Quando finalmente suonò la campanella dell’intervallo, sospirando, Mirella Cossatti raccolse i fogli dei compiti nella sua cartelletta, quindi uscì di pressa dalla classe. Oggi l’imperativo era tornare a casa al più presto: con suo marito interrogato in caserma...

Evitò con cura la guardiola dove stava in agguato la bidella Rampetti: quella perpetua ci prendeva gusto a farle perdere tempo con una sfilza di circolari da leggere e firmare... Con sollievo raggiunse un’uscita secondaria e si precipitò alla fermata dell’autobus che stava giusto giusto arrivando.

Trovò un posto sul fondo. Si sentiva addosso una gran fiacca. Nell’ultimo anno le capitava spesso: aveva ormai i suoi bei sessant’annetti calcati, in altri tempi sarebbe già stata in pensione da un pezzo, invece con l’ultima riforma chissà per quanto tempo ancora sarebbe rimasta inchiodata a sta malarbètta scuola. Ché poi, adesso che ci si avviava verso la fine dell’anno scolastico, Mirella aveva ancor più i nervi a fior di pelle.

Era mezzogiorno quando arrivò a casa. Salì al quarto piano con l’ascensore, perché i carabinieri avevano sbarrato l’accesso alla rampa di scale dal pianterreno al secondo. Forse dovevano completare i rilievi.

In casa si svestì in fretta infilandosi poi la tuta da ginnastica, per essere più comoda. Dallo sgabuzzino sul retro della cucina prese scopa straccio detersivi e spazzolone, che aveva preparato la sera precedente: era pronta per scendere. L’incaricata delle pulizie era in malattia da due settimane e, finché non fosse rientrata, ogni inquilino doveva contribuire a farsi carico della «nettezza degli ambienti comuni»: così stava scritto nell’avviso che la signorina Galizi aveva affisso nell’ingresso, a fianco delle cassette postali; con annesso l’elenco dei turni, tra cui «Isnaghi-Cossatti sabato». Inutile cercare di far ragionare quella carampàna: ché con quanto era successo due giorni prima, sai a chi importava la «nettezza degli ambienti comuni»!

Lupus in fabula, non appena Mirella cominciò a spazzare l’atrio, la Galizi si affacciò dal suo appartamento a pianterreno, con un’espressione da cancèrbero, a domandare se ci fossero novità.

«A me lo chiede?» ribattè seccamente Mirella.

«Pensavo che suo marito fosse già tornato dall’interrogatorio in caserma» rimandò l’altra con aria zuccherosa.

Vipera falsarda. Stamattina chissà cosa non aveva ricamato in commenti con la sò lingua bifida. Ché il marito di Mirella era andato in caserma a rendere la sua testimonianza, perché era stato una delle ultime persone a parlare con la «Vedova»... «Non è ancora tornato» replicò Mirella, che poi montò sull’ascensore

sbattendo la porta. Dalla ringhiera del secondo piano si sporse per un’occhiata al pianerottolo inferiore. La porta dell’appartamento della sciùra Fiumara - la «Vedova», come nel palazzo la chiamavano tutti - era aperta e ne veniva un parlottare di voci confuse: evidentemente i riga-russa erano ancora lì dentro. Certo c’era stato un gran clamore quando giovedì l’amministratore, che veniva a farle la sò relazioncina come ogni mezzogiorno, l’era restaa basito scoprendo non solo che la donna era morta - fulminata da un infarto, all’apparenza - ma pure che erano spariti 10.000 euro... Col corollario di un insoffribile vaevieni di uomini in divisa e la lunga litania di domande per ciascun inquilino. Per quel che la riguardava, Mirella non aveva saputo dire granché. Certo conosceva la Fiumara, che era la tutrice di un suo alunno di Terza A, ma la vedeva giusto nel giorno di colloquio-parenti in sala professori: una balena cinquantenne fasciata di nero, che le tendeva una manona molle e sudaticcia. Nel condominio si faceva vedere raramente: sempre blindata nel suo appartamento, stravaccata sul divano che gemeva sotto il suo peso. Una spilorcia che - vox populi - oltre a essere proprietaria dell’adiacente laboratorio di confezioni con una trentina di dipendenti, nonché di parecchi appartamenti nel quartiere, prestava soldi a strozzo... Tito Moscardelli del primo piano aveva commentato spietatamente: «L’era una carogna. Che la vada all’inferno! Una sfruttatrice in meno a sto mònd!»... Ma lui ci aveva il dente avvelenato a causa dell’incidente a sua figlia Paimira: un occhio perso per un frammento di ago sparato fuori da una tagliacuci qualche mese prima... Eggià, non si poteva proprio dire che la morte di quella arpia avesse strappato lagrime a qualcuno... A Mirella dispiaceva solo per Richi, il suo alunno: adesso che la zia non c’era più, che ne sarebbe stato di quel sedicenne solo al mondo?

Di fronte all’appartamento della defunta, la porta dell’ 1 B era chiusa. Probabilmente il vecchio Moscardelli era in cantina a trusciare e sua figlia dormiva: l’incidente le aveva lasciato una forte depressione, per cui si rimpinzava di sonniferi.

Basta, Mirella, finisci sto maledetto pianerottolo del secondo piano... Silenzio alla porta dei Perniconi. Guardando il loro tappetino con la scritta «Welcome», provava un certo disagio: sempre a litigare quei due da quando lui era in cassintegrazione... Silenzio anche dirimpetto, dalla peruviana: giovane con un gran giro di amici maschi il sabato sera, quando dall’appartamento veniva musica a palla... Passò nervosamente lo straccio umido sul pianerottolo.

Terzo piano: forza, Mirella, che te ghe la feet!... La porta di destra era socchiusa. Se ne affacciò Ginetta Fudani coi bigodini in testa: madre nubile quarantenne di due gemelle, era parecchio chiacchierata. Dal grembiule non del tutto bottonato le spuntava il ventre gonfio. Doveva mancare poco al parto... Mirella le fece un cenno di saluto e si voltò verso la porta spalancata del 3 B dove, come sempre a quell’ora, la vecchia Sibìlia veniva preparata per la passeggiata giornaliera da un’infermierona imperiosa e robusta.

Quarto piano. Dalla porta del 4 A uscì il ragionier Contini, l’amministratore dello stabile, che le borbottò un saluto boccastorta. Mirella scrollò la testa: il Contini doveva avere la stessa età di suo marito Beppe, ma si pennellava alla grande, perfino i baffetti e le sopracciglia. Così vanitoso: appena scorse Mirella, si sistemò i capelli con la mano, cercando di mascherare la zona in cui erano radi... Vissuto per tutta la vita con la mamma, da un paio di mesi aveva seppellito la bonànima e inaugurato la convivenza con una trentenne. Da allora per il ragioniere niente più cravatte e giacche scure spolverate di forfora, ma solo camicie colorate. Ah, sti ometti!...

Aprì la porta del proprio appartamento, ritirò secchio e spazzolone, poi si cambiò la maglia sudata: per essere aprile, faceva proprio caldo... Bón, ora che i lavori erano finiti, Mirella poteva concedersi mezza giornata di riposo: la correzione dei compiti l’avrebbe lasciata per la domenica pomeriggio. «Questo di sette è il più gradito giorno... » recitò tra sé entrando in cucina, accompagnata dalla gatta Sophia in allerta perché era l’ora della mangiativa. Speriamo che Beppe torni presto, si augurò.

Al suo rientro, Beppe trovò la Galizi a stopparlo. Chissà da quanto tempo l’era di vedetta, si capiva che non stava nella pelle dalla curiosità: «C’è qualcosa di nuovo, dottor Isnaghi?».

«No» replicò lui secco secco.

«Ma quando ci sarà qualcosa di nuovo, me lo dirà, vero?» provò a insistere la sanguisuga.

Col fischio che gliel’avrebbe detto.

In cucina lo accolse sua moglie. «Cos’è sta faccia da funerale? Stai bene? Ti va un bicchiere del tuo kvas?» gli chiese Mirella. Ché lei sapeva benissimo che lo kvas, elaborato personalmente da Beppe facendo fermentare pane di segale secondo un’antica ricetta russa, era la sua bevanda preferita: ce n’era sempre un bottiglione pronto in frigorifero.

Beppe però scrollò le spalle, tanto sapeva che non poteva nasconderle niente: «Sarebbe meglio un fernet. Anzi, se mi fai compagnia, anche due dita di pastis vanno bene. Come lo prendi tu». Le fu comunque grato che non insistesse con ulteriori domande: pareva addirittura che Mirella cercasse di sdrammatizzare. «Eh dài!» disse infatti sua moglie in tono paziente, recuperando la bottiglia e due bicchieri. «Sei stato in caserma, e allora? Ti hanno forse accusato di qualcosa? Ti hanno minacciato con un mandato di perquisizione?».

Lui sospirò. «Ma no, l’è che...» si interruppe come distratto dal tintinnio dei due cubetti di ghiaccio che cadevano nel bicchiere.

«Te lo dico io cosa ci hai» incalzò Mirella. «Secondo me, non sei più abituato a metterti elegante, dall’epoca in cui andavi in giro per le campagne della Bassa a fare comizi per il Partito» e scoppiò a ridere. «Stamattina quando sei uscito, parevi vestito da sposo! Neanche al nostro matrimonio ti sei messo così in tiro!».

C’era poco da ridere: per andare dai caramba bisogna curare l’aspetto, sennò si rischia di trovarsi in una condizione di inferiorità, non si può mai sapere con quei tignosi, un interrogatorio l’è mica come giocare a cicciorlànda-chi-domanda... Beppe agitò un paio di volte il bicchiere e bevve il pastis d’un fiato. «Mi cambio, sto un momento al computer e poi scendo in cantina» annunciò con solennità, cercando di mostrarsi insensibile alle punzecchiature di Mirella.

«Fantascienza?» chiese lei, anche se certo non aveva bisogno di domandarglielo: quando Beppe era di quell’umore, poteva tranquillizzarlo solo la lettura di uno dei vecchi romanzi di fantascienza che teneva nello scantinato.

«Sì, ce l’ho già in mente. Con la morte della Vedova e il casino che è scoppiato nel palazzo, mi rileggo Condominium di Ballard, così almeno mi consolo col fatto che ci potrebbe andare molto peggio!» dichiarò.

Nel suo studiolo Beppe aprì il computer portatile, era contento di potersi imbozzolare di nuovo nei propri ritmi. Osservò per un minuto buono lo schermo nero, ma poi lo richiuse lentamente con un sospiro. Per oggi meglio non collegarsi in rete. Si stropicciò le palpebre stanche senza levarsi gli occhiali da vista, poi iniziò a lisciarsi i baffoni con la meticolosità che riservava alle decisioni difficili. Il testo del suo intervento per la videoconferenza domenicale coi compagni del CSOVIA era stampato di fresco, lì accanto al computer - cinquanta paginette dal titolo «Verso Pietrogrado: i passeggeri del vagone piombato» - e aspettava solo una veloce revisione; tuttavia, per la prima volta dopo anni, Beppe era incerto se partecipare. Eh, vacca boja, forse si stava preoccupando inutilmente: il collegamento criptato era affidabile. Eppoi, tutto considerato, perché mai doveva aspettarsi una strettissima sorveglianza da parte di pulòtti, riga-russa, polizia postale e magari anche del SISDE? Per essersi presentato spontaneamente in caserma a rilasciare dichiarazioni? La sua era una prova di assoluta disponibilità a collaborare. Perché mai dovevano sospettare che lo scopo del suo zelo collaborativo avesse come unico fine tenere i caramba fuori da casa sua? Era stato molto peggio giovedì pomeriggio, quando gli avevano posto un paio di domande sul pianerottolo, con la porta socchiusa e lui sullo zerbino a fare da barricata. A ripensarci gli veniva la pelle d’oca ancora adesso. E a niente valeva ripetersi che il maresciallo sembrava una persona gentile e comprensiva - «Una pura formalità» gli aveva spiegato - perché qualcuno al comando ci aveva pure la testa fina, il giudice Porfirij Petrovic in Delitto e castigo ne era la dimostrazione.

Basta. Beppe si alzò di scatto, si tolse gli occhiali e dal cassetto prese le chiavi della cantina.

Scesa in cortile a buttare le bottiglie vuote nella campana del vetro, Mirella si accorse che dall’angolo del laboratorio di confezioni non veniva il solito ronzio delle macchine, nonostante che al sabato pomeriggio normalmente si lavorasse a pieno ritmo. Forse il capannone era chiuso per la morte della Vedova. C’era comunque un crocchio di donne: poggiate al muro in ombra, fumavano e parlottavano. Alzando gli occhi nel sentire il rumore dei vetri che cadevano nella campana, una di loro riconobbe Mirella e le fece cenno di avvicinarsi.

Si trovò subito circondata dal gruppetto di operaie vocianti. Le conosceva quasi tutte: lavoravano li da molti anni e spesso lei le aveva incrociate in cortile. Un lavoro pesante: nella bella stagione, quando anche le finestre del laboratorio si aprivano per il soffoco, a Mirella era più volte capitato di buttare l’occhio su quella trentina di donne chine sui tavoli tra il crepitio del tessuto sintetico che passava nelle tagliacuci e il titìch-titàch delle macchine; gesti sempre uguali, schiene che si rialzavano solo una volta che le tute da ginnastica erano pronte per passare sotto gli sbuffi di vapore della pressa da stiro... Il caso poi aveva voluto che proprio l’inverno precedente Mirella, mentre andava in garage, avesse assistito a un incidente: un cortocircuito così impressionante che, pur attraverso il vetro opaco della porta chiusa, lei dal cortile aveva avuto l’impressione che una fiammata invadesse tutto il laboratorio. L’urlare delle operaie l’aveva spinta a entrare. Dentro, nell’orribile odore di bruciato, un’operaia anzianotta stesa sul pavimento: viso livido, labbra violacee, corpo scosso da spasmi. Mirella aveva preso in mano la situazione, perlomeno tanti anni di esercitazioni di pronto soccorso a scuola erano serviti a qualcosa: staccare la corrente, provare il polso, chiamare l’ambulanza, ché le altre donne stavano impietrite e quel faccia-de-palta del sorvegliante, con tanto di maglietta con la scritta «Sicurezza», non faceva che ripetere che non era successo niente di grave.

Dicono che non riaprirà più. Non ci sono più soldi, l’ha detto il Contini. Buono quello che per l’impostura Pè il numero uno. Figuriamoci se la Vedova non ci aveva soldi in banca: con tutti gli appartamenti che possiede nel quartiere, ce ne ha da impienire il gozzo. Ma no, i palazzi l’eran mica suoi, sono di una società vattelappesca, lei sul conto non ci ha neanche una palànca, neppure i soldi per il funerale ci sono. Poveretta. Poveretta un cazz. Ma no. Ma sì. Chiudono perché hanno un laboratorio uguale a questo in Romania, che li fa guadagnare cinque volte tanto, perché là le operaie sbassano la testa di più. E a noi una pedata in quel posto che anche Paperon de’ Paperoni fa vedere nudo quando va al cesso.

Mirella non le aveva mai sentite così arrabbiate, neppure per l’incidente dell’operaia folgorata, o quando la Paimira aveva perso l’occhio... Chi lo sa, pensò Mirella: l’incidente per loro è la condizione umana a cui non ci si può sottrarre; ma farsi rubare d’un botto la prospettiva dello stipendio mensile l’è tutt’altra cosa: la vita si sgretola. Quando l’acqua ti tocca il culo, impari a nuotare.

D’improvviso il borbottare delle operaie si afflosciò. Dal retro del palazzo uscivano due persone dirette ai garage: la figura tozza del Contini e quella slanciata della sua morósa. «L’è la sò... fidànza» sussurrò una delle operaie. E in un silenzio torvo le donne restarono a guardare i due mentre salivano sull’auto sportiva del ragioniere e uscivano rombando dal cortile.

Vanno a cena a Portofino come ogni sabato. Eh, il Contini deve saperla lunga sui soldi della Vedova: chiedetelo alla Ginetta, ché la padrona la faceva lavorare a gratis nel suo appartamento; e certe volte lei li ha sentiti litigare per la fabbrica in Romania che mangiava i capitali...

La gente sa un sacco di cose, spesso basta saperla ascoltare, pensò Mirella rientrando in casa. Salì al terzo piano e suonò al campanello del 3 A. Dal pianerottolo sentì che le urla delle bambine venivano zittite. Un ciabattare oltre la porta. Ginetta Fudani si affacciò e sorrise: «Entri. Ho appena fatto la moka...».

Sedute nel cucinino - in corridoio le gemelle avevano ripreso i loro giochi rumorosi - le due donne bevvero il caffè. Dopo aver riferito quanto si diceva in cortile sulla chiusura del laboratorio, Mirella buttò là una domanda sulla fabbrica in Romania.

Ginetta ammise che sì, varie volte, mentre faceva le pulizie a casa della Vedova, aveva visto arrivare il Contini col computer: si sedeva con la padrona e facevano i conti, soprattutto della fabbrica in Romania, si capiva che parlavano di segrètt d’importanza... E, quasi scusandosi, aggiunse che, siccome era addetta alle pulizie nel laboratorio, quella taccagna della padrona la obbligava a lavorare anche nel suo appartamento senza pagarla. Di una che le han già cantato il Miserere, non bisognerebbe dir male, ma la Vedova l’era proprio una pacciamèrda... Perché Ginetta non si era rifiutata di fare lo straordinario non pagato? Le pulizie erano faticose, alla fine lei aveva la schiena rotta, d’accordo, ma essere senza lavoro non sarebbe stato peggio? Poteva mica portare le sue figlie per la strada, sotto i ponti. O surbì o sciuscià.

Mirella guardò le mani gonfie della donna che le stava seduta davanti, la pelle sciupata, le unghie rovinate dai prodotti per la pulizia. Di certo ste mani non raccontavano voglie di stakhanovismo, piuttosto la disgrazia di essere una ragazza madre gravida un’altra volta.

Da sotto il tavolo si sentì miagolare. Mirella allungò il collo e intravide una gatta bianca con un pancione spropositato.

«Eh, s’è fatta mettere incinta ancora. Come siamo sceme noi femmine. Sceme e disgraziate» commentò Ginetta che aveva seguito lo sguardo di Mirella. «Mi sa che le manca poco...».

Quando Mirella prese congedo, la gatta ne profittò per sgusciare fuori e fuggire balzelloni su per le scale. Ginetta scrollò la testa: «Di sicuro è andata sul terrazzo: è lì che le altre volte si è infognata a fare i micetti...».

La cantina degli Isnaghi-Cossatti era all’estremità del corridoio, nel punto più lontano dall’ascensore, quasi sotto la finestrella di vetrocemento che riusciva appena a intaccare l’oscurità. Sulla destra dell’ascensore, un led rosso tremolante indicava un interruttore enorme che a Beppe faceva pensare ai pulsanti dei caselli autostradali per l’emissione del biglietto. Lo schiacciò e dopo qualche istante il corridoio si riempì di una luce morticina. Su ogni lato si affacciavano quattro porte -inchiavardate come se difendessero caveau bancari e non miseri ripostigli stipati di barlafùsi - ciascuna con una piccola feritoia all’altezza degli occhi, accuratamente chiusa dall’interno: tutte precauzioni che comunque non bastavano a nascondere piccoli frammenti della vita privata dei coinquilini. Il Perniconi, per sottrarsi ai litigi con la moglie, si imboscava in cantina a imbottigliare - o a bere? - vino, per cui davanti alla sua porta aleggiava sempre un sentore pungente. Se si annusava con attenzione davanti al ripostiglio della Galizi, si potevano distinguere fragranze agrodolci di conserve e sciroppi, probabilmente in una quantità sufficiente per superare più di un conflitto bellico. Il locale del Contini sembrava invece un deposito di naftalina, segno che dopo la morte della madre vi aveva sbaraccato vestiti, centrini e coperte a uncinetto della porànima per far posto negli armadi agli abitini della recente morósa. La cantina della Fiumara era invece in uno stato di abbandono catacombale, perché a causa della ciccia la proprietaria qui non era mai scesa: la mole della Vedova aveva sempre ricordato a Beppe quella del Barone Harkonnen di Dune, solo che la Fiumara per muoversi non aveva a disposizione i sospensori di Holtzman... In fondo, poi, dirimpetto alla porta di Beppe, ristagnava un perpetuo odore acre di solventi e pece, perché Tito Moscardelli aveva praticamente trasformato il suo locale in una bottega da bagatto. Beppe lo incontrava spesso lì sotto, e quasi ogni volta il vecchio gli raccontava di come, durante la guerra, aiutasse sopà a fabbricare di nascosto scarponi per i partigiani. Anche adesso lo sentiva trafficare all’interno della sò cantina, un frusciare di spazzole che si alternava a secchi colpetti di martello.

Beppe impiegò pochi minuti a rintracciare Condominium la B di Ballard era in tripla fila sul secondo scaffale dall’alto. Nell’uscire, trovò Tito che lo stava aspettando.

Il Moscardelli aveva un’espressione truce piuttosto ridicola, perché quando serrava le labbra ricordava vagamente Braccio di Ferro, curvo e incartapecorito ma con energica ostinazione. «Cosa ci avevano da chiederti i riga-russa sulla Vedova?» esordì il vecchio senza preamboli, in un tono che la diceva lunga su come la pensava. Si passò le mani nodose sulla pettorina di cuoio, come per pulirsele, fissando Beppe negli occhi; poi si avvicinò con fare cospiratorio: «Dieci anni fa ci sarei andato io a trovarla con un tòcch de lègn... Quella strìa!» disse con un sorrisetto maligno.

Eggià, il Moscardelli ce l’aveva a morte con la Vedova, per l’incidente di sua figlia Paimira che aveva perso un occhio a una delle macchine tagliacuci; e da quel momento non era più uscita di casa, rimbambita dai farmaci antidepressivi. Beppe provava una gran pena per lei, l’aveva perfino aiutata a stendere il ricorso per ottenere un indennizzo, ma tutti i tentativi per smuovere la Vedova erano falliti. Pure giovedì, un’ora prima che la Fiumara fòsse trovata morta, lui era andato dalla Vedova, ma solo per ricevere l’ennesimo «No» alla richiesta di risarcimento.

Tito continuò velenosamente: «Non ce ne aveva mai a basta di danee, quella là: doveva darli anche a strozzo!».

Beppe annuì, a disagio: la cantina aveva la particolarità di amplificare i rumori e quindi anche le conversazioni, e il palazzo era pieno di orecchie lunghe: perciò meglio star schisci. «Comunque adesso non c’è più traccia dei soldi, m’ha riferito il Contini» disse sbassando la voce: ché Beppe aveva incrociato l’amministratore in caserma, convocato pure lui perché aveva scoperto cadavere e furto; mentre Beppe, a quanto pareva, era l’ultimo a avere visto la Vedova viva solo un’ora prima, quando era andato a parlarle per l’indennizzo alla Paimira. Aveva ancora la scena davanti agli occhi: lui che argomentava le ragioni dell’operaia insinuando qualche visitina dell’ispettorato del lavoro, mentre la Vedova lo squadrava con la sua perpetua espressione tra l’insofferente e lo scocciato che riservava al mondo intero e gli consegnava una lettera del suo avvocato, in cui la colpa dell’incidente veniva ribaltata sulla Paimira che non aveva controllato il meccanismo di protezione salvaocchi... «Eh, Tito, il Contini l’ha messa giù spessa con la storia degli investimenti per avviare un altro laboratorio in Romania: sembra che abbiano prosciugato il capitale».

«Ma cos’ha da dire quel leccapee! Che va tutto a raméngo? Che sequestrano la fabbrica e che la mè Paimira non ci avrà mai soddisfazione? La giustizia crede che noi siamo tutti zifolòtt-de-menta, compagno Isnaghi? I soldi la Vedova ce li aveva: con tutti gli appartamenti che le pagavano il fitto in questa via! ».

Eggià, affitti in nero, appartamenti intestati a prestanome, chissà cosa c’era dietro sto marciume... Di sicuro la polizia tributaria avrebbe fatto accertamenti e qualcosa doveva pur saltar fuori, ma chissà quanto tempo ci sarebbe voluto... Beppe arretrò di un passo verso l’ascensore.

«Pensavo di averne già viste di tutti i colori, compagno Isnaghi...» continuò Tito, rabbioso. «Che facce de mal-de-vénter! Con tutti gli immobili che ci aveva e i prestiti a strozzo, adesso voglion farci credere che la Vedova l’era alla canna del gas! Che quelle bambalù-ghe di operaie la bevano, passi. Ma che ci creda tu, che sei studiato e che hai sempre fatto il controllore dei conti per il Partito, questo proprio non mi va giù!».

Beppe non se la sentì di mettersi a discutere e neanche di rabbonire il vecchio con qualche frase di circostanza. «Devo tornare di sopra» gli disse semplicemente, dirigendosi verso le scale, perché l’ascensore era occupato. La lettura di Ballard era sempre più urgente.

Nell’atrio però cambiò idea: uscì dal portone e traversò la strada diretto al bar dei cinesi che sul marciapiedi avevano piazzato due tavolinetti riparati dal passaggio delle auto per mezzo di un paravento di plastica rosa... Si sedette voltando le spalle al muro, guardando verso il portone del condominio. Ordinò un caffè e una grappa. Aveva bisogno di riordinare le idee prima di parlare con Mirella.

Ché tutta quella faccenda gli rugava proprio. Innanzitutto il non essere stato capace, quando la Fiumara era in vita, di piantarle una grana per il laboratorio chiaramente non a norma. Porco sciampìn, chissà perché, quando era riuscito a mandarle un controllo, gli ispettori avevan trovato tutto in regola, i salvavita efficienti, gli estintori pieni, perfino le scarpe di sicurezza per le donne che adoperavano le presse... Tirò fuori una sigaretta dal pacchetto. Doveva fumare di meno. La rimise via e si grattò il mento... Quanto alla Vedova, mai che si fosse scollata dalla sua posizione: che guadagnare sempre di più era il sò Vangelo; col sottinteso che le operaie eran tutte fancazziste.

Una cinesina gli portò il vassoio. Lui zuccherò il caffè e cominciò a trusare lentamente. Essi, gli rugava eccome. Bevve un sorso. Un gusto amaro agli angoli delle labbra. Ci mise un’altra bustina... In altri tempi la sarebbe mica andàda così. In altri tempi quando le parole lotta e sciopero avevano un senso. Roba distante millànta anni. E adesso? La solidarietà operaia fatta saltare in aria dalla crisi. E una certezza, ormai: i vincitori erano Lorsignòri.

Frugò di nuovo in tasca e riprese la sigaretta, decidendo che per diminuire la razione giornaliera di fumo non era il momento giusto. La scatoletta di cerini che aveva trovato in cantina era un po’ umida, ci vollero tre tentativi prima di riuscire a accendere. Aspirò sorridendo, lasciando che il fumo gli riempisse la gola e i polmoni. Aveva passato la vita a girare le sezioni del Partito di tutta Italia, per individuare e tagliare le mele marce. Un compito duro di «castigamàtt», così lo chiamavano ai tempi; adesso a quel lavoro avrebbero dato nomi flautati del tipo «controllore della trasparenza»... Finché negli anni Novanta il Partito l’aveva messo alla porta. Con bei modi, una festa d’addio pro forma. Ormai le mani erano pulite, nessuno aveva più bisogno di castigamàtt... La grappa di cattiva qualità gli bruciò la gola. Cin cin al dinosauro Beppe Isnaghi. Ultimo testimone di un mondo scomparso. Atlantide, o giù di lì.

Visto attraverso il paravento di plastica rosa, il portone del condominio aveva un’aria irrealmente festosa, la vie en rose, eppure là dentro... Ricapitolò l’interrogatorio di quel mattino. Boja d’on mònd. Primo, lui era andato alle 11 nell’appartamento della Vedova, è vero, ma convocato da lei per la faccenda dell’indennizzo. Secondo, la Vedova sembrava aver fretta di congedarlo, guardava di continuo l’orologio; eppoi, mentre Beppe se ne stava andando via, gli aveva raccomandato di accostare la porta senza chiuderla. Evidentemente aspettava qualcuno, ma non certo il Contini, che passava da lei solo a mezzogiorno, quando usciva dall’ufficio. Non credeva possibile che la Vedova, pur se pigra, lasciasse per mezz’ora la porta socchiusa. Sapeva però - era la prima cosa accertata dalle indagini dei carabinieri - che la telecamerina di sorveglianza del portone non segnalava nessuna entrata nel palazzo fino alle 12, quando il Contini aveva scoperto la morta e il furto... Chi altri era andato dalla Vedova nel frattempo? Qualcuno che non era passato dal portone. Venuto dal retro?... Qualcuno che doveva per forza abitare vicinissimo, perché tra l’uscita di Beppe e l’arrivo del Contini era trascorsa al massimo mezz’ora. Qualcuno la cui presenza sulle scale del palazzo passava inosservata. Qualcuno che il condominio lo conosceva bene o che addirittura ci abitava. Non poteva essere che così! Ragioniamo: uno bussa, non riceve risposta, entra, trova la Fiumara che ha stirato il gambìno... Che farei io? Chiamerei aiuto. Invece no. Il tizio non chiama i vicini, prende i soldi e scappa. Ma chi è così freddo e cinico da rubare sotto il naso di una morta?... Passò in rassegna tutti i condòmini: gli assenti il mattino del giovedì erano la peruviana dal parrucchiere, Mirella a scuola, il Contini in ufficio, la Mary Perniconi a fare il suo turno alla cassa del supermercato del quartiere. Escluse la Sibìlia col suo Alzheimer e la badante che non si scollava da lei. Esclusa anche la Galizi. Beppe non ce la vedeva nella veste della ladra: primo, avrebbe strillato come un’aquila se avesse inciampato in un cadavere; secondo, i soldi non le mancavano, anche se non si sa mai: a volte i più insospettabili... Gli altri presenti quel mattino tenevano tutti qualche buon motivo di non rimanere impressionati dal trovarsi davanti la Vedova schiattata, ma soprattutto ciascuno di loro aveva un gran bisogno di danee: da Ginetta Fudani, sempre in giro a chiedere prestiti, al Perniconi carico di debiti perché in cassintegrazione da mesi; eppoi i due Moscardelli, padre e figlia... No, la Paimira no: l’era sotto psicofarmaci e per rubare ci vuole lucidità. Tito invece sì: il furto di 10.000 euro sarebbe stato per lui un esproprio proletario alla Raskol’nikov. Eppure nessuno di questo elenco gli sembrava un colpevole credibile. Se avesse dovuto pensare seriamente a un ladro, di pelle avrebbe accusato il Contini: un imbroglione, oltretutto con una vita sopra le righe ultimamente, per via della morósa... A proposito, anche lei era in casa quel mattino: ai caramba aveva detto che dormiva.

Vide rientrare suo marito con una cera corrucciata. «Cos’hai?» gli chiese. E lui: «Niente». Ma a Mirella non la si dava a bere: si vedeva lontano le millànta miglia che Beppe mentiva.

Ciacolò leggera mentre preparava la cena: di sua sorella Letizia che, mentre lui era in cantina, era passata a salutarla col bambino: «Il Valentino ha voluto salire sul terrazzo per controllare se la micia della Ginetta avesse già fatto i gattini... Ne sono nati quattro: grigi, col musino rosa da topini, gli occhietti ancora chiusi, delle bocche enormi...».

Attese dopo cena che Beppe spontaneamente parlasse del suo colloquio con Tito. «Te capìsset, Mirella? Qui si tratta di due ruberìe: il primo l’è un furto di 10.000 euro e lì non sono affari miei; il secondo, l’è la sparizione del patrimonio della Vedova, che pare essersi volatilizzato... E allora, se le operaie perdono il lavoro e la Paimira resta senza indennizzo, la cosa mi ruga. E sentirmi dire dal Tito che ci ho le fette di salame sugli occhi, o che addirittura sto dalla parte di Lorsignòri, questo non l’accetto. Io non sono mai stato un coperchio che va bene per tutti i caldàr! E star qui a aspettare che i caramba la smettano di indagare sul furto piccolo e si decidano a frugare nel computer del Contini, mi fa dar fuori di matto!».

Sentiva amarezza nella voce di Beppe: capiva cosa provava, quel gusto così amaro in gola, quando non ci passa più niente, neanche il fumo della sigaretta. Il fatto che lui fosse indignato non la sorprendeva più di tanto: l’aveva a volte creduto al riparo dai ritorni di fiamma del passato. Evidentemente non era così. Risentì nell’orecchio il motto longobardico che suo marito le aveva ripetuto per anni: «Mi, som della razza dei poerìtt ma gnucchi!».

«Hai le prove che il Contini abbia messo in piedi una truffa?» gli chiese.

«Non ho le prove, ma ho delle certezze».

«E allora, sta’ mica lì a roderti. Fa’ qualcosa!».

Beppe si rinchiuse nello studiolo. Accese la lampada sulla scrivania, abbassò le tapparelle e per buona misura chiuse anche le tende. La gatta Sophia, funambolicamente incastrata fra le teche dei memorabilia d’epoca sovietica, sollevò la testa in allarme, poi si tranquillizzò non appena capì che lui aveva ben altro per la testa che farla sloggiare.

L’umore era pessimo, ma le quattro parole scambiate con Mirella gli avevan fatto bene. Adesso, accompagnato dal senso di sicurezza che gli davano le pareti dello studio - con gli scaffali di letteratura marxista che gli ricordavano entusiasmi mai spenti - Beppe si convinse che uno dei più rigorosi castigamàtt del Partito non poteva farsi infinocchiare da un ragioniere baùscia!

Andò a sedersi alla scrivania dove aveva lasciato il romanzo di Ballard. Contemplò per qualche minuto la copertina di Karel Thole ripensando alle parole di Mirella: «Sta’ mica lì a roderti, fa’ qualcosa!»... Eggià, noi controllori che un tempo il Partito sguinzagliava, adesso siamo dei dinosauri! Ma Jurassic Park insegna pure qualcosa!... L’immagine di un tirannosauro incazzato lo riscosse definitivamente, strappandogli perfino un sorriselo.

Lo Zarja da polso segnava le 21 e 02, doveva fare in fretta. Prese dalla tasca dei pantaloni lo smartphone che suo nipote Valentino quel pomeriggio aveva dimenticato in cucina. Posò con cura l’aggeggio sulla scrivania. Era acceso. Avrebbe dovuto prendere mille precauzioni, ma non c’era tempo per andare per il sottile... Browser, anonimizzatore, account di posta temporaneo e poi il messaggio: «Antennista kit completo. Subito».

Ecco, l’era fatta. Tracce informatiche minime. E poi, mettersi a individuare lo smartphone di un ragazzino era improbabile, roba da perversi, anche se era intestato a sua cognata.

Sophia aprì un occhio quando Beppe andò a socchiudere la porta dello studiolo, chinandosi leggermente come se volesse origliare: Mirella doveva essersi messa a letto con un libro... Forse avrebbe dovuto avvisarla di quel che aveva intenzione di fare. Ma s’immaginava la risposta di lei: un «Preferirei di no», alla maniera di Bartleby lo scrivano. GliePavrebbe detto a cose fatte... Restò in attesa per un tempo che gli parve interminabile, ma senza ripensamenti. Ormai la cospirazione l’era partita. Passò una buona mezz’ora, finché il breve ronzio del telefonino lo fece sussultare. L’SMS era sintetico: «Sun chi!»... Beppe lo cancellò, spense il cellulare e andò all’ingresso.

Fuori, sul pianerottolo, c’era un giovane in tuta nera, berretto e scarpette di gomma dello stesso colore, mentre nella mano destra reggeva una valigetta da elettrotecnico. Ci volle qualche secondo per riconoscerlo: Artù Caromanico si era messo un parrucchino biondo e perfino un naso posticcio di gomma. Lo fece entrare.

«Sono passato dall’ingresso posteriore. Non mi ha visto nessuno» disse lo pseudoantennista, agitando con l’altra mano qualcosa di simile a un grimaldello.

Nel suo studiolo Beppe gli riassunse brevemente la situazione. «Hai capito? Ci serve qualsiasi cosa che dimostri la truffa del Contini e della Fiumara» concluse. «Però non abbiamo molto tempo: in genere al sabato il Contini e la sò bella gigogìn vanno a cenare in Riviera e tornano verso le due».

L’altro annuì pensieroso. Diede una grattatina sulla fronte alla gatta rossa che si era avvicinata a annusarlo; poi si rivolse a Beppe: «Allora cosa vorresti fare?».

«Mah, più che a una perquisizione dell’appartamento pensavo a un modo per ascoltare le sue conversazioni...» suggerì Beppe, pur sapendo che Artù Caromanico non aveva affatto bisogno di idee altrui. Il più giovane compagno del CSOVIA era un tipo strano che aveva già dato prova di avere risorse insospettabili; agli altri membri del CSOVIA non stava molto simpatico, anzi qualcuno gli manifestava apertamente la propria diffidenza perché nei suoi interventi domenicali in videoconferenza serpeggiavano sempre delle pericolose influenze stirneriane, inaccettabili per materialisti dialettici assolutamente inflessibili.

«C’è un sistema d’allarme?» chiese Artù.

Beppe scosse la testa. «L’ultima volta che ci sono entrato, due mesi fa per il funerale della madre, non ce n’erano».

«Bene, allora è tutto più facile! » disse il giovane, chinandosi a aprire la valigetta da cui estrasse dei guanti e una piccola torcia elettrica.

«Guarda che non siamo il KGB» lo avvertì Beppe, vedendolo un po’ troppo entusiasta. «Dobbiamo semplicemente dare un’occhiata in giro, senza che il Contini si accorga di niente, capito? Non credo che sia così baggiano da tenere in casa roba compromettente...

Io mi limiterei a piazzare un aggeggino per ascoltare le conversazioni».

Artù lo guardò sbuffando. «Compagno Isnaghi» replicò in un tono che sembrava preannunciare un’articolata confutazione, «se ti vedessero entrare o uscire dall’appartamento, o se qualcuno dovesse capire che ci sei stato, nel giro di qualche ora avresti la casa piena di pulòtti. Lascia fare a me, qui non mi conosce nessuno. Leggiti un libro, fatti un cicchetto e poi va’ a dormire. Ci vediamo domani pomeriggio sul tardi, al solito posto».

Beppe aprì la bocca per replicare, ma l’altro se n’era già andato.

Passò le due ore successive con l’orecchio teso. Niente di anormale dal palazzo, solo a tratti la musica a tutto volume dal terrazzo della peruviana.

A mezzanotte Mirella stava ancora leggendo, quando Beppe entrò in camera da letto. Si sdraiò accanto a lei. «Ho fatto mettere una cimice nell’appartamento del Contini» le disse in un mezzo sussurro.

«Cimice, in che senso?» domandò Mirella mentre si toglieva gli occhiali, facendo sbattere le stanghette e infilandoli poi nel taschino del pigiama.

«Tipo Watergate Hotel, in entrata e uscita».

«Cosa?». Mirella sobbalzò lasciando cadere il libro. «Ho capito bene?».

«Domani ti spiego tutto, spegni la luce per favore: ho la testa che mi scoppia».

Lei obbedì limitandosi a dire: «Potevi anche avvisarmi». Non c’era alcun tono di rimprovero nella sua voce. «Ti ricordi quella volta a Palermo?».

Riandarono indietro nel tempo, sorprendendosi a rievocare compagni incontrati in altre epoche in città lontane, nomi quasi dimenticati. Come se ognuno dei due conoscesse perfettamente le strade della memoria dell’altro. Lui per il Partito aveva girato in lungo e in largo l’Italia; e lei l’aveva seguito dovunque, facendo i salti mortali con il figlio Adriano ancora piccolo, dimostrando una bravura quasi ginnica nel fare le valigie velocemente e traslocare.

«È l’ultima volta che mi fai una sorpresina come questa» mormorò Mirella.

«Lo sai che non potevo restarmene con le mani in mano. Non era giusto, per la Paimira, il Tito, le operaie giù in cortile...».

Lei canticchiò al buio sottovoce: «Se acabó la diversión, llegó el Comandante y mandò a parar...».

A Beppe sembrò che in un certo senso la canzone parlasse anche di loro due, del quartiere, del mondo. Si addormentò un attimo prima di inoltrarsi nel rischioso terreno della metafisica.

Mattinata domenicale tranquilla. Il quartiere sonnecchiava. Tornando a piedi dal supermercato, da lontano Mirella vide Richi Fiumara seduto davanti al baretto dei cinesi. Traversò per andarlo a salutare, ché negli ultimi due giorni a scuola non era venuto. Il ragazzo leggeva una rivista e fumava. Gli si avvicinò e posò la borsa della spesa sulla sedia.

Lui alzò gli occhi e saltò in piedi: «Mi ha spaventato, prof!».

«Addirittura!» ribattè Mirella sedendosi. La faceva sorridere l’agitazione dello studente scoperto a fumare dalla propria prof. Strano mondo l’adolescenza, o come diavolo si chiamava quell’inquietudine di piedi e di anima che dimostravano tutti i suoi alunni... Mirella ordinò un caffè. «Allora come va?». Parola va parola viene, si fermò con lui per un quarto d’ora.

Chissà perché l’ascensore non funzionava. Risalì a piedi ripensando a quello che Richi le aveva contato. Non sembrava affranto dal dolore e neppure preoccupato di passare sotto la tutela di qualcun altro. Come aveva definito la zia? «Una vecchia taccagna». Vecchia? Avrà avuto al massimo cinquant’anni. Ma per uno sbarbato, siamo tutti bacucchi... Spilorcia, quello sì, anche se la ricchezza la Fiumara non se la godeva: lo si vedeva sia nel guardaroba abbastanza dimesso sia nell’appartamento condominiale senza particolari segni di agiatezza. Una vera Aléna Ivanovna, se a descriverla fosse stato Dostoevskij... Il particolare che più l’aveva colpita nelle parole di Richi, era il fatto che la zia ultimamente fosse molto nervosa. «Non faceva che litigare di brutto col Contini per la faccenda del laboratorio in Romania: invece dei facili guadagni che lei si era aspettata, pare che quella dannata fabbrica ingoiasse solo soldi. Epperciò voleva liquidare tutto...». Se si fosse contentata, invece di volere a tutti i costi fare danee, la Fiumara non sarebbe schiattata, concluse Mirella; ché di infarto si era trattato: l’autopsia lo confermava, le aveva riferito Richi.

In casa trovò il nipotino in salotto con Beppe. «Zia, sono venuto per il telefonino che ho dimenticato qui ieri» spiegò Valentino. «La mamma passa a prendermi a mezzogiorno».

Andò a sistemare la spesa in frigo. Dalla cucina teneva d’occhio tutti e due. Avevano inventato un gioco: il bambino sceglieva un anno e Beppe recitava la classifica del campionato di calcio russo.

«Dimmi il 2006».

«CSKA, che era un tempo la squadra dell’Armata Rossa, poi Spartak, Lokomotiv, Zenit-San Pietroburgo, Rubin-Kazan’» rispose Beppe, come se declamasse un elenco di eroi.

Valentino controllò sul suo smartphone che la risposta fosse corretta e approvò annuendo. «Adesso il 2001».

«Spartak, Lokomotiv, Zenit-San Pietroburgo, il quarto posto non me lo ricordo più, lasciami pensare un attimo...».

Mirella scosse la testa: il club dei maschietti a volte aveva degli entusiasmi che lei non capiva... Non aveva ancora finito di sistemare tutta la spesa, che risuonò la voce trionfante di Beppe: «Al quarto posto Torpedo Moskva!». Lo sentì poi raccontare a Valentino la storia di Strel’cov. «Capocannoniere a sedici anni. “Pelé bianco” lo chiamavano: lo volevano altre squadre ma lui non lasciò mai la Torpedo, che ai suoi tempi apparteneva alla Zil che produceva camion... Vieni che ti faccio vedere: ne ho un modellino nello studio».

Beppe si sentiva di buonumore. Forse era l’atmosfera domenicale del circolo fatta di vecchi giocatori di scopa e scala 40, discussioni di teoria e prassi concernenti la formazione milanista neH’imminente posticipo di campionato, oppure le catartiche filippiche contro il governo. Lo sfarfallio di un neon d’angolo, l’odore del barbera nelle brocche e la prosperosa sciùra Pina che ancheggiava tra i tavoli davano un piacevole senso di familiarità all’ambiente. Mancava solo la nuvola di fumo di Alfa o Nazionali esportazione, per completare il déjà-vu. Una specie di Jurassic Park proletario, considerò Beppe con un mezzosorriso. La videoconferenza del primo pomeriggio gli aveva dato una bella soddisfazione, quando i compagni del CSOVIA avevano mostrato più di una lacuna sull’argomento, in particolare sui tre menscevichi che stavano con Vladimir Il’ic nel vagone piombato.

Uno scoppio di imprecazioni lo distrasse: da un tavolo sul fondo si era scatenata un’accesa discussione se il sette di fiori fosse stato meglio giocarlo o tenerlo. Proprio in quel momento dalla porta di alluminio dell’ingresso entrò Artù Caromanico. Beppe lo vide traversare il salone con le mani ficcate nel giubbottino di finta renna, trovando strano che non salutasse nessuno, pur essendo un habitué del circolo.

Il giovane si sedette e si complimentò sfregandosi le mani: «Bell’intervento questo pomeriggio, compagno Isnaghi».

Beppe piegò la testa in atteggiamento di modestia, poi chiese: «Ci sono novità?».

L’altro scrollò le spalle mentre con lo sguardo cercava la sciùra Pina. «Sì e no» rispose.

Beppe si innervosì. «Che vuol dire? Non ha funzionato? Il Contini si è accorto di qualcosa?» l’incalzò. «Spero che tu non abbia messo sottosopra l’appartamento...».

Il giovane sollevò platealmente gli occhi al soffitto: «Sta’ tranquillo, è filato tutto liscio». Si interruppe perché di sua iniziativa la sciùra Pina arrivò con un mezzo di rosso e due bicchieri, salutando Artù con un «Ciao, tesorino»; il tono era quello di una vecchia zia che si rivolge al nipote, ma a Beppe diede comunque da pensare.

Caromanico versò da bere: «Il Contini e la sua fidànza sono rientrati alle due passate, sembravano un po’ alticci e con tutt’altra intenzione che mettersi a chiacchierare. Sai come vanno ste cose, no? Gridolini finché non si finisce a letto...».

Beppe inarcò le sopracciglia, ma restò zitto.

«Ti risparmio i dettagli» continuò l’altro, con l’espressione di chi avesse dovuto sorbirsi le peggiori depravazioni. «Morale: ho dovuto aspettare fino alle sei di stamattina».

«E allora?».

«L’ho sentito andare in bagno...».

«Non farla brodosa!» sbuffò Beppe cominciando a perder la pazienza.

«Sì sì, vengo al punto. Ha fatto una telefonata dal fisso, quel pistola. Chiamava la Romania. Conversazione in un inglese molto approssimativo, infarcito di italiano. Parlava di una fabbrica nei pressi di Brasov, un tal progetto Jasmine, eppoi di finanziamenti europei per lo sviluppo, ricevuti per promuovere quell’attività».

«La famosa fabbrica rumena... Tra l’altro Jasmine l’è il nome della sò morósa» precisò Beppe.

Caromanico annuì, tirando fuori dalla tasca interna del giubbino un piccolo lettore. «Non ho idea con chi parlasse, probabilmente qualcuno a cui il Contini si è appoggiato per i finanziamenti UE». Gli mostrò la schermata di un documento il cui titolo a grandi caratteri recitava: «PROGETTO JASMINE». «Questo me l’ha procurato una compagna che lavora a Bruxelles, una tosta a cui ci si può rivolgere quando si ha bisogno di documenti alla spicciativa. Riguarda la fabbrica impiantata in Romania dalla Fiumara. Con sovvenzioni europee, FSUS, Fondi di Sviluppo Urbano Sostenibile. Basta installare un’impresa in una di quelle zone che la normativa europea definisce “periferia svantaggiata” e ci si vede aprire i rubinetti dei finanziamenti. La fabbrica risulta aperta da due anni: qui c’è una relazione con rendiconti, numero delle operaie, fatture... A Bruxelles è tutto documentato».

«Roba in regola, quindi...».

«Così sembrerebbe a prima vista».

Beppe si scurì in volto, presentendo complicazioni: «In che senso?».

«Chi cerca trova! Appena la compagna di Bruxelles mi ha confermato la possibilità di controllare la documentazione, mi sono fatto un giretto in rete. Ho trovato qualche foto della cosiddetta fabbrica». Gli mostrò l’immagine di un capannone dall’aria abbandonata e di un cartello appeso alla recinzione: vi si leggeva con chiarezza «Fabricà Jasmine», e più sotto la sigla FSUS. Caromanico vuotò il bicchiere cercando di nuovo con lo sguardo la sciùra Pina. «Come vedi, non sembra un modello di efficienza... Mi sa che si tratta di una fabbrica inesistente. Ti ricordi due anni fa, il caso di quel furbetto, bresciano o varesotto mi pare, che si era preso delle belle sovvenzioni per aprire una fabbrica in Polonia, ma poi si era “dimenticato” di costruirla? Mi sa che scopriremo qualcosa di simile...».

Orco bòja!... I soldi del finanziamento UE probabilmente erano stati dirottati su conti privati, forse la Fiumara voleva imboscarseli per allargare il suo giro di strozzinaggio, non certo per investirli nel vecchio laboratorio milanese... Riempì di nuovo i bicchieri: «Stando a quel che dice il nipote, che è un alunno della Mirella, il Contini e la Fiumara litigavano. Secondo me, lui ci marciava. Eh, con il tenore di vita della morósa, i risparmi della madre il Contini li ha spantegàti in fretta» ipotizzò Beppe. «La Fiumara capisce che il suo contabile l’ha fregata e per la rabbia giovedì ci resta secca. Per combinazione il Contini arriva, la trova stecchita e, siccome anche lui è uno che di danee non ne ha mai a suffìcio, non ci pensa due volte a spazzolare i 10.000 euro di spiccioli che ci sono in casa. Poi grida: Al ladro! Al ladro!».

Sul volto da ragazzino di Caromanico apparve una smorfia di approvazione. «Può darsi» commentò.

«Cosa consigli di fare?».

«Per il furto dei 10.000 euro non possiamo incastrare il Contini. Ma per la truffa UE, vediamo innanzitutto se la compagna di Bruxelles può accedere alla documentazione completa. Poi magari riusciamo a scoprire dove sono finiti i soldi del FSUS, e questo potrebbe bastare. A quel punto togliamo la cimice e diamo la sveglia ai caramba».

Beppe annuì: «E nel frattempo?».

«Scommetto che in questo momento tua moglie sta sacramentando sui compiti da correggere» disse Artù. «Mi sa che per cena trovi carne in scatola con un pomodoro».

Beppe si strinse nelle spalle senza riuscire a nascondere l’espressione sconsolata.

L’altro ridacchiò: «Maccheroncini al ragù e cotoletta con patate fritte? Sta scritto sulla lavagna dietro al bancone...».

Passarono d’infilata nove giorni, finché un martedì mattina Beppe si svegliò di soprassalto. Il debole chiarore dell’alba che filtrava dalle tapparelle passava a intermittenza dal bianco all’azzurrino, delineando ombre surreali nella camera da letto, compresa la sagoma della gatta Sophia in allerta sulla cassettiera. Al suo fianco invece, Mirella dormiva sodo, decisa a sfruttare ogni minuto del suo giorno di riposo... Non era stato un brutto sogno a svegliarlo, ma i vaghi rumori che dall’atrio della palazzina salivano fino al quarto piano: un parlottare sommesso, poi un trepestio che lui aveva sentito decine di volte dai tempi dell’università, provocato da anfibi che arrancano sui gradini.

Si alzò piano per non svegliare Mirella e in pantofole si precipitò all’ingresso. Dallo spioncino vide che la luce era accesa e l’ascensore in funzione, poi si scostò di scatto quando un gruppetto di riga-russa suonò all’appartamento del Contini. Questa volta però la presenza delle uniformi non lo inquietava, perché era da un paio di giorni che si aspettava l’irruzione dal dirimpettaio.

Quando riaccostò l’occhio allo spioncino, il Contini aveva aperto la porta: in canottiera e mutande, con l’espressione stranita di chi ha appena fatto un salto nell’iperspazio. Lo vide solo per qualche istante prima che il gruppetto di uniformi lo sospingesse all’interno.

Eggià, stavolta il sciùr Contini lo blindavano a dovere, si disse Beppe con un gran senso di sollievo: «la c’è la provvidenza» avrebbe detto un milanese doc di altri tempi... Nei giorni precedenti Beppe aveva sentito crescere dentro di sé l’inquietudine fino ai livelli di guardia: infatti, nei resoconti che Caromanico gli faceva ogni sera, le telefonate del Contini alT«amico» rumeno risultavano sempre troppo vaghe per costituire una prova o almeno un indizio, come se il ragioniere sospettasse di essere sorvegliato. Per fortuna Artù aveva avuto la pensata di inviare all’amministratore un’e-mail anonima dai toni vagamente minatori, del tipo «io so cos’hai fatto». «Vedrai che adesso si sbottona» aveva scommesso Artù. E in effetti la sera stessa il Contini aveva intimato al rumeno di far sparire tutto, assicurandolo poi che ai conti correnti in Liechtenstein ci avrebbe pensato lui stesso al più presto. A quel punto Caromanico aveva trovato il modo di far avere ai caramba i documenti che era riuscito a rastrellare a Bruxelles. Non che fossero grandi prove a carico, d’accordo, ma di sicuro bastavano per mettere in moto la macchina della giustizia, e stavolta non per il furto di 10.000 euro. Recuperare i soldi del finanziamento UE sarebbe stato un altro paio di maniche, ma non era impresa impossibile. Magari sarebbero saltati fuori i danee per rifinanziare il laboratorio di confezioni e salvare i posti di lavoro, eppoi...

Beppe si riscosse: la sua immaginazione cominciava a correre troppo. Diede un’altra occhiata allo spioncino perché sulle scale era tornato il trambusto: i riga-russa stavano portando via il Contini, e anche la morósa lo seguiva scortata da due caramba femmine.

Andò alla finestra della cucina e scostò appena la tenda: tre auto uscivano dal cortile, avvicendandosi con altre due della finanza. «Speriamo» borbottò Beppe tra sé, non del tutto tranquillo. Caromanico l’aveva assicurato di non aver lasciato tracce nell’appartamento, anche quando tre giorni prima era tornato a riprendersi le cimici, profittando del fatto che il Contini come ogni sabato fosse fuori a cena. Se lo diceva lui, ci si poteva fidare. Restava però la tormentosa consapevolezza di aver calpestato un bel po’ di leggi.

Tornando in camera da letto il cellulare segnalava un nuovo messaggio criptato di Artù. Il fatto che non accennasse minimamente all’accaduto per un attimo lo rassicurò. «Tema prossima videoconferenza: L’ideologia in generale e in particolare l’ideologia tedesca».

Beppe si risdraiò e chiuse gli occhi con la pelle d’oca. Forse Caromanico scherzava...

Finite le chiacchiere sull’intervento dei caramba, Mirella decise di fare un salto in tintoria. Sulle scale però la bloccò Ginetta Fudani: «Ho bisogno di parlarle».

Sedettero in cucina, tra i giocattoli delle bambine e il santino di Padre Pio con tanto di lumino acceso, naturalmente commentando il fermo del Contini e della sò fidànza. Mirella si accorse che la vicina prendeva tempo; attese comunque pazientemente che l’altra si decidesse a parlare. Finché Ginetta, quasi singhiozzando, sparò quel che le stava sul gozzo: «Il fatto è che sono stata io... La colpa l’è solo mia!».

«Colpa di che?» domandò Mirella, attonita.

«I 10.000 euro della Vedova. Li ho presi io... Quella mattina sono scesa a far le pulizie nel sò appartamento, mancava poco a mezzogiorno. La sciùra era per terra, l’ho chiamata, poi ho capito che l’era bell’e morta. Son rimasta 11 imbalordita. C’era una cartelletta aperta sul divano, dentro ci stava una mazzetta di soldi. L’ho messa in tasca. Sono uscita. Risalita subito in casa...

So mica perché l’ho fatto».

Oh Signùr di poerìtt, che quèll di àlter al gh’ha i curnìtt. Mirella sospirò: «Quindi i soldi...».

Ginetta annuì. «Stanno là nel cassetto della biancheria» disse indicando la stanza da letto la cui porta si apriva sulla cucina. Si alzò con la pesantezza del suo pancione di sette mesi abbondanti, andò al comò, ne trasse un involto che portò in cucina: una calzetta di nylon in cui si intravedeva un rotolo di biglietti da cinquanta euro. «Un mese fa ci avevo domandaa alla Vedova un anticipo: la paga l’è poca, comprende le pulizie sia nel capannone sia nell’appartamento della sciù-ra. Le bambine devono mettere l’apparecchio ai denti, eppoi ci sono le scarpe da comprare: si sono tanto slungàte st’inverno, non gli va bene più niente a quelle due bìsse... Epperò la padrona mi ha detto di no... Ma io come faccio? Tanto più che tra un po’...» singhiozzò di nuovo toccandosi il pancione.

«E il padre?» chiese Mirella, alludendo alla nuova gravidanza.

«Ci ho da contare come l’è la storia?... A un certo punto l’è sparito, e io qui...» rispose Ginetta in tono sconsolato, battendo le nocche sulla fòrmica del tavolo, poi si accese una sigaretta. «Alzarmi alle sei, preparare le gemelle che vadano a scuola, accompagnarle al pulmino scolastico, passare dalla Vedova per la cucina, i letti e il bagno, a volte anche la spesa... Salgo in casa, mi faccio un caffè con un biscotto, ridiscendo dalla Fiumara a vedere se c’è qualche lavoretto in cucina. Poi viene il laboratorio: spazzare, sgombrare l’immondizia... In un attimo sono le quattro del pomeriggio e tornano le gemelle, preparo cena e scendo al capannone per le pulizie serali: una polvere che mi resta in gola per ore... Alle dieci son cotta stracotta. Tutti i giorni tranne la domenica. E crede che abbia tempo di sognarmi delle storie d’amore?» scosse la testa con la sigaretta in bocca. «Magari qualche volta a qualcuno ci ho anche voluto bene. Ma poi l’è finìda» scrollò le spalle. S’era messa in piedi accanto alla finestra, voltando la schiena, tentando di nascondere una lagrima che le rigava la guancia. «Ho sbagliato, lo so, a prendere i soldi. E li vorrei pure restituire, mica sono una ladra. Ma poi c’è da parlare ai carabinieri... insomma finora non ci ho avuto il coraggio. Però adesso che son venuti a arrestare il Contini, non voglio che finiscano in galera due innocenti!».

Mirella l’obbligò a sedersi, rassicurandola che l’amministratore e la so fidanza erano sicuramente stati fermati per ben altro: un fior di truffa con conti milionari all’estero.

Ginetta sgranava gli occhi incredula, continuando a ripetere che doveva andare a denunciarsi e restituire i soldi.

Per Mirella fu difficile convincerla a star calma e non fare sciocchezze. Certo Ginetta poteva cercare di rimettersi in pace con la coscienza con l’oscura illusione di espiare, ma l’avrebbe pagata cara. Ché di sicuro nessuno le avrebbe creduto: a rubà tant si fa carriera, ma a rubà pocch si va in galera... Se quei 10.000 euro non li voleva tenere come indennizzo dello sfruttamento che aveva subito dalla Vedova - tanto più che adesso lei era senza lavoro e con un bebé in arrivo -bisognava escogitare con calma una maniera di «restituirli» senza che ci fossero conseguenze legali. Mirella promise di pensarci: una soluzione si sarebbe trovata. L’importante era però nell’immediato non fare altre cavoiate.

Solo a cena Mirella trovò il momento opportuno per riferire al marito quanto le aveva confessato la Fudani: «Senti, Beppe...».

Lui stette a ascoltarla sbigottito: già si sentiva a disagio per l’«aiutino» dato da Caromanico alle indagini, ma adesso... «Io e Artù, violazione della privacy; e tu: favoreggiamento, se non proprio istigazione a delinquere» sbottò. «Tra tutti abbiamo collezionato un bel catalogo».

«Ma se proprio tu da anni non fai che ripetermi che la giustizia l’è chi, l’è scià, l’è là, l’è sott al pont de Gallaraa!».

Per tutta la cena Beppe le tenne il broncio. Solo dopo la moka, quando si affacciarono alla finestra per il solito rito dell’ultima sigaretta della giornata, lui si ammorbidì prendendo a raccontarle uno dei primi casi a cui aveva assistito in tribunale: «L’era un poveretto che aveva rubato una stecca di sigarette... A un certo punto il giudice gli chiede: “Insomma, lei si dichiara colpevole o innocente?”. E lui porabèstia gli fa: “Come vuole lei, sciùr giudice”, e la gente nei banchi rideva. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo».

«Un mondo in cui chi lavora ci ha una camicia, e chi non lavora ne ha due».

«Eggià. Se poi rubi alla grande come il Contini e la Fiumara, magari di camicie ne hai tre» borbottò Beppe chiudendo la finestra.