlo per forza che la faceva lì, perché la bestia nel resto della giornata non aveva più bisogno di uscire.
Dunque il cane la mattina verso le sette arrivava nella corte, annusava pneumatici e cerchioni e scaricava il suo regalino. De Angelis l’aveva osservato attentamente, per diversi giorni; appostato dietro una colonna sul ballatoio, rimuginava tentando di escogitare un modo per impedire all’animale di continuare a pisciargli sui cerchioni in lega leggera, che lui lustrava quotidianamente con costosissimi prodotti specifici, e per stabilire le modalità di una vendetta.
Anche quella mattina il cane aveva fatto i suoi bisogni con calma e se ne era andato scodinzolante, De Angelis aveva cercato di raggiungerlo per lanciargli dietro qualcosa, una scarpa, un sasso, le cose che si tirano ai cani, ma non aveva fatto in tempo.
Adesso era lì che ispezionava addolorato la ruota anteriore sinistra del suo gioiello, un’auto di valore, pur se con qualche anno sulle spalle, portati benissimo. Ma questa volta c’era una novità.
«Ah, no, questa poi no! Cane di merda! Perché non vai a farla nel letto del tuo riverito padrone? Ah, no, questo è troppo».
Il De Angelis osservava sconsolato una cagata semiliquida eseguita proprio in prossimità della ruota posteriore destra: e si sa quanto l’acidità degli escrementi possa danneggiare i cerchioni e i pneumatici stessi. Ma non era finita! Sulla ruota posteriore sinistra c’era un’altra freschissima pisciata, che andava a corrodere la lega leggera. Ah, quel cane, gli passerà la voglia di sporcare la mia auto.
Cercò di pulire alla bell’e meglio la lordura. Parlava alla BMW: «Non ti preoccupare, tutto si rimedia, non ti preoccupare. E quel maiale la pagherà cara, non trovi che sia giusto?».
L’auto era immobile e indifferente, ma al De Angelis parve di udire un lievissimo mugolio di assenso.
Le cose non potevano andare avanti così, la misura era colma, e il Luis cominciò a definire il piano.
La signorina Mattei-Ferri, dell’appartamento 12, stava cercando qualcosa sopra l’armadio, rimuginando malevolenze contro qualcuno che le aveva chiesto di recuperare un vecchio documento riguardante la sua invalidità, una paraplegia dovuta a un danno alle vertebre lombari, che se le garantiva una cospicua pensione, non le impediva di montare spericolatamente sullo scaleo, un vecchio, schifoso e tentennante scaleo che rappresentava un pericolo solo a guardarlo.
La Mattei-Ferri si sbilanciò, cercando di raggiungere un punto lontano. Ma c’era un inferno di polvere, e un cumulo di oggetti altrettanto polverosi. Mentre cercava di spostare quelle schifezze la signorina perse l’equilibrio, e volò di sotto dallo scaleo, picchiando violentemente la schiena. Si ritrovò a terra, immobile e afflitta da un dolore lancinante, non riusciva a muoversi. Questa è LIO, pensava terrorizzata, pur mostrando una discreta capacità nella diagnosi ortopedica.
E adesso come faccio?
In primo luogo si trascinò vicino al comodino, riuscì ad afferrare due pasticche di ossicodone e le inghiottì senza neanche bisogno di un po’ d’acqua.
Poi si impose di riflettere con calma, perché era in un bel guaio. Lei che per gli uffici ASL risultava paraplegica da vent’anni, non poteva mica dire che era caduta dallo scaleo e che adesso non si muoveva più, dato che era previsto che non si muovesse affatto.
Lentamente l’ossicodone cominciò a fare effetto. Mi verrà la stitichezza, imprecava la Mattei-Ferri, che pure nel frattempo aveva elaborato una linea di condotta.
Riuscì ad agguantare l’apparecchio telefonico, sempre sul comodino, e chiamò la signora Angela Mattioli, dell’appartamento 2.
Angela corse dalla Mattei-Ferri e la trovò sdraiata sul letto, accusava dolori tremendi alle gambe e alla schiena. Ma come, ma non era semiparalizzata? E come aveva fatto a cadere?
«Volevo farmi il bagno e sono caduta cercando di entrare nella vasca dalla sedia, ecco qua, e lei mi deve portare immediatamente a Lugano, alla clinica del professor Lindert. Quelli sono gente seria, qui non capisce niente nessuno».
«Ma lei è fuori di sé, io chiamo l’ambulanza!».
«Sì, se vuole la chiami, ma di quelle a pagamento, chieda quanto costa essere portati fino a Lugano, e lei mi deve accompagnare, che vuole, io non ho nessuno! ».
«Ossignore, signorina Mattei, ma ne è sicura? Perché non contatta l’ospedale, il medico che l’ha curata, quello che la ha in cura...».
«Ah, io da quel delinquente non ci torno, mi fido solo del professor Lindert».
Tanto insistette la Mattei-Ferri che Angela, stravolta, fece tutto quello che c’era da fare. Trovò un’ambulanza che a carissimo prezzo sarebbe venuta a prendere la signorina per condurla alla clinica svizzera dove, a prezzo altrettanto caro, si sarebbero fatti gli accertamenti del caso, cioè in primo luogo una risonanza magnetica.
In tarda mattinata arrivò l’ambulanza, alle 15.30 la risonanza era già pronta, puntualità svizzera.
«Che le dicevo, signora Mattioli? Quando mai in Italia sarebbe successa una cosa del genere? Certo qui si fanno pagare, ma perché, da noi no?».
La situazione non era gravissima: si trattava di una incrinatura a livello di LIO (l’avevo detto io!), era escluso un intervento chirurgico, tutto sarebbe tornato a posto, ma la signorina avrebbe dovuto portare il busto per un bel po’, e tornare periodicamente per i controlli, costosissimi anche quelli. Di questo lei non sembrava preoccuparsi: nel corso degli anni, a spese dello Stato, aveva messo da parte una discreta cifra.
Sarebbe stata dimessa il giorno dopo.
Angela nel pomeriggio prese un treno per Milano, l’indomani sarebbe tornata a recuperare l’infortunata.
«Ma posso venire in macchina?».
«Sì, non c’è bisogno dell’ambulanza, basta che non si faccia tamponare».
Angela fu di ritorno alla casa di ringhiera in serata, assai provata. Per fortuna il Consonni le aveva preparato una cenetta a base di polpette di lesso in salsa di pomodoro. Era previsto che Angela quella sera si trattenesse a dormire dal Consonni, in teoria era la sera della pasticca. Consonni, non molto convinto, chiese: «Che dici, la prendo la pillola?».
«No, Amedeo, non te ne avere a male, ma sono veramente stanca».
«Come vuoi tu» rispose il Consonni, in cuor suo sollevato.
Donatella la sera leggeva sempre libri gialli, anzi libri horror, dove c’erano maciullatori di bambini e serial killer. Li prendeva in prestito in biblioteca, non aveva certo soldi da buttar via per comprarli. Queste letture la tranquillizzavano, a loro modo. Ma certo, io in confronto sono fortunata, ho una casa, uno straccio di lavoro, due bei bambini in salute, un sacco di problemi, cioè praticamente a campare non ce la faccio, ma quando leggo di questi qui che ammazzano la gente, poi magari la fanno a pezzi e se la mangiano e chissà quali altre cose, allora mi tranquillizzo perché so che a me queste cose qui mica succedono. Sono cose che capitano in America, o in Norvegia o a Napoli, o da qualche altra parte. O magari neanche capitano, però a me piacciono. Io se volessi stasera potrei uscire, non ho mica paura che qualcuno mi tagli la gola.
Più problematica era la situazione di Donatella, e più forte doveva essere la carica del libro per riuscire a dormire.
Quella sera prese sonno con una storia di bambine squartate, i cui pezzi venivano inscatolati e recapitati alla polizia.
La mattina seguente De Angelis aveva deciso di passare all’azione. Si era già organizzato: aveva comprato dei biscotti per cani, i migliori, i più gustosi, i più cari. Alle sette e mezzo stazionava ostentando indifferenza nei pressi della sua macchina, simulava di eseguire un sommario controllo della pulizia del parabrezza.
Il cagnetto arrivò baldanzoso, non aveva idea di essere in fallo, né motivo di essere diffidente, un cane socievole con tutti: si lasciò attrarre dall’esca, che De Angelis gli mostrò con una smorfia che doveva sembrare amichevole.
«Vieni cagnetto, vieni con il Luis che ha qualcosa per te».
Gli lanciò un biscotto e gliene promise altri.
Dopo aver provveduto a pisciare sul solito cerchione il cane lo seguì scodinzolando. Il Luis si guardò in giro, assicurandosi che nessuno potesse vederlo.
In pochi attimi condusse il cane in un locale abbandonato, nel seminterrato della casa di ringhiera, al quale si accedeva tramite una porticina verde tutta sgangherata. Si trattava di ambienti di servizio di una vecchia macelleria, ormai fatiscenti: in fondo alle scale c’era niente di meno che una cella frigorifera, a tenuta stagna. La porta blindata funzionava ancora...
«Vieni bello, vieni col Luis...».
In breve il cane ci entrò, e slam, il Luis ce lo chiuse dentro.
«Vai tranquillo, infame cagnetto, là dentro potrai fare tutti i bisogni che vuoi, non saresti il primo». La cella in effetti era stata in passato frequentata da chissà chi, ed era piena di ogni genere di immondizia, macerie e deiezioni. «Vediamo se questa nuova situazione ti farà passare la voglia di fare i tuoi bisogni sulla mia macchina. Ora te ne starai qui per un po’».
De Angelis tornò nella corte, dedicandosi immediatamente a ripulire il cerchione oltraggiato.
Dopo una ventina di minuti arrivò un signore con la pipa in bocca, spenta, che dopo aver fatto tutto il giro della corte, sbirciando in ogni angolo, si rivolse al Luis che lustrava i fascioni:
«Buongiorno, non è che ha visto un cane di media taglia? Bianco e marrone, mica l’ha visto?».
«Un cane, qui? No, qui non ci sono cani, e non vedo che cosa potrebbe venirci a fare un cane, qui».
«Ma, sa, si deve essere perso, so che di solito...».
«Di solito cosa?».
«No, sa, di solito lo porto in giro, ma oggi mi è sparito di sotto gli occhi, pensavo che si fosse infilato qui dentro...».
«No, mi dispiace, qui non ho mai visto nessun cane, ma se lo incontro glielo dico, mi lasci il numero di telefono».
Il padrone del cane non ci vedeva chiaro, lo sapeva benissimo che il suo cane entrava e usciva dall’androne della casa di ringhiera tutte le mattine, dopo le sette: prima no, perché il portone grande era chiuso. E ora questo ti veniva a dire che non aveva mai visto nessun cane, mmhh, possibile?
Ma era solo un vago dubbio: in quel signore, tal Mario Gori, di evidenti origini toscane, prevaleva la preoccupazione per il suo cane, che già gli mancava. Oddio, dove si sarà cacciato?
Nel frattempo De Angelis cominciò a rendersi conto che aveva agito d’istinto, senza un’idea precisa di come potesse evolversi la faccenda: per quanto avrebbe tenuto prigioniero il cane? Avrebbe chiesto un riscatto? E se quello comincia ad abbaiare? No, no, c’era da stare tranquilli, nessuno avrebbe potuto sentirlo perché la cella frigo era perfettamente isolata.
Alle dieci del mattino Angela salì sulla sua Doblò e partì alla volta di Lugano. Gli infermieri gentilmente la aiutarono a caricare la Mattei-Ferri sul sedile posteriore. All’ora di pranzo erano già a casa. Angela si fece aiutare dal Consonni a portare la signorina in camera, e la depositarono sul suo letto. E adesso? Chi avrebbe badato a quella poveretta? Angela si offrì di dare una mano, e riuscì a coinvolgere anche Consonni, questo solo in virtù della seria relazione sentimentale che li teneva uniti.
Nel pomeriggio l’intero vicinato fu tappezzato di piccoli manifesti realizzati con stampante domestica, che raffiguravano il cane, che di nome faceva Moka, definito «meticcio di media taglia, socievole e ben educato. Ricompensa a chi ci aiuta a ritrovarlo».
Ah, adesso i bastardi si chiamano meticci, pensò il De Angelis quando si trovò di fronte la foto di Moka, che aveva un’espressione fra il ruffiano e il dispettoso.
«Ben educato poi...».
Ma in lui cominciò a montare la preoccupazione.
«E se mi beccano?».
Il signor Gori si aggirava instancabile per il quartiere, e periodicamente tornava nella casa di ringhiera. Gli suonò addirittura alla porta, forse per sbirciare all’interno.
« Ha mica novità sul mio Moka? Per caso qualche altro inquilino...».
«Lo chieda a loro, io non so niente» borbottò il De Angelis senza lasciarlo entrare. Ma il Gori non si arrendeva.
«Ah, che storia! Il Moka da solo non si allontana mai, e sa tornare benissimo a casa, non vorrei che qualche malintenzionato... qualche delinquente...».
«Be’ ?».
«Sì, insomma, che lo abbiano rapito, no? Che me lo abbiano portato via?».
«Ah, chi vuole che lo abbia rapito, un bastardino così, cosa lo rapivano a fare...».
Gori fissò uno sguardo acceso e inquisitivo negli occhi del De Angelis, che guardava da un’altra parte.
«Lo sa che c’è una proposta di legge per equiparare il sequestro di animale a quello di persona? Lo sa che è un reato gravissimo?».
«Cosa?».
«Il sequestro di persona...».
«Non ho visto nessun cane, e ho da fare» tagliò corto il De Angelis, sbattendo la porta.
Ma una volta solo fu preso da un senso di inquietudine. Fra l’altro aveva comprato alcuni barattoli di cibo per cani, mica voleva farlo morire di fame. Solo a sera inoltrata, col favore dell’oscurità, si decise ad andare giù nella cella frigo, a portare da bere e da mangiare a Moka, che lo accolse scodinzolando.
«Be’, di sicuro un cane non parla» fu la sua misera consolazione.
Il Gori fece il giro di tutti gli inquilini della casa di ringhiera. Per ultimo visitò il Consonni, che non seppe essere di molto aiuto, e rimase un po’ infastidito dal fatto che quel signore cercasse di buttare l’occhio dentro l’appartamento, per sincerarsi che il cane non fosse lì. Ma si sa, i proprietari di cani spesso perdono compietamente il senso della realtà. Fra l’altro arrivò il garzone del ferramenta, e Consonni tagliò corto col Gori.
Riaprì il barattolo. Saldò il conto consegnando i 40 euro che doveva, ma qualcosa non tornava: adesso nel barattolo erano rimasti 80 euro: 150 meno quaranta a casa mia fa 110, e allora perché ce ne sono 80? Mi pareva di avercene lasciati 150, ma mi posso sbagliare, sarà T Alzheimer che arriva? Non è che ho nascosto altri soldi da qualche parte e non me ne ricordo? Oppure non mi ricordo bene quanto ci ho lasciato nel barattolo?
Così Consonni prese un appunto su un foglietto, oggi ***, ore *** euro 80. E se mi scordo anche del foglietto? Oddio, ci saranno delle pasticche per la memoria? Bisogna che senta il dottore.
Donatella aveva terminato la sua giornata lavorativa. Rientrò in casa, tutto tranquillo, i bambini erano in camera che giocavano animatamente. Mise a scaldare l’acqua per la pasta, poi tirò fuori dal cassetto della credenza tutte le bollette e i conti vari. Fra luce, mensa scolastica, gas e altre voci era sotto di 800 euro. Per non parlare dei libri di testo, era novembre e Gianmarco non ne aveva neanche uno. Si chiese se fosse il caso di ricorrere ancora una volta a suo fratello. Ma come faccio? Anche lui non è che sia messo tanto bene.
Dopo cena i bambini se ne andarono a letto. Lei si servì un bicchierino di vino dolce e si sedette in cucina, distrutta. Da che aveva rivisto suo marito, così umile, malmesso, grigio, le era preso il magone. Che fare adesso? Riaccoglierlo in casa? Ma quante volte era già successo, quante volte lui aveva simulato di essersi rimesso in carreggiata, e dopo un giorno o due aveva ripreso a bere, a maltrattare tutti, a perdere il controllo? Donatella purtroppo doveva essere realistica, le disintossicazioni non funzionano, e anzi dopo è peggio ancora. E poi con che soldi lo mantengo? Almeno alla casa-famiglia gli danno da mangiare.
Si chiedeva anche che impressione potevano avere i bambini, vedere loro padre ridotto a niente, senza alcun futuro e possibilità.
Alle dieci si spogliò e si buttò sul letto. Riprese il suo horror e si addormentò mentre un killer spietato uccideva un bambino di due anni perché voleva vendicare la morte di sua figlia rimasta uccisa anni prima a opera di un chirurgo sbadato, per l’appunto il padre del bambino.
Il problema di Consonni fu che anche nei giorni successivi si verificarono degli ammanchi, nel suo barattolo. Dopo che lui ci aveva aggiunto 30 euro, fino ad arrivare a quota 110, registrando il movimento sul foglietto, ne trovò 80. In quel momento realizzò che non era lui che aveva perso la testa, ma che qualcuno attingeva alle sue riserve per le spese correnti.
Ladri? Ma che ladri sono che prendono solo un po’ dei soldi? Perché ne lasciano una parte, sempre più grande di quella che portano via?
Consonni cominciò a ragionare. Evidentemente si tratta di qualcuno che si introduce in casa in mia assenza, e attinge al barattolo. Qualcuno che ha la chiave di casa. Ma chi può essere? In effetti di copie della porta di ingresso del suo appartamento ce n’erano diverse in circolazione. Una l’aveva Angela: che fosse lei a rubargli i soldi? A che scopo? L’unica cosa che gli veniva in mente è che lo facesse per confermare che lui si stava rincoglionendo. Ma no, Angela non era il tipo da fare scherzi così cattivi. Un’altra copia l’aveva sua figlia Caterina. Ma gli pareva impossibile che quella gli prendesse qualche decina di euro alla volta. È vero, Caterina dal punto di vista finanziario non è che stesse attraversando un gran momento. Lavorava per un’agenzia immobiliare e si sa, con la crisi, il livello delle compravendite era precipitato verso il basso, e siccome Caterina guadagnava a percentuale... Ma no, Caterina non si era mai fatta un problema di chiedere soldi al padre, al bisogno. E non si trattava di 50 o 100 euro, ma di cifre assai più consistenti.
E se fosse stato Enrico? Enrico era il suo nipotino adorato, figlio di Caterina, ma lui aveva quattro anni, a stento sapeva che cosa fossero i soldi. E in ogni caso i soldi sparivano proprio nel pomeriggio, quando Enrico era fuori col nonno.
Un’altra chiave l’aveva Donatella, che veniva a fare le pulizie quando Consonni non c’era. Be’, il caso Giorgi era noto a tutti, Donatella viveva nell’indigenza ma era persona orgogliosissima. Angela si era offerta più volte di aiutarla economicamente, anche a fondo perduto. Non aveva accettato neanche un prestito. Faceva le pulizie la sera, e quando toccava alla casa di Consonni lui si trasferiva da Angela, per la notte. Però gli ammanchi non si verificavano la mattina dopo, ma nel corso della giornata. D’accordo, Donatella, in possesso delle chiavi, avrebbe potuto reintrodursi nell’appartamento quando voleva, ma non gli pareva possibile.
C’era un’altra persona, il Giorgi, il marito di Donatella, che negli ultimi tempi, dopo la disintossicazione, si era rivisto nella casa di ringhiera. E lui, qualche settimana prima, quando era stato ospite di Consonni in tristi frangenti, perché non sapeva dove altro andare, aveva a disposizione una chiave. Che l’avesse ancora e la usasse per procurarsi qualche spicciolo?
In tempi normali avrebbe potuto chiedere alla signorina Mattei-Ferri se aveva notato, per caso, qualche movimento attorno alla sua porta. Lei non avrebbe mancato di registrarlo, stava sempre appostata alla sua finestrina a spiare tutto ciò che accadeva nella casa di ringhiera, non le sfuggiva niente. Ma adesso, dopo l’infortunio, la Mattei-Ferri non poteva neanche stare seduta sulla sedia a rotelle, era allettata, e con suo grande dispiacere non poteva dedicarsi alle sue sedute di osservazione. Comunque Consonni era certo che se interrogata sulla questione la Mattei-Ferri avrebbe dato la colpa ai peruviani dell’appartamento senza numero. Secondo lei i peruviani erano tutti ladri, borseggiatori, taccheggiatori. Per affermare che erano stati loro non avrebbe avuto bisogno di osservazione diretta.
Non era mica escluso che i responsabili fossero loro, anche senza essere in possesso delle chiavi, sicuramente, almeno secondo la Mattei-Ferri, erano abilissimi scassinatori, una porta la aprivano in men che non si dica. Ma perché allora rubare solo una parte?
Mah. Consonni non sapeva che pensare. Per prima cosa smise di mettere i soldi nel barattolo, li lasciò nel portafoglio. E poi avrebbe tenuto gli occhi aperti.
Negli stessi giorni il signor Gori viveva momenti di disperazione: Moka non si era ritrovato. Nessuno gli levava dalla testa che quel vecchio bisbetico e antianimalista, per giunta in possesso di un’auto sportiva, avesse a che fare con la sparizione del cane. Per cui il Gori aveva sorvegliato di nascosto le mosse del De Angelis, anche alla sera, e aveva notato che puntualmente il vecchio, cercando di non farsi vedere da nessuno, penetrava in certi locali abbandonati con un sacchetto in mano, dentro il quale sicuramente celava la scatoletta di cibo per cani e forse un po’ d’acqua. Nel giro di pochi minuti se ne usciva di lì, circospetto, e rientrava in casa. Ma la prova definitiva venne grazie all’aiuto di Roby, un bassotto dotato di ottimo fiuto. Il Gori era riuscito a condurlo nottetempo dentro la corte della casa di ringhiera, gli aveva fatto annusare l’orsacchiotto di Moka. Il bassotto aveva puntato senza esitazione verso il portoncino verde sbiadito. Scendere giù e liberare il cane rapito? No, il proprietario voleva che la liberazione coincidesse con un atto di accusa, e che quel vecchio bilioso pagasse il suo debito con la giustizia.
Il De Angelis, a sua volta, si sentiva circondato, temeva di essere scoperto e messo alla gogna o in carcere. Una sera decise che la mattina successiva, di buonora, avrebbe preso Moka, lo avrebbe infilato in un sacco di iuta di quelli che si usano per le patate e lo avrebbe cacciato nella bauliera, pur esigua, del suo roadster, per portarlo lontano, chi lo sa, magari nel Lodigiano o in Lomellina. Il cane sarebbe stato ritrovato, con ogni probabilità, e riportato al padrone, sicuramente aveva il timbro o il chip. Ma nessuno avrebbe potuto dimostrare che lui era coinvolto nella faccenda, il cane si era perso e basta. In occasione di quella che doveva essere l’ultima volta che dava da mangiare al cane, si assicurò di eliminare ogni prova dalla scena del delitto. Raccolse le scatole vuote di cibo per cani e qualsiasi altra traccia, dopo che Moka ebbe finito di mangiare. Le deiezioni, quelle no, non le raccolse, d’altronde nella cella frigo ce n’erano numerose altre, meno fresche, di natura animale e anche umana.
Angela bussò alla porta di Consonni, abbastanza agitata.
«Amedeo, c’è bisogno di te, è il tuo turno».
«Il turno di che?».
«Il turno con la Mattei-Ferri, non ti ricordi?».
In effetti Consonni aveva dato la sua disponibilità a passare qualche ora con la povera Mattei-Ferri, accudirla per quanto possibile, magari cucinarle qualcosa da mangiare, rassettare la cucina, sistemare il bagno. Era un po’ terrorizzato all’idea di doverla accompagnare alla toilette, un’operazione abbastanza complicata tecnicamente, e che inoltre prevedeva una confidenza, e anche una certa attitudine infermieristica, delle quali Consonni non disponeva. Per fortuna aveva già fatto tutto Angela, che aveva aiutato la signorina a lavarsi e a rivestirsi. La trovò pulita e profumata, supina sul letto, che inveiva contro tutto e tutti.
Consonni cercò di mostrare un’espressione di cordialità e di ottimismo, aspetti per il momento mancanti nell’umore della signorina, che avrebbe dovuto sopportare quella vita per qualche mese.
«Ci vuole tanta pazienza, signorina Mattei-Ferri, tanta pazienza».
«Mi aiuti a tirarmi un po’ su, mi metta un altro cuscino sotto la schiena, che sta aspettando?».
Consonni eseguì, cercò di avviare una conversazione sul tempo o sulla prossima riunione di condominio, ma la Mattei-Ferri non era dell’umore, bofonchiava fra sé lanciando invettive contro la ASL, la categoria dei medici nel suo insieme, il destino e i peruviani.
Era evidente che la signorina per un certo periodo aveva bisogno di una persona che si occupasse di lei, magari non per 24 ore al giorno, ma sicuramente un paio d’ore al mattino e almeno altrettante nel pomeriggio, occorreva una badante part-time, ed era chiaro che questo compito poteva essere assolto da Angela e dal Consonni solo provvisoriamente. D’altronde la signorina non aveva parenti. Ad Angela era venuto naturale suggerire alla Mattei-Ferri di chiedere ai peruviani dell’appartamento in alto, quello senza numero. Era una comunità multifamiliare, e le donne lavoravano quasi tutte come badanti o simili. Forse ce n’era una disponibile, per una cifra modesta, al nero.
La Mattei-Ferri aveva allocato non più di 350 euro, per un monte ore di circa 100 mensili, prendere o lasciare. Tuttavia dei peruviani non ne voleva nemmeno sentire parlare. Quelle donne rubano tutto e passano il tempo a sentire la musica e a telefonare alle loro amiche. Dovrei pagarle per questo?
La questione non era semplice da risolvere. Chiedere a Donatella? Va bene avere problemi di soldi, ma lavorare per 3,50 euro l’ora, e dover sopportare il pessimo carattere della esigentissima Mattei-Ferri, no, non era accettabile. E poi non ne avrebbe avuto il tempo.
La signorina nel frattempo si era appisolata, e Consonni si sedette sulla sedia davanti alla finestra di cucina, la tradizionale postazione di vedetta dove di solito l’invalida passava le sue ore, a spiare. Pareva un osservatorio, da 11 si teneva sotto controllo quasi tutta la casa di ringhiera. Si vedeva molto bene anche l’ingresso dell’appartamento del Consonni, lui ne approfittò per dare un’occhiata.
Il pomeriggio era grigio e umido, un po’ brumoso, però la visibilità era ottima. Era un’ora morta. Dalla camera della Mattei-Ferri giungeva il suono regolare della russata, bene, che si riposasse tranquilla e che non rompesse le balle.
Due ombre di bassa statura comparvero sulla ringhiera, una, quella più piccola, si fermò all’angolo fra i due ballatoi perpendicolari, davanti all’uscita della rampa di scale, come qualcuno che deve fare il palo. L’altra sgattaiolò verso la porta dell’appartamento del Consonni e la aprì, con le chiavi.
Ah, disse Consonni fra sé e sé, ma pensa te.
In serata Consonni raccontò ad Angela che aveva scoperto chi erano i responsabili dei piccoli furti nel suo barattolo dei soldi.
Angela ne fu sorpresa e anche amareggiata.
«Sono sicura che la madre non ne sa nulla, e anzi se lo venisse a sapere li metterebbe in punizione per tre mesi. Figuriamoci...».
«Eh, si vede che loro lo fanno di nascosto per mettere via qualche soldo, d’altronde lo sai che vivono con neanche 700 euro al mese?».
«Guarda, io con lei le ho provate di tutte, le ho detto che se aveva bisogno le potevo prestare qualcosa, senza interessi, me li poteva rendere quando voleva, quando le cose si sarebbero un po’ sistemate, ma non c’è stato verso, dice che non vuole la carità di nessuno... e il marito, l’hai visto... sembra uno zombie, un fantasma... poverini... e i bambini poi...».
«Be’, ci fosse il sistema di fare qualche cosa...».
«Ci hanno scoperto» disse con terrore Gianmarco a Margherita.
«Come fai a dirlo?».
«Nel barattolo non c’erano più i soldi, ma un biglietto».
«E che c’era scritto?».
«“Furfantelli” c’era scritto. Sa che siamo noi».
«E adesso che facciamo?».
«Bisogna liberarsi della refurtiva, verranno in camera nostra a cercarla. Bisogna disfarsene».
«Ma sei scemo? Tutti quei soldi li vuoi buttare via?».
« Se li trovano la mamma ci ammazza di botte, e poi ci mettono in prigione».
«Nascondiamoli in un posto segreto».
«E dove?».
«Te la ricordi la cella frigorifera?».
«Certo che me la ricordo».
«È il posto che fa per noi. E poi anche se un giorno qualcuno ce li trova, i soldi, come fanno a sapere che ce li abbiamo messi proprio io e te?».
Intorno alle nove di sera, nel buio, raccolsero la refurtiva -125 euro - e la infilarono in una busta. Si fornirono di una torcia elettrica e scesero giù nello scantinato abbandonato. Che paura! Ma era un posto che conoscevano bene, un tempo ci andavano a giocare ai mostri.
E poi ci avevano portato loro padre, quella volta che...
Aprirono la porta di acciaio e si infilarono dentro. Gianmarco ebbe come la sensazione che qualcosa o qualcuno gli sfiorasse il polpaccio, o, che schifo, sarà stato un ratto gigante. Gli pareva che tutta quella porcheria di rifiuti, macerie, materassi marci eccetera brulicasse di sorci, pronti a mangiarsi lui e sua sorella. Nascosero la scatoletta di ferro dove avevano inserito il malloppo sotto alcuni mattoni rotti. Lì dentro i topi non sarebbero riusciti ad arrivare.
«Andiamocene, questo posto non mi piace».
«C’è qualcosa che si muove».
Scapparono via, dopo aver richiuso il portellone.
Alle sette e un quarto del mattino successivo De Angelis era pronto. Aveva con sé il sacco di iuta e qualche biscotto per attrarre l’animale. Ma quando scese nella corte ebbe una sorpresa. C’era una macchina della polizia cinofila, un paio di agenti e il signor Gori che tese il braccio indicando il De Angelis in modo imperativo.
«È lui, questo è il signore che ha rapito il mio cane, e lo tiene segregato esattamente lì!» affermò indicando il portoncino verde.
De Angelis si vide in trappola, ma tentò di svicolare in qualche modo.
«Che volete da me, io non so niente, io non ho mai messo piede laggiù, avete un mandato? Qual è il capo d’accusa?».
L’agente della polizia cinofila era assai più conciliante. «Nessuno l’accusa di niente, signore, dobbiamo soltanto verificare che il cane del signor Gori qui presente non sia inavvertitamente rimasto chiuso in certi locali che ci ha indicato il proprietario del cane. Potrebbe essere finito lì dentro e non esser più capace di uscire fuori. Andiamo a dare un’occhiata, tanto più che l’abbiamo chiesto alla attuale proprietaria di questi fondi abbandonati e inutilizzati, la signora Xing, e lei ci ha detto di fare quello che ritenevamo necessario».
De Angelis era livido, gli mancava il respiro. Proprio ora che stava per liberarsi di quel merdosissimo cagnetto. E adesso? Cercava disperatamente una via d’uscita.
«Ah, fate pure, io non c’entro niente».
Il signor Gori era di altro avviso.
«Ho le prove che il signore qui presente ha sequestrato il mio cane, probabilmente a scopo di estorsione. Ho le prove. Perché costui nei giorni scorsi ha acquistato nel negozio di fronte numerosi barattoli di cibo per cani? Eh? Ho tre testimoni pronti a giurarlo».
«Be’, che c’entra, li ho comprati per me, sa, c’è la crisi, bisogna adattarsi, costano poco ed è tutta roba genuina e controllata».
La polizia cinofila si avvicinò al portoncino verde.
De Angelis perse la testa: «Voi non potete entrare, non potete entrare, andate a procurarvi un mandato». Si pose davanti al portoncino, a ultimo baluardo.
«Ma signore, stiamo solo cercando un cane che si è perso, su, che le prende?».
Mentre De Angelis si accasciava al suolo, ormai convinto di essere rovinato, gli agenti entrarono in quei locali fatiscenti e raggiunsero la cella frigo. Aprirono la porta di acciaio e si misero a cercare.
Dopo una decina di minuti uscirono fuori. «Signor Gori, il suo cane non è qui. In quello scantinato c’è di tutto, ogni tipo di schifezza, evidentemente alcune persone usano quel posto come latrina o peggio, ma di cani non ce n’è.
Il suo cane si deve esser perso da qualche altra parte».
De Angelis era sbalordito. Ma come? Possibile? Il cane era riuscito a scappare?
La stessa mattina Claudio passò in visita a trovare i bambini, li avrebbe accompagnati a scuola. Questi gli raccontarono delle ultime novità, per esempio che la Mattei-Ferri si era fatta male e doveva portare un busto enorme.
Dopo aver salutato i figli Claudio tornò indietro e suonò alla porta della Mattei-Ferri. Gli aprì Angela che colse la palla al balzo.
«Signor Claudio, visto che è qui, potrebbe trattenersi dalla signorina una mezzoretta? Devo andare a casa mia per...».
«Va benissimo, signora Angela, faccia con comodo, ho tutto il tempo del mondo».
Claudio e Angela sul ballatoio si intrattennero a parlare per qualche minuto. Poi Claudio entrò, e si mise a sedere vicino al letto della Mattei-Ferri.
La signorina, immobilizzata, guatava il Giorgi con diffidenza e disprezzo. Conosceva i trascorsi.
«Allora, signorina, come sta?». Claudio cercava di rompere il ghiaccio.
«Eh, come sto, non lo vede? Peggio non potrei stare».
Claudio cercò di parlare del più e del meno ma la signorina sembrava non raccogliere, era di pessimo umore. Pertanto rimase sorpresa dall’affermazione del Giorgi.
«Signorina Mattei-Ferri, sono qui per il posto di lavoro».
«Quale posto di lavoro?».
«So che sta cercando un aiuto temporaneo, e io mi propongo come candidato per il lavoro».
«Lei? Ma sa di che cosa si tratta? E sa quanto sono disposta a spendere?».
«Non si preoccupi, negli ultimi tempi ne ho viste parecchie, e so come si sta dietro alle persone. Per la cifra mi va bene quella che stabilisce lei. Però sappia che io le posso dedicare massimo quattro-cinque ore al giorno, e non posso passare la notte qui».
«Passare la notte con me? Ma lei è matto? Io di notte dormo, poi la mattina lei mi porta in bagno e mi aiuta a fare la toeletta, per me maschio o femmina è lo stesso, io non mi faccio delle fisime».
«Nemmeno io, glielo posso assicurare».
«Bene, per me si può iniziare oggi stesso. La prendo in prova per una settimana. Se tutto andrà bene... Ahi! La mia schiena!».
Claudio aiutò la Mattei a cambiare posizione.
«Mi dia una di quelle pasticche...».
Dopo dieci minuti la signorina sembrò riprendersi, la Mattioli non tornava.
«Signor Claudio, non perdiamo tempo, c’è da fare la spesa, prenda una penna che le detto la lista. Vada al supermercato Lidi che è più economico».
«Ma è lontano, non faccio prima a...».
«Non la pago perché lei faccia i suoi comodi, e mi raccomando lo scontrino, non facciamo poi che si va con gli arrotondamenti...».
«Certamente».
«Ecco i soldi. Naturalmente il tempo che sta fuori a fare la spesa io non glielo pago, per cui non le conviene metterci tanto. Ah, lo so bene come va a finire».
«Non si preoccupi, signorina Mattei-Ferri».
«A proposito, lo sa che io sono una che parla schietto. Sul lavoro non si beve».
«Guardi signorina, non lo potrei fare neanche se volessi».
Angela si aggirava per la corte, stava aspettando qualcuno. Finalmente vide arrivare Donatella con un sacchetto di plastica riciclabile della spesa.
«Ah, signora Donatella, cercavo proprio lei!».
«Me? Cercava me? Cosa è successo adesso?».
«Sì, ho bisogno di lei. Mi è capitata una cosa stranissima».
Pareva un po’ eccitata. Donatella non era dello spirito di stare ad ascoltare le «cose stranissime» dell’Angela, aveva premura perché doveva correre al lavoro, ma quella continuò:
«Avanti, mi dia due euro e mezzo!».
«Due euro e mezzo? Ma cos’è, un gioco? Le servono per il carrello del supermercato? Per il posteggio?». Si infilò una mano in tasca alla ricerca delle monete.
«No, sa, lei mi prenderà per matta, ma è per un sogno che ho fatto, una cosa veramente... stranissima. Sa, io a queste cose non ci credo, ma per due euro e mezzo...».
Donatella aveva fretta di andarsene. Consegnò ad Angela due monete da 50 centesimi, sei da 20 e tre da 10. «Va bene lo stesso?».
«Sì, sì, certamente, ma non se ne vada, le devo raccontare del sogno... aspetti... insomma, stamattina, prima di svegliarmi, che è il momento in cui si fanno i sogni premonitori, ho sognato mia zia Lorena, che ci ha lasciato tanti anni fa. Ecco, lo sa cosa mi diceva? Mi diceva: compra una scheda del Gratta e Vinci. Ma non la devi comprare da sola, la devi prendere insieme a qualcun altro e ti dico anche chi: la signora Donatella, la madre di Gianmarco e Margherita. Così ha detto! Mi raccomando, compratela a metà, dividete le spese, se no non vincerai».
Donatella guardava quella spiritata come se fosse una scema, e forse lo pensava anche.
«Bene, signora Angela, sa, nemmeno io a queste cose ci credo. Comunque ormai gli spiccioli glieli ho dati, non li rivoglio indietro, ci faccia quello che le pare. Lei non mi sembrava il tipo che...».
«Corro a comprare il Gratta e Vinci, corro. Oddio, ma la zia non mi ha detto di quale tipo... non si sa mai, no? E poi per cinque euro. Che vuole, io alla zia ci ero così affezionata... E mi ha dato delle indicazioni così precise. Corro al tabacchino a comprare la scheda. A dopo».
Donatella entrò mestamente in casa. Ci mancava anche il Gratta e Vinci. Nel bar dove lavorava ne vendevano a tonnellate, da ogni cifra. C’erano delle persone, soprattutto anziani, che ci spendevano tutto quello che avevano nel portafoglio. Magari vincevano 10 euro, è la mia giornata, pensavano, prendevano altre due schede e le buttavano. I cestini dell’immondizia erano pieni di Gratta e Vinci di ogni tipo, gettati con scorno. Che tristezza. Be’, una volta, a dirla tutta, ci aveva provato anche lei, e ci aveva rimesso 15 euro, quello che guadagnava in due ore e mezzo di lavoro.
Nel pomeriggio il signor Gori fece ritorno nella corte della casa di ringhiera. Doveva rimuovere tutti i manifestini che aveva attaccato, quelli relativi al Moka. Evidentemente il cane era stato ritrovato, ma dove? Be’, era tornato a casa da solo. Il suo padrone, in lacrime per la felicità, aveva cercato di farlo parlare: «Dimmelo Moka, dov’è che eri? Chi è che ti ha tenuto prigioniero? Portamici, dai, fammelo vedere». I cani sono abituati a che la gente parli loro come fossero dei cristiani. Moka qualcosa capiva, capiva che il suo padrone era contento, capiva che gli faceva le feste, ma non molto di più. Forse perché era solo un cane, forse per omertà, non denunciò il De Angelis, il quale intravedendo dalla finestra il Gori che toglieva i volantini tirò un sospiro di sollievo. Ma per due giorni non sarebbe uscito di casa, temendo rappresaglie. Di conseguenza la sua BMW sarebbe rimasta senza cure. Povera bestiola, pensava il Luis.
«Bambini, io i soldi per i libri scolastici non li ho, quindi bisognerà arrangiarsi in un altro modo».
«Mamma, non ti preoccupare, non ce ne facciamo niente dei libri scolastici, ci arrangiamo, facciamo le fotocopie a scuola delle pagine che ci servono».
«Mi dispiace molto, ma purtroppo proprio non li abbiamo».
Donatella, pensierosa, buttò un occhio fuori dalla finestra, e si sorprese nel vedere suo marito che entrava con due sacchetti della spesa dentro l’appartamento della Mattei-Ferri. Ma che sta facendo?
In quel momento arrivò la signora Angela, che bussò alla porta come una furia. Donatella uscì sul ballatoio.
«Signora Donatella! Signora Donatella! È successa una cosa stranissima, una cosa incredibile!».
Oddio, che ha sognato adesso? pensò Donatella, scuotendo la testa.
«Si ricorda il mio sogno del Gratta e Vinci?».
Eccoci, lo sapevo.
«Io la scheda l’ho comprata. L’ho comprata! E indovini un po’?».
Donatella cominciava a non poterne più di quella signora, che aveva un sacco di tempo da perdere.
«Abbiamo vinto! Abbiamo vinto! Mia zia aveva ragione!».
«Abbiamo vinto? E quant’è che abbiamo vinto?».
«Provi a indovinare».
Donatella non si può dire che fosse scontenta, ma aveva paura di farsi delle illusioni, magari addirittura 100 euro.
«Dieci?».
«Acqua, di più».
«Venti?».
«Ancora acqua».
«Cento euro?». A Donatella tremavano le gambe.
«No, no, cento no».
Ci aveva sperato.
«Allora cinquanta?».
«No, Donatella, abbiamo vinto cinquemila euro, cinquemila tondi tondi, duemilacinquecento a testa! ».
Donatella ebbe un mezzo svenimento, dovette sedersi sul primo scalino della rampa. Le ci volle qualche minuto per riprendersi.
«2.500 euro, ma non è che mi prende in giro, vero? Lo sa che non sto bene, lo sa in che situazione siamo... io sono al limite di...».
«Nessuno scherzo, ma le pare...».
«Mi faccia vedere la scheda».
«Ah no, quella è al sicuro. Domani vado a incassare. Una vincita così grossa non la liquidano al tabacchino, devo farmela accreditare. Dobbiamo festeggiare! ».
Duemilacinquecento euro... la cifra risuonava nella mente di Donatella, sei mesi di lavoro, un bel po’ di ossigeno, e per i ragazzi avrebbe potuto... Ma subito, tenendo presente gli ultimi anni della sua vita, temeva che fosse impossibile, che quell’idiota si fosse sbagliata, che sotto ci fosse ancora una volta una trappola che il destino le riservava. 2.500 euro?
«Adesso devo andare» cinguettò la Mattioli «ma mi raccomando, non lo dica a nessuno. Dev’essere un segreto fra me e lei! A dopo, a domani!». Si allontanò trotterellando per le scale, bussò alla porta del Consonni.
Lui le aprì, si guardò intorno circospetto.
«Tutto a posto Amedeo, dopo le do la sua parte, non vorrei farla aspettare troppo, è così fragile che nel frattempo potrebbe struggersi».
Amedeo annuì ed estrasse dal portafoglio 1.250 euro, freschi freschi, appena prelevati in banca.
Nell’appartamento numero 12 Claudio stava preparando il minestrone per la sera.
«Signorina, senta che buon odorino. Le sto cucinando un minestrone con i fiocchi».
La Mattei-Ferri rispose dal bagno: «Non si faccia illusioni, nel suo servizio non è compreso il vitto. Non la pago perché lei stia qui a sbafare una cena. Comunque venga qua, che ho fatto».
«Ha fatto cosa?».
«Quella grossa, venga qua».
«Dica pure, signorina».
«Non c’è niente da dire, deve ripulire e farmi il bidet, prenda quella bacinella di Moplen che c’è lì».
«Il bidet? Io?».
«E chi, Gesù Bambino?».
Così Claudio si dispose a fare il bidet alla signorina, operazione difficile di per sé. Ma insomma, tutto si fa, per lavorare.
Alle sette di sera Claudio si incamminò alla volta della casa-famiglia. Si sentiva in tasca 14 euro, cifra che negli ultimi tempi non aveva mai posseduto. Pensava di non spenderne nemmeno uno, e di consegnarli interamente a Donatella. 350 euro, almeno per due o tre mesi...
«Quei soldi dobbiamo restituirli, se no finiamo nei guai».
«E chi te lo ha detto? Se li restituiamo dichiariamo la nostra colpevolezza».
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«È vero, ma allora come facciamo?».
«Ho un’idea, ne rendiamo una parte, così non li riconoscono, e gli altri li spendiamo subito, così non ce li trovano addosso».
«Mmhh, potrebbe andare, ma come facciamo? E quanto ci teniamo?».
«Io direi, gli riportiamo in una busta anonima 65 euro e gli altri 60 ce li dividiamo, a patto di spenderli subito, se no fanno la somma e capiscono tutto».
«D’accordo. Tu che ti compri?».
«Non te lo dico, è una sorpresa».
«Perché, mi fai un regalo?».
«Nient’affatto, è una sorpresa per me».
«E tu che ti compri?».
«Boh, forse il libro di matematica, è l’unico che serve».
«Ok, quando viene buio prendi questa busta e la infili sotto la porta».
«Ok».
Donatella prima di andare a letto maneggiava le 25 banconote da 100 euro, le disponeva in mucchietti separati, come a individuare diverse destinazioni: questi 1.000 li metto da parte e sono intoccabili, questi 500 sono per i bambini, questi 800 per le bollette, questi 100 sono per me, questi... Alla fine cedette, ripose le banconote nel cassetto e si preparò a coricarsi: come se fosse iniziata una nuova vita si lavò i denti, cosa che di solito la sera non faceva mai, immaginò la mattina successiva di preparare un’abbondante colazione per i bambini e per sé. E magari anche per Claudio, che avrebbe iniziato a pieno ritmo a lavorare per la Mattei-Ferri.
A letto riprese in mano il suo horror: il serial killer questa volta aveva fatto prigioniera una bambina di buona famiglia, e si accingeva a sezionarla da viva. Donatella si disgustò e chiuse il libro. Fra sé e sé pensò: ma vaffanculo.